Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti

 




Tra Italia e Africa


Un giallista torinese che indaga luoghi e quartieri abitati da un’umanità di poveri e immigrati. Un libro intervista che attraversa l’Italia in 10 delle sue ferite ambientali grazie alla voce di altrettanti sacerdoti. Una raccolta di reportage africani firmati dal compianto Raffaele Masto.

Gialli tra migranti

Uno dei grandi meriti di Andrea Camilleri è di avere creato, grazie al suo commissario Montalbano, una vera e propria «scuola italiana della letteratura gialla». Camilleri ha indicato una strada e tanti autori di casa nostra hanno provato a percorrerla. Alcuni con ottimi risultati.

Tra coloro che hanno appreso, e bene, la lezione di Camilleri, ce n’è uno torinese i cui libri meritano, a mio avviso, grande attenzione. Prima di tutto per la loro capacità di caratterizzarsi e rendersi originali all’interno di un genere letterario in sé molto lineare: trovare l’assassino.

Gioele Urso, che nella vita fa il giornalista, è autore di Calma & Karma. Torino rosso sangue, uscito nel novembre scorso per Golem Edizioni. Il titolo è l’unico particolare poco azzeccato: sembra il viatico alla lettura di un libro splatter. Invece no. Urso ha scritto una storia degna di nota. Delicata, profonda, socialmente rilevante.

Due anni fa aveva esordito con Le colpe del nero per le Edizioni del Capricorno. Titolo, questa volta, più che centrato.

Protagonista di entrambe le storie è il commissario Riccardo Montelupo (due omaggi in un solo nome: Montelupo è nel carattere, nelle movenze, nel metodo investigativo, un po’ il Ricciardi di De Giovanni e un po’ il Montalbano di Camilleri).

Il commissario di Urso è in forza alla questura di Torino, ha radici siciliane e una idiosincrasia innata per le ingiustizie sociali.

Accanto a Montelupo compare, sia nel primo che nel secondo libro, il giovane videogiornalista Gianni Incerti, con un fiuto da cronista di razza e una grande passione per il Milan degli olandesi. Per la cronaca, Urso è milanista, oltre che reporter.

Fin qui siamo quasi nella norma. Ciò che però rende, a mio avviso, il lavoro di Urso più interessante di altri, sono i contesti sociali nei quali si sviluppano le trame: nel primo era il Cie, Centro di identificazione ed espulsione, di corso Brunelleschi, nel secondo l’ex Moi, le palazzine di via Giordano Bruno costruite per le olimpiadi invernali del 2006, poi occupate da rifugiati.

I torinesi hanno ben chiaro che tipo di ferite sono stati quei due luoghi per la città. Il tema migratorio, le storie delle persone arrivate a Torino, in genere per essere sfruttate, abusate, usate, sono il cuore del racconto.

Non ricordo altri giallisti che abbiano scelto strutturalmente quel mondo per raccontarlo (e denunciarlo) nei loro libri.


Preti verdi

S’intitola Preti verdi, è uscito per Edizioni Terra Santa. Lo ha scritto il giornalista toscano Mario Lancisi, al quale si devono già diverse apprezzatissime pubblicazioni su don Milani.

È un libro che possiamo tranquillamente definire «necessario», e la ragione è racchiusa, prima di tutto, nel suo sottotitolo: L’Italia dei veleni e i sacerdoti simbolo della battaglia
ambientalista.

Mario Lancisi ha incontrato e raccontato la vicenda di dieci territori dall’ecosistema devastato e di altrettanti sacerdoti che hanno speso e spendono la propria vocazione per sanare la ferita inferta alle persone che quel territorio lo vivono.

Si tratta di don Palmiro Prisutto, don Giuseppe Trifirò, padre Nicola Preziuso, padre Maurizio Patriciello, don Marco Ricci, don Michele Olivieri, padre Guidalberto Bormolini, don Albino Bizzotto, don Gabriele Scalmana e padre Bernardino Zanella.

Il libro traccia un viaggio doloroso, quasi una Via Crucis che, dalla Sicilia, passando per Taranto e «la terra dei fuochi», porta al Veneto.

A segnare le tappe di questo terribile Giro d’Italia senza bicicletta sono le migliaia di morti provocate dalla devastazione ambientale. Bambini, donne, uomini, comunità intere decimate da forme tumorali le cui cause sono da ascrivere alla voracità di gruppi industriali e organizzazioni mafiose.

La dedica del libro è chiara: «A tutti i morti di tumore per l’inquinamento e i veleni provocati da uno sviluppo economico che mette al centro il profitto e non l’uomo».

A dare il via a questo coraggioso lavoro di Lancisi è l’enciclica Laudato si’ che rimette al centro del dibattito ecclesiale la tutela dell’ambiente, il rispetto del creato, i danni (spesso irreparabili) che ricadono su popolazioni inermi e incolpevoli.

E poi c’è la pandemia. Anch’essa è stata, per l’autore di Preti verdi un elemento nodale. «A noi interessa un’ipotesi di lavoro, che affiora anche in questo viaggio: forse c’è un nesso causa-effetto tra inquinamento della terra e coronavirus. Forse. Non è questa la sede per discuterne. Preme sottolineare che la dicotomia “salute e lavoro” che caratterizza il libro ha attraversato anche l’anno del Covid-19. Viene prima la borsa o la vita?».


L’Africa riscoperta

Cambiamo genere. Passiamo alle inchieste giornalistiche di un grande reporter che, purtroppo, il 28 marzo del 2020 ci ha lasciato: Raffaele Masto.

Raffaele è stato uno dei più attenti cronisti di «cose africane».

Come responsabile esteri della storica emittente milanese Radio Popolare, per oltre 20 anni, ha percorso l’Africa da Nord a Sud, e ne ha raccontato la vita, la sofferenza, le speranze puntualmente tradite. Ha scritto una dozzina di libri sul continente, alcuni tradotti in mezzo mondo.

I racconti di Raffa, come lo chiamavano gli amici, aveva un particolare marchio di fabbrica: non esprimevano amore per i potenti. La sua Africa era sempre letta attraverso gli occhi di un profugo che ha perso tutto, di una donna che prende l’acqua al pozzo, di un bambino che ha perso le gambe scambiando una mina per un giocattolo, di un autista di taxi, di un contadino in attesa della pioggia che non arriva mai.

A 12 mesi dalla scomparsa di Masto, i colleghi e gli amici di una vita hanno pubblicato, a firma di Raffaele, L’Africa riscoperta. Memorie di un reporter, una raccolta di alcuni dei suoi reportage più belli arricchita con una serie di post tratti dal suo blog «Buongiorno Africa!».

Quello che offre questo «libro di libri» è un diario di viaggio potentissimo. Chi ha letto qualcosa di Ryszard Kapuściński, tra queste pagine si sentirà a casa.

Raffaele Masto è stato un giornalista di razza, che lasciava la scrivania e andava a lavorare sul campo. Soprattutto girava al largo dai luoghi comuni.

Pochi mezzi, pochi soldi, ma idee chiare e un obiettivo ben definito: vedere con i propri occhi, se possibile, cercare di capire, e poi raccontare.

Esiste un sito dedicato a Masto, www.amicidiraffa.it. È nata anche un’associazione, è stato istituito un premio che porta il suo nome, e creato un centro di
documentazione. Il lavoro di Raffaele, la sua testimonianza, non devono andare perduti.

Sante Altizio




Mongolia. Lo sguardo oltre l’infinito

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Ricordi impressi nelle immagini che dipingono paesaggi desertici, scenari lunari, cieli blu cobalto, orizzonti infiniti dai colori saturi e contrastati. Memorie romantiche e nostalgiche.

La Mongolia è un paese sorprendente che ti porta, attraverso una grande varietà di paesaggi sconfinati, dalla terra arida e piatta della steppa al caldo soffocante (o al freddo a -40°) del deserto del Gobi. Le distanze sono incredibilmente grandi, possono passare molte ore di viaggio (in fuoristrada) senza intravedere alcuna presenza umana, quando in lontananza si scorgono finalmente piccole strutture bianche circolari. Sono le yurte, dall’antico nome turco adottato dai Russi, ma i Mongoli le chiamano gher, che significa abitazione.

Nelle parole di suor Esperanza, missionaria della Consolata di origini colombiane, c’è una definizione che descrive perfettamente il rapporto simbiotico tra la gente di qui e l’ambiente. «Il popolo mongolo ha bisogno della purezza dell’aria per respirare e per vivere, dell’ampiezza di un respiro infinito come l’orizzonte del cielo che ti viene incontro e ti sostiene. Quando sembra che stia per finire dietro una montagna, si riapre e riparte verso l’indefinito offrendosi allo sguardo incredulo di chi supera la cima. È come il senso della nostra vita».

I numeri da record fragile ecosistema

La Mongolia detiene molti record. È una nazione tra le prime 20 più estese al mondo, ma con appena 3 milioni di abitanti (dei quali oltre la metà vivono nella capitale Ulaanbaatar e dintorni). Il deserto del Gobi è il quinto deserto più grande e copre un’area di quasi 1,3 milioni di km2, quattro volte l’Italia, mentre la Mongolia stessa si estende per quasi 1,6 milioni di km2. Quello che colpisce di più è però il numero di animali da allevamento: ben 64 milioni di capi tra pecore, capre, mucche, cavalli e cammelli. Ma la Mongolia è molto di più che questi enormi numeri e uno dei deserti più affascinanti del mondo. È un paese di contrasti e di colori.

Il popolo mongolo è costituito da circa 20 gruppi di etnie diverse.  I Khalkh sono il gruppo più numeroso e quello più diffuso in tutta l’Asia settentrionale. Gli appartenenti a questa etnia sono considerati i discendenti diretti del clan di Chinggis Khaan (che noi conosciamo come Gengis Khan), e quindi i veri conservatori della cultura mongola. Nel tredicesimo secolo, Chinggis Khaan formò il più grande impero nella storia del mondo. La lingua khalkha è di conseguenza la principale lingua mongola.

Un popolo nomade

La vita del popolo nomade della Mongolia, che costituisce circa un terzo della popolazione totale della nazione, è stata plasmata dal clima per oltre tre millenni. Questi pastori, che vivono nelle vaste steppe del paese, dove pascolano il loro bestiame, fonte principale del loro sostentamento, hanno sviluppato un elevato livello di resilienza che li aiuta a rimanere in equilibrio con la natura.

Il clima secco e la scarsità d’acqua dell’Asia centrale, combinati con il suolo in gran parte inadatto all’agricoltura, hanno portato le popolazioni locali a prendersi cura del proprio ambiente. Conoscono infatti i tempi lunghi che l’ecosistema nel quale vivono impiega per rigenerarsi. Il sostentamento dei nuclei nomadi dipende dal loro bestiame e quando i pascoli si esauriscono, essi sono costretti a spostarsi.

Purtroppo, a causa degli imperativi economici di un mercato globalizzato e dei cambiamenti climatici, che stanno entrambi degradando rapidamente i pascoli della Mongolia, i pastori nomadi non riescono più ad adattarsi.

Oggi, a causa della scarsità di cibo e delle difficili condizioni climatiche e naturali, molti di loro sono costretti a migrare verso i centri urbani e a unirsi ai ranghi dei poveri.

I «Gher District»

Negli ultimi tre decenni, più di 600mila pastori, circa il 20% della popolazione del paese, hanno abbandonato il loro stile di vita nomade e si sono trasferiti nella capitale Ulaanbaatar, che ora sta lottando per fornire servizi di base alla sua popolazione in rapida espansione. Queste famiglie hanno abbandonato i loro animali e, in alternativa alle steppe sconfinate, hanno scelto la relativa sicurezza dei «Gher District», aree alla periferia di Ulaanbaatar costituite dalle tradizionali dimore mongole.

Non c’è stata alcuna pianificazione urbanistica nel modo in cui questi distretti sono stati creati, e gli agglomerati di gher sono cresciuti a dismisura.

Il tenore di vita in queste zone è molto basso. Inoltre, il carbone bruciato durante l’inverno dalle famiglie in questi insediamenti ha trasformato Ulaanbaatar in una delle città più inquinate del mondo.

Le sfide

La Mongolia sta affrontando sfide vitali per preservare il suo stile di vita tradizionale e l’equilibrio naturale. L’alto livello di inquinamento della capitale e l’aggressiva politica mineraria attuata in collaborazione (e dipendenza) con i Cinesi, creano seri problemi all’ambiente.

Tuttavia l’aspetto positivo è che c’è una popolazione di giovani, istruita e ambiziosa con una formazione solida nell’ambito dell’ecoturismo, delle tecnologie, delle scienze ambientali e dello sviluppo sostenibile. Tutto questo sta portando a un cambiamento di atteggiamento. Molte iniziative dal basso stanno prendendo forma con l’obiettivo di risolvere i problemi della dipendenza dal carbone e dello sfruttamento delle risorse naturali, comprese iniziative per salvare la fauna selvatica in via di estinzione.

Dan Romeo

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Questo reportage fotografico in una terra difficile e complessa come la Mongolia è stato possibile grazie ai Missionari della Consolata e all’organizzazione sul campo di mons. (allora ancora «padre») Giorgio Marengo che ci ha accompagnato alla scoperta delle radici, della cultura, delle religioni e delle sfide di questo popolo. Nel prossimo appuntamento andremo alla scoperta del tradizionale Naadam Festival e dei paesaggi selvaggi e surreali che fanno della Mongolia uno dei luoghi più suggestivi al mondo.




Guerra, minerali e code di maiale

 

 Gli stati dell’Unione birmana da sempre in guerra sono quelli con maggiori risorse. Sembra impossibile che paesaggi tanto belli, abitati da gente tanto vivace e attiva, siano stati, e in certi casi siano ancora, teatri di guerra e violenze.
La seconda parte del racconto di viaggio della nostra corrispondente si snoda nelle terre meno turistiche, perché più colpite dal regime, in cui si attende con speranza il cambiamento.

Ho deciso di spostarmi nell’estremo Sud Est del Myanmar, nella regione del Thanintharyi, al tempo degli inglesi conosciuta come Tenasserim. Sull’aereo che mi porta a Myeik incontro Leon, ingegnere cinese. Siamo gli unici visitatori di questa antica città di commerci, famosa da secoli per il suo porto. Raggiungiamo insieme la guest house, poi scendiamo a piedi verso il lungomare. La vista del fango nero, dell’immondizia e della plastica sul bordo mare mi urta. L’aria è calda e umida, il cielo grigio, ma la gente è vivace e attiva. Lo si deduce dal traffico di moto che rende difficile attraversare le strade.

Incontriamo Michel, ragazzo dall’aspetto sveglio, che si offre di accompagnarci nei dintorni. Visitiamo gli allevamenti di aragoste, esportate in Cina, Hong Kong e Singapore, e di pipistrelli, venduti a caro prezzo. Queste sono attività che, con le miniere e la pesca, danno ricchezza alla città.

Michel, il suo vero nome è Thu Yain Tun, lavora da quando aveva dieci anni. Ha imparato a fare il falegname e il meccanico. Dato che era bravo a scuola, lo hanno mandato per tre anni a Yangon: ora parla benissimo l’inglese e dà lezioni, anche nella scuola della Chiesa battista.

LOIKAW (25)

Tenasserim

La regione Thanintharyi è ricca di minerali preziosi come oro e platino. Al tempo della colonia, la sua produzione di zinco copriva il fabbisogno indiano. Per molti anni è stata off limits per gli stranieri perché in pochi conoscono l’inglese. John Kin Maung, un anziano ottantaseienne, invece lo parla molto bene. «La mia famiglia era originaria del Tamil Nadu, India – mi spiega -. Gli inglesi avevano bisogno di forza lavoro, non riuscivano a far lavorare i birmani, che non erano motivati». John ricorda con piacere la sua Convent school. «Quando c’erano gli inglesi tutto funzionava bene e le scuole cattoliche davano una buona istruzione. Quelle statali invece sono tuttora di livello molto basso. Si è cominciato a insegnare l’inglese quando la figlia del generale Ne Win, che studiava medicina, aveva voluto andare a Londra e si era scoperto che non era preparata». Scuote il capo e mi invita a casa sua, dove abita con figlia e nipoti. La sera, prima di cena, un gruppo di giovani si raduna per fare conversazione in inglese. Sono ragazzi svegli, curiosi. Hanno tutti lo smartphone e ci mettiamo a cantare le vecchie canzoni americane dei pionieri.

Per il fine settimana sono previste due celebrazioni. La prima è l’Union day, giornata simbolo di un paese diviso. Domani sarà il 13 febbraio, anniversario della nascita del generale Aung San, padre di Aung San Su Kyi.

Scopro che John ha una moglie che vive a Nay Pyi Taw, la nuova faraonica, assurda capitale del paese. Dopo 12 anni di carcere duro, nello stesso periodo in cui Aung San Su Kyi era ai domiciliari, lei ora è parlamentare del partito National League for Democracy. «Non ci vediamo molto. Raramente mia moglie viene a Myeik».

Matrimonio karen

MIEYK-Mergui_Padre Gregory(33)Gregory è il giovane vice parroco di Myeik. Nato in un villaggio karen della regione che ha visto violenze inaudite durante la dittatura, a dieci anni fu inviato a Yangon per studiare. Il padre fu ucciso dall’esercito governativo un decennio fa nel suo villaggio, mentre cercava di difenderlo.

Ci sono sette moschee a Myeik, porto importante da almeno cinque secoli. La grande pagoda dorata sulla collina fin dall’alba è meta di fedeli che pregano e porgono offerte al Buddha. Oggi sono invitata a un matrimonio karen nella Chiesa battista, quella che è riuscita a fare più proseliti nel paese sin dall’ottocento. Arrivo che la cerimonia è già terminata e si sta facendo colazione, nel cortile tra la chiesa e il dormitorio dei ragazzi. Sono i Pwo Karen, tutti in costume bianco rosso e blu. Amici e parenti sono arrivati da Yar Aye, una delle isole che punteggiano la costa Sud Est del Myanmar e formano l’arcipelago Mergui. Sono agricoltori e pescatori e hanno viaggiato per otto ore su barche veloci. Con la marea bassa non si può partire: il mare qui è molto basso, oltre che caldissimo.

La mamma della sposa è una bella donna dall’aria serena: ha sei figli. La maggiore, di 39 anni, vive sull’isola e dirige la scuola per i sei villaggi. Gli altri figli hanno studiato e trovato lavoro a Yangon.

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Loikaw, stato Kayah

Dall’aeroporto di Yangon sono partita per Loikaw, la capitale dello stato Kayah, il più piccolo del Myanmar, ma il più ricco di tradizioni ed etnie: Kayah, Kayoh, Karenni, Pa O, Kayen, Shan. Il bimotore a elica con 18 passeggeri si alza in volo su una coltre di polvere rossiccia, il colore di questo paese durante la stagione secca. Sorvolando Yangon noto la rete di canali che consente l’irrigazione delle risaie, verdissime.

Brenda è una giovane olandese, unica straniera, oltre me, sul volo: lavora per una Ong che opera a Loikaw, città aperta ai visitatori individuali da pochi mesi. La città si trova a circa 1000 metri di altitudine, circondata da monti e ricca di orti e giardini. Fa caldo, siamo sui 36°, ma verso sera la temperatura si abbassa molto. Esco dalla Guest house dell’Amicizia in cui sono alloggiata e sulla via principale trovo pronta una grigliata di spiedini vari: verdure, patate, pesci e code di maiale. La cuoca è abile, spennella gli spiedini con una salsa piccante e il prezzo molto basso: un dollaro.

U Soe Htwe è il padrone di casa che mi accoglie con grande gentilezza. È molto prudente nel parlare della difficile situazione di questa regione. U Soe aveva studiato ingegneria a Yangon, e nel 2002, ma a causa della guerra, ha dovuto lasciare il suo lavoro nelle miniere dello stato Kayah. Le due figlie sono riuscite a emigrare negli Usa, dove lavorano come infermiere, e la casa di famiglia è stata trasformata in pensione. Dei figli maschi, uno lavora a Nay Pi Taw, l’altro è rimasto in casa, con la famiglia. La moglie di U è una signora molto attiva in un’associazione per la promozione della donna birmana, ed è spesso in viaggio per Nay Pi Thaw. Nella locanda, immagini di Aung San Su Kyi sono appese ovunque. Gli altri ospiti sono quasi tutti operatori di Ong e volontari. I soli turisti sono una giovane armena di Boston e un canadese con i quali combino una gita nei dintorni. Il nostro autista è un geologo colto, che ha perso il suo lavoro in miniera anch’egli nel 2002. Ci porterà nelle vallate dove vivono le donne Padaung. Qui anche le bambine portano gli anelli al collo e vivono molto meglio delle loro sorelle senza anelli. Hanno case pulite e vendono monili e sciarpe colorate. Stanno anche asfaltando la strada che porta nei loro villaggi sulle montagne, rimasti isolati finora. Non vedo turisti.

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Chiese

Loikaw ha alcune belle pagode, ma quello che colpisce è il numero delle chiese cattoliche. Una nuova cattedrale è stata costruita in stile locale, con decorazioni dorate, in contrasto con la semplice chiesa dei primi missionari.

Frequento la parrocchia di san Giuseppe, situata non lontano dall’ospedale nuovo, donato dai giapponesi. Partecipo alle funzioni del pomeriggio e conosco il parroco, padre Giulio, un Karen molto ospitale che mi offre gustose fette di mele e si propone di portarmi a visitare i villaggi dove i missionari del Pime, molti anni fa, hanno portato il Vangelo. «Arrivavano a piedi, da Taungoo, 500 km di strade impervie. Si era ai primi del Novecento. Hanno vissuto come i nostri contadini, lavorando la magra terra di queste montagne». Terra povera per coltivare, ma ricchissima di minerali, oro e pietre preziose.

Padre Galbusera è morto nel 2000, aveva 89 anni. La prima tappa la faremo nel villaggio in cui operò, dove troviamo la sua tomba ricoperta di fiori bianchi. Visitiamo alcune chiese, incontriamo i parroci. Avevo notato povertà nei villaggi, ma quando facciamo visita alla zia di Giulio, mi rendo conto del dramma di questa gente. Non c’è acqua, né luce, mentre nei grandi complessi militari che troviamo lungo la strada arriva luce, telefono, tutto. La zia ha 86 anni, un viso nobile, asciutto come tutto il corpo. I piedi credo non abbiano mai visto scarpe, veste una maglia piena di macchie, un loungji e un turbante. Ha avuto dieci figli, di cui quattro morti. Una figlia si avvicina, anche lei ha dieci figli di cui due morti. Un pronipotino le salta in grembo, li fotografo. Lei ci offre un sacchetto di foglioline. Si raccolgono da un albero e si cuociono col curry.

Nonostante tanta presenza cattolica, alcune piccole pagode spuntano sulle cime di questi monti ricchi di minerali. Gli stati birmani in guerra da anni sono proprio quelli più dotati di risorse naturali. Gli inglesi sapevano che questa era la loro colonia più ricca.

LOIKAW VILLAGGI (100) LOIKAW VILLAGGI (105)

Hpa An, stato Kayin

Ritoo a Yangon e prendo il bus per Hpa An, la capitale del Kayin, altro piccolo stato da sempre in guerra, abitato dai Karen. Mi aveva detto qualcuno: vai nel Nord, sulle montagne, a Hpa Pom, ti siedi in riva al fiume, e vedrai tutti i tipi di pietre preziose. Pare sia vero.

Continuo a conoscere persone che lavoravano nel settore: geologi, ingegneri minerari e altri che hanno perso il lavoro nel 2002, all’inizio della guerra.

Questa regione del Myanmar è meravigliosa. Siamo in una piana alluvionale, percorsa da un grande fiume, il Thanlwin, che scende dalle montagne della Cina, e finisce il suo corso nel mare delle Andamane. Nelle fertili risaie a perdita d’occhio vedo case coloniche ombreggiate da grandi alberi che ricordano il Tirolo. Le famiglie hanno tanti bambini che ci salutano. Pare impossibile che questo territorio sia stato per anni devastato dalla guerra. Le montagne sono guglie di calcare in cui si aprono profonde grotte in parte ricoperte da vegetazione dove gli abitanti hanno creato luoghi di culto buddhista. Ne ho vista una, grandiosa, dove si trovano stupa dorati, migliaia di buddha di ceramica, piccoli e grandi, serpenti sacri e le immagini dei Nat, gli spiriti ancora venerati dal popolo. Una lunga fila di monaci di pietra si allinea lungo la strada che conduce dalla grotta alla fonte miracolosa. La popolazione è buddhista-animista, ma il conducente del mio taxi sostiene di essere buddhista-cattolico. Al tramonto scendo sulla riva del fiume, quando i pescatori rientrano nei villaggi. Come la mattina, anche la sera si alzano fumi dalle case. Si bruciano i rifiuti, le foglie secche, e si accendono i fornelli per cuocere e friggere il cibo.

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Domenica delle Palme

Con qualche difficoltà riesco a trovare la chiesa cattolica della città. Mi siedo in un banco accanto a due giovani, Claire e Aye Pyone, che mi offrono le palmette che hanno intrecciato per la festa. Sono l’unica straniera e dopo la messa si avvicina un giovane prete, padre Ignazio. Ha trentanove anni ed è nato in un villaggio remoto nel Nord dello stato Kayin. La mamma è morta giovane, non si sa di cosa, perché non esiste assistenza sanitaria. Il papà era catechista e si recava nel villaggio materno, Le Too Po, per insegnare i canti. Là si sono conosciuti i suoi genitori. I villaggi e il Knu (Karen National Union) devono gestire le scuole, dove si parla la lingua kajin, molto diversa dal birmano. Qui gli alberi di teak sono stati tagliati da molti anni e non ricrescono più. Hpa An è diocesi dal 2009, prima dipendeva da Yangon. Davanti alla chiesa ci sono due belle case, una per le suore e l’altra per gli studenti dei villaggi remoti.

Campi profughi

Faccio colazione alla Guest House con ceci e chapati che la giovane moglie del padrone ha comprato al mercato. Khin Myo Thite è musulmana e appartiene al gruppo etnico più antico, i Mon, che ha dominato per secoli il paese. «Mio marito non sa l’inglese, appartiene alla generazione che non ha avuto la scuola superiore a causa della guerra». Da un anno la frontiera con la Thailandia, molto vicina, è stata riaperta. Arrivano da Bangkok giovani con zaino in spalla, e Khin dà loro una sistemazione e le indicazioni di cui hanno bisogno. Esco per andare a comprare frutta al mercato. Il pozzo davanti alla moschea è sempre attivo, con donne e uomini che riempiono i bidoni d’acqua. Sono in compagnia di Lillian, medico inglese che lavora da anni nei campi profughi in Thailandia. «Conosco il popolo del Myanmar – mi dice -, ora voglio conoscere il paese e rimango fino all’ultimo giorno consentito dal visto».

Parliamo dei campi profughi, dove vivono ancora molti birmani che sono stati cacciati dai villaggi. Vivere in un campo significa avere cibo, acqua e sanità, ma non è una vita normale. Difficile avere un lavoro, svolgere un’attività. Chi ha lasciato gli orrori della guerra non vuole più ritornare a casa.

Claudia Caramanti
(fine seconda parte – continua)

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Colori sgargianti ma fibre sintetiche

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Pagode antiche e magnifiche, paesaggi incantevoli, gentili ingegneri affittacamere, ma anche architetture in disfacimento, strade piene di miseria, bambini lavoratori e racconti di campi profughi. Il Myanmar dei profondi cambiamenti politici, in transizione verso la democrazia dopo 50 anni di dominio militare e 60 anni di una guerra civile ancora in corso in diverse zone del paese, ci viene raccontato attraverso lo sguardo attento di una viaggiatrice critica.

 

MC 1-16 Myanmar1-06Yangon sta cambiando velocemente, pur non essendo più la capitale ufficiale, rimane comunque il centro più importante del Myanmar. Vent’anni fa era una città silenziosa, ferma nel tempo, sprofondata nel verde dei suoi parchi e dei suoi viali. Ora, all’inizio del 2015, essi non bastano a contenere un traffico esagerato che ha spinto in questi giorni gli autisti dei bus a lasciare il lavoro, protestando per gli ingorghi che bloccano per ore le strade. Cantieri di nuovi edifici, alberghi e centri commerciali sorgono ovunque e occupano gli spazi verdi che ancora rimangono.

Scelgo una sistemazione vicina al centro e alla cattedrale cattolica, dove grandiosi edifici pubblici in stile classico, con archi e colonne in mattoni, ricordano il ruolo di capitale nel periodo coloniale britannico. Nei viali che conducono alla Sule pagoda, trovo cucine di strada. Mi siedo su sgabelli minuscoli tra i veicoli parcheggiati. Mi vengono serviti gustosi piatti tipici: zuppe di vermicelli, ravioli fritti, insalate piccanti di papaia. Gli indiani friggono di tutto, lattuga, uova, melanzane e tortini di farina di ceci e riso. Le interiora di animali sono infilate in spiedini che vengono fatti cuocere in orci pieni di brodo bollente.

Yangon ha ancora molto fascino, anche se il degrado continua implacabile. Lungo i marciapiedi, le lastre di pietra sconnesse lasciano intravedere lo scolo delle acque luride. Sulle facciate elaborate di edifici decrepiti e coperti di muffa resta una traccia di delicati colori pastello. Lungo i muri e sui tetti crescono cespugli e, addirittura, alberi, che lentamente apriranno ferite.

Ho parlato con Kaythi, una signora birmana di Sydney conosciuta in albergo: vuole farmi conoscere suo padre che ha 86 anni e sta scrivendo le memorie degli ultimi 70 anni di storia birmana. Era in marina durante la guerra, poi ha combattuto contro i Karen1. Per molti anni ha lavorato nel commercio marittimo, riuscendo a far emigrare la famiglia in Australia. Oggi ammette che se avessero vinto i Karen la storia del Myanmar sarebbe stata certamente migliore.

Conobbi la popolazione Karen nel 1994, a Pathein, capoluogo della regione di Ayeyarwady, sul delta del fiume Irrawaddy, apprezzando la loro fierezza, l’onestà e l’ospitalità. Ebbi un’esperienza molto bella nel complesso cattolico di S. Peter. Era zona off limits per noi stranieri, vi rimasi per 10 giorni sorvegliata dall’esercito, con la proibizione di uscire dal convento senza la compagnia di almeno due suore.

Ora che è possibile viaggiare nelle regioni un tempo proibite, dove le minoranze sono sempre state ostili alla dittatura, cercherò di scoprire altre realtà.

Bagan, regione Mandalay

MC 1-16 Myanmar1-08Mi trovo davanti alla pagoda più famosa di Bagan, Ananda. Mi fermo a chiacchierare con il ragazzino che sta vendendo bottiglie di benzina per le motorette. Si chiama So. Il nostro è un discorso fatto a gesti. Non conosco il birmano, e lui sa solo poche parole in inglese. Chiedo se mi può scrivere il suo nome. Non può. Non è mai andato a scuola.

Incontrerò ancora bambini lavoratori come lui, efficienti e professionali nelle loro mansioni. So ha 10 anni, cinque fratelli, una mamma semi cieca, il padre non lo ha mai conosciuto.

Una signora in moto si ferma per fare benzina. Si presenta, e mi spiega: la scuola è a pagamento e molte famiglie non possono permettersi la spesa, e nemmeno di rinunciare al lavoro dei bambini. So Mi U mi pare piccolo per i suoi 10 anni. Lo guardo: ha una macchia scura sul volto, i capelli neri sono ritti e corti.

Bagan è zona di interesse storico archeologico, ma l’Unesco non ha approvato i pesanti lavori di restauro fatti dalla giunta militare. I siti protetti del Myanmar sono altri, poco conosciuti e di difficile fruizione. Comunque qui, nascosti nella boscaglia, sorgono alberghi con piscina e campi da golf. Un tempo vi erano le case di bambù, sparse tra le rovine. Vent’anni fa gli abitanti furono spostati nella New Bagan. A ciascuna famiglia fu assegnato un lotto di terreno su cui costruirsi una casa, nulla di più.

All’ostello incontro Valentina e Francisca, due cilene di Santiago. Ambedue laureate in legge e di famiglia palestinese. I genitori, da piccoli, lasciarono i loro villaggi presso Betlemme nel ’47, e vi ritornarono in visita coi figli solo 50 anni dopo. Jessa e il fidanzato, invece, sono originari di un paesino di Vancouver Island, Canada. Insegnanti di inglese, non avendo trovato un impiego in patria, si sono trasferiti in Cina, dove lavorano in una scuola privata.

Ne incontro molti di cinesi o di stranieri che vivono in Cina.

Ngapali, stato Rakhine

MC 1-16 Myanmar1-05Lo stato Rakhine si trova nell’estremo Ovest del Myanmar, al confine col Bangladesh. Il volo fa scalo a Ngapali, località turistica sul mare delle Andamane.

Su Su e Simon sono miei vicini di capanno e mi invitano per un pranzo tipico birmano: zuppa di budi, una specie di zucchino, in brodo di cipolle e zenzero, e pollo fritto alla curcuma. Su Su è nata a Pathein e lavora come infermiera a Londra. Simon è nato nel ‘46 dal matrimonio di un ufficiale di marina inglese, di stanza a Moulmein, capitale dello stato Mon, con una donna birmana. «Avevo sei anni quando ci siamo trasferiti a Londra. Mia madre ha trovato difficile adattarsi alla nuova vita, con quattro figli da allevare senza gli aiuti che aveva in patria». Ora Simon vorrebbe ritornare a vivere a Yangon, ma il lavoro che sa fare, urbanista, è pagato pochissimo.

A Ngapali i terreni vicini al mare sono stati acquistati da cinesi e da grossi gruppi che hanno costruito alberghi di lusso.

Prendo la bici e raggiungo un villaggio di pescatori. La tradizione di fare seccare al sole il pesce piccolo è rimasta limitata a una zona della spiaggia. Vedo scaricare decine di grosse razze e mi unisco al drappello di curiosi. Poi proseguo per il capo che chiude la baia a Sud. Qui attraccano barche che portano passeggeri e casse di pesce molto pesanti. Noto la fatica dei quattro uomini che sollevano le casse. Fatica e povertà non sono cambiate, anche se ci sono alberghi e ristoranti ottimi.

Vedo che si lavora per sistemare le strade e costruire ponti in cemento. Sono molte le ragazzine occupate nei cantieri a spalare ghiaia e trasportare mattoni per 4-5 dollari al giorno.

Conosco Benno, un altornatesino che abita a Bangkok con la moglie, artista cinese. Lì ha fondato una onlus «Aiutare senza confini». Conosce il Myanmar da 15 anni e mi aggioa. Pare che a Mandalay i funzionari governativi corrotti facciano avere ai cinesi documenti falsi per poter comprare proprietà.

Thandwe

MC 1-16 Myanmar1-02Il pick up carico di passeggeri sale nella valle un tempo coltivata a riso. Vedo che hanno costruito una casa di riposo, un campo sportivo e due monasteri. Le giovanissime monachelle e le anziane con il loro abito rosa e la testolina rapata, un tempo erano rare. Credo che i monasteri femminili siano utili come ricoveri per donne anziane e sole, e per giovani orfane. Qualche edificio storico, dal sapore esotico, è rimasto. Scomparso in un incendio il bel mercato di legno nero, dove gentili sartine con grappoli di orchidee sui capelli erano al lavoro nel settore dei tessuti. Ora, in una nuova e anonima struttura in cemento, si vende roba cinese, dai colori sgargianti e fibre sintetiche.

Salgo su una moto taxi e mi faccio portare alla missione cattolica, a un paio di km dal centro. Trovo il parroco, padre Michele, che è appena arrivato dopo la visita ai suoi villaggi.

Quando arrivarono i primi missionari francesi, dedicarono la chiesa a Nostra Sisgnora de la Salette, ed eressero il bel crocifisso sul colle.

Siamo sulla cresta di una serie di colline che si perdono all’orizzonte. Cupole dorate di piccole pagode brillano lontane. La maggioranza dei birmani è buddista, e i missionari portato il vangelo presso le minoranze, da sempre ribelli verso il potere centrale.

Sittwe, stato Rakhine

MC 1-16 Myanmar1-04Il territorio che sorvolo oggi è fatto di estuari, isole di sabbia, meandri di fiumi e rari segni di insediamenti umani. Prima di atterrare noto gli allevamenti di gamberi e una struttura che potrebbe essere un campo profughi. Penso alla comunità musulmana che sta attraversando un periodo drammatico della sua storia nel paese2. La maggioranza buddista dello stato Rakhine discrimina ed emargina le minoranze su base religiosa ed etnica.

Un monaco buddista di Mandalay (Ashin Wirathu, fondatore del movimento «969», riquadro p. 25, ndr), è tra i più violenti sostenitori di tale politica.

Ho l’occasione di incontrare un gruppo di giovani australiane che lavorano nei campi profughi. Quando chiedo notizie dei Rohingya, vedo che i loro visi si rabbuiano e mi correggono subito. Questi islamici perseguitati non vogliono essere chiamati così, il termine per loro è offensivo. Capisco che il tema è delicato e che le ragazze non sono autorizzate a parlarne con estranei. Incontro a cena Laura, un’italiana impegnata anche lei sul campo, qui da tre anni. Mi da alcune informazioni utili, che non trovo su guide e web. Anche gli alberghi usati dagli operatori di Ong sono difficili da trovare, si scoraggiano le visite.

Nelly

Una donna mi invita in casa sua, in un andito chiuso da un’inferriata. Nelly mi fa sedere su un minuscolo sgabello di plastica e si presenta. È un’insegnante, e mi parla della sua vita. Poi si offre di accompagnarmi alla chiesa cattolica di Sittwe. Quando il conducente del risciò si ferma davanti alla scuola di Sant’Anna, Nelly incomincia a recitare il Padre Nostro in inglese. Ho visto le immagini buddiste nella sua casa e la foto di un monaco cui è molto devota, ma il ricordo della Convent school, dove ha studiato da ragazza, la commuove. «Ho pianto quando hanno nazionalizzato le scuole cattoliche (nel 1965, ndr). Mia madre era insegnante, di sangue cinese. Mi aveva mandato a Yangon a studiare dalle suore, ho ricordi felici di quegli anni». Entriamo nella scuola matea, frequentata da bimbi di etnia Chin. Anche le maestre e il parroco sono Chin, come gli orfani che vengono ospitati nel complesso di edifici voluti dai missionari americani 140 anni fa. Anche qui la chiesa è dedicata a N.S. de la Salette.

Mrauk U, stato Rakhine

Per arrivare a Mrauk U, capitale nel secolo 16°, luogo remoto dove sorgono monumenti straordinari ancora poco visitati, ci vogliono quattro ore di navigazione. Arrivo al molo che fa ancora buio. Salgo sul ponte superiore del battello e osservo lo spettacolo dell’imbarco. Le passerelle sono due assi sulle quali la gente passa con carichi incredibili, senza perdere l’equilibrio. Fa freddo, ma mi accoccolo sull’assito del ponte in compagnia di donne e bambini, avvolti da coperte. In lontananza vedo monti azzurri e voli di gabbiani su un fiume ampio che sconfina col mare. Più avanti il fiume si restringe e compaiono delle reti triangolari. I pescatori sono al lavoro, le loro capanne su palafitte e le barche formano un paesaggio sereno. Prendo alloggio in una struttura vecchia ma simpatica, dove incontro viaggiatori come Beate e Volkmar, da tre mesi in giro per il Myanmar. Lui è un fisico di Friburgo. Beate è stata infermiera e ora che è in pensione ha convinto Volkmar a lasciare il lavoro per viaggiare. Ceniamo insieme a Htum Shwe, un ingegnere birmano che ha ereditato il complesso e lo sta trasformando in una pensione. Vive e lavora a Yangon, dove risiede con moglie e figli. Una volta al mese arriva per seguire i lavori. La sua era una famiglia di proprietari terrieri di Sittwe che perse tutto con la riforma socialista.

MC 1-16 Myanmar1-07Pagode a Mrauk U

Vedo le bambine andare al pozzo, caricarsi sul fianco grandi brocche di alluminio. Una di loro ha un viso assorto, bello, con la pasta di tanakha sulle guance. Veste alla marinara, con la casacca bianca e blu che contrasta con la povertà dell’ambiente. Mi indica un colle con la pagoda più bella, Mahabodi swegu. Mi avvio su un sentirnero impervio e raggiungo la pagoda nascosta dai cespugli. Entro e noto le pareti scolpite a fasce, con le storie di Buddha e la vita di villaggio di 400 anni fa. Battaglie, animali, anche un uomo con la testa in giù, come quelli che ho visto scolpiti sulle chiese più antiche in Sardegna. Proseguo per visitare altre pagode e vedo una ragazzina, seduta al bordo della strada sterrata, con un neonato in grembo. Ha una piaga sul viso triste, il suo sguardo sgomento mi dice che non è consapevole del fatto di essere madre, non credo abbia più di quindici anni. Le capanne sono povere e sporche, si cucina sulla terra, si dorme su pavimenti di bambù sollevati da palafitte, tutti insieme. Promiscuità, miseria e ignoranza.

Mrauk U è un cantiere aperto, stanno aprendo alberghi e asfaltando strade, sperando nel turismo. Alle 7 del mattino passano i pick up a prendere le giovani che lavorano nei cantieri. Le più grandi lavorano sulle strade in costruzione, lisciando la graniglia nera con le mani. Con un cappello conico e un bavero sul viso spalano la sabbia e la ghiaia. Gli uomini guidano rumorosi mezzi che sembrano assemblati per gioco.

I templi sono di pietra scura, sembrano fortezze con tanti stupa a campana. Chi arriva qui rimane incantato dai tramonti e dalle albe che si possono ammirare dall’alto dei colli, in un’atmosfera magica.

Claudia Caramanti

(fine prima parte – continua)

In this photograph taken on November 8, 2015, Myanmar opposition leader Aung San Suu Kyi and head of the National League for Democracy (NLD) party casts her ballot at a polling center in Yangon. Myanmar's powerful army chief has congratulated Aung San Suu Kyi's opposition party for winning a majority in the country's historic general election, in a statement released late November 11, 2015 on the military's official Facebook page. AFP PHOTO / STR / AFP / -
Novembre 8, 2015, Aung San Suu Kyi capo del partito National League for Democracy (NLD) vota in una stazione elettorale di Yangon. AFP PHOTO / STR / AFP / –

Note:

1- Il conflitto, che gli esperti definiscono a «bassa intensità», continua a mietere vittime e a causare sofferenza. Tutto è iniziato nel 1949. Dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna, alla fine del secondo conflitto mondiale, il nuovo presidente del paese, Aung San – padre di Aung San Suu Kyi, futuro leader della Lega nazionale per la democrazia (Ndl) e Nobel per la pace – aveva firmato, in accordo con i capi delle diverse comunità etniche che compongono il complesso mosaico birmano, il «Trattato di Planglong». L’accordo offriva a ciascun popolo la possibilità di scegliere – entro il termine di dieci anni – il proprio destino politico e sociale. Questo trattato non è stato mai rispettato da Rangoon (Yangon) perché, dopo un colpo di stato e l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare del generale Ne Win. Così, da sessantasei anni a questa parte, i Karen – un popolo che conta ben sette milioni di persone – imbracciano le armi.

2- Sulla situazione vedi Stefano Vecchia, Quando l’islamofobia è buddhista, MC luglio 2013.