Trent’anni di missione


Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata  per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.

«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.

Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.

Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.

Ma andiamo con ordine.

1994. L’inizio di tutto

«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».

Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.

«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».

Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».

Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.

Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.

1977. Un’infermiera

«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».

Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.

«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».

Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».

1999. Il primo anno

Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.

«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».

Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.

«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.

Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».

2001. E missione sia

Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».

Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».

Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».

Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».

Riflessioni

I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».

Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».

Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.

2006. Il ritorno

Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.

Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.

Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».

In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.

Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».

2024. Nuove idee

Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».

Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».

Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.

«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».

Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.

Marco Bello

 




L’Amazzonia, invasa e avvelenata


Come negli altri paesi, anche in Venezuela nulla sembra fermare la distruzione dell’Amazzonia per mano dell’uomo. È l’attività mineraria illegale a produrre i danni maggiori. Il governo Maduro sembra non avere né la forza né la volontà per cambiare la situazione. Il prezzo di quest’anarchia lo pagano l’ambiente, i popoli indigeni e un esercito di disperati.

Il buco è una voragine gigantesca, profondissima e larga. Una decina di uomini, legati alle corde ma vestiti in modo del tutto inadeguato, sono abbarbicati alle pareti di terra rossa e lavorano di pala per scavare dei gradoni. L’intenzione è di costruire una sorta di via d’accesso alla voragine: non sia mai detto che la natura risulti vincitrice.

La voragine è quello che resta della miniera d’oro a cielo aperto conosciuta con il nome di Bulla Loca («giacimento matto»).

Siamo in località La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana (conosciuta anche come Guayana). Lo scorso 20 febbraio la miniera è franata facendo una trentina di morti tra le centinaia di minatori che vi lavoravano. Minatori illegali di una miniera illegale come moltissime altre. E gli incidenti sul lavoro sono una tragica consuetudine, come quello che il 3 giugno 2023 ha fatto 12 morti a El Callao, sempre nello stato di Bolívar. El Callao è un villaggio la cui vita gira attorno all’estrazione dell’oro: la maggioranza dei suoi 30mila abitanti partecipa direttamente o indirettamente a questa attività. La località è salita alla ribalta delle cronache anche per l’impiego di bambini (addirittura di soli sei anni) nelle sue miniere.

Virgilio Trujillo Arana, indigeno Uwottüja di 38 anni, attivista ambientale, assassinato a Puerto Ayacucho a fine giugno 2022. Foto Orpia-Coica.

Un’invasione senza fine

Dell’Amazzonia venezuelana si parla poco. Eppure, è importante tanto quanto le Amazzonie più conosciute: quelle del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, per esempio. Purtroppo, è anche afflitta dai loro stessi problemi: oltre che dalle attività minerarie, da deforestazione, incendi, inquinamento da mercurio, diffusione della malaria, violazione dei diritti dei popoli indigeni residenti, sfruttamento del lavoro minorile, presenza di gruppi armati.

La regione amazzonica del Venezuela si estende nel Sud del paese attorno al corso del fiume Orinoco (inclusi i suoi affluenti, escluso il delta) e copre quasi interamente gli stati Bolívar e Amazonas più alcune porzioni di altri due (Delta Amacuro e Apure) per un totale di circa 490mila chilometri quadrati (circa metà del Paese, una volta e mezzo la superficie dell’Italia). È abitata da oltre venti popoli indigeni. Secondo il censimento del 2011, gli indigeni sarebbero 54mila in Bolívar e 76mila in Amazonas. Le etnie principali sono i Pemón (30mila), i Uwottüja o Piaroa (20mila), gli Yanomami (15mila) e i Kariña (10mila).

La corsa all’oro uccide

La sfortuna vuole che nel sottosuolo dell’Amazzonia venezuelana si trovino minerali come ferro, bauxite e rame, ma soprattutto oro, diamanti e coltan. Sono questi ultimi tre ad aver scatenato una vera corsa all’attività mineraria, soprattutto quella illegale. Non da oggi, in verità. Da resoconti e cronache dei missionari Cappuccini e dei funzionari dell’epoca, si sa che l’oro venezuelano veniva estratto – con il lavoro forzato degli indigeni – già prima del 1800, e portato in Spagna. Oggi tutti parlano di una presenza di minatori illegali in crescita continua (le stime variano da 50mila a 300mila persone). Una parte importante sono garimpeiros (minatori) brasiliani, soprattutto nell’Alto Orinoco-Casiquiare, straordinaria regione che ospita la Riserva della biosfera dell’Unesco e il Parco nazionale Parima Tapirapeco. Tra l’altro proprio ai minatori brasiliani si deve il massacro di Haximú compiuto nel giugno del 1993 ai danni di un gruppo di Yanomami (anziani, donne e anche bambini) nativi del luogo.

Secondo un rapporto dell’organizzazione ambientalista «Sos Orinoco», molti garimpeiros entrano nella zona con elicotteri e piccoli aerei e – ultima novità – hanno iniziato a utilizzare droni per filmare il territorio. Gli invasori distruggono la foresta per costruire piste di atterraggio e basi operative. In cambio della complicità, la Guardia nazionale venezuelana riceverebbe una parte dei profitti.

«Horonami», l’organizzazione degli Yanomami del Venezuela (162 comunità), ha denunciato che membri della sua popolazione sono stati costretti a lavorare come schiavi dai garimpeiros, che, inoltre, hanno violentato e prostituito donne e ucciso membri delle comunità. Nella loro strategia per arrivare al controllo del territorio rientrano i regali alle comunità indigene: cibo, armi, fucili, machete. Alla gravità della situazione si aggiunge l’indifferenza dello Stato centrale e la complicità dei suoi organi locali, che può anche trasformarsi in violenza diretta.

Nel mese di marzo 2022 c’è stata una disputa tra i militari della base area B7 di Parima e membri della locale comunità indigena, che chiedevano l’accesso al servizio internet. L’alterco si è concluso con la morte di quattro Yanomami. Il tragico episodio riflette tensioni e problemi di una difficile convivenza tra indigeni e non indigeni. A due anni di distanza, la richiesta di giustizia da parte della comunità non ha trovato ancora alcuna risposta da parte delle autorità venezuelane.

Nella vasta regione amazzonica la violenza non è un’eccezione, ma una consuetudine sempre più diffusa. A fine giugno 2022, Virgilio Trujillo Arana, un indigeno Uwottüja di 38 anni, è stato ammazzato con tre spari alla testa a Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas. L’uomo era un attivista ambientale. Nel municipio di Autana era, infatti, coordinatore di un gruppo di difesa indigeno contro le invasioni territoriali e le attività minerarie illegali.

Secondo l’Observatorio para la defensa de la vida (Odevida), «tra il 2013 e il 2021, 32 leader indigeni e ambientalisti sono stati assassinati, 21 dei quali da sicari minerari o membri di organizzazioni di guerriglia colombiane, e 11 da membri delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb)».

Tuttavia, non tutti i popoli indigeni dell’Amazzonia venezuelana affrontano il problema delle minerie allo stesso modo.

I Pemónes, il maggiore gruppo indigeno della regione, vivono nei territori di Sud Est dello stato Bolívar, a ridosso del confine con Brasile e Guyana. Il loro territorio è annoverato tra i più ricchi di oro al mondo e per questo estremamente attrattivo. Già un certo numero di indigeni lavora nelle miniere aurifere, altri chiedono al governo centrale di porre fine allo sfruttamento illegale del loro territorio e di istituire miniere legali sotto controllo Pemón.

Un’immagine dall’alto dell’accampamento cresciuto accanto alla miniera illegale «Bulla Loca» (La Paragua, stato Bolívar), teatro di un tragico incidente lo scorso 20 febbraio. Screenshot da filmato TeleSur.

Dall’anarchia all’«Amo»

Dopo la scomparsa di Hugo Chávez (2013), con la presidenza di Nicolás Maduro il Venezuela è precipitato in una crisi infinita. Anche per far fronte alla perdita di gran parte delle entrate petrolifere, nel 2016 il governo di Caracas ha varato il progetto «Arco minero del Orinoco», noto con l’acronimo di Amo. L’Arco minerario occupa un’area di 111.843 chilometri quadrati di territorio nel Nord e nell’Est dello stato di Bolívar, più grande del Portogallo o di Cuba, 12% della superficie del Venezuela.

Sul sito del ministero (dal nome altisonante: Ministerio del poder popular de desarrollo minero ecológico), gli obiettivi propagandati sono «pace, protezione ambientale e prosperità economica» da raggiungere attraverso il «controllo della catena produttiva mineraria» con «una delimitazione delle aree minerarie e la protezione delle zone sacre ancestrali».

A questa narrazione edificante si contrappone una realtà molto diversa. Come riassume «Sos Orinoco»: «I risultati sono stati catastrofici sia per la regione che per la sua popolazione e gli ecosistemi. Avrà effetti tragici e duraturi – forse irreversibili – in Venezuela e oltre i suoi confini». Se è vero che queste critiche sono fatte da un’organizzazione antigovernativa, è altrettanto vero che altri arrivano alle stesse identiche conclusioni. In particolare, Wataniba, gruppo socioambientale venezuelano, la Chiesa cattolica e la Repam (Red eclesial pan amazónica).

A oggi, nell’Amazzonia venezuelana vige l’anarchia con le mafie e i gruppi armati illegali a dettare legge. Gli investitori stranieri millantati da Maduro («35 paesi sono interessati», aveva assicurato il presidente) sono rimasti lontani. Anche la Cina – specialista in business strategici – e sempre privilegiata dal governo di Caracas è rimasta cauta. In compenso, la distruzione ambientale e l’avvelenamento da mercurio si sono diffusi andando ben oltre i confini teorici dell’Arco minero.

Oggi tutti i parchi e le aree protette dell’Amazzonia venezuelana sono sotto attacco. Come il Parque nacional cerro Yapacana (Amazonas) che, a fine 2023, è stato oggetto di una propagandata operazione – nota come Operación Autana – da parte delle Forze armate bolivariane con questi risultati ufficiali: 86 miniere sotterranee chiuse, 241 imbarcazioni sequestrate, 4.450 villaggi improvvisati distrutti, 14mila persone espulse. Tuttavia, come fossero vasi comunicanti, liberata una zona, il problema si ripresenta in un’altra, passando – ad esempio – dal Parco Yacapana a quello di Canaima (Bolívar).

Come quasi sempre accade, la ricchezza di un luogo naturale è anche la sua dannazione perché attrae appetiti umani senza limiti ed eserciti di poveri disposti a tutto pur di cambiare la propria esistenza. Succede in tutta l’Amazzonia e quella del Venezuela non fa eccezione.

Paolo Moiola

L’impressionante devastazione ambientale prodotta dall’attività mineraria illegale attorno a La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana. Screenshot da filmato TeleSur.

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

 


Dall’umiliazione alla dignità

Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.

È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.

Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.

La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.

Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.

«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.

Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.

Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.

Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.

Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.

Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.

Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.

Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).

Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.

Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.

José Auletta
missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024

PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria

La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.

Non è possibile. Non K’Okal.

Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.

«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez.  I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.

Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.

Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.

«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.

Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».

Marco Bello
Torino, 19/01/2024

Una risata indimenticabile

Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).

Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.

Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.

Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.

Paolo Moiola
Torino, 19/01/2024


ICE, Iniziative dei Cittadini Europei

Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.

Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.

A questo proposito mi riferisco  al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?

La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).

L’altra è «Dignity in Europe, per garantire un’accoglienza dignitosa dei migranti in Europa».

L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.

Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.

Penso che anche questi strumenti  possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.

Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.

Giovanna Golzio
02/01/2024

 

Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.

Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).


Dossier sul Canada

Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.

Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.

Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada

Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.

Ghislaine Crête,  03/01/2024, Montreal, Canada




Venezuela. Qui non funziona niente… però c’è il sole!


Suor Mara mi sta portando in auto a celebrare la messa in una comunità. Viaggiando comincia a elencare tutte le cose che non funzionano in Venezuela, e sono tante. Alla fine, però, conclude che almeno c’è il sole. È la sintesi dello spirito venezuelano e l’anima che tiene ancora in piedi questo popolo.

Da sette anni il Venezuela vive una grave crisi economica. Il crollo del prezzo del petrolio e la corruzione della classe politica hanno spinto più di cinque milioni di persone ad andarsene. La situazione è paragonabile a quella dei paesi che hanno attraversato un conflitto armato.

Le politiche economiche della cosiddetta rivoluzione bolivariana che, in un primo momento, avevano suscitato enorme entusiasmo nella popolazione venezuelana, a poco a poco hanno dimostrato la loro follia portando al collasso l’economia.

Allo stesso tempo, la mancanza di trasparenza politica e gli attacchi all’opposizione democratica hanno indotto gli Stati Uniti e l’Europa a imporre pesanti sanzioni, che hanno peggiorato ulteriormente la situazione.

A causa della fame che dilagava in tutto il Paese, la gente ha cominciato a lasciare il territorio nazionale con tutti i mezzi a sua disposizione, raggiungendo quasi sei milioni di sfollati economici.

Durante la pandemia, il governo ha dovuto fare alcune concessioni al settore privato, come la possibilità di libera importazione e vendita di molti prodotti. Questo ha contribuito a ridurre le enormi carenze, senza tuttavia risolvere il problema a causa dei prezzi in dollari degli stessi.

In questa situazione il governo ha cominciato ad accettare di dialogare con l’opposizione politica e ha aperto diversi tavoli negoziali in Messico e alle Barbados.

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – distribuzione agli adulti

Le guerre cambiano le cose

Gli scenari di guerra, soprattutto quelli in Ucraina e in Israele e Palestina, hanno contribuito anch’essi ha cambiare il panorama. L’embargo petrolifero imposto alla Russia, il pericolo di un’escalation di violenza in Medio Oriente hanno costretto le potenze occidentali a ridurre le misure che avevano adottato, portando, in un certo senso, un sollievo a tutto il Venezuela.

Infatti, le compagnie internazionali possono nuovamente estrarre il petrolio nel Paese, ed è così che la Repsol spagnola, l’Eni italiana e la Total francese sono  nuovamente presenti con la Chevron statunitense, che non ha mai lasciato il territorio. C’è stata quindi un’iniezione di denaro nelle casse del Paese che ha portato una ventata di sollievo economico.

Questo fa sperare che nel prossimo futuro ci sarà una leggera crescita.

Al momento, il miglioramento non si percepisce ancora, e gli stipendi di tutti rimangono molto bassi, però la riduzione delle sanzioni fa sperare in un prossimo cambiamento.
Tornando all’esodo dei venezuelani, di carattere essenzialmente economico, è prevedibile che con il miglioramento delle condizioni di vita, esso possa diminuire, ed è addirittura prevedibile che alcuni ritorneranno.

In effetti, il responsabile degli aiuti umanitari in Venezuela, in un recente incontro con imprenditori, ha sottolineato che più di 300mila venezuelani sono già tornati nel territorio nazionale e ora stanno lavorando per avere le condizioni minime per non essere costretti a ripartire.

Tutto ciò, insieme al fatto che quest’anno ci dovrebbero essere le elezioni presidenziali, ci fa sognare che un barlume di speranza possa risplendere sul Venezuela. Questa è l’attesa di tutti coloro che lavorano perché in questo Paese ritorni la pace, la crescita e la giustizia.

Intanto, nel novembre 2023, il portale digitale del quotidiano El Nacional, contrario al governo di Nicolás Maduro, ha riferito che il flusso migratorio venezuelano, che stava arrivando in Messico attraversando diversi paesi tra cui la terribile giungla del Darién a Panama, era diminuito del 66%.

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – distribuzione agli adulti

La Chiesa

La Chiesa cattolica in Venezuela conta circa 25 milioni di fedeli pari al 90% della popolazione. L’evangelizzazione del territorio cominciò agli inizi del XVI secolo contemporaneamente al processo di conquista coloniale da parte della Spagna.

Con lo Stato al collasso, l’assistenza ecclesiastica resta per molti l’unica àncora di salvezza. Aiutando i poveri, la Chiesa tiene in vita quel sostrato di umana solidarietà senza la quale non c’è riscatto.

Ha raccontato il cardinale Baltazar Porras, arcivescovo di Caracas: «Si pensa che il nostro sia un Paese ricco, mentre invece è solo il Governo a essere ricco, non la gente. In questo momento attraversiamo una grave crisi, con grandi povertà e miseria in tutto il Venezuela, e anche noi preti e vescovi dobbiamo aiutare la popolazione a non perdere la speranza. A differenza di quello che accade in Europa, qui avviene una rinascita della fede, perché nella crisi e nella sofferenza abbiamo bisogno di Dio per lavorare in favore del bene comune e della dignità delle persone. Questo fa sì che abbiamo una vita ecclesiale ricca e gioiosa». In una lettera scritta alla conclusione della Conferenza episcopale del luglio 2021, i vescovi così scrivevano: «Quando un’ideologia prende il sopravvento come sistema di potere che viola i diritti umani e rifiuta la dignità delle persone, essa genera ingiustizia e violenza istituzionale».

I vescovi sottolineano tre realtà specifiche nella dolorosa situazione del Paese, esacerbate dalla pandemia: «Lo smantellamento delle istituzioni democratiche e delle imprese statali; […] il drammatico esodo dovuto all’emigrazione forzata di quasi sei milioni di compatrioti espatriati per mancanza di opportunità di sviluppo nel Paese [e] la povertà della grande maggioranza del nostro popolo». Particolare enfasi è stata messa sulla malnutrizione dei bambini e sulle situazioni di ingiustizia vissute dagli anziani. I vescovi aggiungono che, oltre a questi aspetti, «ci sono i danni psicologici, morali e spirituali vissuti dai venezuelani nel dramma che stiamo vivendo».

«Ciò che è veramente in gioco, in mezzo a tutto questo deterioramento, è – scrivono ancora – la persona umana nella pienezza della sua vocazione». Per questo concludono invitando i cristiani a fare attenzione perché «c’è un obiettivo di fondo: trasformare l’essere umano, creato da Dio come un essere libero e responsabile, in un semplice esecutore».

Poveri per le vie di Carapita a Caracas

Appello a non mollare

Poveri per le vie di Carapita a Caracas

Nella lettera della Conferenza episcopale (Cev) oltre la denuncia è forte anche il richiamo alla necessità di «continuare a lavorare per la comunione, la pace e il benessere materiale e spirituale del nostro popolo» e l’appello a tutti i settori del Paese perché facciano la loro parte nella ricerca del bene comune. «Che nessuno si senta escluso». Nell’esortazione, spiegano che la «rifondazione della nazione» implica l’inclusione degli svantaggiati, la promozione del dialogo, la promozione della famiglia e dell’educazione e «il rinnovamento dei partiti politici». Insieme ai già noti problemi in ambito sociale, economico e politico c’è la fragilità del sistema democratico venezuelano e le molteplici difficoltà a partecipare alle elezioni viste le intimidazioni e l’estromissione dei candidati.

Monsignor González de Zarate, attuale presidente della Conferenza episcopale e Arcivescovo della diocesi di Cumanà, spiega: «Di fronte a questo panorama, la Chiesa fa un ripetuto appello agli attori politici perché cerchino percorsi di rinnovamento e di partecipazione, percorsi di inclusione sociale in risposta ai grandi bisogni del nostro Paese». Riguardo alla situazione economica che vede una ripresa, il presidente dei vescovi parla di un «miglioramento apparente», perché larghi strati della società restano esclusi e, anzi, sottolinea che una causa dell’esodo venezuelano è «la mancanza di opportunità che costringe le persone a lasciare il Paese», cosa che «crea una grave crisi familiare perché gli adulti in età produttiva viaggiano, lasciando spesso gli anziani e i bambini soli in situazioni precarie».

Non c’è dubbio che la Chiesa venezuelana abbia accompagnato il popolo in questa drammatica situazione. Gli ostacoli per essa sono stati gli stessi di quelli «vissuti quotidianamente da tutto il popolo venezuelano». Oggi per la Chiesa è molto più difficile compiere la sua missione – ha spiegato monsignor González de Zarate – perché ci sono problemi di insicurezza. Tuttavia continua a servire specialmente i più poveri ed esclusi come meglio può. «Con le sue esortazioni – ha concluso il presidente dell’episcopato – vuole illuminare questa realtà a partire dai valori del Vangelo, della solidarietà, della giustizia e della libertà, in modo inclusivo, con la partecipazione di tutti».

I Missionari della Consolata

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – la cura dei bambini

I nostri missionari continuano la loro missione con una presenza semplice e consolante, molto apprezzata dalla gente e anche dalla Chiesa locale. La missione in terra venezuelana è caratterizzata dalla presenza nella periferia della capitale con una parrocchia, Carapita, in ambiente povero e popolare, e con la casa della delegazione che è la casa di accoglienza. A Barquisimento continua il Centro di animazione missionaria e vocazionale, mentre Barlovento è una missione tra afrodiscendenti. Infine, siamo nel delta del rio Orinoco con il popolo indigeno warao con una presenza nella città di Tucupita per accompagnare gli indigeni residenti in città e una sul fiume, a Nabasanuka.

La missione in questo tempo così politicamente e socialmente complicato è caratterizzata anche dal supporto alimentare ai più poveri e abbandonati. Ogni giorno nelle diverse comunità i nostri missionari distribuiscono cibo a 400 – 600 persone.

In fila per ricevere un pasto dal programma di aiuto della parrocchia di Carapita – distribuzione agli adulti

Un’esperienza che ho potuto fare una domenica sera è stata quella di unirmi al gruppo giovani di Caracas e, insieme ad alcuni missionari, visitare i poveri e i senza tetto lungo le strade della città condividendo con loro una «arrepita» e una bevanda calda fatta di latte in polvere e avena. Un’esperienza molto commovente, caratterizzata dall’incontro personale con uomini e donne concrete. Il gruppo non si limita a dare del cibo ma si rende disponibile all’incontro, al dialogo, allo scambio e condivisione fraterna, e anche alla preghiera. Ogni incontro permette uno scambio di parole e di consolazione che danno al povero pasto colore di cielo. Qui ci sono tante storie di sofferenza, tanti sogni non ancora realizzati, tante realtà negate; ma c’è anche il profumo del crisma, ci sono i segni del Messia, di colui che prende su di sé le sofferenze degli altri.

Tornando alla missione quella sera, mi sono commosso perché non siamo andati a fare la predica su Gesù, ma l’abbiamo incontrato nella sua Parola e nella sua carne: in quei volti che ho incrociato, in quelle mani che ho stretto, in quelle case che mi hanno ospitato. Non abbiamo fatto una buona azione, ma siamo andati a incontrare lo stesso Gesù che abbiamo incontrato nella celebrazione dell’Eucaristia e nell’ascolto della Parola alla Messa della mattina. E poi, se non c’è la strada non c’è Vangelo, perché noi non possiamo annunciare una notizia bella, non possiamo dire che i sogni si realizzano se non ci mettiamo in strada. E il Vangelo non è mai astratto. Mai come in questo caso il Vangelo è la strada.

Speriamo che il sole continui a risplendere anche per la povera gente di questo paese meraviglioso.

Stefano Camerlengo




L’attesa infinita. Migranti venezuelani (in Guatemala)


Vivono per le strade della capitale guatemalteca aspettando di trovare i soldi o l’opportunità per tentare (o ritentare) l’entrata negli Stati Uniti. Sono i migranti venezuelani le cui storie vengono raccontate in queste pagine.

Città del Guatemala. Josué cammina lentamente tra un semaforo e l’altro dell’incrocio tra la sesta e la decima avenida, nella zona pedonale del centro storico della capitale guatemalteca. Sta lì tutto il giorno e, quando il sole picchia forte nelle ore più calde cerca un po’ di riparo all’ombra di qualche edificio.

Ha 22 anni e la sua maglietta rossa, gialla e blu, con otto stelle sulla manica, non lascia spazio a dubbi sulle sue radici venezuelane. Sulla schiena, a caratteri cubitali, c’è scritto il suo nome. «Josuè» spicca sul tessuto come una tacita affermazione di identità che il giovane non intende nascondere.

I suoi occhi chiari tra le folte ciglia fissano la terra per la maggior parte del tempo. Di tanto in tanto, quando allunga la mano verso qualche passante, Josué solleva il volto mostrando uno sguardo un po’ imbarazzato.

Il ragazzo trascorre le sue giornate a chiedere l’elemosina. Ogni tanto qualcuno gli dà un quetzal (circa undici centesimi di euro), ma la maggior parte dei passanti lo evita, spesso con espressioni disgustate sul volto.

Josue, che non nasconde né il proprio nome né la provenienza, è uno dei protagonisti di questo reportage; qui tiene in braccio il figlioletto davanti alla vetrina di Burger King, a Città del Guatemala. Foto Simona Carnino.

Il wi-fi di Burger King

Carolina ha 18 anni da poco ed è la moglie di Josué. Ogni tanto gli dà il cambio all’incrocio della strada, ma per la maggior parte del tempo si ripara dal sole seduta sul gradino della vetrina di un Burger King della sesta avenida con il loro bambino di un anno e mezzo seduto sulle gambe.

È impegnata a intercettare il wi-fi gratuito della grande catena di fast food perché è tanto che non parla con sua madre e vorrebbe salutarla e raccontarle come sta.

A pochi metri di distanza ci sono Alonso, 29 anni, ex grafico, e Jona, 27 anni, ex studente di ingegneria petrolifera. Parlano della loro vita al passato remoto e aggiungono il prefisso «ex» prima di tutti i lavori e gli studi che hanno fatto, come se le esperienze precedenti, che dovrebbero essere la base per costruire il loro futuro, non esistessero più.

Poco più avanti, una ragazza che ha deciso di non parlare della sua storia, è in piedi all’angolo tra la sesta e la nona avenida e regge un cartello in mano che dice così: «Ho bisogno di aiuto per tornare in Venezuela».

Un mondo nella valigia

Da Josué a Carolina, passando per Alonso e la ragazza con il cartello, tutti condividono lo stesso destino.

Sono giovani migranti venezuelani, bloccati in Guatemala perché senza soldi per continuare il viaggio verso gli Stati Uniti o, eventualmente, tornare a sud, in Venezuela o in altri paesi dell’America Latina.

Dopo mesi trascorsi a viaggiare per raggiungere la meta si fermano per racimolare le risorse economiche necessarie ad andare avanti, o, come la ragazza che non ha più le forze né fisiche né mentali, per tornare indietro.

Sono senza permesso di soggiorno, senza casa e di solito viaggiano con una valigia a testa in cui racchiudono tutto il loro mondo.

Nella situazione di irregolarità migratoria, non hanno la possibilità di ottenere un lavoro né regolare né decorosamente pagato, per cui alcuni provano a vendere caramelle, accendini, braccialetti e bevande in strada, ma la maggior parte di loro chiede l’elemosina in varie parti della città, sul sagrato delle chiese o di fronte alle stazioni dei bus che portano fino alla frontiera con il Messico. Sperano di raccogliere abbastanza denaro per continuare il loro viaggio, perché l’idea di chiedere asilo in Guatemala, uno dei paesi da cui parte il maggior numero di migranti verso gli Stati Uniti, non li sfiora nemmeno.

«Viviamo per strada, ma una volta a settimana ci concediamo una notte in una piccola pensione, qui in centro. Chiedendo l’elemosina riusciamo a fare circa 100 quetzales al giorno (11 euro, ndr) e non bastano per l’alloggio, il cibo, i pannolini per il bambino o per pagare il coyote per passare la frontiera tra Guatemala e il Messico – spiega Josué -. Attraversare il fiume al confine con il Guatemala costa 50 dollari a persona e ne servono molti di più per arrivarci. Siamo qui da un mese e abbiamo appena messo da parte i primi 50 dollari. Ne mancano altri 100».

Josué e Carolina si sono conosciuti in Ecuador, quando dal loro punto di vista non c’erano più motivi per restare in Venezuela. «I nostri genitori non riuscivano a mantenere la famiglia – racconta Josué -. E io stesso non andavo né a scuola né riuscivo a trovare un lavoro che mi permettesse di guadagnare a sufficienza. L’inflazione là è altissima e anche se lavori, ti sembra di non guadagnare nulla».

Più di 7,7 milioni di venezuelani sono fuggiti dal loro paese negli ultimi anni a causa dell’instabilità economica e politica che, di fatto, ha costretto molte persone in una spirale di povertà estrema. La maggior parte dei migranti si è rifugiata in Colombia, Perù, Ecuador o Cile, ma negli ultimi anni, a causa della pandemia e della crisi economica che ha colpito anche questi paesi, molti venezuelani hanno deciso di lasciarsi alle spalle la vita precaria che conducevano nei paesi latinoamericani per provare la fortuna negli Stati Uniti (riquadro a pag. 54).

Carolina mostra sul cellulare la foto della propria famiglia dopo l’attraversamento della foresta del Darién. Foto Simona Carnino.

Il ricordo del Darién

Improvvisamente Carolina intercetta il segnale wi-fi del Burger King e mostra con orgoglio la foto che si sono scattati all’uscire vivi dalla giungla del Darién dopo giorni di cammino tra fango e burroni.

Quel punto del percorso migratorio è tra i più pericolosi di tutto il viaggio, a causa sia delle difficoltà naturali come le paludi, che rendono faticoso e spesso mortale il cammino, sia della presenza di bande criminali che assaltano i migranti derubandoli di tutti i loro averi.

Carolina ora sorride perché, proprio ricordando l’interminabile fatica che hanno vissuto sulla propria pelle nel Darién, è convinta che la parte più difficile del loro viaggio sia passata.

Non hanno più soldi né forze, ma nessuno è riuscito a privarli della speranza.

Sono partiti dall’Ecuador nel dicembre 2022, hanno attraversato la Colombia, la giungla del Darién, Panama, Costa Rica (dove sono rimasti alcuni mesi a lavorare), Nicaragua, Honduras e alla fine sono arrivati in Guatemala a maggio del 2023.

«Abbiamo visto persone annegare nel fango del Darién perché non avevano più forze per andare avanti, altre sono scivolate nei dirupi e sono sparite per sempre. Noi siamo stati fortunati e siamo sopravvissuti – racconta Carolina -. So che il Messico è pericoloso, perché i narcos e la polizia cercano sempre di derubarti, ma sono sicura che noi riusciremo ad arrivare negli Stati Uniti».

I muri da superare

Carolina parla con l’entusiasmo di chi forse non sa che il Guatemala, così come il Messico, gioca il ruolo di muro per i migranti diretti negli Stati Uniti senza visto, via terra. Da molti anni, il Messico viene considerato un’estensione della frontiera degli Stati Uniti, e le oltre cinquanta stazioni migratorie sparse sul territorio nazionale sono un ostacolo che i migranti conoscono bene e provano a evitare. Si avventurano in percorsi più precari dove spesso vengono intercettati da gruppi criminali che li derubano o li sequestrano.

Il Guatemala, invece, era stato elevato a «terzo paese sicuro» da un accordo firmato nel 2019 tra l’ex presidente Trump e l’ex presidente guatemalteco Jimmy Morales.

L’accordo permetteva di deportare nel paese centroamericano le persone salvadoregne e honduregne che si presentavano alla frontiera degli Stati Uniti e che non avevano richiesto asilo politico in Guatemala, considerato – appunto – abbastanza sicuro per accogliere richiedenti asilo. Di fatto l’accordo estendeva ancora di più le frontiere degli Stati Uniti che, in questo modo, riuscivano a delegare al Guatemala la gestione di un immenso numero di migranti, creando un enorme primo posto di blocco.

L’accordo è stato revocato nel 2021, ma il Guatemala continua a gestire una politica migratoria di contenimento.

Nel 2022, il paese centroamericano ha respinto 15.593 venezuelani e 2.555 nicaraguensi, cubani e haitiani. Ogni giorno la polizia nazionale guatemalteca detiene ed espelle decine di migranti, per lo più venezuelani.

Deportazioni

Muro dopo muro, deportazione dopo deportazione, gli Stati Uniti sono diventati un miraggio per Alonso e Jona che condividono l’incrocio tra la sesta avenida e la decima strada con la famiglia di Carolina e Josué. «Ho perso il conto di quante volte siamo stati deportati – ridono nervosamente Alonso e Jona -.

Un anno e mezzo fa abbiamo lasciato il Cile dove stavamo vivendo da alcuni anni. Arrivati fino alla frontiera Usa, la polizia statunitense ci ha beccati e deportati a Panama. Da lì siamo andati in Costa Rica e abbiamo provato a lavorare, ma non guadagnavamo abbastanza, così abbiamo deciso di migrare nuovamente. La polizia guatemalteca ci ha intercettato una prima volta e portati in Honduras. È la seconda volta che siamo qui e speriamo che non ci deportino di nuovo. Tornare in Venezuela è fuori discussione, per cui, se tutto va bene, resteremo in Guatemala finché non riusciremo a racimolare i soldi che ci servono per andare avanti».

La Casa del migrante

Dall’altra parte del centro storico, Leidy (nome di fantasia), 41 anni e madre single di un bambino di otto anni con disabilità mentale, è appena arrivata alla «Casa del migrante» dei missionari scalabriniani. Prevede di attraversare il Messico in poche ore. Lei ha ancora qualche soldo per finanziare il viaggio verso il Nord America e non pensa di rimanere in Guatemala neanche un giorno in più.

«Appena arriveremo alla frontiera degli Stati Uniti, farò richiesta per entrare nel programma di accoglienza speciale dedicato alle persone venezuelane», dice Leidy, dimenticandosi, o forse ignorando, che non ha i requisiti necessari per fare domanda.

Infatti, l’iscrizione al programma di accoglienza rivolto ai nicaraguensi, haitiani, cubani e venezuelani è aperto solamente a trentamila persone al mese che hanno negli Stati Uniti uno sponsor in grado di garantire loro un lavoro, una volta raggiunto il Paese per via aerea.

Non sono ammessi al programma coloro che si presentano alla frontiera terrestre, né tantomeno chi viene sorpreso dalla Border patrol (la polizia di frontiera statunitense), mentre cerca di attraversare il confine in modo irregolare.

«Non ho uno sponsor negli Stati Uniti, ma mio figlio è malato e sono certa che ci accetteranno», dice Leidy, che per mesi ha attraversato una frontiera dopo l’altra a piedi, a volte con l’aiuto di un coyote pagato ad alto prezzo, ma di certo mai con un regolare visto d’ingresso.

«Il Venezuela è bellissimo»

Come Leidy, centinaia di venezuelani, soprattutto famiglie, arrivano a Città del Guatemala di sera. Molti chiedono di poter avere un pasto caldo e un letto alla Casa del migrante.

Alcuni arrivano con evidenti ferite ai piedi e vesciche, altri con la febbre e la bronchite, tutti hanno bisogno dei servizi dell’infermeria del rifugio.

All’alba svaniscono come un sogno. Perché vogliono proseguire il viaggio; con i bambini che possono camminare al loro fianco e i più piccoli avvolti in una coperta legata sulla schiena.

«Il flusso migratorio in transito proviene principalmente dal Venezuela – spiega Elena Zamin, volontaria della Casa del migrante -. Riceviamo una media di tremila persone al mese e il 75% di loro sono venezuelane, ma questa è solo una piccola percentuale di tutti quelli che arrivano giornalmente a Città del Guatemala. Molti dormono per strada, vicino al mercato La Terminal. La maggior parte di loro è senza soldi perché, prima di arrivare qui, sono stati assaliti numerose volte anche dalla polizia guatemalteca».

Più di 250mila persone hanno attraversato il Darién tra gennaio e luglio 2023, un numero superiore a quello dell’intero 2022. Il 55% di loro sono venezuelani diretti negli Stati Uniti per i quali l’America Centrale e il Guatemala sono un passaggio obbligato.

Intanto, mentre Leidy si assicura che il suo bambino riposi tranquillamente in un letto della Casa del migrante prima di riprendere il viaggio all’alba, Josué abbraccia suo figlio e si siede vicino a Carolina davanti Burger King.  Poco più avanti, Alonso tiene la bandiera venezuelana sulle spalle, con l’aria fiera di chi, nonostante tutto, non riesce ad abbandonare l’orgoglio nazionale: «Il Venezuela è bellissimo. Ci sono spiagge, le Ande, Maracaibo e il páramo. Non siamo scappati da questo, ma da chi ci ha governato o ci vuole governare. Queste persone ci hanno condannato alla fame ed è questo il motivo per cui ora siamo qui in strada in un paese straniero».

Poi ci lascia il suo numero di telefono guatemalteco per metterci in contatto con lui prima di legarsi la bandiera e scompare dietro un angolo.

Diventare invisibili

Settimane dopo il telefono di Alonso suona a vuoto. Sembra sparito o, forse, ha semplicemente lasciato il Guatemala, dopo aver risparmiato i soldi sufficienti a pagarsi un bus verso la frontiera con il Messico e un coyote per attraversare il fiume. O forse, come nei suoi peggiori incubi, è stato deportato nuovamente verso sud. L’unica cosa certa è che, nell’invisibilità in cui sono costretti i migranti in tutto il mondo, di lui, così come di Carolina e tutti gli altri, non c’è più traccia.

Simona Carnino


Stati Uniti / Migranti sul confine meridionale

Pressione continua, soluzioni difficili

Nel solo mese di settembre, sul confine sud degli Stati Uniti, sono stati oltre 210mila i migranti senza permesso fermati dalle autorità statunitensi. Per comprendere meglio il dato e avere un termine di paragone: in più di dieci mesi (da gennaio al 9 novembre), gli sbarchi di migranti in Italia sono stati pari a 144.889 persone. Tra quei 210mila si sono contati oltre 50mila venezuelani. In precedenza, questi preferivano trovare riparo nei paesi più vicini (Colombia, Perù, Ecuador, Brasile), anche per evitare il pericoloso attraversamento del Darién. D’altra parte, la fuga dal Venezuela ha assunto connotati biblici: secondo R4V (una piattaforma di coordinamento), sarebbero addirittura 7,7 milioni le persone espatriate (rifugiati, migranti e richiedenti asilo).

La condizione dei migranti venezuelani è particolare, a causa della mancanza dal 2019 di relazioni diplomatiche ufficiali tra il governo di Caracas e quello di Washington. Pertanto, mentre gli Stati Uniti possono rimpatriare migranti illegali (300mila tra maggio e ottobre 2023, secondo fonti ufficiali) verso paesi dell’America Centrale e di altre parti del mondo, il Venezuela non accettava deportazioni ufficiali. La situazione è cambiata dallo scorso ottobre, dopo un accordo tra i governi dei due paesi. In base ad esso, il 18 dello stesso mese dal piccolo aeroporto di Harlingen, in Texas, è partito per Caracas un primo aereo con a bordo 131 venezuelani espulsi dagli Stati Uniti.

A settembre, per alleggerire la pressione sulle casse delle città che accolgono i migranti (New York, Chicago e Denver, in primis), il presidente Biden aveva offerto lo status di protezione temporanea (Temporary protected status, Tps) a circa 472mila venezuelani negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali entrata dal confine meridionale. La mossa consentirà ai venezuelani arrivati prima del 31 luglio di richiedere permessi di lavoro e protezione contro l’espulsione.

Peraltro, il governo di Nicolás Maduro rifiuta la definizione di «rifugiati» per i migranti venezuelani, come ha spiegato in una riunione della Unhcr il viceministro Rubén Dario Molina. I venezuelani usciti dal paese lo hanno fatto per cause economiche e queste sono state prodotte dalle oltre 900 misure coercitive unilaterali adottate contro il Venezuela. La questione dei migranti non può essere utilizzata per fini politici e mediatici (Correo del Orinoco, 10 ottobre 2023). Anche le cifre sono molto diverse: secondo il governo latinoamericano, i venezuelani emigrati (per ragioni economiche) sarebbero due milioni e di questi la metà sarebbe già rientrata usufruendo del programma Vuelta a la patria («Ritorno in patria»).

Per quanto riguarda gli Usa, nel corso del 2023 sono state anche ampliate le funzioni di una app per cellulari sviluppata dalle autorità della Customs and border protection (Cbp) e denominata «Cbp One» attraverso la quale i migranti senza documenti d’entrata negli Usa possono ottenere informazioni e soprattutto chiedere un appuntamento con le autorità statunitensi presso posti di frontiera prestabiliti sul confine meridionale. Sul sistema sono piovute svariate critiche, non ultima quella secondo la quale gli appuntamenti sono appannaggio di coloro che hanno i telefoni migliori o una connessione adeguata.

Al momento la cosa certa è che l’arrivo in massa di migranti dal confine sud del paese sta mettendo in gravi difficoltà Joe Biden, che su questo tema si giocherà la possibile rielezione nel novembre del 2024.

Paolo Moiola

Con la bandiera venezuelana sulle spalle, Alonso chiede l’elemosina per continuare il suo viaggio.. Foto Simona Carnino.




Venezuela. Una distrazione chiamata Esequibo

L’oggetto del contendere si chiama Esequibo. È un territorio di 159mila chilometri quadrati ricchi di risorse naturali e forestali. Scarsamente abitato (125mila persone), ospita vari gruppi indigeni: Sarao, Arawako, Kariña, Patamuná, Arekuna, Akawaio, Wapishana, Makushi, Wai Wai e Warao. Costituisce due terzi della superficie della Guyana, paese che è stato una colonia britannica fino al 1966. Il Venezuela reclama l’Esequibo come proprio e per questo ha indetto un referendum consultivo per il prossimo 3 dicembre.

Un’immagine dell’Esequibo (oggi appartenente alla Guyana), grande territorio con risorse naturali (sopra e sotto), abitato da popoli indigeni. Il Venezuela lo reclama come proprio. Giusta rivendicazione o furba distrazione? (Immagine da cuatrof.net)

Quella dell’Esequibo è una disputa vecchia di quasi due secoli. Tuttavia, la sua recrudescenza proprio in questo periodo di grave crisi – economica, sociale, politica – per il paese venezuelano induce a ritenere che la questione sia utilizzata dal governo di Nicolás Maduro come «arma di distrazione di massa». Anche se gli ultimi eventi hanno aperto – o parevano aver aperto – piccoli ma significativi squarci di ottimismo nella complicata vicenda venezuelana.

Nicolás Maduro conduce un proprio programma – «Con Maduro+» – sulla televisione statale. (foto Prensa presidencial – Correo del Orinoco)

Infatti, lo scorso 17 ottobre, a Barbados e sotto gli auspici della Norvegia, governo di Caracas e opposizione hanno raggiunto un accordo sul percorso per garantire che le elezioni presidenziali del 2024 siano libere e democratiche. In risposta a questo passo, l’amministrazione Biden ha immediatamente allentato le sanzioni sul settore petrolifero venezuelano autorizzando il paese, membro dell’Opec, a produrre ed esportare petrolio nei mercati prescelti per i prossimi sei mesi e senza limitazioni. Una potenziale, enorme boccata d’ossigeno per le esangui casse pubbliche di Caracas.

Il 22 ottobre si sono poi tenute le primarie dell’opposizione, alle quali – secondo i dati degli organizzatori – avrebbero partecipato 2,5 milioni di venezuelani. Ne è risultata vincitrice la dama de hierro (la signora di ferro) Maria Corina Machado (56 anni, tre figli, ex deputata di destra, ingegnere) con quasi il 93 per cento dei voti.

Maria Corina Machado, vincitrice delle primarie dell’opposizione tenute lo scorso 22 ottobre. (Foto da diarioelregionaldelzulia.com)

Le cose si sono però subito complicate: prima con la conferma di una sentenza di inabilitazione per la Machado a ricoprire cariche pubbliche per 15 anni e la conseguente esclusione dalle elezioni del 2024 e poi (il 30 ottobre) con la sospensione del risultato delle primarie da parte del Supremo tribunale del Venezuela per violazioni elettorali, crimini finanziari e cospirazione. In questo quadro generale già confuso, è arrivata la deflagrazione della contesa con la Guyana per l’Esequibo.

I media venezuelani stanno dando molto rilievo alla questione Esequibo.

Come avviene per quasi tutte le questioni internazionali in questa difficile epoca storica, anche in Venezuela le situazioni paiono cristallizzate. Lo confermano anche le risposte ricevute da alcuni nostri interlocutori di Caracas, vicini al governo Maduro: «La vicenda della Guyana – ci hanno spiegato – è molto semplice: il territorio è nostro, però gli Occidentali se lo vogliono rubare (come hanno fatto in tutta la storia degli ultimi 600 anni). Le primarie dell’opposizione sono state annullate per un sacco di dati falsi. È realmente triste che questa gente sia tanto disonesta. Infine, con riferimento a Maria Corina Machado non può essere candidata alle elezioni presidenziali semplicemente perché è stata inabilitata a rivestire cariche pubbliche da una precedente sentenza».

Paolo Moiola




Nove anni con i Warao


Missionario argentino, ha lavorato lungamente tra i Warao, popolo indigeno del Delta Amacuro, in Venezuela. Da qualche mese opera a Boa Vista, Roraima, dove molti indigeni sono immigrati, spinti dalla necessità e per iniziare (o provare a iniziare) una nuova esistenza. In queste pagine, padre Juan Carlos Greco ricorda gli anni trascorsi nelle loro terre.

Da quest’anno sono a Boa Vista, nello stato brasiliano di Roraima. Nei precedenti nove anni ho vissuto tra i Warao del Venezuela, quasi sempre nel loro habitat tradizionale: i canali del rio Orinoco, nello stato del Delta Amacuro. Oggi,  i Warao si possono incontrare in paesi inaspettati – da Cuba a Trinidad e Tobago -, luoghi spesso raggiunti dopo viaggi avventurosi.

Gli anni trascorsi in mezzo a loro mi hanno lasciato un piacevole ricordo e molteplici insegnamenti che sarebbero sufficienti per scrivere un libro. In queste pagine, però, mi limiterò a evidenziare alcuni pensieri e sentimenti legati a quelle che io chiamo «le tre “o”» dei Warao: oralidad, oyentes y orgullo, che, in italiano, diventano «oralità, ascoltatori e orgoglio».

Palafitte warao (janoko) sul Delta dell’Orinoco. Foto Neil – Pixabay.

Il «quaderno dei ricordi»

Tubero dell’«ocumo chino», alimento fondamentale dell’alimentazione warao.

La vita di un Warao tradizionale – «morichalero», come dicono alcuni – si svolge nell’immediatezza, il che implica un modo di concentrarsi sul lavoro di coltivazione dell’ocumo cinese1, sull’estrazione dei prodotti del moriche2, sull’uscita in canoa a pescare. Tutto ciò potrebbe sembrare qualcosa di paradisiaco. Tuttavia, la realtà dei Warao non è così idilliaca, visto che i problemi da affrontare sono tanti.

 

La distanza che separa un villaggio dall’altro, l’assenza di acqua non contaminata (potabile), la carenza di cibo, sono solo alcune delle difficoltà che essi devono affrontare.

Qualcuno ha detto che è molto difficile ascoltare una storia o raccontarla quando si ha fame, e la fame, purtroppo, riguarda tante comunità warao del Venezuela.

Una palma di moriche, albero tradizionale dei Warao.

Sono sempre meno gli anziani che, al mattino o alla sera, si siedono per raccontare storie ai loro figli o nipoti. Alcuni ricordano i miti solo quando arrivano persone non indigene che li stimolano a ricordare. Sicuramente, alcuni aidamos (anziani, soprattutto uomini) e i wisiratu (figure simili agli sciamani) sono ancora attenti a mantenere viva la tradizione perché sono consapevoli che è l’unico modo per i Warao di conservare la propria memoria: il pensiero è come un quaderno, dove la storia può essere «scritta» in modo che sia costantemente ricordata. Insomma, nonostante l’oralità stia perdendo terreno di giorno in giorno, essa rimane ancora un elemento centrale della cultura warao.

 

Nel nostro contesto postmoderno l’oralità passa attraverso l’uso dei media (whatsapp, messaggi, zoom, ecc.) e, soprattutto dopo la pandemia, è diminuita quella «faccia a faccia». Quanto investiamo in questo tipo di scambio di conoscenze? Quanto le nuove generazioni apprezzano questa modalità di comunicazione? L’uso che facciamo dei media, il tempo che dedichiamo a essi, il mondo dell’intelligenza artificiale, ci stanno rendendo più cibernetici ma meno civilizzati. Imparando dall’oralità tradizionale warao una persona viene arricchita e si mette in discussione.

L’orgoglio dei Warao

Una mappa con le cifre dell’emigrazione venezuelana in vari paesi latinomericani; in testa per numero di persone accolte, ci sono la Colombia e il Perù. Foto infobae.com.

Il Warao è orgoglioso della sua capacità di ricordare cose ed eventi attraverso la ripetizione di storie e miti. Compone narrazioni, le varia, per comprendere e dare un significato «logico» all’esistenza e alle sue esperienze. Le storie raccontano il moriche (albero madre), il morocoto (pesce preferito per il cibo), la janoko (la palafitta, la casa del Warao), il giorno, la notte e gli altri elementi della vita di ogni giorno. Ma storie e miti servono anche a comprendere la causa dei bisogni attuali, oltre a confrontare il mondo warao nei tempi antichi con quello presente, pieno di cambiamenti e circostanze avverse che essi attribuiscono a eventi soprannaturali, a punizioni divine, conseguenze della disobbedienza di qualche individuo o famiglia.

I miti parlano di personaggi fantastici che sono reali per il narratore, così come perfetti sono il tempo e lo spazio che, nella suspense della narrazione, paiono infiniti.

Il clima di attenzione che si crea quando la persona sta narrando è straordinario: gli ascoltatori rimangono attenti alla storia vivendo ogni suo dettaglio.

Il silenzio circostante è rotto soltanto dalla voce del narratore, attraverso la quale ciascuno dei personaggi prende vita, mentre il pubblico immagina volti, voci, gesti, azioni.

I bambini sono attenti, alcuni seduti sul pavimento, altri sulle amache, mentre le donne allattano i più piccoli cullati dal suono morbido della voce.

Mi è capitato che un’unica storia, di quelle che venivano narrate a messa dopo la comunione – specialmente in comunità come Muhabaina de Araguao – durasse il doppio della mia omelia.

Una bimba warao riposa su un’amaca, in un’abitazione di Tucupita, nello stato del Delta Amacuro. Foto Jaime Carlos Patias.

Ascoltatori

Quando visitavamo le comunità ed esprimevamo il desiderio di ascoltare i loro miti, coloro che sapevano mostravano con orgoglio le loro conoscenze. La janoko dove si svolgeva l’incontro si riempiva con decine di bambini, giovani e persino anziani che ascoltavano attentamente la storia raccontata. Alla fine gli ascoltatori rimanevano a riflettere su quanto appreso, altri sorridevano a qualcosa di umoristico, altri si rattristavano per una storia pietosa. Miti o racconti educativi (deneabu) non vengono spiegati e finiscono quando lo stabilisce l’oratore. Sono i creoli (jotarao) a pretendere che, dopo la storia, essa sia ampliata, spiegata o che continui in un’altra forma.

Per i Warao, invece, termina lì, ma tornerà nella loro mente in un altro momento per trarre conclusioni o applicazioni pratiche (il saggio è colui che tira fuori dal baule dei ricordi ciò che è utile per la sua sopravvivenza).

Sono innumerevoli le esperienze che si vivono ascoltando i miti dalla voce di uomini e donne saggi che ancora li ricordano, portando quegli eventi nel qui e ora, come se li facessero rinascere.

Donne warao a Tucupita. Foto Jaime Carlos Patias.

Paternalismo versus compassione

Alcune frasi di Eduardo Galeano, il grande scrittore uruguaiano, mi hanno fatto riflettere.

«C’è chi crede che il destino poggi sulle ginocchia degli dèi, ma la verità è che agisce, come una sfida ardente, sulle coscienze degli uomini».

Parte della missione sarà cercare di pensare, nello stile warao, che il nostro futuro dipende soprattutto dal nostro sforzo, non dal caso o dall’intervento divino e non si può sempre aspettare passivamente le azioni paternalistiche dello Stato o delle Ong.

«C’è solo un luogo – ha scritto sempre Galeano – dove ieri e oggi si incontrano, si riconoscono e si abbracciano. Quel posto è domani». Occorre ampliare la visione del futuro, che, in generale, nella maggior parte delle popolazioni indigene, è piuttosto breve, ancora di più nel contesto dell’immigrato o del rifugiato.

Partendo dalle tre «o», occorre aiutare a capire che «colto non è colui che legge libri. Colto è colui che è in grado di ascoltare l’altro», di unire comunità e famiglie warao negli insediamenti, occupazioni, rifugi e ovunque essi si siano spostati.

A livello missionario, occorre comprendere sempre di più che, come ha sentenziato lo scrittore uruguaiano, «la carità è umiliante perché si esercita verticalmente e dall’alto; la solidarietà è orizzontale e implica rispetto reciproco». Essere di supporto implica aiutare l’altro considerandolo un pari. Donare in una prospettiva di vera carità è guardarlo negli occhi, con compassione che non genera paternalismo ma consolazione.

«La mia sfida»

Ppadre Juan Carlos Greco, autore di questo articolo, con i ragazzi di una prima comunione a Duaca, in Venezuela. Foto archivio Juan Carlos Greco.

Sono arrivato in Venezuela nel 2012. Sono «emigrato» in Brasile, nello stato di Roraima, nel 2023, per accompagnare i Warao in questo nuovo paese. Dal 2016 a oggi, infatti, circa il 15% di essi è emigrato dalle proprie terre. Molti altri sono in viaggio o ci stanno pensando seriamente o sono in attesa delle risorse per un’avventura che non tarderà. Non posso classificare tutti come «immigrati venezuelani», dal momento che, tra i Warao presenti qui, il 18-25% sono già nati in Brasile3.

In questa terra s’intravede che per loro c’è speranza, e l’intenzione è di rimanere qui. Solo una minoranza di Warao vuole tornare a vivere in Venezuela. Quelli che ci vanno, di solito lo fanno per visitare i propri familiari.

Personalmente, io sono ancora ai miei primi passi, ma intuisco che, tra le esigenze di queste persone, c’è quella di salvaguardare i ricordi. Tra gli studiosi di culture indigene, si sottolinea l’importanza dell’oralità nei processi di ricostruzione della memoria etnostorica, antica o contemporanea, perché attraverso di essa si può conoscere ogni giorno qualcosa di più su una comunità, una regione, o una certa famiglia.

Non è un compito facile. Se per il cibo e i rimedi si possono trovare fondi e solidarietà, per i processi culturali è tutto molto difficile. E senza la loro cultura, senza i loro valori, i Warao finiranno per essere manodopera a basso costo o lavoratori schiavi.

Tra i compiti che ci prefiggiamo, c’è quello di far crescere la loro autostima, in modo che riescano a farsi riconoscere come una ricchezza che il Venezuela sta esportando. Occorre, poi, cercare di integrarli nella nuova terra che presenta situazioni e contesti molto diversi da quelli a cui i Warao sono abituati. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare sono, secondo papa Francesco, atteggiamenti fondamentali per garantire che i diritti umani dei migranti siano rispettati e le persone trattate con dignità. E questa è la nuova missione che mi sfida.

Juan Carlos Greco

Note

  • (1) Pianta della famiglia delle Aracee, con un gambo corto, foglie triangolari, fiori gialli e un rizoma contenente amido usato come alimento.
  • (2) Buritì, canangucha, mirití, palma real, aguaje, la palma moriche cambia nome a seconda dell’area in cui cresce. S’incontra nelle zone umide dell’America Latina. Dal suo tronco pendono migliaia di frutti rossi e carnosi.
  • (3) Le cifre indicano un totale di settemila indigeni di cui l’80 per cento sarebbe warao. Il numero di figli nati in Brasile si aggira sulle mille unità.

Una foto opportunità del presidente Maduro con un gruppo di Warao, durante una visita a Tucupita nel 2013. Foto Marcelo Garcia – Prensa Miraflores.


Breve storia del Venezuela

Da Chávez a Maduro

Indipendente dal 1811, il Venezuela è un paese con molte esperienze di regimi autoritari. Negli anni Cinquanta attraversa una dittatura militare – quella del generale Marcos Pérez Jiménez -, ma la democrazia torna un decennio dopo. La politica, tuttavia, contina a essere dominata da partiti legati agli interessi dell’élite. Negli anni Novanta nasce una fase di liberalizzazione dell’economia, una situazione che, nel febbraio 1992, spinge un gruppo di militari di sinistra a tentare un colpo di Stato. Il suo fallimento porta Hugo Chávez Frías, leader del Movimento rivoluzionario bolivariano, in carcere. Un anno dopo, il presidente Carlos A. Pérez riceve un impeachment e viene destituito dall’incarico.

Nel 1994, Hugo Chávez è graziato e rilasciato dal presidente Rafael Caldera. Quattro anni dopo, viene eletto presidente, avviando immediatamente quella che chiama la «rivoluzione bolivariana», con riforme della costituzione e della struttura dello stato. Durante i suoi 14 anni di governo, si presenta come difensore dei poveri destinando miliardi di dollari – originati dalle vendite di petrolio – in programmi sociali (las misiones). Nell’aprile 2002 viene sventato un golpe contro di lui e nel 2012 vince ancora le elezioni.

Pochi mesi dopo, la morte di Chávez coglie di sorpresa il paese e il mondo. Il governo del suo successore (ad interim, al momento della sua morte), Nicolás Maduro, deve inaspettatamente affrontare varie difficoltà a causa della riduzione del valore del petrolio, i debiti in sospeso, un’escalation della corruzione e il peso della sostituzione di un leader carismatico come Chávez. La crisi economica e politica porta il Venezuela vicino al collasso.

Nel 2015 si tengono le elezioni parlamentari per rinnovare tutti i seggi dell’Assemblea nazionale. I deputati eletti dovrebbero servire per 5 anni. Sono le prime elezioni parlamentari tenute dopo la morte di Hugo Chávez e si tramutano nella prima – umiliante – sconfitta del chavismo. Le elezioni portano alla vittoria della tavola rotonda dell’Unità democratica (Mud), con 112 dei 167 deputati dell’Assemblea nazionale (56,2% dei voti), e la prima grande vittoria elettorale per l’opposizione in 17 anni. A differenza del suo predecessore (che, dopo aver perso un plebiscito, aveva accettato la decisione popolare),

Maduro rifiuta la sconfitta creando un’Assemblea costituente che eclisserà quella democraticamente eletta.

Nel maggio 2018, viene rieletto per un secondo mandato di sei anni, in una elezione segnata dal boicottaggio dell’opposizione e da accuse di frode.

Colpita dal crollo dei prezzi del petrolio e dalle severe sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, l’economia venezuelana cade in profonda recessione con i prezzi di tutte le merci alle stelle e una grave scarsità di prodotti. La situazione provoca un enorme esodo di venezuelani principalmente verso i paesi vicini (Colombia, Perù ed Ecuador).

All’inizio del 2019, il leader dell’opposizione Juan Guaidó si dichiara presidente ad interim e si appella (senza successo) alle forze armate per rovesciare Maduro. L’Unione europea, gli Stati Uniti e molti altri paesi riconoscono Guaidó come presidente. Tuttavia, visti gli scarsi risultati ottenuti, a dicembre 2022, la stessa opposizione venezuelana decide di porre fine all’esperimento dell’interinato a far data dal 5 gennaio 2023.

J.C.Greco

Il presidente venezuelano Nicolas Maduro e il suo cartoon, «Súper Bigote». Foto infobae.com.

La migrazione venezuelana

Fuga da Súper Bigote

Lo scorso  maggio a Brownsville, in Texas, un suv ha investito un gruppo di persone in attesa dell’autobus fuori da un rifugio per migranti. Tra gli otto morti e i dodici feriti, la maggioranza era venezuelana.

L’emigrazione dal paese latinoamericano è iniziata poco dopo la prima presidenza di Nicolás Maduro, mediocre successore di Hugo Chávez, ma si è intensificata a partire dal 2016, in concomitanza con l’aggravarsi della crisi economica. Sui numeri non c’è certezza, ma la fuga dal paese è certamente imponente.

Secondo R4V (Plataforma de coordinación interagencial para refugiados y migrantes, che comprende anche le agenzie dell’Onu), i venezuelani usciti dal paese sarebbero oltre sette milioni, di cui oltre sei sarebbero andati verso paesi latinoamericani, in particolare in Colombia (2,5 milioni) e in Perù (1,5), seguiti a distanza da Ecuador, Cile e Brasile.

Come accade sempre e ovunque, questa emigrazione di massa genera molti problemi. I venezuelani arrivano in paesi già di loro problematici con uno stato sociale (sanità, istruzione, ecc.) debole e un mondo del lavoro dominato da impieghi informali. Questa situazione origina reazioni xenofobe da parte della popolazione residente e misure populiste da parte dei governi. In mezzo, ci sono i migranti – oltre la metà sono donne con bambini – che necessitano di tutto: cibo, alloggi, lavoro, assistenza.

A fine aprile, per frenare l’immigrazione illegale, il governo peruviano di Dina Boluarte ha decretato lo stato d’emergenza ai confini del paese. I più recenti episodi di intolleranza si sono verificati in Cile (che ospita circa 450mila venezuelani), nella regione desertica di Arica, alla frontiera con il Perù. Qui i due paesi andini si rimpallano la responsabilità di risolvere la questione dei migranti venezuelani bloccati al confine.

Nell’ultimo anno, la situazione economica del Venezuela è leggermente migliorata. L’inflazione rimane iperinflazione, ma pare stabilizzata: 471 per cento all’anno, secondo l’Observatorio venezolanos de finanzas. Da tempo, per uscire dall’isolamento internazionale, il paese intrattiene rapporti di collaborazione con le dittature, in particolare con l’Iran, la Russia e la Cina, paesi con cui Caracas condivide l’avversione verso gli Stati Uniti (combattuti anche da Súper Bigote, Super Baffo, il cartone animato venezuelano che esalta un Maduro dotato di superpoteri).

In aprile, ha fatto tappa a Caracas il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, per ribadire la vicinanza di Mosca. Tuttavia, queste alleanze in chiave anti americana sono del tutto insufficienti per uscire dalla crisi. Più utile si sta dimostrando il riavvicinamento alla Colombia. Sempre in aprile, in un incontro a Washington, il presidente colombiano Gustavo Petro ha chiesto a Biden di ripensare le sanzioni contro il Venezuela. Il presidente Usa ha chiesto garanzie per le prossime elezioni del 2024. Elezioni alle quali l’opposizione si dovrebbe presentare con un candidato unitario che sarà eletto nelle primarie previste per il 22 ottobre 2023. Nel frattempo, il governo Maduro ha preso atto delle gravi difficoltà di Pdvsa, la compagnia petrolifera statale, un tempo vanto (e cassaforte) del Venezuela. Anche per questo ha recentemente concluso accordi con alcune compagnie petrolifere occidentali per esportare il proprio gas: con l’italiana Eni, la spagnola Repsol e la statunitense Chevron (tutte già presenti nel paese ma da tempo ferme a causa dell’embargo imposto dagli Usa).  Soltanto con un miglioramento delle condizioni materiali della popolazione venezuelana Súper Bigote potrebbe riuscire a porre un freno alla fuga dal paese.

Paolo Moiola

Lavoratori di Pdvsa, la compagnia petrolifera dello stato venezuelano. Foto Pdvsa.

Il Venezuela su Mc

 




Un Vescovo servo di consolazione


L’ordinazione episcopale del primo missionario della Consolata venezuelano nominato ausiliare di Caracas, ha coronato le celebrazioni del 50° anniversario della presenza dell’Istituto nel paese.

In una bella e sentita celebrazione nella chiesa di San Giovanni Bosco, nella capitale del Venezuela, sabato 12 marzo, il cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi, accompagnato da monsignor Jesús Gonzáles de Zárate, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, e monsignor Raúl Biord Castillo, Sdb, vescovo di La Guajira, hanno consacrato i due nuovi vescovi ausiliari di Caracas: monsignor Lisandro
Rivas, missionario della Consolata, che fino a ora era stato rettore del Pontificio collegio San Paolo di Roma, e monsignor Carlos Márquez Delima, del clero della medesima arcidiocesi.

Celebravano con loro una ventina di vescovi, tra cui monsignor Francisco Múnera Correa, arcivescovo di Cartagena de Indias e monsignor Joaquín Humberto Pinzón, del vicario apostolico di Puerto Leguizamo Solano, ambedue consolatini dalla Colombia.

Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, introducendo la celebrazione, ha ricordato ai due nuovi vescovi che l’episcopato nella Chiesa non è un ruolo di potere destinato a valorizzare la carriera di chi lo riceve, ma un servizio per il bene di tutti, per la crescita e il cammino della comunità. Li ha chiamati «beati», per ricordare loro che, secondo il Vangelo, il termine «beati» deve essere tradotto così: vescovi che stanno «in piedi, in cammino, in marcia, poveri, perché Dio cammina e combatte con voi ed è per voi garanzia di felicità e fonte di gioia eterna. E questo è il servizio per il quale sono chiamati: aiutarci a stare in piedi». Ha poi concluso invitandoli a essere testimoni delle Beatitudini e, con le parole del beato Allamano, a camminare nel Signore: «Avanti in Domino».

Consacrazione episcopale di Rivas Durán Mons. Lisandro Alirio

Chi è Lisandro rivas

Monsignor Lisandro è nato in un paesino sui monti vicino a Boconó, nello stato di Trujillo, Venezuela. Figlio di Allirio Domingo Rivas e Durán Estéfana, ha una sorella, Lisay. La mamma, donna di profonda fede, lo ha formato a una religiosità semplice e concreta alla scuola di una vita dedicata al lavoro della terra.

Dopo aver conosciuto i Missionari della Consolata, ha iniziato il suo percorso formativo a Caracas; ha poi studiato filosofia all’istituto Juan German Roscio a Los Teques, e continuato la teologia in Inghilterra. Ordinato sacerdote il 19 agosto 1995, il giovane andino ha preso le sue valigie e iniziato il viaggio che lo ha condotto nelle missioni del Kenya, dove ha lavorato per cinque anni nel Meru, prima a Kagaene, poi nell’antica missione di Mekinduri e, da ultimo, quando queste sono state consegnate alla diocesi, nella nuova missione di Kagaene.

Nel 2001 l’Istituto gli ha chiesto di ritornare in patria per fare il formatore nel seminario, dove ha svolto un intenso lavoro di accompagnamento dei futuri sacerdoti, oltre a dedicarsi a diversi impegni nell’ambito di «Giustizia e pace», specialmente al servizio dei carcerati. Incaricato della formazione dei «Laici della Consolata», è stato di grande aiuto per la crescita di questo gruppo. In seguito, l’Istituto lo ha inviato come rettore del Seminario Imc di Bogotà, in Colombia, e poi a Roma, al servizio del Collegio pontificio San Paolo di Propaganda Fide, chiamato anche seminario missionario.

Qui ha ricevuto la notizia della sua designazione per il nuovo servizio pastorale in Venezuela. Padre Lisandro ricorda: «A Roma sono stato in comunità con 192 sacerdoti diocesani che provenivano da 45 paesi del mondo. Ciò mi ha permesso di sentirmi come un fratello universale».

La diocesi che lo riceve

Caracas è la diocesi della capitale venezuelana, città con oltre tre milioni di abitanti. Essendo la sede del governo, è stata la prima che ha risentito l’effetto di tutti i confronti e scontri che hanno segnato il paese durante più di vent’anni di «rivoluzione bolivariana». L’arcidiocesi ha più di 5 milioni di abitanti e, come ha ricordato il cardinale Baltazar Porras, richiede un governo pastorale di grande complessità.

In questa diocesi i Missionari della Consolata sono presenti da più di 50 anni (vedi dossier in MC novembre 2021). In Caracas hanno la Casa regionale, il seminario propedeutico e filosofico e, da più di vent’anni, la parrocchia San Joaquin e Santa Ana a Carapita, un quartiere periferico tra i più poveri della città. Lì il nuovo vescovo ha poi celebrato la sua prima messa il 13 marzo.

Vescovo e missionario

Il cardinal Baltazar Porras, in riferimento al fatto che padre Lisandro appartiene a un istituto missionario, ha insistito: «Adesso dovrai vivere lo spirito missionario in cui sei cresciuto e che hai vissuto oltremare in questa terra caraqueña».

In effetti, la nomina di monsignor Lisandro Rivas come vescovo ausiliare di Caracas, avvenuta precisamente nel mese in cui i Missionari della Consolata completavano la celebrazione del 50° di presenza nel paese, è stata interpretata come un segno provvidenziale. In un paese che è stato straziato da conflitti politici e da una complessa crisi umanitaria ancora in corso, la direzione verso cui orientare il servizio pastorale non può essere altra che: «Consolate, consolate il mio popolo. Ditegli che il suo peccato è stato già perdonato».

Il nuovo vescovo è ben cosciente che la gente è molto provata e scoraggiata dalla situazione che sta vivendo. Per questo vuole una evangelizzazione che crei vicinanza ed empatia. Nel suo servizio di consolazione vuole stare con la gente, ascoltarla e accompagnarla, non solo dentro la chiesa ma là dove vive, per ricostruire insieme il paese. In questo impegno sa bene di non essere solo, ma di avere il supporto di tutta la famiglia della Consolata: padri, suore, laici e amici.

traduzione e adattamento di Gigi Anataloni

Questo slideshow richiede JavaScript.

 




IMC Venezuela 50: tra indigeni, afrodiscendenti e periferie

Alla fine del 1970, padre Giovanni Vespertini visita il Venezuela per valutarvi una nuova apertura dei Missionari della Consolata. Con il successivo arrivo di diversi confratelli, la presenza dell’Istituto nel paese si estende. A fine 2021, mentre si chiude l’anno di celebrazioni per i suoi 50 anni in Venezuela, l’Imc è presente a Barlovento (Panaquire, El Clavo, Tapipa e Caucagua), nell’arcidiocesi e città di Barquisimeto, a Tucupita (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

  1. Popoli indigeni, afro e periferie
  2. La scelta degli indigeni della Guajíra
  3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
  4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
  5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
  6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Popoli indigeni, afro e periferie

È il 13 dicembre 1970: attraversato il ponte internazionale Simón Bolívar di Cúcuta, frontiera tra Colombia e Venezuela, padre Giovanni Vespertini accelera puntando verso Nord. A Caracas lo attende un colloquio con il cardinale José Humberto Quintero Parra, arcivescovo della capitale.

È il primo missionario della Consolata a calpestare il suolo venezuelano. Dopo aver lavorato per 10 anni in Mozambico, è sbarcato in Colombia dove ha esercitato il suo apostolato missionario a Puerto Leguízamo, Armero e Bogotá.

In Colombia i Missionari della Consolata sono presenti dal 1947. Padre Vespertini, vedendo i buoni frutti di vita cristiana che stanno maturando nel paese, pensa che sia giunto il momento di misurarsi con nuove sfide.

I tempi sono favorevoli per la creazione di piccoli gruppi di missionari in paesi nei quali l’Istituto non è ancora presente. Il missionario trevigiano pensa che il Venezuela abbia le condizioni per crearne uno.

La Quebrada e le altre

Nel paese, l’80% del clero è straniero, e per l’85% è composto da religiosi. Padre Vespertini ottiene dalla direzione generale il mandato di esplorare la possibilità di espandere la presenza dei Missionari della Consolata in Venezuela prospettando un fruttuoso lavoro di promozione vocazionale. Visita, quindi, diverse diocesi, tra cui Valencia, Puerto Cabello, San Cristobal, Trujillo. I vescovi lo ricevono con entusiasmo e gli offrono parrocchie vecchie, nuove e future, ma, per il momento, si tratta più che altro di buone intenzioni che, spesso, non rispondono al progetto di animazione missionaria e vocazionale dell’Imc.

Così, in attesa di proposte valide, padre Vespertini accetta di prendersi cura della parrocchia La Quebrada, nella diocesi di Trujillo, in una zona delle Ande ritenuta propizia per le vocazioni.

Successivamente, l’offerta da parte dei vescovi di altre parrocchie favorisce l’arrivo in Venezuela di altri missionari finché il 28 settembre 1974, padre Mario Bianchi, superiore generale, istituisce ufficialmente il «gruppo Venezuela». Pochi giorni dopo arriva dalla Spagna padre Francesco Babbini con la nomina di capogruppo.

Cantiere in costruzione

Nel 1976 il gruppo prende diverse decisioni che avranno un certo peso nel futuro dell’Imc nel paese. Decide di aprire una casa a Caracas allo scopo di accogliere i padri destinati all’animazione missionaria in Venezuela e gli eventuali candidati venezuelani a entrare nella famiglia della Consolata. La casa, nel quartiere La Pastora, diventerà sede della delegazione. Oltre all’apertura a Caracas, i missionari decidono di aprire anche nel Vicariato di Machiques, zona della Guajíra. Inoltre, risponde positivamente alla richiesta di collaborazione da parte delle Pom (Pontificie opere missionarie) per l’organizzazione dell’ufficio e delle sue iniziative.

Mano a mano che i Missionari della Consolata aumentano di numero, assumono nuovi campi di lavoro. Nel 1977 l’Istituto è presente in quattro centri: Caracas, dove è iniziato il seminario maggiore con sei giovani venezuelani, Trujillo con le parrocchie di La Quebrada e La Puerta, San Cristobal con la parrocchia di Zorca, e nella Guajíra, tra gli indigeni.

Nel 1978 si pone come priorità la promozione vocazionale, l’animazione missionaria e la formazione dei seminaristi venezuelani, soprattutto in vista della missione tra gli indigeni della Guajíra. Viene assunta la parrocchia di Los Castores, offerta dal vescovo di Los Teques, sulle pendici delle Ande costiere, a 30 Km a Ovest di Caracas.

Qui viene spostato il seminario con padre Sandro Faedi come formatore, mentre i padri Francesco Babbini e Alberto Minora vengono destinati al lavoro apostolico tra gli indigeni della Guajíra.

Una missione che si apre

Alle scelte fatte nel primo decennio di presenza nel paese che hanno dato al gruppo la sua fisionomia specifica, ne seguiranno altre, anche particolarmente coraggiose. Nel 1986, ad esempio, i Missionari della Consolata decidono di dedicarsi alla popolazione degli afrodiscendenti di Barlovento. Nel 1999, poi, scelgono di stabilire una loro presenza nella baraccopoli di Carapita, periferia urbana della capitale Caracas. Nel 2007, alcuni anni dopo aver lasciato la Guajíra e il lavoro con gli indigeni di quelle terre, tornano a lavorare con i popoli originari, questa volta con i Warao a Nabasanuka e Tucupita, sulla foce del fiume Orinoco. Infine, con l’esodo degli indigeni Warao verso il Brasile, i Missionari della Consolata danno vita, nel 2018, a un’équipe itinerante, per accompagnare pastoralmente questo popolo emarginato e costretto all’emigrazione.

Sergio Frassetto


Quattro scelte

Stefano Camerlengo, superior generale dei missionari della Consolata, scrive ai confratelli in Venezuela.

«Nel formularvi gli auguri miei e dell’Istituto per questo vostro giubileo – scrive padre Stefano Camerlengo -, vi inviterei a fare memoria di quanto è stato realizzato dai confratelli che vi hanno preceduto […]».

Egli poi sintetizza il cammino fatto dalla delegazione in quattro scelte ancora oggi valide e urgenti: «Il servizio alle popolazioni indigene; la presenza tra gli afroamericani; l’inserimento nelle periferie urbane; l’animazione missionaria della chiesa locale e la cura delle vocazioni».

Ricordando la dedizione dei missionari che mossero i primi passi in Venezuela negli anni Settanta, infine, il superiore generale dell’Imc ringrazia i confratelli che ancora oggi lavorano nel paese, «per il generoso impegno missionario che continuate a offrire, in un momento tanto critico della vita del paese. In questo modo continuate a scrivere altre belle pagine di servizio missionario per le quali – sono sicuro – il nostro beato Fondatore e i missionari che vi hanno preceduto gioiranno dal Cielo».

S.F.


Il primo

Giovanni Vespertini, classe 1916, originario di Vedelago (Tv), diventò missionario nel 1942. Nel ’44 fu arruolato come cappellano militare. Alla fine della guerra fu dato per morto e si celebrarono messe in suffragio, ma un giorno riapparve vivo e vegeto. Alto, magro, pelle bruciata dal sole, intelligente e risoluto, dal 1948 al 1958 fu missionario in Mozambico e, successivamente, in Colombia. Alla fine del 1970 andò in Venezuela dove si insediò come parroco di La Quebrada, un paesotto sulle Ande della diocesi di Trujillo. Vi rimase per 14 anni.

Fu sempre esigente con i suoi cristiani perché li voleva tutti d’un pezzo e non ammetteva compromessi. Nello stesso tempo era spassoso nelle relazioni personali ottenendo una partecipazione «bulgara» alla vita della chiesa. Padre Giovanni non conosceva la paura e non esitò mai di fronte al lavoro che gli veniva richiesto per il bene della gente, e questa lo seguiva volentieri apprezzando la sua coerenza e il suo amore fatto di gesti concreti, soprattutto verso i poveri. Tornato in Italia per una breve vacanza, morì d’improvviso il 17 marzo 1984.
I missionari lo considerano l’iniziatore della loro presenza in Venezuela.
A La Quebrada aveva preparato la sua tomba che rimase vuota. A distanza di anni i suoi cristiani hanno richiesto il ritorno dei suoi resti mortali, segno che quel missionario è rimasto nel loro cuore.


Lo stratega

Francesco Babbini, nato nel 1932 a Montepetra di Sogliano Rubicone (Fc), divenne missionario della Consolata nel 1960. Lavorò sei anni in Italia e otto in Spagna nel settore dell’animazione missionaria e vocazionale. Nel 1974 venne destinato come capogruppo in Venezuela. Vulcanico nelle idee e realizzazioni, fu il vero artefice dello sviluppo dell’Imc nel paese.

In pochi anni organizzò il lavoro apostolico dei missionari estendendo la presenza dell’Istituto in tre diocesi. Diede inizio alla missione tra gli indigeni guajíros, aprì il seminario per giovani venezuelani, collaborò all’organizzazione delle Pom del Venezuela e viaggiò molto facendo conoscere la Consolata in numerose diocesi.

Nel 1980, concluso il suo mandato di capogruppo, andò a lavorare in Guajíra tra gli indigeni. Lì diede il meglio di sé come apostolo della carità verso tutti, specialmente i più poveri. Lo sostenevano la sua grande fede, l’amore alla Chiesa e la convinzione che servire il prossimo era amare Gesù in persona.

Nel 1982 venne richiamato in Italia per l’animazione missionaria, e fu molto attivo in Puglia. Il 19 marzo 1984, morì per infarto cardiaco. Aveva 52 anni. La missione di Guarero, in Guajíra, ha dedicato al suo nome l’oratorio parrocchiale e la strada che porta alla chiesa.

S.F.




IMC Venezuela 50: la scelta dei popoli indigeni

I Missionari della Consolata in Venezuela hanno tra le loro finalità principali l’animazione missionaria e vocazionale. Presto il loro carisma ad gentes li spinge anche sulle frontier dell’annuncio, tra i popoli indigeni. Nasce così la scelta della Guajíra che li vedrà impegnati sul suo vasto territorio per 22 anni, dal 1976 al 1998.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

La scelta degli indigeni

La Guajíra

Il fuoristrada solca veloce il deserto lungo piste invisibili ma ben conosciute dall’indigeno che guida. Il sole spacca le pietre e il vento sferza la faccia riempiendo gli occhi di sabbia.

Dopo tre ore di sobbalzi e sbandate, giungiamo alla meta: un piccolo cimitero cresciuto nel nulla di una landa sconfinata, popolato da morti e frequentato da una tribù di vivi. Qualcuno tra i vivi dorme appollaiato nella sua amaca, qualcuno mangia, qualcun altro beve e gioca a domino.

«Casáchiqui tawala you» («buongiorno amico»). Appena il mio saluto viene udito, un gruppo di donne vestite di mante nere si avvicina alla bara del defunto e inizia il pianto rituale.

Dopo la messa, vengono sacrificati alcuni animali e si consuma un banchetto in onore del defunto. Il tempo passa tra saluti, chiacchiere e racconti, fino all’ora di tornare in parrocchia.

Siamo alla fine degli anni Settanta. Ci troviamo nella Guajíra, la penisola al confine con la Colombia che si sporge nel Mare dei Caraibi all’estremità Nord occidentale del paese, creando il Golfo del Venezuela. È il mondo dei Wayú che, dopo aver saggiato l’amicizia dei missionari, li accolgono con simpatia e li rendono partecipi dei loro riti ancestrali sulla vita e la morte.

E pensare che a fine 1976, quando sono arrivati i Missionari della Consolata nel villaggio di Guarero, quasi al confine con la Colombia, al loro passaggio, la gente si nascondeva. I missionari vedevano solo le ombre muoversi furtive dietro i canneti. È stato grazie a suor Maria, una missionaria laurita, che è sorta l’amicizia tra i missionari nuovi arrivati e la gente.

Suor Maria, colombiana, da cinquant’anni calca il deserto della Guajíra, ed è difficile trovare qualcuno che non la conosca, che non abbia ricevuto una sua visita, un suo aiuto, una medicina, una preghiera. È la carità fatta carne, e i Guajíros, quando hanno bisogno di qualcosa, cercano sempre lei, sicuri di trovare aiuto.

Guarero

Padre Francesco Babbini, fin dal suo arrivo in Venezuela nel 1974, aveva svolto un’intensa opera di animazione missionaria in diverse diocesi del paese. Aveva visitato anche i vicariati apostolici del Caroní (nella zona Sud Est) e di Machiques (nella Guajíra, a Nord Ovest), affidati ai Cappuccini spagnoli, ottenendo di poter stabilire anche lì una missione Imc.

Nell’ottobre del 1976 padre Tullio Bosello, seguito da padre Miguel Sotelo, hanno iniziato a lavorare nella missione di Guarero, l’ultimo avamposto venezuelano prima della frontiera con la Colombia e della città di Maicao, da cui dista appena 20 chilometri, centro del commercio e del contrabbando di tutta la regione.

Guarero vive nel marasma tipico dei posti di frontiera, con la dogana, i venditori ambulanti di cibi, le bevande e migliaia di persone che transitano o attendono impazienti il disbrigo delle pratiche doganali.

Nella missione dedicata al Sacro Cuore di Gesù, le suore missionarie di Madre Laura (di fondazione colombiana) lavorano nel collegio per bambine povere che comprende l’asilo infantile, la scuola elementare, un atelier di arti e mestieri e il centro giovanile. Una volta alla settimana, i missionari visitano i villaggi più importanti dove celebrano la liturgia domenicale. Nei giorni feriali, il lavoro di catechesi nelle numerose scuole della regione è intenso.

Paraguaipoa

Nel 1981, i Missionari della Consolata estendono la loro presenza alla missione di Paraguaipoa, il centro più importante della Guajíra venezuelana. Qui convergono gli indigeni da tutta la penisola per comprare o vendere nel mercato di Los
Filuos, per iscrivere i neonati all’anagrafe o cercare, nell’archivio parrocchiale, il documento di battesimo con cui farsi fare la carta d’identità.

Nel febbraio del 1982, giungono a Paraguipoa, chiamate da padre Sandro Faedi, anche le missionarie della Consolata.

La visita quotidiana alle famiglie, facendosi carico di tanti casi difficili di povertà ed emarginazione, le attività di promozione della donna, dei bambini e della gioventù, e la capacità di dialogo e accoglienza dei missionari e missionarie sono le carte vincenti.

Lavorando in équipe, padri e suore si inoltrano nel deserto della Guajíra seminando, anche nei villaggi più lontani, il Vangelo fatto di amicizia e interesse per i problemi della gente.

Sulla scia di queste visite, nascono scuole e asili, ambulatori, centri comunitari, pozzi per l’acqua e centri di culto.

Sinamaica

Sinamaica, che l’Imc prende in carico nel 1983, è la più antica delle tre missioni, e la più meridionale. Sorge su alcune dune della costa atlantica. È circondata a Est da grandi saline naturali, a Ovest dalla laguna omonima, disseminata di misere palafitte abitate dagli indigeni paraujanos.

Il lavoro di evangelizzazione è rivolto innanzitutto alla scuola della missione, frequentata da oltre 700 alunni, e poi ai villaggi circostanti, dove sorgono piccole comunità del Vangelo, impegnate a vivere la fede e a cercare soluzioni alla povertà e all’emarginazione.

Le feste patronali di san Bartolomeo apostolo, le celebrazioni in onore di san Benito da Palermo, i riti del Natale e della Settimana Santa sono molto sentiti e vengono celebrati nelle forme tipiche della religiosità popolare, ricca di spunti folcloristici e suscettibile di un ampio lavoro di evangelizzazione.

Sergio Frassetto

I Guajíros

Diviso in due dal confine tra Venezuela e Colombia, il popolo indigeno della Guajíra lotta da secoli per preservare identità, tradizioni e lingua. Molti si stanno urbanizzando. Molti altri resistono.

I Guajíros sono una vasta etnia che abita le terre desertiche della Guajíra, la penisola che si protende verso il mare dei Caraibi, a cavallo tra Colombia e Venezuela. Si conoscono tra loro come wayú (persona) e chiamano alijunas (stranieri) i bianchi e i meticci.

Dal 1833 vivono divisi da una frontiera arbitraria che assegna un quinto del loro territorio al Venezuela, e tutto il resto alla Colombia.

Le alte temperature unite agli scarsi rilievi montagnosi, la mancanza di corsi d’acqua e i forti venti dell’Est, fanno della Guajíra un deserto semi arido e inospitale, dove possono trascorrere mesi, e a volte anni, senza che si registrino precipitazioni importanti.

Secondo l’ultimo censimento del 2011, la popolazione wayú residente oggi nella parte venezuelana della penisola, conta 415mila persone (380mila nella Guajíra colombiana). Una forte migrazione verso la vicina città di Maracaibo, importante centro petrolifero del paese, ha formato interi quartieri nei quali vivono, pare, più di 60mila Guajíros.

Nel contesto urbano di Maracaibo si è determinato un veloce processo di perdita dell’identità culturale da parte degli indigeni che hanno subito l’imposizione dei modelli della società dei «bianchi». Molti abbandonano le tradizioni, perdono il senso dell’importanza dei clan, e persino la loro lingua madre.

Per quanto riguarda la condizione economica, in Guajíra non esistono fonti di lavoro o di guadagno: alcuni, pochi, si dedicano alla pastorizia, all’agricoltura o alla pesca. La maggioranza sopravvive nella marginalità con attività informali, tra le quali il narcotraffico e il contrabbando dalla Colombia.

Quest’ultimo contribuisce a indebolire la famiglia, i cui componenti passano gran parte della vita viaggiando. Nelle case rimangono anziani e bambini abbandonati a se stessi.

La Guajíra autentica

Nonostante questo processo, però, la Guajíra autentica esiste ancora. La si trova, ad esempio, nel mercato di Los Filuos, alle porte di Paraguaipoa, dove confluiscono gli indigeni da tutta la penisola per vendere e comprare capre, pecore, pelli e prodotti del loro artigianato, per rifornirsi di filuos (banane da cuocere), riso, carburante, utensili, qualche machete, e anche pallottole.

La Guajíra si scopre nei cimiteri dispersi nella penisola, durante i velorii (veglie funebri) per i morti: là gli uomini, a volte ancora in guayuco (perizoma), e le donne, avvolte nella manta (vestito dai colori vivaci, lungo fino ai piedi), celebrano i riti della vita e della morte, seguendo una tradizione antica.

La Guajíra si scopre ancora nelle carovane di donne e bambini che attraversano la savana polverosa, abbarbicati sui loro asini sotto il sole inclemente, per cercare l’acqua lontana. E si ritrova ancora di più inoltrandosi tra i palmeti dove sorgono piccoli abitati di poche case nascoste tra le dune: minuscole monadi, tagliate fuori dal mondo, fatte di silenzio, lavori di tessitura, orticelli coltivati a mais e yuca (manioca), recinti di capre e pecore. Ambienti familiari semplici: capanne nelle quali di notte si appendono le amache per dormire, con un recinto di pali riservato alla cucina e la enramada (tettoia) di rami di palma, alla cui ombra si svolgono le attività diurne, si ricevono i visitatori e si legano le amache per fare la siesta nei momenti più caldi della giornata.

Questi piccoli villaggi si chiamano rancherie e sono distanti qualche chilometro l’uno dall’altro per facilitare il maneggio delle greggi. (S.F.)


Nascita di una Chiesa  L’alta Guajíra

Cojoro, la selvaggia

La vita cresce dispersa a Cojoro, uno dei villaggi della missione di Paraguaipoa. L’intenso lavoro di promozione umana dei missionari la fa rifiorire. E la costruzione della chiesa dà un cuore e un’identità a questo «non popolo» del deserto.

La savana attorno a noi sembra non avere confini, la vastità del deserto si confonde con l’arco del cielo. Il nostro andare per l’alta Guajíra ha quasi il sapore della profanazione di una cattedrale fatta di silenzio e solitudine. Ci accompagna un sole abbacinante e un sibilo di vento sulla sterpaglia. Qua e là, un albero spinoso resiste all’accanimento del vento. I cactus alzano le loro braccia al cielo, indifferenti.
Un jaguey (stagno) pantanoso, un gregge di capre sonnolente, una capanna di stecche di cactus, dicono che, anche nel deserto, fiorisce la vita. È il 1981. Arriviamo a Cojoro, piccolo villaggio nel territorio della missione di Paraguaipoa nell’alta Guajíra. Ci sono poche capanne avvolte nel silenzio e poi cimiteri che sanno di altre epoche dalle quali dipanano i fili dei numerosi clan dispersi nella penisola.

In lontananza emerge l’ombra rassicurante dei rilievi montuosi di Macuira e la cima del Litujulu, l’Olimpo del popolo wayú. Proprio lassù si consumò il duello tra Maleiwa e il Mare che pretendeva di inondare la terra. Con potenti sassate e frecce di fuoco, Maleiwa mise in fuga il Mare e salvò la terra. I reperti archeologici marini che, ancora oggi, si trovano su quella montagna, costituiscono, per i Guajíros, la testimonianza perenne di quella lotta primigenia.

Dopo la lotta contro il Mare, Maleiwa scese verso la spiaggia bianchissima di Cojoro dove modellò, col fango, uomini e animali: i Wayú innanzitutto, e poi tutti gli altri.

È qui, dunque, nella selvaggia Guajíra, che i missionari, meravigliati, incontrano storie che assomigliano a quelle bibliche, e semi di quella verità con cui Dio arricchisce ogni popolo. Egli non «manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali» (Redemptoris missio 55). Questi miti servono come supporto per innestare la buona notizia del Vangelo.

Dalla dispersione all’unità

La vita cresce dispersa a Cojoro. Visitando le capanne si palpa un senso di abbandono e desolazione. La lontananza, la durezza della vita, la diffidenza reciproca, hanno fatto dimenticare ai suoi abitanti la bellezza dell’incontro, il senso della festa, lo spirito del clan.

La presenza del missionario e delle suore serve a smuovere quelle acque stagnanti.

Si comincia con il catechismo nella scuola, e si cercano testi scolastici con i quali i bambini possano studiare. La ristrutturazione del dispensario medico, in completo abbandono, motiva il rincontrarsi della comunità. Si organizza il processo di iscrizione della gente all’anagrafe. Si forma una commissione che vada dal governatore a chiedere acqua per la regione.

Giorno dopo giorno, gli abitanti di Cojoro cominciano a interessarsi dei problemi della comunità per risolverli.

Dato che manca un luogo di coesione che vinca la dispersione geografica, ma soprattutto interiore, sorge la chiesetta, e in essa viene ad abitare la Madonna Consolata. Attorno a questa madre di popoli, un popolo disperso trova motivi per incontrarsi, celebrare e fare festa.

Cojoro, la selvaggia, non è più completamente sola: nel deserto ora fiorisce la vita e nei cuori rinasce la speranza.

Comunità del Vangelo

Animati da questo spirito che ci spinge a cercare la gente del deserto di Cojoro, raggiungiamo i luoghi più isolati della penisola. Fuori dei villaggi costituiti in epoca coloniale, l’indigeno guajíro tende a sistemarsi lontano dagli altri. Il movimento delle greggi esige grandi spazi. La necessità di autodifesa vuole una zona di sicurezza attorno alla casa per avvistare i nemici e non esserne sorpresi.

A questo si aggiunge la realtà del contrabbando, per cui componenti della famiglia passano la maggior parte del tempo lontano da casa, viaggiando da una città all’altra. Per queste ragioni non è pensabile poter formare grandi comunità cristiane. In Guajíra difficilmente sorgerà un cristianesimo di massa.

Coscienti di questa realtà, i missionari passano di casa in casa offrendo parole di amicizia e cercando di stimolare la nascita di interessi comuni tra vicini, non basati semplicemente sulla parentela o lo scambio di favori, ma sulla Parola annunciata da Gesù che riguarda l’unico Padre che ci rende fratelli. Questa verità si esprime concretamente nel gesto di ritrovarci periodicamente per leggere la Parola, celebrarla nell’eucaristia e attuarla in un «darsi da fare» a favore di tutti.

In questo modo nasce la chiesa della Guajíra: una realtà costituita da tante piccole «comunità del Vangelo», dove i gesti della condivisione e della testimonianza sono segno della presenza di Gesù che consola, infonde speranza, e offre salvezza.

Sergio Frassetto


Un’evangelizzazione inculturata

L’opera missionaria nella Guajíra è una sorta di pellegrinaggio nel quale i missionari «camminano assieme» alla gente, accompagnando il popolo in atteggiamento di ascolto, accoglienza e dialogo. Nel rispetto della coscienza dei Guajíros e delle loro tradizioni culturali.

L’anima religiosa dei Guajíros si esprime innanzitutto in relazione ai defunti che costituiscono una presenza importante e, a volte, dominante nella vita delle famiglie. Far celebrare messe per i defunti, rispettare i voti fatti a san Benito da Palermo (un santo nero la cui devozione è stata diffusa dai Cappuccini), battezzare i bambini, guardare la processione che passa, sono alcuni dei modi tramite i quali molta gente esprime la propria fede in Dio.

In questo contesto, dal 1976 al 1998, l’opera di evangelizzazione dei missionari della Consolata si è concretizzata, innanzitutto, nell’amicizia e nella vicinanza alla quotidianità delle persone.

La testimonianza è diventata annuncio, e l’annuncio ha favorito l’acquisizione di valori fondamentali come la famiglia, il perdono, il senso della comunità, e la coscienza che Dio è «padre dei viventi». Questo lavoro è avvenuto innanzitutto mediante la catechesi nelle decine di scuole del territorio visitate ogni settimana.

Nella Guajíra non si può immaginare una catechesi «preconfezionata», estranea alla cultura e alle modalità della narrazione, del racconto, dell’immagine, del gesto.

Così i missionari, rimettendo i panni degli studenti, hanno imparato che, invece di parlare di Dio, è più comprensibile per gli indigeni il nome di Maleiwa, il demiurgo mitico che salvò la terra dall’invasione delle acque e modellò gli uomini con il fango. Il demonio è meglio conosciuto come Wanülü, lo spirito del male, che provoca malattie e morte in chi lo incontra, o Yolujá, lo spirito dei morti, altrettanto pericoloso.

E per spiegare agli alunni la somiglianza dell’uomo con Dio, anziché ricorrere alla filosofia, è più efficace usare uno specchio: la faccia che vedono riflessa assomiglia a quella di Dio.

Tra il sabato e la domenica, i Missionari della Consolata raggiungevano quasi tutte le cappelle e offrivano alle comunità la celebrazione eucaristica in un tour de force che, alla fine, lasciava esausti.

A volte si celebrava la messa, spesso soltanto la liturgia della Parola. L’importante era valorizzare il momento comunitario in modo che diventasse tempo di salvezza per i partecipanti.

I missionari, per comunicare la vicinanza di Dio alla vita quotidiana delle persone, rinunciavano al ruolo di maestri. Questo permetteva agli indigeni di essere soggetti della loro scoperta di Dio e della loro fede, con la loro identità e secondo i paradigmi della loro cultura.

Nell’accompagnare il cammino storico dei Wayú, illuminandoli con l’annuncio della buona notizia, la missione diventava pellegrinaggio spirituale verso il Regno. Si trattava di «camminare assieme» accompagnando un popolo in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e dialogo.

Molti segni, negli anni, hanno indicato che i Guajiros camminano verso la propria realizzazione storica. L’impegno e la testimonianza di un piccolo gruppo di cristiani, uniti alla diffusione di tante comunità ecclesiali, nate dal lavoro dei missionari, sono realtà tangibili. Si tratta di «comunità del Vangelo» nelle quali crescono rapporti umani di solidarietà e impegno per la trasformazione della realtà alla luce della parola di Dio. (S.F.)

Nascita di una Chiesa – Sinamaica

Tra le palafitte della laguna

A Sinamaica, il popolo añú (del gruppo Aruache, che nell’ultimo censimento del 2011 contava circa 21mila unità) vive in una condizione di marginalità e indigenza, anche a causa dello sfruttamento ambientale che degrada il territorio. Al loro arrivo, i missionari cercano di promuovere la vita a tutti i livelli: da quello materiale a quello spirituale.

Nel 1983 la missione ci spinge a navigare anche per la laguna di Sinamaica alla ricerca del popolo añú. Sembra di sognare quando ci addentriamo, per la prima volta, in questo angolo di paradiso. Di fronte a noi si presenta la visione di una placida distesa di acquitrini, solcata da canali, disseminata di palafitte e abbellita da una vegetazione lussureggiante. L’insieme dà l’impressione di un mondo incantato. Eppure capiamo presto che si tratta di una quiete agonica. La laguna, che con le sue palafitte e canali può evocare una lontana piccola Venezia o «Venezuela», sta morendo.

Una laguna che muore

La canalizzazione del lago di Maracaibo, per consentire alle navi petroliere di accedere ai ricchi giacimenti dello stato di Zulia, ha compromesso il delicato equilibrio ecologico di quest’ambiente, provocando la salinizzazione delle acque, la distruzione delle risaie e la scomparsa di molte specie vegetali e marine.

Di lì è iniziato pure il calvario di questi indigeni (chiamati anche «Paraujanos», o abitanti della costa del mare), causato dall’abbassamento e inquinamento delle acque, dalla loro sedimentazione e dall’impaludamento della laguna. Le eliche dei motori delle barche si rompono sui fondali a causa dell’acqua troppo bassa, ed è difficile raggiungere le palafitte che rimangono piantate nel fango.

Bisogna entrare in esse per conoscere la deplorevole condizione di miseria e abbandono in cui vive la gente. Colpisce il sovraffollamento di questi tuguri, stanzette dove vivono anche venti persone con gli occhi fissi sull’acqua torbida.

È la conseguenza delle disuguaglianze economiche e sociali, dell’abbandono e dell’ingiustizia.

Oltre alle persone, nelle palafitte ci sono poi altri inquilini: galline, cani, gatti e addirittura maiali.

La quantità di persone con disabilità ci fa sorgere numerosi interrogativi.

Di fuori, sul pontile, c’è un eterno fuoco sul quale si abbrustolisce il pesce, e grandi fasci di enea, il giunco che cresce nei pantani, ai margini della laguna, e che serve per fare stuoie, l’unica povera ricchezza di queste famiglie.

Privati della loro lingua, l’añú, che ormai più nessuno parla, e della loro cultura, gli stessi indigeni stanno morendo di stenti e malattie. Vivono nell’acqua, eppure ne sono privi, perché salmastra, inquinata, putrida. Alto è anche il tasso di mortalità infantile dovuto ai parassiti che aggrediscono l’intestino dei bambini. Gli uomini sono costretti a emigrare a Sud di Maracaibo, verso i porti di Altagracia, dove si dedicano alla pesca al servizio di grandi compagnie. Le donne, come la maggioranza dei Guajíros, praticano il contrabbando. Chi rimane nella laguna, si dedica alla pesca o alla raccolta di enea.

 

Una realtà da promuovere

In quest’ambiente, la Chiesa è chiamata a costruire il Regno di Dio tramite gesti di solidarietà concreta, specialmente verso i più poveri. È così che le suore missionarie Laurite decidono di andare a vivere nella laguna per incarnarsi nella sua realtà e condividere la vita dei suoi abitanti.

La scelta dell’inserzione, del radicamento, permette ai missionari di accompagnare gli Añú nella vita quotidiana aiutandoli a scoprire i loro carismi e possibilità.

I frutti non tardano: sorge l’asilo per i bambini, la scuola di tessitura dell’enea e della lavorazione del legno per i giovani. In un edificio costruito appositamente, si realizza l’esposizione e la vendita permanente dell’artigianato locale. Si crea un mercatino dove si commerciano al prezzo di costo i prodotti più comuni della dieta.

L’attenzione si rivolge anche alle tagliatrici di enea: quasi tutte donne anziane, costrette a stare l’intera giornata nell’acqua con il pericolo dei serpenti e delle razze marine.

Si tratta di un lavoro duro che, alla lunga, rompe le ossa, e che i commercianti di stuoie pagano una miseria. Bisogna promuovere una forma di lavoro solidale che sostenga la produzione e assicuri una più giusta retribuzione. Con difficoltà si riesce a vincere la loro riluttanza a riunirsi e si forma la «Cooperativa delle tagliatrici di enea»: una specie di sindacato che decide il prezzo unico e giusto del loro lavoro. Queste iniziative smuovono le acque, la gente si anima e crea la «Fondazione pro Laguna», costituita da rappresentanti del popolo añú. La fondazione si propone di migliorare le condizioni di vita della popolazione. I risultati positivi sfociano nella visita del presidente della repubblica Luis Herrera, e in quelle successive di sua moglie. L’acqua potabile arriva fino al porto, è installata l’elettricità in un settore della laguna e cominciano i lavori per dragare i canali tappati dalla sedimentazione delle acque.

Una chiesa su palafitta

La Madonna del Carmine rappresenta una lunga tradizione di fede per il popolo añú. Una piccola statua scrostata langue in una palafitta che, secondo il dire di alcuni, un tempo fungeva da cappellina.

In una notte di burrasca il fiume si porta via la chiesetta, vecchia e malandata, ma con l’aiuto di alcuni benefattori e il lavoro degli Añú, i missionari ne fanno sorgere una nuova, più grande ed elegante: si tratta, naturalmente, di una robusta palafitta dallo stile in perfetta armonia con le abitazioni dei Paraujanos. Le colonne possenti in legno, le travature a vista, le pareti a forma di palizzata e il tetto di giunco ne fanno un luogo di pace particolarmente adatto alla preghiera.

Qualcuno regala una nuova immagine della Madonna e qualcun altro una campanella, delizia dei bambini che non smettono di suonarla. Le feste patronali si fanno più sentite e partecipate. La regata della Madonna, lungo i canali, diventa una tradizione di incomparabile bellezza. Sboccia un germoglio di vita liturgica con le prime comunioni, qualche messa per i defunti e il primo matrimonio religioso.

Nella Laguna di Sinamaica si cerca di concretizzare il Vangelo attraverso uno sforzo di promozione umana non indifferente. Da qui nasce la Chiesa: una piccola comunità di cristiani, uniti da vincoli di carità, impegnati in prima persona nella crescita della loro gente.

Sergio Frassetto


Identificazione piena

I Missionari della Consolata nei 22 anni della loro presenza nella Guajíra, hanno cercato di identificarsi con il popolo, senza paura di perdere la loro dignità. Tra gli avventizi di Campamento, sotto una capanna, o tra i baraccati della Rancheria, sotto una tettoia di palme e, ancora, nell’emarginata Laguna del passero, sotto un albero. Si sono fatti transumanti come il popolo wayú, e l’hanno accompagnato, nomadi, attraverso il deserto, dietro le sue greggi, nei cimiteri con i suoi antenati, nei luoghi di festa condividendo le sue tradizioni, sulle strade del contrabbando mentre cercava la propria sopravvivenza.

È stato un cammino difficile, così come lo fu quello di Israele durante i 40 anni trascorsi nel deserto: quel gruppo di israeliti ex schiavi ebbe modo di sperimentare la presenza di Dio come di colui che si china sul povero per liberarlo dalla miseria e dall’oppressione. Per questo divenne l’«opzione» dei poveri d’Israele.

Allo stesso modo, i missionari e le missionarie della Consolata, nella Guajíra, hanno cercato di dare voce, attraverso la loro voce, alla parola di Gesù, di attualizzare negli eventi sacramentali i suoi gesti, di essere testimonianza del suo amore mediante uno sforzo di conoscenza e assunzione della realtà umana in cui erano chiamati a operare a favore dei poveri. In questo modo sono diventati il sacramento della compassione di Gesù che si china su coloro che hanno fame e sete, che piangono e soffrono, che muoiono. È così che la Chiesa ha conquitato il cuore della Guajíra e che Gesù è diventato l’opzione dei suoi poveri. (S.F.)

1976-1998: Guajíra, missione compiuta

La Guajíra che faceva parte del vicariato apostolico di Machiques, nel 1998 è diventata parte dell’arcidiocesi di Maracaibo, e i Missionari della Consolata, dopo 22 anni di presenza, si sono ritirati per aprirsi a un nuovo campo di lavoro.

Padre Giano Benedetti, ai tempi superiore della delegazione, ha descritto l’addio così: «Il 4 luglio 1998, durante una concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Ovidio Pérez, arcivescovo di Maracaibo, abbiamo consegnato la parrocchia di san José di Paraguaipoa al clero diocesano. Sinamaica e Guarero erano già state consegnate, rispettivamente a marzo del ’97 e del ’98. I Missionari della Consolata sono stati ringraziati, all’inizio e alla fine della messa, per il lavoro che hanno svolto fin dal 1976, quando era stata affidata loro la parrocchia di Guarero.

Sono stati ricordati per nome e cognome tutti i Missionari della Consolata che hanno annunciato il Vangelo nella Guajíra venezuelana. Anche mons. Ovidio ha ringraziato per la nostra opera e ci ha ricordato che le porte della sua arcidiocesi rimanevano aperte per noi.

I Missionari della Consolata hanno lasciato la Guajíra, ma la Consolata e il nostro carisma rimangono nella terra dei Wayú. Le Missionarie della Consolata continueranno [per qualche anno] la loro presenza a Paraguaipoa, e la
Madonna continuerà come patrona dei caseríos di Cojoro e san Rafael de Paraguachón.

Lasciando questa terra abbiamo ringraziato Dio per il dono della vocazione missionaria, coscienti d’averla vissuta con il nostro servizio, affinché anche i Wayú fossero un’offerta gradita a Dio e perché abbiamo cercato l’unica ricompensa di tutti gli apostoli: annunciare gratuitamente il Vangelo». (S.F.)

Le missionarie della Consolata

In Venezuela dal 1982, hanno collaborato con i loro fratelli missionari a Paraguaipoa, in Guajíra, e poi, dal 2006 al 2015, a Nabasanuka, tra i Warao. Si sono spinte fino al vicariato apostolico di Puerto Ayacucho, dove svolgono apostolato urbano in città; nella missione di Tencua, in piena selva amazzonica, tra gli indigeni Yecuana. La collaborazione con i missionari prosegue nel campo dell’animazione missionaria a Caracas.