Israele-Palestina. «Dov’è l’uomo?»

 

Nella città vecchia di Gerusalemme, di norma, a dare la sveglia è, intorno alle 5 di mattina, la preghiera del muezzin; poco dopo suonano le campane delle chiese cristiane.

Sabato 7 ottobre, una data che purtroppo rimarrà nei libri di storia, a squarciare il silenzio dell’alba è stato il suono delle sirene. Nitido quanto inatteso.
Un suono sinistro che preannunciava i rumori della guerra. E la Terra Santa, che fino alla sera prima era animata dalla grande festa ebraica di Sukkot, dalle file dei pellegrini cristiani nei luoghi santi, dalla preghiera in tutte le moschee, si è trovata a fare i conti con i morti, le distruzioni, la paura, la solitudine.

Tutto cambiato improvvisamente, con un salto indietro di decenni, ma soprattutto soffocando i semi di speranza per questa terra che negli anni sono stati gettati da tante persone di buona volontà.

Una via della città vecchia di Gerusalemme, il giorno prima degli attentati di Hamas. ©Manuela Tulli

La guerra è in queste ore in pieno svolgimento.
Israele ha negli occhi un eccidio, quello dei terroristi di Hamas nei kibbutz al confine con Gaza e al pacifico rave che i giovani stavano tenendo nel deserto del Negev. Qualcosa che non si verificava, per la crudeltà e le proporzioni, «dai tempi della Shoah», come sottolineato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu.

Dall’altra parte è cominciato un assedio su Gaza che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile, rimasta senza cibo, acqua, energia, medicine e costretta a un esodo al Sud della Striscia verso un confine che resta però sigillato.

«È una tragedia immane, non capisco il disegno di Dio per questa terra, la sua terra», è uno dei messaggi che arriva sul mio whatsapp da quella terra martoriata.

La stessa domanda corre in un incontro online con il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, che solo la settimana prima dell’attacco di Hamas era stato creato cardinale dal Papa in Vaticano. «La domanda non è “dov’è Dio”, ma “dov’è l’uomo”», risponde il francescano.

Gerusalemme, il giorno prima degli attentati di Hamas. ©Manuela Tulli

Uno degli effetti «collaterali» della guerra è la cappa di solitudine scesa su questo paese: l’allegria e la vita che normalmente si riversano per gran parte della giornata in strada, che è un po’ la cifra di questo angolo del pianeta, si sono trasformate in deserto. Le botteghe della città vecchia di Gerusalemme hanno tirato giù le serrande come ai tempi del covid. La guesthouse dei Melchiti, a pochi passi dalla Porta di Jaffa, gira la chiave nel portone, non sapendo quando riaprirà i battenti.

Così è anche a Betlemme, in Cisgiordania: «La gente è molto preoccupata, sanno che perderanno il lavoro e che sarà difficile andare avanti; qui si vive principalmente di turismo religioso», racconta Giulia, una giovane volontaria italiana di Pro Terra Sancta.
Da Betlemme arriva anche la preoccupazione di chi assiste i bambini orfani e malati nella struttura Hogar Niño Dios, gestita dai sacerdoti e dalle suore del Verbo Incarnato. «Il nostro contatto con loro – riferiscono dall’Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) che da quindici anni aiuta i religiosi con i propri volontari – è giornaliero, e nelle loro parole si sente il dolore e la preoccupazione per la situazione che stanno vivendo. A noi il compito di pregare».

La preghiera dunque. Per questo, nonostante l’eco delle sirene e il rombo degli aerei, i luoghi santi continuano a rimanere aperti.

Come a Ein Karem, dove si trova la chiesa che ricorda la Visitazione di Maria a Elisabetta: «Il luogo dove tutti vengono a pregare per la pace», dice padre Rafael Sube, francescano messicano della Custodia di Terrasanta.
Il Magnificat qui è declinato in oltre quaranta lingue, scritto su grandi piastrelle di ceramica che decorano le mura del cortile. «Questo vuol dire che i popoli possono stare vicini, possono vivere insieme, non sono loro a volere le guerre. Qui preghiamo per la pace in tutto il mondo perché la guerra non c’è solo in Ucraina, dobbiamo guardare a tutti i paesi che soffrono».
Era il 6 ottobre quando padre Rafael pronunciava profeticamente queste parole. Forse pensava proprio alla Terra Santa in cui vive da 31 anni.
Dal giorno dopo, con i missili arrivati da Gaza anche nei cieli della città vecchia, la preghiera per la pace guarda, infatti, soprattutto a questo angolo del pianeta, Gerusalemme, Urusalim, che si traduce: «Città della pace».

Manuela Tulli

Aeroporto di Tel Aviv. 9 ottobre 2023. ©Manuela Tulli




Cambogia: Una prigione senza mura


La Cambogia, il paese del Sud Est asiatico ha una storia di guerre e sangue. Conflitti che, seppure estinti, non hanno terminato di mietere vittime. Le mine e le bombe inesplose rendono la vita quotidiana pericolosa per milioni di cambogiani. Mentre gli effetti degli agenti chimici usati come armi dagli Stati Uniti hanno rovinato per sempre molti di loro.

«In Cambogia stimiamo che siano tra i quattro e i sei milioni le mine utilizzate durante la guerra, specialmente tra il 1980 e il 1998. Queste, tra morti e feriti, hanno fatto più di 65mila vittime», spiega Heng Ratana, direttore generale del Cmac, Centro cambogiano antimine.

L’obiettivo dichiarato del Cmac è quello di ripulire il paese dalle mine entro il 2025. Ma molto resta ancora da fare.

La Cambogia ha una superficie di oltre 181mila chilometri quadrati (poco più della metà dell’Italia) in gran parte di territorio boscoso, montagnoso e inaccessibile a causa delle scarse infrastrutture ma anche della diffusione di mine e bombe inesplose.

Heng Ratana, direttore generale del Centro cambogiano antimine (Cmac).Foto Luca Salvatore Pistone.

Una storia di guerre

Una lunga serie di guerre ha segnato la storia recente del paese. Dopo la seconda guerra mondiale, ci fu la cosiddetta guerra d’Indocina (1946-1954) contro la potenza coloniale francese, che portò all’indipendenza di Cambogia, Laos e Vietnam. Quindi la guerra civile cambogiana (1967-1975) che da un lato vide i Khmer Rossi (o Partito comunista di Kampuchea) e i loro alleati vietnamiti del Nord, Vietcong, e dall’altro le forze governative della Cambogia sostenute dagli Stati Uniti e dal Vietnam del Sud. Fu l’esercito del Vietnam del Nord a mettere le prime mine antiuomo in Cambogia nel 1967, e continuò a farlo fino alla fine della guerra del Vietnam nel 1975 con l’obiettivo di proteggere le basi e le rotte di rifornimento stabilite lungo la frontiera cambogiana.

Gli Usa non stettero con le mani in mano e risposero con operazioni segrete tra il 1969 e il 1973 consistenti nel lancio di centinaia di migliaia di tonnellate di bombe, molte delle quali inesplose e ancora nascoste sottoterra.

Al potere dal 1975 al 1979, i Khmer Rossi, che ruppero con il Vietnam, non esitarono a servirsi di mine per rinforzare i confini col Vietnam e la Thailandia, trasformando il paese in quella che venne tristemente soprannominata «la prigione senza mura». Proprio il Vietnam rovesciò il sanguinario leader Khmer Pol Pot. L’organizzazione dei Khmer Rossi venne in gran parte sciolta nella seconda metà degli anni Novanta, per, infine, arrendersi nel 1999. Ma per tutti quegli anni sia i Khmer Rossi sia le nuove forze governative continuarono a piazzare mine a protezione dei territori sotto il loro controllo. Le fazioni in gioco non segnavano sulle mappe i campi minati e così spesso capitava che venisse minata più volte la stessa area con il risultato di un esorbitante numero di feriti, sia soldati sia civili. Il clima umido della Cambogia ha fatto sì che il terreno inghiottisse ulteriormente le mine rendendo ancora più complicate le operazioni di localizzazione e smaltimento.

zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Sminamento difficile

«Finora le organizzazioni che si occupano di sminamento hanno trovato e distrutto più di un milione di mine – continua Heng Ratana -. Sottoscrivendo la Convenzione internazionale di Ottawa nel 1997 per la proibizione e la distruzione delle mine antiuomo, il nostro governo si è impegnato a ripulire l’intera Cambogia dalle mine entro il 2025. I nostri sforzi stanno dando buoni risultati anche grazie al contributo di alcuni partner come Vietnam, Laos, Colombia, Iraq e Afghanistan, paesi che vivono problemi simili ai nostri. Fino a pochi anni fa in Cambogia le vittime delle mine e bombe inesplose erano circa 4mila l’anno mentre ora sono meno di mille».

Il Cmac venne istituito nel 1992, quando nel paese era presente l’Autorità transitoria delle Nazioni Unite in Cambogia (Untac), al fine di assistere il ritorno sicuro di migliaia di sfollati nelle loro terre d’origine. Nel 2000 questo centro per lo sminamento divenne un organismo statale autonomo. Ha al suo servizio 1.715 persone, 1.387 delle quali attive sul campo, e numerosi macchinari per il rilevamento e la distruzione delle mine e altri ordigni esplosivi. Il Cmac ha il suo quartier generale nella capitale Phnom Penh e basi operative sparse in tutte le province.

sminatori del Cmac all’opera e zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Le mine dei Khmer

Uno dei distretti dove il Cmac è più impegnato è quello di Banan, nella provincia nordoccidentale di Battambang, ad un’ottantina di chilometri dal confine con la Thailandia. «Questo – racconta Chhou Mab, capo villaggio di Thnor, a Banan – era tutto territorio dei Khmer Rossi. Qui tra il 1985 e il 1986 allestirono dei campi rimanendovi fino al 1990. Riempirono la zona di mine che causano ancora oggi numerose vittime. Siamo felici che il Cmac stia ripulendo la zona, è un bene per tutti noi».

Lay Ponloeuk, funzionario del Cmac, è a capo del progetto Imv3 (Assistenza integrata per le vittime nella pulizia delle mine, Fase 3) in corso in quattro distretti della provincia di Battambang, tra cui quello di Banan. «Sono 485 – dice Lay – le persone attive per la realizzazione di questo programma, divise in trenta squadre che hanno a disposizione una trentina di strumenti, tra cui macchinari pesanti per la distruzione delle mine. L’obiettivo dell’Imv3 è quello di ripulire l’area dalle mine e renderla utilizzabile per l’agricoltura e l’installazione di moderne infrastrutture».

Il perimetro in cui operano Lay e i suoi uomini è interamente recintato con del nastro rosso. Dove sono state trovate delle mine è stato piantato un cartello con il classico disegno del teschio indicante il pericolo di morte. «Dobbiamo essere molto meticolosi – illustra Sous Pov, caposquadra dell’Unità 8 – così da essere sicuri al 100 per cento che l’area sia libera da mine. Il problema principale che riscontriamo a livello nazionale è che le mine sono sparpagliate un po’ ovunque, senza una logica apparente». Le mine ritrovate in questa zona sono di fabbricazione cinese, sovietica, vietnamita e in misura minore cecoslovacca. A beneficiare delle operazioni di ripulitura che rientrano nel progetto Imv3 saranno quattro famiglie di contadini e allevatori, che hanno i propri terreni nelle immediate vicinanze. Una di queste famiglie è quella di Loung Lon, del villaggio di Thnon. «Ero in giro per le campagne in cerca di qualcosa per la cena  – ricorda Loung – quando misi un piede su una mina di produzione cinese. Era il 1997. Ho perso una gamba e la parte inferiore dell’altra è stata squarciata. Sono stato ferito anche alla coscia da alcune schegge. C’è voluto un anno per rimuoverle tutte. Sono povero e pertanto le autorità ogni mese mi danno del riso, niente di più».

un uomo che è incappato su una mina e la gamba ricostruita con una protesi.Foto Luca Salvatore Pistone

Le vittime delle mine

Anche la provincia Nord occidentale di Pailin, al confine con la Thailandia, è tristemente nota per essere stata una delle roccaforti dei Khmer Rossi e, quindi, zona di mine. «Finito il regime – racconta Soun Rithy, 47 anni, del villaggio di Phsar Prom Chheung – i Khmer Rossi sono rimasti a lungo da queste parti. Mi arruolarono nel 1986, avevo appena 16 anni. Fui costretto a farlo, non avevo scelta, ma all’inizio era una cosa che mi riempiva di orgoglio. Avere in mano un’arma, indossare la divisa costituita da una tuta blu e una sciarpa a scacchi rossi e bianchi mi fece sentire subito grande. Ma pochi mesi dopo il mio arruolamento saltai su una mina, persi una gamba e mi ferii gravemente l’altra. Mi lasciarono a casa».

«Tutta la Cambogia è messa male – spiega Khoa Ly, funzionario del Cmac che su un quaderno ha annotato tutte le vittime delle mine della provincia – ma a Pailin abbiamo dei record impressionanti. Ad esempio solo nel villaggio di Phsar Prom Chheung contiamo 19 vittime. Un dato considerevole se si tiene presente che in quel villaggio gli abitanti sono ottanta. Le storie si somigliano un po’ tutte: civili che si addentrano nei campi in cerca di legna o qualcosa da mettere sotto i denti e incappano in una mina. Oggi sono tutti informati sui rischi che si corrono nelle campagne, ma miseria e fame costringono la gente a osare».

Khoa, mettendo a disposizione il suo scooter malconcio, si offre come guida per la ricerca delle vittime delle mine, un compito tutt’altro che difficile. Basterebbe fermarsi e bussare alla porta di una qualsiasi capanna di Pailin e chiedere agli abitanti se conoscono qualcuno che sia saltato su una mina o che sia stato ferito dalle schegge. La risposta è purtroppo scontata: «Sì, certo. Mio zio ha perso una gamba lavorando nei campi», oppure «Mia madre è diventata cieca a un occhio per una scheggia», o «Al mio vicino di casa hanno amputato tre dita della mano». E così via.

Non sono pochi i casi in cui interi nuclei famigliari sono incappati in una mina. La famiglia Chan, anch’essa residente nel villaggio di O’Cher Krom, rientra in questa tragica statistica. Nel 2003, Krel, il 59enne capofamiglia, portò i propri cari con sé nei campi a raccogliere della legna per riparare il tetto di casa. «Non sapevo – giura – che quella zona fosse un campo minato». Krel si giocò un occhio per una scheggia; il figlio maggiore Then, 36 anni, che calpestò la mina, perse entrambe le gambe e alcune dita di una mano; il figlio minore Rin, 29 anni, riportò delle brutte cicatrici sul volto; la moglie Srey, 53 anni, delle gravi ustioni al braccio e infine la cognata Sreypov, 63 anni, si vide squarciata parte della coscia.

«Da quell’orribile incidente – confida la signora Srey – mio marito non è più lo stesso. Fu molto coraggioso perché nonostante la ferita all’occhio trovò la forza di mettere in salvo tutti noi, prendendo in braccio i figli e trascinando me e mia sorella. Si sente in colpa perché fu lui a decidere il luogo dove andare a fare legna. Ma non è colpa sua, è colpa di quegli assassini che misero le mine. Spesso mi sento scoraggiata ma cerco di non darlo a vedere. Noi adulti dobbiamo essere d’esempio per i nostri ragazzi e incoraggiarli come possiamo. Siamo più forti delle mine».

il lavoro al Centro regionale di riabilitazione fisica di Battabang. Qui vengono prodotti vari tipi di protesi e poi seguiti i pazienti per renderli in grado di utilizzarle. Foto Luca Salvatore Pistone.

Il centro di riabilitazione

Tutte le vittime delle mine di queste regioni Nord orientali sono passate dal Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang, operativo dalla fine degli anni Ottanta. «Qui – spiega il dottor Heng Vanny, vice direttore del centro – forniamo servizi di riabilitazione fisica. Dopo accurate visite, fabbrichiamo delle protesi su misura. Se il paziente proprio non può camminare, gli diamo in dotazione una sedia a rotelle o delle stampelle. Insistiamo parecchio sulla fisioterapia, senza la quale è pressoché impossibile rinforzare i muscoli e indossare le protesi».

Continua: «Non ci limitiamo a prestare assistenza qui in sede. Due volte l’anno il nostro team si reca nei villaggi per controllare lo stato delle protesi. Se non ci sono usure eccessive, i tecnici le revisionano sul posto, altrimenti invitiamo i pazienti a tornare al nostro centro. Ogni volta che facciamo una trasferta veniamo accolti con grande entusiasmo, siamo ben voluti. Svolgiamo un lavoro che è molto apprezzato».

Nel laboratorio per le protesi lavorano una dozzina di tecnici. In una sala vengono preparati, dopo accuratissime misurazioni, i calchi in gesso di gambe, piedi, braccia e mani. Sulle sagome vengono successivamente modellate delle lastre di plastica sciolta e solo dopo una luna serie di passaggi attraverso forni, seghetti, lime e pennelli le protesi vengono consegnate ai pazienti. Spetta a loro l’approvazione finale al termine di un periodo di prova.

I trattamenti del Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang sono completamente gratuiti. Questa, come le altre undici strutture gemelle sparse per la Cambogia, sono dipendenti dal ministero degli Affari sociali per la Riabilitazione dei veterani e dei giovani e godono delle sovvenzioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc).

Annualmente, solo per Battambang, transitano più di duemila pazienti tra vittime di mine e incidenti stradali e disabili dalla nascita.

Luca Salvatore Pistone

 

Una bimba impara a camminare con le protesi, al centro di riabilitazione di Battabang. Foto Luca Salvatore Pistone

Cambogia: I disastri dell’Agente Arancio

La «sporca» guerra chimica degli Usa nel Sud Est asiatico.

Durante la guerra del Vietnam l’esercito statunitense sganciò tonnellate di diserbante per togliere ai vietcong (il nemico) i loro nascondigli naturali. Anche sulla confinante Cambogia. Prodotti chimici altamente tossici, i cui effetti sono oggi ben visibili negli abitanti di queste aree.

Le irrorazioni di Agente Arancio e il lancio di bombe chimiche da parte degli Stati Uniti durante la Guerra del Vietnam (1955-1975) sono state solo l’inizio di una lunga scia di morte e malattie. Questione che ha travalicato i confini vietnamiti per toccare anche la vicina Cambogia. E mentre in Vietnam esistono svariati centri dedicati all’assistenza delle persone colpite da queste sostanze micidiali, in Cambogia solo di recente si è cominciato a parlarne pubblicamente.

L’Agente Arancio è un defoliante, il prodotto di due diversi erbicidi, il 2,4,5-T e il 2,4-T. Con l’aggiunta della tetracloro-dibenzo-diossina, una sostanza estremamente tossica, diventa un’arma letale. Dal 1962 al 1972, nell’ambito dell’Operazione Ranch Hand nel Vietnam del Sud, gli statunitensi ne irrorarono 75 milioni di litri.

Nei vent’anni di conflitto, i vietcong, giocando in casa, furono una spina nel fianco degli Usa. La soluzione più logica fu sradicare la loro casa e lasciare che l’ambiente si deteriorasse con l’aiuto dell’Agente Arancio. Senza vegetazione i vietcong non potevano ripararsi ed erano dunque vulnerabili. Privarli dei nascondigli e portarli alla fame per la distruzione dei raccolti sembrava un ottimo metodo per ammansirli senza finire eccessivamente sotto i riflettori della stampa estera. Stesso discorso per il territorio cambogiano, dove i vietcong facevano rifornimenti di ogni sorta.

Ragazza con due protesi al posto delle gambe e la mano sinistra offesa. Foto Luca Salvaore Pistone.

«Gli americani – racconta Em Chhoun, l’anziano capo villaggio di Prey Ta Thoeung, nella provincia di Svay Rieng (Sud Est della Cambogia), lungo il confine col Vietnam – sganciarono tantissime bombe da queste parti. Poi passarono a sganciare della polvere chimica di colore giallo che in breve tempo bruciava le foglie degli alberi. Tutti i bambù scomparvero. Gli abitanti della zona, tra cui anche la mia famiglia, vennero evacuati ma alcune persone decisero di rimanere esponendosi a quelle sostanze che hanno contaminato il suolo. Da allora i bambini continuano ad avere problemi agli arti, altri sono diventati muti e ciechi».

L’emivita della diossina presente nel tetracloro-dibenzo-diossina dipende da dove si trova. Nel corpo umano dura dai dieci ai vent’anni, nell’ecosistema dipende dal tipo di terreno contaminato e dalla profondità a cui si trova: in superficie il calore del sole riesce a decomporre la diossina in pochi anni; se invece gli aggregati tossici sono sotto la superficie o in falde acquifere l’emivita può prolungarsi addirittura fino ad un secolo.

I. J. Paris, del villaggio di Kampot Tuk, provincia di Svay Rieng, ha cinque figli. Dauk, 14 anni, la secondogenita, è nata con una gravissima malformazione al braccio sinistro. «Parte del braccio – precisa I. J. – non è mai cresciuta e così ha la mano attaccata poco sotto la spalla. Persino il cranio non si è del tutto sviluppato. Non accetta i rimproveri miei e di mio marito, va su tutte le furie. Se cammina più del solito le fanno male le gambe. Soffre di frequenti mal di testa. Si ammala più dei fratelli. Piange in continuazione. Dobbiamo essere molto accorti con lei».

«Mio figlio Hem – dice Lek Sareoun sulla veranda di casa sua a Doun Ang, sempre nella provincia di Svay Rieng – è nato con delle pesanti deformazioni e ritardi. Ha dieci anni e non parla nemmeno. Dipende in tutto e per tutto da me e mia moglie. L’ho portato nei principali ospedali della capitale e l’unica cosa che mi hanno saputo dire è che non è curabile».

due pazienti imparano a camminare con le protesi, al centro di riabilitazione di Battabang. Foto Luca Salvatore Pistone.

Non solo Agente Arancio. Secondo il governo di Phnom Penh, durante la guerra del Vietnam, solo in Cambogia, gli aerei statunitensi sganciarono milioni di tonnellate di bombe, un dato sempre rigettato da Washington. Bambini nati deformi, strane allergie cutanee e febbri da cavallo sono solo alcune delle conseguenze di queste operazioni militari.

Particolarmente grave è la situazione nella municipalità di Koki, nella provincia di Svay Rieng, dove nel gennaio del 2017 sono state rinvenute dal Centro cambogiano antimine (Cmac) tre bombe barile inesplose contenenti gas lacrimogeno di tipo Cs, una nella campagna nei pressi di una pagoda e due nel cortile di una scuola elementare. Le bombe non sono ancora state rimosse per la mancanza di mezzi appropriati e conoscenze tecniche del Cmac.

«Per molti anni – illustra Heng Ratana, il direttore del Cmac – non si è preso nota di tutte quelle sostanze chimiche utilizzate contro il popolo cambogiano. Quando abbiamo scoperto queste armi chimiche nella provincia di Svay Rieng abbiamo notato che un certo numero di abitanti era stato affetto da sostanze chimiche, assunte ingerendo acqua contaminata o respirando dei vapori. Il ministero della Salute ha quindi creato un’unità speciale per studiare l’impatto di queste sostanze sulla nostra gente».

«Gli Stati Uniti – aggiunge il dirigente – devono essere il nostro partner principale. Hanno degli obblighi morali nei nostri confronti, dal momento che dal 1963 al 1975 hanno lanciato oltre 2,8 milioni di tonnellate di bombe sul paese, che hanno ucciso 500mila cambogiani e distrutto interi villaggi, case, scuole e infrastrutture. Devono aiutarci a ripulire la Cambogia dai resti delle loro armi e a tal fine il nostro governo si è attivato da tempo intavolando trattative con quello statunitense».

Koki, villaggio di 800 anime, è tappezzato di cartelli di pericolo di morte. I siti dove sono state rinvenute le bombe sono semplicemente circondati con del nastro rosso e bianco. Da oltre un anno i bambini ci giocano intorno come se nulla fosse. Gli ispettori del Cmac ritengono che la prolungata vicinanza di questi ordigni alla popolazione locale sarebbe la causa di alcune gravissime malattie. Negli anni Washington ha in parte riconosciuto le conseguenze dell’utilizzo dell’Agente Arancio ma si rifiuta di ammettere che ci sia un nesso tra questo tipo di bombe, contenenti ciascuna 220 litri di gas lacrimogeno di tipo C2, e atroci malattie.

Dalla casa della famiglia Sokhum, a una trentina di metri dalla scuola, si odono degli strilli strozzati. A emetterli è il piccolo Sorm che non ha più voglia di rimanere nel girello. Da lontano Sorm ha le sembianze di un bambino di un anno o poco più ma una volta avvicinatisi si nota subito che ha qualcosa che non va. La sua faccia è consumata e svela tutt’altra età: Sorm ha infatti 14 anni e pesa 9 chilogrammi. Non è cresciuto, non parla e ha gravissimi problemi neurologici.

«Sua madre – racconta la giovane zia Meta – lavora come bracciante in Vietnam e così mi occupo io di lui. È un bambino buono, l’unico fastidio che dà è quando piange. Per qualsiasi cosa ha bisogno di noi, non riesce a tenere in mano neanche il biberon. I dottori non hanno mai saputo dirci qual è la sua malattia, dicono solo che non esiste cura».

Di fronte casa Sokhum, dall’altro lato della strada, c’è la casa della famiglia Eth. All’ombra, su un’amaca, tenta invano di riposare Srey, 31 anni appena compiuti. Invano perché i dolori causati dalla sua sconosciuta malattia non gli danno tregua. Tutto ha avuto inizio sette anni fa, quando si manifestarono le prime allergie cutanee sulla schiena. Ma in breve tempo queste si diffusero in tutto il corpo facendolo diventare, come dicono i suoi parenti, «un pezzo di sughero».

«La mia pelle – mostra il ragazzo – è durissima. Ho provato con diverse pomate e unguenti ma non è servito a nulla. Il prurito è insopportabile e ho spesso febbre altissima che mi porta ad avere freddo. Il dolore è lancinante, il mal di ossa non mi permette di camminare a meno che non prenda delle medicine. La mia vista peggiora sempre più. Anche le orecchie mi fanno male, per non parlare delle fitte al petto che non mi lasciano respirare bene». E conclude: «Alcuni dottori mi hanno detto che soffro di una strana forma di psoriasi, una malattia incurabile. Peggioro di settimana in settimana, sono certo che presto morirò. Sono sconvolto. Sono laureato in economia, lavoravo in banca ma ho perso il mio lavoro perché sono malato. Quando alcuni mesi fa la gente ha iniziato a parlare di bombe chimiche ho realizzato che esse potrebbero essere la causa del mio male. Ma nessuno sa dirmi di più».

Luca Salvatore Pistone

sminatori del Cmac all’opera e zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Verso il «partito unico»

Elezioni legislative

Il 29 luglio scorso si sono svolte in Cambogia le elezioni legislative in un clima teso. Dei 20 partiti candidati, il partito del primo ministro Hun Sen, Partito del popolo cambogiano (Cpp), ha fatto incetta di voti, ottenendo tutti i 125 seggi in parlamento, come già era successo nel 2013. Hun Sen è quindi stato riconfermato primo ministro per i prossimi cinque anni. Ma lo scrutinio è stato viziato dall’assenza del principale partito d’opposizione, il Partito per il salvataggio nazionale, sciolto nel novembre 2017 e il cui leader Kem Sohka è stato incarcerato. Molte Ong denunciano il degrado della situazione politica in Cambogia, con un aumento di autoritarismo del partito al potere e una diminuzione di democrazia. Diversi oppositori politici, della società civile e della stampa indipendente sono incarcerati. Solo dopo le elezioni, arriva qualche segnale di distensione: l’attivista che si batte contro l’accaparramento della terra, Tep Vanny, è stata graziata e due giornalisti liberati su cauzione.

Hun Sen, che è al potere dal 1985, diventa così il più longevo capo di governo in Asia. «Negli anni, secondo alcune Ong, Hun Sen ha messo in piedi un sistema generalizzato di corruzione, del quale approfittano la sua famiglia e i suoi collaboratori più fedeli», scrive Radio France International. Nella rete di fedelissimi Hun Sen ha messo i suoi tre figli, che potrebbero assicurare la sua successione. A causa della situazione di violazione dei diritti, gli organismi internazionali, Onu, Ue e Usa in testa, hanno deciso di non inviare osservatori elettorali.

Marco Bello