Il diplomatico dei Papi


La vita di un nunzio può essere avventurosa. L’ambasciatore del Papa si può trovare a vivere in passaggi fondamentali della storia. È successo al monsignore originario di Cuneo, uomo di rara intelligenza e sensibilità. Come ci racconta il suo biografo.

Monsignor Antonio Riberi è stato un diplomatico che ha svolto un ruolo importante sia nella Chiesa che nel mondo. È stato al servizio di quattro papi (Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI), e si è confrontato con il colonialismo inglese in Africa, con il comunismo in Cina e con la dittatura franchista in Spagna. Rimane però pressoché sconosciuto, non solo al grande pubblico, ma anche agli specialisti. Di lui si sa a malapena che è stato espulso da Mao Zedong.

Origini

I genitori, da Limone Piemonte in provincia di Cuneo, si sono trasferiti nel Principato di Monaco dove Antonio nasce il 15 giugno 1897. L’essere figlio di migranti lo aiuterà molto nella sua attività. Il migrante ha due patrie: quella che gli ha dato i natali che quella che gli dà il pane, quindi è portato ad apprezzare, ringraziare e valorizzare la seconda patria.

Inoltre, il Principato di Monaco è uno stato troppo piccolo per avere mire colonialiste, e abbastanza ricco, grazie al casinò e alle transazioni finanziarie, da non aver bisogno di adottare una politica colonialista. Monsignor Riberi è stato quindi meno condizionato dall’ideologia colonialista e, molto naturalmente, quando si troverà in Africa apprezzerà le religioni africane, così come in Cina valorizzerà la cultura locale.

Primi anni

I genitori sono molto impegnati nel lavoro e perciò lasciano il piccolo Antonio presso i nonni paterni a Limone.

Egli frequenta il seminario vescovile di Cuneo e il 29 giugno 1922 viene ordinato sacerdote. L’essersi formato a Cuneo, allora provincia giolittiana per definizione, dove sta nascendo la prima industrializzazione, gli permette di venire a contatto con le problematiche del mondo del lavoro e di coltivare una profonda sensibilità sociale che evidenzierà in seguito occupandosi delle missioni presso le miniere della regione del Copperbelt in Africa, della riforma agraria in Cina e del nuovo sindacalismo in Spagna. È inviato a Roma presso la Pontificia accademia ecclesiastica dove incontra Giovanni Battista Montini che diventerà suo amico e consigliere per tutta la vita.

Nel 1925 si laurea in Diritto canonico e, contemporaneamente, in Filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana. Dal 1925 al 1930 è segretario della Nunziatura in Bolivia. Si trasferisce poi a Dublino dove, fino al 1934, è segretario della Nunziatura di Dublino con il nunzio Paschal Robinson.

Al fianco di quest’ultimo il giovane diplomatico impara il mestiere: intrattenere buoni rapporti con il governo, non intervenire troppo nelle faccende interne della gerarchia ecclesiastica locale, aprire le porte a chiunque voglia portare il suo contributo, curare una rete di amici per poter sentire il polso della situazione, ascoltare, suggerire più che controllare i fratelli nell’episcopato.

In Irlanda monsignor Riberi conosce il vescovo Joseph Shanahan, religioso spiritano, missionario in Nigeria, e ne adotta il metodo: collaborazione con il governo coloniale, massima importanza alle scuole, formazione del clero locale, rispetto per le religioni indigene e per l’islam, liberazione delle donne.

Sull’isola Riberi conosce pure Frank Duff, fondatore della Legio Mariae che, secondo lui, coglie l’intima essenza dell’Azione cattolica e rinnova il fervore dei primi secoli del cristianesimo. Riberi la promuoverà come alternativa all’Azione cattolica tradizionale, anche perché quest’ultima è appena ai suoi inizi in Africa, mentre in Cina, dopo la guerra contro il Giappone e la guerra civile, non è più un movimento nazionale.

Missionari della Consolata con il vescovo Carlo Re e Monsignor Antonio Riberi, Delegato apostolico in Kenya.

Gli anni del Kenya

Nel 1935 monsignor Riberi è nominato Delegato apostolico per l’Africa inglese (Kenya, Uganda e Tanzania, ndr) con sede a Mombasa (Kenya). Il primo problema che il missionario incontra quando arriva in terra di missione è la necessità di comperare terreni per costruire la chiesa, la casa per i missionari, una falegnameria, un dispensario, una scuola, un lebbrosario. La missione deve essere tendenzialmente autosufficiente e, quindi, deve provvedere a tutte le spese. Deve quindi comperare altri terreni per piantagioni di caffè, cotone, tabacco da vendere sui mercati internazionali e ricavarne così un reddito adeguato. La terra appartiene al governo coloniale e monsignore Riberi consiglia ai missionari il modo migliore per impostare le pratiche burocratiche.

Un altro tema chiave sono le scuole, forse lo strumento migliore per l’evangelizzazione. Il governo inglese non istituisce un sistema scolastico proprio, ma contribuisce con sussidi alle scuole delle missioni. Però vuole scuole per pochi futuri funzionari del livello più basso dell’amministrazione, perché teme il formarsi di un’élite culturale. Le missioni invece cercano di fornire istruzione possibilmente a tutti.

Il governo coloniale, inoltre, non desidera che il diploma di scuola secondaria dia accesso alle università inglesi, perché questo favorirebbe un cambio di mentalità negli africani e li renderebbe potenziali oppositori politici. Riberi si batte per fare sì che questo avvenga, anzi, propone a tutti gli istituti missionari di comperare una casa a Londra per inviarvi i migliori studenti.  Un altro punto di divergenza sono i programmi scolastici che dovrebbero essere solo di tipo tecnico amministrativo escludendo la dimensione catechetico-religiosa.

Nonostante questi problemi, il Delegato apostolico riesce a garantire i finanziamenti senza grosse difficoltà.

Il clero locale

Il problema cruciale per la giovane chiesa keniana è la formazione del clero locale. Il capolavoro di monsignor Riberi è la consacrazione del primo vescovo africano dei tempi moderni, il 29 ottobre 1939: l’ugandese Joseph Kiwanuka. La decisione di consacrare vescovo un sacerdote africano non è facile. I missionari stranieri, e gli stessi confratelli africani, seppure in teoria d’accordo nell’inculturare la Chiesa, pensano che non sia ancora giunto il momento di affidare al clero locale una diocesi. Pensano ancora a una chiesa africana con leadership europea strutturata secondo il modello occidentale. I preti africani sono considerati di seconda classe, nonostante le pressanti sollecitazioni da Roma per un trattamento paritario tra clero missionario e clero locale.

Dal 1938, i venti di guerra costringono Antonio Riberi a riorganizzare le missioni. Elabora un piano per assicurare che esse possano continuare il lavoro, ma il 6 agosto 1940, il ministro degli Esteri inglese chiede al Papa di richiamarlo, in quanto italiano e quindi di nazionalità nemica.

Dal 12 novembre 1941 all’8 giugno 1946 monsignor Riberi lavora presso la Pontificia commissione soccorsi.

Mons Riberi Delegato Apostolico in visita al Vicariato di Nyeri, Kenya

Nella Cina nazionalista

Quando Riberi è nominato internunzio in Cina presso il governo del presidente Chiang Kai-sek, al suo arrivo il giornalista che lo intervista si meraviglia della sua conoscenza della lingua cinese.

I rapporti con il presidente della Repubblica di Cina non sono facili. Per il monsignore sono fondamentali alcune riforme, in particolare quella agraria. Poi sottolinea anche l’importanza di applicare la Costituzione appena approvata, ma Chiang è di tutt’altro parere.

Il Papa ha appena istituito la gerarchia ecclesiastica cinese. Il primo compito dell’internunzio è, quindi, di intronizzare i vescovi nelle loro diocesi. È un’impresa complicata data la guerra civile in corso che costringe a continui cambiamenti di programmi per l’impraticabilità delle comunicazioni.

Monsignor Riberi vuole dotare la gerarchia di uno strumento che permetta di dare unità d’azione alle diocesi cinesi poiché vi operano molteplici istituti missionari di nazionalità diverse, con teologie, pratiche di apostolato e sensibilità diverse, e istituisce il Catholic central
bureau. In esso un ruolo fondamentale è svolto dal dipartimento legale. Parte delle proprietà delle missioni cattoliche cinesi non è legalmente riconosciuta, motivo per cui l’internunzio deve regolarizzare i contratti per evitare che i terreni vengano messi all’asta e quindi manchino alle missioni le risorse necessarie.

La Cina comunista

Il 21 aprile 1949 le truppe comuniste entrano nella capitale Nanchino. Da quel momento gli ambasciatori non sono più riconosciuti. Di conseguenza non godono più dei privilegi diplomatici. Ogni ambasciatore cerca di lasciare la Cina e rientrare in patria. Monsignor Riberi invece rimane, e tenta di incontrare i dirigenti comunisti per garantire alla Chiesa la possibilità di continuare la sua attività. Chiede alla Santa Sede di riconoscere il governo comunista, ma essa non ritiene opportuno compiere tale passo.

Nel novembre 1950 viene pubblicato il manifesto di Guangyang e qualche mese dopo quello di Chongqing. In essi si afferma che la Chiesa deve rompere ogni relazione con i paesi imperialisti e praticare le tre autonomie: deve essere autonoma dal punto di vista finanziario, amministrativo e apostolico. Ciò implica tagliare i ponti con la Santa Sede. Ma una Chiesa nazionale cinese indipendente non sarebbe più in unione con il Papa e tutta la Chiesa.

Il 17 gennaio del 1951, un gruppo di cattolici, tra cui il segretario di Riberi, incontra Zhou Enlai (numero due della rivoluzione) per discutere la questione delle tre autonomie. Si cerca un accordo, vengono redatte tre bozze, ma nessuna è considerata soddisfacente.

Nell’aprile 1951 inizia una violenta campagna stampa contro lo stesso Riberi. Il 26 giugno viene messo agli arresti domiciliari e sottoposto a interrogatori di 10-12 ore consecutive.
Il 4 settembre è espulso dalla Cina, accusato di essere un alleato di Chiang Kai-sek, di aver organizzato la lotta contro i comunisti, di aver promosso l’organizzazione reazionaria della Legio Mariae. L’8 settembre arriva a Hong Kong. Vi rimane fino al 24 ottobre 1952, quando si trasferisce a Taiwan dove resta fino al 1959.

il cardinale Antonio Riberi a Roma nel 1967.

Ritorno in Europa

Il 31 agosto 1959 Riberi torna a Dublino in qualità di nunzio e vi rimane fino al maggio 1962. È un periodo breve. Non ha la possibilità di incidere molto su quella Chiesa, ma la prepara per il Concilio Vaticano II.

Il 9 giugno 1962 è nunzio a Madrid. Il problema principale da risolvere in Spagna è l’adeguamento del Concordato del 1953 alle direttive del Concilio Vaticano II, per superare il nazionalcattolicesimo. Con molta gradualità monsignor Riberi favorisce il rinnovamento dell’episcopato, sia dal punto di vista anagrafico che teologico. Alla Chiesa interessa soprattutto garantire la libertà religiosa che viene assicurata con la legge approvata il 24 febbraio 1967, e abolire il «privilegio di presentazione». Dopo la scoperta delle Americhe il Papa aveva concesso la facoltà di scegliere i vescovi all’imperatore portoghese e a quello spagnolo. Francisco Franco lo aveva ereditato e poteva presentare alla Santa Sede una terna di nomi tra cui scegliere un nuovo vescovo. Tale privilegio sarà abolito il 19 agosto 1976.

Il 4 luglio 1967 Riberi riceve la berretta cardinalizia da Francisco Franco, secondo il privilegio che spettava al capo di Stato spagnolo. Quando ritorna a Roma, si diffondono voci sulla sua candidatura alla Segreteria di Stato, ma improvvisamente muore il 16 dicembre.

I funerali solenni sono celebrati nella cattedrale di Cuneo dall’arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, assistito dai vescovi di Cuneo, Fossano, Mondovì e Saluzzo. Sono presenti le massime autorità e una folla immensa.

Giovanni Giorgio Demaria




Vietnam. Un solo partito, tante speranze


Le prove di avvicinamento tra uno degli ultimi Paesi comunisti e il Vaticano sembrano dare frutti. Ma i punti di vista sono diversi e occorre tempo. Intanto la società vietnamita evolve rapidamente. E la Chiesa locale fatica a stare al passo. Reportage.

Hanoi. È sera. Siamo seduti sulle basse sedie che si usano qui, sul marciapiede di fronte al piccolo bar, bevendo una bibita per contrastare il caldo e l’umidità della giornata. Siamo sul ciglio di una strada che si immette nella rumorosissima e centrale via Hang Bong. I marciapiedi sono usati come parcheggio di motorini, posizionamento di mercanzia di ogni tipo, e, appunto, come spazi per sedie e tavolini. Per camminarci sopra, occorre fare uno slalom continuo.

Ci troviamo nel centro della città, vicino al cosiddetto quartiere vecchio, e non lontano dal lago Hoan Kiem, ombelico di questa metropoli di otto milioni di abitanti. Qui, al contrario di altri quartieri più moderni, ci sono ancora gli altoparlanti agli incroci che trasmettono messaggi di comunicazione del Governo.

Questa sera, il 19 luglio, sentiamo ripetersi due messaggi di pochi minuti, ma non ci facciamo caso più di tanto, anche perché, essendo in vietnamita, non capiamo nulla.

Sono circa le 18. Solo mezz’ora più tardi mi arriva un messaggio da un’amica di Hanoi che rimanda un appuntamento, perché «è morto il Segretario generale del partito». Verifico rapidamente: Nguyen Phu Trong è deceduto poco dopo le 13, dicono vari siti vietnamiti.

Era l’uomo forte del Paese, la carica più importante. Gli altri tre sono il presidente della Repubblica, che ha compiti più rappresentativi, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale. Trong, inoltre, non è stato un segretario generale come gli altri.

Vietnam. Cartelloni politici a Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Chi era Nguyen Phu Trong

In carica dal 2011, aveva iniziato un terzo mandato nel 2021. Fatto inusuale perché di solito ci si ferma a due. Ma soprattutto è stato un leader che ha saputo posizionare il Paese a livello internazionale e mantenere buoni rapporti con tutte le grandi potenze, applicando la «diplomazia del bambù»: pianta robusta, ma flessibile e con salde radici. Basti pensare che, da settembre 2023 a giugno 2024, Trong ha ricevuto Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. Trong ha condotto una lotta anticorruzione interna al Partito comunista vietnamita (Pcv), chiamata «braci ardenti», e ha spinto lo sviluppo economico che sta avendo il Paese. «È stato un uomo che si è dedicato alla patria», ci dice un osservatore straniero che da anni vive in Vietnam.

Per la sua morte, vengono decretati tre giorni di lutto nazionale e celebrati solenni funerali di Stato in tre località: Hanoi, la capitale, Città Ho Chi Minh, ex Saigon (ma ancora sovente chiamata così) capitale del Sud, e a Lai Dà, il suo villaggio di origine, nei pressi di Hanoi.

Il giorno dopo, l’atmosfera cittadina non pare molto cambiata. Il traffico è caotico come sempre. Migliaia di motorini inondano le strade, mentre a ogni angolo, a ogni via, c’è un localino in cui mangiare e gente seduta davanti a una scodella di zuppa.

I giornali e i siti sono usciti in colore nero anziché rosso, mentre sui social impazzano commenti. Un’amica di Hanoi ci mostra alcune foto del segretario da giovane, prese dal suo profilo Facebook.

Sulla spianata di fronte al mausoleo di Ho Chi Minh, il padre del Vietnam moderno, i turisti stranieri, ma anche molti vietnamiti da varie province del Paese, scattano foto ricordo.

Una presenza sicura

Il Partito comunista del Vietnam (Pcv), partito unico al governo della Repubblica socialista del Vietnam, sembra sullo sfondo. Nella realtà, è bene presente nella società vietnamita.

Arrivati all’aeroporto di Città Ho Chi Minh, la prima cosa che vediamo uscendo all’aperto sono tre gigantesche bandiere rosse con al centro il simbolo della falce e il martello in giallo, la bandiera del partito.

Bandiere grandi e piccole del Paese (stella gialla su sfondo rosso) sono presenti un po’ ovunque, talvolta con discrezione, come sui pali della luce, talvolta in modo più appariscente, come le grandi stelle di neon colorati a Città Ho Chi Minh e Nha Trang, o le centinaia di bandierine appese ai fili che attraversano alcune vie pedonali della movida. Poi, nelle diverse città, ci sono grandi cartelloni propagandistici, come quelli dei 70 anni della vittoria contro i francesi a Diem Bien Phu (maggio 1954) che mise fine all’occupazione coloniale, o quelli su Ho Chi Minh, o ancora sulla scuola o altri servizi dello stato.

Sono cartelloni con disegni in tipico stile comunista, come si vedevano nei paesi socialisti europei e in Unione Sovietica, ma qui stonano accanto ai mega schermi, diffusi nelle grandi città, che promuovono a ritmo continuo le grandi marche occidentali di ogni cosa, lusso compreso.  Eppure, ci conferma un nostro interlocutore straniero, che chiede di mantenere l’anonimato: «C’è un certo controllo da parte del Governo, e anche in modo capillare. Di noi stranieri sanno tutto, in particolare di chi vive nelle città. Dopo la pandemia da Covid-19, inoltre, c’è stata una stretta, dovuta anche alla maggiore instabilità a livello mondiale». Uno degli strumenti usati per monitorare le persone è attraverso i social network e le app di messaggistica, come la vietnamita «Zalo», che il nostro interlocutore dice essere «in mano all’esercito». «Nelle grandi città, a livello di quartieri, la polizia si avvale di informatori locali che riportano di passaggi e movimenti inusuali, come visite dall’estero», conclude.

Vietnam. Città Ho Chi Minh, la via Bui Vien famosa per i locali notturni. (Foto Marco Bello)

Sorrisi e controllo

Un altro straniero, che ha vissuto a lungo nel Paese, ci conferma: «Il governo è presente, deve verificare cosa dice la gente. Se un giornalista o una persona della Chiesa critica, dopo può avere dei problemi. Il Governo dà un po’ di libertà e poi le riprende. Ci sono movimenti di apertura seguiti da altri di chiusura. Ma è difficile sapere qual è il livello di denuncia e controllo, soprattutto quando vivi sul posto».

Continua: «Devo dire però che non è una nazione che vive nell’oppressione ogni giorno. I vietnamiti hanno la propria vita personale, il loro quotidiano, il piacere di mangiare insieme, incontrare gli amici, uscire dalla città a vedere posti nuovi. Ci sono tante cose positive. Non è un paese in cui manchi la gioia».

Questo lo si vede in tutte le città. Dai giovani che affollano i locali di tendenza sul lungofiume del Saigon a Città Ho Chi Minh, dagli innumerevoli ristoranti, dalle manifestazioni musicali e fiere, dai coloratissimi áo dài indossati dalle donne. E dai parchi cittadini o i viali resi pedonali e abbelliti da luci colorate, nei quali le famiglie vanno a passeggiare la sera. Un qualsiasi viaggiatore osserverà molta vitalità, voglia di divertirsi, di stare insieme e mangiare bene.

Sebbene sia un popolo di persone generalmente riservate, notiamo una certa attitudine al sorriso. Basta guardarsi e ci si sorride.

Vietnam. Megaschermo installato sulla riva destra del fiume Saigon, di fronte al centro di città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Le sfide irrisolte

Il vero aspetto negativo di questo sistema sembra essere la presenza di alcune importanti sfide sulle quali non è possibile aprire un dibattito, proprio perché non ci sono gli spazi di confronto, per cui non si discutono e, molto sovente, non vengono affrontate.

Il nostro testimone ce ne elenca alcune. «L’educazione è una grande sfida. È ancora di tipo tradizionale e non prepara i giovani alle difficoltà del lavoro moderno. Occorre allocare dei fondi per andare in questa direzione. Un’altra sfida è l’arricchimento di una piccola parte della popolazione, che poi tende a mandare i figli a studiare all’estero. La speculazione immobiliare, molto diffusa. L’abbandono delle campagne da parte dei giovani, perché la vita è meno confortevole, per andare a ingrossare le città. La mancanza di investimenti sulla cultura e sull’arte. Anche da questo si vede il livello di sviluppo di un Paese. E poi non c’è una rilettura critica della storia».

Per contro, a livello sociale, nelle grandi città del Vietnam non esistono quartieri molto poveri o degradati, come ci sono in Europa, nelle periferie di Parigi o Roma, tanto per fare due esempi.

È pur vero che si tratta di una società che viene dal mondo rurale e si è modernizzata rapidamente, negli ultimi venti o trent’anni.

Vietnam. Il portale di uscita della chiesa Sacro Cuore di Gesù di Cholon, il quartiere cinese di Città Ho Chi MInh. (Foto Marco Bello)

La Chiesa che c’è

A Città Ho Chi Minh visitiamo una comunità dei padri dello Spirito Santo. Attualmente sono tutti vietnamiti. Ci dicono che hanno una buona collaborazione con il Governo. Ad esempio, nelle attività di assistenza alle fasce più disagiate della popolazione. «Un ente dello Stato ci fornisce riso che distribuiamo ai poveri – ci conferma padre Peter -. Inoltre, noi religiosi siamo stati molto apprezzati durante il periodo della pandemia, grazie al volontariato che facevamo per contrastare l’emergenza». I missionari dello Spirito Santo sono presenti nel Paese dal 2007. Stanno lavorando in particolare in una zona rurale di recente urbanizzazione, vicina alla metropoli. Qui c’è una popolazione immigrata, giunta da varie provincie interne del Paese per lavorare nelle grandi fabbriche di manifattura, che in quest’area (come anche alla periferia di Hanoi) si trovano in grande numero.

Ci sono diverse altre congregazioni presenti in Vietnam, come i Salesiani, presenza storica, o i Camilliani, con le loro attività in ambito sanitario. Il rapporto con le autorità è generalmente buono, ma ovviamente, non si deve entrare nella sfera politica.

Più in generale, la Chiesa cattolica in Vietnam è coesa, forse a causa delle persecuzioni che ha subito in passato e anche nella storia recente.

Oggi è diverso, ed è in corso un processo di avvicinamento, anche ufficiale, tra il Vaticano e la Repubblica socialista del Vietnam. Le relazioni diplomatiche ufficiali si erano interrotte nell’aprile 1975, quando la Repubblica democratica del Vietnam (il Nord) insieme alla guerriglia rivoluzionaria del Sud (i cosiddetti vietcong) vinsero la guerra contro la Repubblica del Vietnam (governo del Sud) e i suoi alleati statunitensi.

Un avvicinamento costante

I rapporti sono ripresi timidamente nei primi anni Novanta. Dal 2010 è stato costituito un gruppo di lavoro congiunto Vietnam-Santa Sede che si occupa di questo processo. I lavori hanno inizialmente portato a scambi e visite ufficiali di rappresentanti del Vaticano e poi alla presenza della figura di un Rappresentante pontificio non residente dal 2011. Il 27 luglio 2023 il presidente Vo Van Thuong è stato in visita da papa Francesco. Lo stesso giorno la delegazione vietnamita ha incontrato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ed è stato firmato un accordo per l’istituzione di un Rappresentante pontificio residente (Rpr). Una figura ad hoc che, di fatto, espleta le funzioni di nunzio, senza però esserlo. Il presidente Vo ha anche invitato papa Francesco a visitare il Paese (Vo si è dimesso nel marzo di quest’anno, nell’ambito della campagna anticorruzione, e a maggio è stato nominato l’attuale presidente To Lam).

Il 23 dicembre scorso, monsignor Marek Zalewski, nunzio apostolico a Singapore e già rappresentante non residente in Vietnam, è stato nominato rappresentante pontificio residente. Ha quindi aperto l’ufficio di rappresentanza nella capitale Hanoi, a gennaio di quest’anno. L’auspicio espresso da papa Francesco durante l’incontro con il presidente Vo, ripreso poi da monsignor Zalewski, è stato: «Che cattolici del Vietnam realizzino la propria identità di buoni cristiani e buoni cittadini». Frase che sottolinea l’importanza dello Stato.

Vietnam. Celebrazione di un matrimonio nella cattedrale di Nha Trang. (Foto Marco Bello)

Le porte sono aperte

I cattolici in Vietnam sono circa 7 milioni su 100 milioni di abitanti. Questo rendendo la religione cattolica seconda per fedeli, mentre la prima è il Buddhismo con oltre 10 milioni di vietnamiti che si dichiarano tali. «Il numero di cattolici è in crescita – ci dice don Joseph Ta Minh Quy, rettore della cattedrale di Hanoi, che in passato si occupava di comunicazione per l’arcidiocesi -. Però è un po’ inferiore della crescita della popolazione».

Continua don Joseph, che ci ha accolti nel suo ufficio dietro la cattedrale: «I cattolici del Nord sono molto attivi, amano gli incontri di famiglia, di comunità. Sono molto socievoli. Il concetto di comunità è molto forte. Nel Sud è un po’ diverso, e c’è un investimento maggiore sul rapporto personale e sulla fede».

Nelle diverse città del Vietnam, i cattolici non si nascondono. Abbiamo visto ovunque chiese sormontate da grosse croci e rese molto evidenti, spesso illuminate di notte. Continua don Joseph dicendo che il rapporto con il Governo è buono: «Nei nostri spazi possiamo fare tutte le attività che vogliamo, senza alcun problema. Diverso è se vogliamo occupare suolo pubblico, allora occorrono degli speciali permessi. C’è poi abbastanza differenza tra la città e la campagna. In ogni caso, là dove siamo, le nostre porte sono aperte e invitiamo chiunque a venire».

«Una sfida della Chiesa in Vietnam oggi – ci dice uno dei rari missionari nel Paese -, è l’influenza della società secolarizzata. Tanti, soprattutto i giovani, si stanno allontanando. Anche a causa della migrazione interna. Molti di loro lasciano le province per le grandi città, per studiare o lavorare. Ma qui perdono i riferimenti. Così diminuiscono fede e vocazioni». Nella cattedrale di Nha Trang, vivace città nel centro del Paese, si sta celebrando un matrimonio. La sposa indossa un áo dài candido e lo sposo camicia bianca e cravatta. Nel coro ordinato, una decina di donne sfoggia degli áo dài coloratissimi. Gli uomini sono vestiti all’occidentale. È l’immagine di una società vivace e variopinta ma allo stesso tempo ligia e rispettosa delle regole.

Marco Bello

Vietnam. Famiglie a passeggio di sera nel centrale corso Le Loi nei pressi del municipio di Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)


Il nuovo segretario generale

Il comitato centrale del Partito comunista, il 3 agosto scorso ha nominato To Lam nuovo Segretario generale. Lam è l’attuale presidente della Repubblica, che così concentra su di sé due delle quattro cariche più importanti del Paese. Lam è stato capo della polizia e ministro della Sicurezza pubblica.


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