L’ora dell’addio (Gv 16)

Il lungo discorso di Gesù, iniziato al capitolo14 del Vangelo di Giovanni, al capitolo 16 volge al termine: il maestro inizia a spiegare il motivo del discorso e ciò che accadrà. E sembra un discorso luttuoso.

I lettori del Vangelo lo sanno già, Gesù sta per avviarsi alla croce e fisicamente non sarà più presente insieme ai suoi discepoli. Come ogni separazione, questo è un motivo di tristezza. Resa però più complicata e tragica, qui, dall’impressione di fallimento. Questo perché la morte in croce sembrava comportare un rifiuto, una condanna da parte di Dio («Maledetto chi pende dal legno», scriverà Paolo in Gal 3,13). Non a caso è voluta proprio da coloro che si consideravano i rappresentanti di Dio in terra, sommi sacerdoti e scribi.

Gesù ammette che la croce potrebbe essere un motivo di «scandalo», ossia un inciampo che fa cadere, che confonde. Infatti, può far pensare che la pretesa di Gesù di mostrare il vero volto del Padre non abbia fondamento, che dica piuttosto il rifiuto di Gesù da parte di Dio. Per questo Gesù ne parla prima, di modo che i suoi discepoli sappiano bene che il Figlio resta sempre amato dal Padre.

Il fallimento, poi, è anche quello che sperimentano i discepoli nella vita di ogni giorno. Qui, il Vangelo parla innanzitutto ai contemporanei di Giovanni diventati discepoli: «Vi renderanno degli allontanati dalle sinagoghe» (v. 2). Noi, oggi, tendiamo a immaginare che i primi cristiani abbiano consapevolmente abbandonato la religione di Israele per abbracciarne un’altra, ma, in realtà, continuavano a sentirsi ebrei, convinti che fosse arrivato il Messia, pienezza delle promesse profetiche.

Anche i dodici, dopo la risurrezione, si erano fermati a Gerusalemme e andavano ogni giorno nel tempio, senza rompere, neppur minimamente, i rapporti con il mondo religioso ebraico.

Giovanni, quindi, mette in scena Gesù che prevede ciò che i lettori  stanno sperimentando nel momento in cui il Vangelo viene composto: l’essere espulsi dalla comunità religiosa ebraica. Non abbiamo certezza di quando e come ciò sia accaduto, se in contemporanea in tutto il Mediterraneo e se ovunque con la stessa durezza, ma è chiaro che durante la seconda generazione cristiana, i «fratelli» hanno iniziato a essere identificati come un movimento distinto dal resto degli ebrei e problematico, e a essere dichiarati «non graditi» nei luoghi di preghiera ebraici. È ovvio che l’immagine che questi cristiani hanno di se stessi possa andare in crisi.

È l’«ora», il momento decisivo, che fa cogliere le cose come stanno e costringe a prendere posizione. E l’«ora», ovviamente, è segnata anche dall’assenza di Gesù, che storicamente e fisicamente non è più presente tra i suoi.

Vado, e mando il Paraclito (v. 7)

La consolazione, offerta da Gesù ai suoi discepoli, si concentra sul dono dello Spirito Santo e comporta due dimensioni. Da una parte c’è la consapevolezza che l’ordinario della vita umana non comprende la presenza fisica di Gesù. Un Dio incarnato, che scende nell’umanità realmente e non per finta, deve accettare di essere presente solo in un tempo e in un luogo specifici, non in tutti gli altri, sempre. L’«ora», il momento decisivo di svelamento della realtà, comporta la separazione da Gesù, che ipoteticamente avrebbe anche potuto non morire in croce, ma sarebbe comunque dovuto morire separandosi dai suoi, a meno che la sua incarnazione non fosse soltanto finta.

Il secondo aspetto è quello più significativo: Dio non smette di essere presente. Lo è ancora nella forma dell’assistenza dello Spirito Santo, il quale prevede l’assenza fisica di Gesù per potersi esprimere.

Ecco allora che la certezza della partenza di Gesù diventa anche la promessa di una sua presenza diversa, della permanenza di una comunione che non viene meno in ogni caso.

La certezza di questa presenza Gesù la ricava dalla garanzia del Padre (v. 15), che ha tutto in mano e garantirà tutto ciò.

L’immagine utilizzata dal Vangelo per parlare dello Spirito è molto interessante: viene definito «paraclito». Questa parola indica l’avvocato difensore, che nei tribunali greci non parlava al posto dell’imputato, ma gli scriveva i discorsi e restava al suo fianco per suggerirgli come rispondere. Non è, quindi, chi fa al posto di un altro, ma colui che chiede il pieno coinvolgimento senza far mancare mai la propria presenza e assistenza.

Eccola, dunque, l’«ora», il momento in cui decidere di fidarsi di Gesù: quello nel quale si affianca alla certezza della sua assenza fisica, la certezza della presenza dello Spirito che conduce a un’esistenza autentica, reale, affidata alla libera responsabilità del discepolo.

L’opera dello Spirito (16,8-15)

Giovanni sceglie di affidarsi a una specie di enigma per spiegare che cosa farà lo Spirito presente nel mondo al posto di Gesù e da lui inviato.
L’evangelista fa dire a Gesù che lo Spirito, venendo, «dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio» (Gv 16,8).

È una scelta coerente quella di utilizzare un enigma che non spiega tutto, perché, in un certo senso, la vita di tutti è enigmatica, e va interpretata, intuita: la scelte che facciamo, le portiamo a termine senza certezze assolute, fidandoci di ciò che ci sembra garantirci bellezza e verità.

Giovanni, però, ci offre anche delle vie di soluzione, che non spiegano tutto e hanno fatto scrivere e discutere moltissimo, ma che se sono seguite nel loro contesto e nel discorso ci svelano abbastanza.

Sul peccato il discorso sembra chiaro: «Perché non credono in me», dice Gesù al versetto 9. Noi abbiamo spesso un’idea molto legalista del peccato, come se coincidesse con la disubbidienza a dei comandamenti. In realtà tutta la Bibbia, soprattutto nel Nuovo Testamento, richiama il fatto che il peccato è innanzitutto l’allontanamento da Dio e la mancata comunione con Lui. Sembrerebbe ovvio, allora, che «il non credere in Gesù» sia un peccato, perché è rifiutare la comunione definitiva offerta dal Padre attraverso di Lui. Ma anche il rifiuto dei fratelli che credono in Gesù e la loro espulsione dalle sinagoghe nella presunzione di interpretare la volontà divina, è peccato e segno di un comportamento che dimostra la non conoscenza del Padre (v. 3). La pretesa di accusare il peccato negli altri ci svela come peccatori, non in comunione con il Dio che vorremmo difendere, ma non conosciamo.

L’accenno alla giustizia, poi, potrebbe suonarci del tutto incomprensibile, e invece è proprio quello che ci aiuta a cogliere al meglio l’opera dello Spirito come la presenta Gesù: «Perché vado al Padre e non mi vedrete più» (v. 10). Che c’entra? Se pensiamo alla giustizia come adeguamento alle leggi, in effetti non sembra proprio entrarci niente. Ma, secondo la tradizione biblica, la «giustizia» è piuttosto la corrispondenza a relazioni corrette, sane, impostate bene. Giustizia è la visione del mondo secondo il piano di Dio. In questo piano, Gesù non è presente nella storia, nello spazio e nel tempo, è con il Padre. E questo significa che solo lo Spirito può aiutarci a impostare in modo corretto il rapporto con Gesù e con il Padre, i quali, non essendo presenti, non possono essere toccati e interrogati. Ecco lo spazio per l’opera dello Spirito, che può metterci nella relazione «giusta» con il Padre e il Figlio, fatta di affidamento e fiducia.

E questo spiega anche l’accenno al giudizio, il quale non è il pronunciamento di un giudice, ma la sentenza definitiva della storia, di Dio. Se il Padre non abbandona il mondo, vivere seguendo la logica del mondo e non secondo quella divina ci pone al di fuori della speranza di una vita autentica.

Non a caso Gesù insiste sul fatto che tra poco non sarà più visto dai discepoli, i quali, però, poi lo vedranno di nuovo (v. 16). La promessa è quella di riprendersi in mano la relazione con i suoi amici, ma nella realtà di una presenza nuova, non visibile.

Il Padre e la preghiera

Certo il passaggio dalla presenza fisica di Gesù a quella dello Spirito si sente ed è impegnativo, porterà però a una pienezza di vita simile a quella che si sperimenta al momento del parto per venire al mondo (v. 21).

La condizione alla quale i credenti sono introdotti è quella della vita normale delle persone, nella quale il rapporto con Dio passa da elementi non controllabili, non oggettivi. Non è il parlare a tu per tu con una persona, ma è una preghiera che da una parte è sfuggente ma dall’altra è sempre disponibile.

Il dilemma di fondo dell’essere umano, in effetti, è cogliere se «dall’altra parte» ci sia qualcuno che ascolta. Molto spesso la spiritualità si esprime tramite mediatori che consentano alle preghiere di arrivare al creatore, come se avessimo bisogno di qualche prova concreta per fidarci. È quello che alcuni settori della fede ebraica cercavano negli angeli e che a volte anche noi vediamo nei santi intercessori.

Gesù però è chiaro: sostiene che ci verrà dato ciò che chiederemo al Padre nel nome, con l’annotazione che fino a ora i discepoli non l’hanno fatto.

Qui potremmo anche offenderci, perché a chiunque di noi è successo di pregare senza ottenere nulla. Gesù precisa, però, «nel mio nome» (v. 23). Se questo significasse che basta intestare la domanda a Gesù, ci troveremmo di fronte a un padrino mafioso, che vuole la raccomandazione per farci un favore.

Quando ci presentiamo a qualcuno dicendo che ci ha mandati un amico, non usiamo quella indicazione come trucco per essere trattati meglio degli altri, bensì come presentazione: «Sono amico di Tizio, che è amico tuo, vogliamo le stesse cose, ragioniamo in modi simili, ci vogliamo bene: siamo quindi in sintonia anche io e te». Presentare richieste «in nome di Gesù» significa anche farlo come lo farebbe Gesù, con la stessa logica di fiducia e di dono di sé, con lo stesso sguardo appassionato e innamorato sul mondo.

Ma subito dopo Gesù è ancora più diretto. «Non vi dico che intercederò per voi presso il Padre, perché lui stesso vi ama» (vv. 26-27). Non c’è bisogno di pizzini o raccomandazioni. Gesù è il volto del Padre, ci mostra l’amore di cui ci ama il Padre. Il processo di svelamento è completo.
Ecco, allora, la ragione della reazione dei discepoli che a prima vista ci potrebbe sembrare incongrua: «Stavolta parli apertamente» (v. 29).

In realtà, anche in questo capitolo Gesù ha usato immagini, evocazioni. Ma è arrivato al punto: Egli vivrà con il Padre, dopo la risurrezione, però noi non siamo lasciati soli, abbiamo chi ci comprende, perché Gesù è stato uomo come noi. E, proprio perché non è con noi, ci lascia lo Spirito paraclito per continuare ad accompagnaci. Ed è proprio quell’uomo e Signore che ci dice che che ci possiamo fidare del Padre con la stessa tranquillità con cui ci fidiamo di Lui, e che il Padre ci ama come ci ama Lui. Sulla croce è come se ci fosse anche il Padre. L’amore visibile in Gesù è quello invisibile del Padre.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 19 – continua)




Il vignaiolo, la vite e i tralci (Gv 15)

Con il procedere del Vangelo, i discorsi di Gesù aumentano in numero e tensione. In particolare, quasi quattro capitoli raccolgono moltissime sue parole pronunciate durante l’ultima Cena.
Ad attirare ancora di più l’attenzione su un momento che tutti i credenti sanno già essere denso, è un stratagemma letterario interessante, utilizzabile solo da uno scrittore che non abbia paura di sembrare incapace.

Alziamo il livello

Il capitolo 14 del Vangelo di Giovanni si chiudeva in modo chiaro, con l’apparente uscita di Gesù e dei discepoli dal cenacolo: «Alzatevi, andiamo via di qui» (Gv 14,31). Dopo di che, però, inizia un lunghissimo discorso del Maestro nel quale, tra l’altro, fatichiamo a cogliere un legame unitario. Ovviamente non sono mancati i commentatori che hanno visto in questo passaggio poco elegante il segno di un intervento sul testo, posteriore alla sua stesura iniziale, con l’aggiunta di un pezzo. Però, tanti altri, anche predicatori antichi, hanno fatto notare che questi testi sono talmente fuori contesto che neanche un bambino ai suoi primi temi li avrebbe lasciati. Dovremmo piuttosto pensare che Giovanni, tutt’altro che sprovveduto, lo abbia fatto apposta affinché noi lettori ci domandassimo per quale motivo il testo è proprio così.

Le risposte a questa domanda, nella storia sono state molte. La maggior parte di esse hanno senso e potrebbero offrirci almeno una parte di verità. Ne scegliamo però solo una delle più convincenti: è probabile che chi ha composto il Vangelo (non ci importa se il primo autore o altri) abbia voluto dirci: «Il discorso di Gesù avrebbe potuto anche finire qui, perché è compiuto, non gli manca niente. Se lo riprendiamo, è perché vogliamo approfondirlo per sottolineare meglio alcune cose, anche con una certa apparente incoerenza. Ma siccome questa aggiunta è voluta, e non ci è semplicemente sfuggita, provate a cogliere il filo rosso che lega tutto».

Un linguaggio da innamorato

L’incoerenza che troviamo nel testo di Giovanni, appare simile a quella dei nostri discorsi, quando trattiamo ciò che ci appassiona. Se, infatti, vogliamo spiegare a qualcuno una cosa da fare o un concetto difficile, o vogliamo convincerlo, quello che facciamo di solito è provare a mettere in ordine preciso e chiaro i vari passaggi da fare, uno dopo l’altro. Se poi iniziamo a parlare di qualcuno o qualcosa che amiamo, che ci appassiona, allora il discorso si fa poetico, intricato, ripetitivo, sognante, procede più per accumulo e a spirale che in ordine logico. Perché un teorema posso chiarirlo, ma il mio amore non sento mai di averlo spiegato abbastanza.

Il linguaggio che Giovanni mette in bocca a Gesù è da amante. Ed è una scelta opportuna, perché il Signore non si limita a chiarire la propria autorità, o temi di dottrina, ma vuole mostrare definitivamente chi è il Padre e chi sono i discepoli. Non parla di teorie, ma di relazioni, e le relazioni più autentiche sono vissute nell’amore.

Mentre leggiamo i densissimi capitoli dal 15 al 17 del Vangelo di Giovanni, dovremmo ricordarci che non siamo di fronte soltanto a un’argomentazione teologica, ma a una poesia d’amore.

La vite autentica (15,1-9)

Il capitolo 15 inizia con un’immagine ben nota, limpida e toccante. «Io sono la vite autentica, il Padre mio il vignaiolo, voi i tralci» (15,1).

Anche se molti di noi non hanno mai potato o vendemmiato, il quadro è talmente nitido che siamo tentati di aggiungerci elementi, di completare l’allegoria.

Gesù è la vite, quella con le radici ben piantate per terra, quel ceppo che pare piccolo rispetto all’intero filare, ma senza il quale la vigna non è vigna. Se si guarda lo splendore dei grappoli si potrebbe anche non capire dove si trovi di preciso la vite madre, ma sappiamo bene che c’è e che senza di essa tutto sarebbe morto.

Sono i tralci che portano i frutti, non la vite, ma senza la vite i tralci non hanno linfa. È Gesù ad andare al cuore delle cose e a distribuire spirito di vita.

Egli è la vite «autentica», vera. Possiamo pensare di poter attingere spirito di vita da tante fonti, molte delle quali si presentano attraenti e generose, e alcune ci possono dare l’impressione, per un certo tempo, di nutrirci abbastanza, ma è Gesù l’unica autentica. Senza di lui, ossia senza il suo stile di rapporto con gli altri e con ciò che lo trascende (il Padre), senza il suo modo di essere uomo, non si vive bene, non si resta nell’autenticità.

Lui è lì, però, perché un contadino lo ha piantato e curato. Chi spiasse una vigna, per la maggior parte del tempo, non vedrebbe il contadino che la accudisce, ma il suo lavoro, che rischiamo di dimenticare, è indispensabile. Non è però un lavoro egocentrico: come il contadino non ha bisogno di sentirsi dire che lavora bene, ma gode nel vedere molti grappoli pieni e sani, così il Padre non cerca la propria gloria, ma che la vigna produca uva.

Con una sola immagine Gesù ha suggerito la propria centralità, la rilevanza assoluta dei tralci che portano frutto (cioè noi), e l’opera umile e discretissima del Padre, che a tutto ha dato origine. Addirittura, lascia intuire che anche ciò che può essere vissuto come una sofferenza e un impoverimento, la potatura, è finalizzata a portare un frutto più abbondante e più buono.

Gesù invita a non staccarsi da lui, ma anche a fidarsi dell’opera buona del Padre, ad avere pazienza. E ad amare, perché a legare il Padre, Gesù e i suoi discepoli è un rapporto di puro e profondo amore (v. 9), che non impone la sua presenza (chi vede la linfa scorrere?) ma è autentico.

Ubbidienti alla legge (15,10-17)

Se leggessimo in modo superficiale questo capitolo, potremmo pensare che dopo le belle parole, dopo la carota, arriva il bastone, l’invito a rispettare la legge.

Le cose, però, non stanno propriamente così: i discepoli devono ubbidire ai comandamenti di Gesù perché anche Gesù ha ubbidito ai comandamenti del Padre. E questi comandamenti, propriamente, sono uno solo, quello di amare. L’amore può essere una scelta (se ci liberiamo dalle semplificazioni romantiche per cui l’amore è soltanto trasporto e farfalle nello stomaco) ma non può essere un ordine. La logica dell’amore, infatti, è quella di volersi liberamente adeguare ai desideri dell’amato per farlo felice. In questo senso ci si può sentire «tenuti» a rispettare certi comportamenti, ma non si può parlare di obbligo di ubbidienza a una legge.

Nel momento in cui lo stesso Gesù si adegua ai comandamenti, cogliamo che non si tratta di ubbidire, ma di affidarsi con fiducia alla volontà di un padre buono. D’altronde, Giovanni insiste su questa dimensione: «Chi ama dà la vita per i suoi amici», «vi comando di amarvi», «non vi chiamo servi ma amici».

Nulla nella dinamica del capitolo o del Vangelo fa pensare che per essere dei buoni cristiani, per mantenersi in comunione con Gesù, sia necessario fare delle cose. Anzi, il gioco è proprio quello: «Vi chiedete che cosa dovete fare per restare in comunione con me? Il mio comandamento c’è, ed è chiaro, ed è semplicemente amare». Anzi, l’insistenza di Gesù non è neppure sull’amare Dio, ma sull’amarsi a vicenda come fratelli e sorelle: il frutto dei tralci (quello di cui si parla al v. 16) è esattamente l’amore reciproco che trae la propria linfa dalla vite che è Gesù.

E gli altri? (15,18-16,3)

L’ultimo passaggio del capitolo non può che far nascere la domanda su coloro che non hanno accolto Gesù e non fanno parte della comunità dei fratelli.

Di loro, del «mondo», come lo chiama l’evangelista, si parla in termini estremamente duri: odiano i discepoli perché odiano Gesù, e lo fanno perché non hanno conosciuto il Padre. Anzi, se non fosse arrivato Gesù, non avrebbero colpa, ma ora non hanno più scuse.

Ancora una volta, a una prima lettura ci sembrerebbe l’approccio di un integralista: noi siamo tutti buoni; gli altri, là fuori, tutti cattivi. Ma anche senza addentrarci in analisi esageratamente raffinate, non possiamo non accorgerci che questa interpretazione sarebbe incoerente con il Gesù dei vangeli, che accoglie chiunque vada a lui anche se non è perfetto, che dona la vita per gli esseri umani. Questo è molto chiaro anche anche nel quarto Vangelo: loda Natanaele che è molto perplesso su di lui, accoglie Nicodemo che lo incontra di notte per paura, compie miracoli anche per chi non crede ancora in lui, perdona l’adultera colta sul fatto, e così via.

Dobbiamo allora sforzarci di entrare nella logica poetica e amante di Giovanni.

Proviamo a pensare all’esempio dei nostri rapporti personali, soprattutto quelli più intensi e affettuosi. Di fronte a un’offerta di amore intenso, totale, pieno, non c’è la possibilità di rispondere a metà, di restare nella condizione di prima, di non esagerare. L’amore pieno si può solo accogliere o rifiutare, non sopporta di restare nello stato intermedio, come se nulla fosse stato detto e proposto.

Un Dio che si offre indifeso, mettendo a disposizione suo Figlio, pronto a dare la vita per l’umanità, non può tollerare una risposta interlocutoria, di chi fa qualcosa ma senza stravolgersi la vita.

E abbiamo esperienza di come proprio l’offerta di un amore così totale può respingere chi vorrebbe tenersi più in superficie, può causare durezza e intolleranza.

E allora, le parole di Gesù non vogliono tanto sostenere che coloro che sono fuori dalla comunità cristiana saranno odiati da Dio (mai si dice questo), quanto che chi non accoglie questa logica d’amore finirà per odiare quel Dio, per rimpiangerne uno severo e rigido, che punisca e resti adirato. E questa falsa immagine di Dio non potrà che spingere l’essere umano all’ira, all’odio. Prima di Gesù forse ci si poteva ancora sbagliare, ma ora, dice lui, non ci sono più scuse, il volto del Padre è chiaro.

Il Padre vuole solo essere amato. Quella è la sua legge, che si estende a tutti (i cristiani si amano e amano l’umanità perché si sentono amati da Dio). E siccome anche lui si muove secondo la legge dell’amore, desidererà essere ricambiato, ma non sarà capace di forzare la mano: l’amore non sopporta costrizioni, altrimenti diventa violenza. E anche il Padre, che ama, è disposto semmai a subire violenza, ma non a farne. Sempre di più quello che Gesù dice e fa ci parla soprattutto di colui che lo ha mandato, per amore dell’umanità.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 18 – continua)




In dialogo con i discepoli (Gv 14)

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù parla molto. Nell’ultima sua sera con i discepoli parla davvero moltissimo. Nel capitolo 13, innanzitutto spiega il senso del suo gesto di lavare loro i piedi, poi prosegue rispondendo a quattro domande, poste da quattro discepoli diversi.

Il primo a prendere la parola è Simon Pietro (Gv 13,36). Dopo le parole di Gesù che affermano: «Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma […]: dove vado io, voi non potete venire», il discepolo gli domanda «Signore, dove vai?». La risposta di Gesù si incentra dapprima sul rinnegamento di Pietro, poi, con l’inizio del capitolo 14 il discorso diventa più profondo. Succede anche grazie alle domande che Giovanni, nel suo Vangelo, attribuisce ad altri discepoli. Questa è una caratteristica tipica dello stile di scrittura giovanneo, e la troveremo molto presente nei capitoli successivi.

Turbamento e pace (vv. 1-4)

Il capitolo 14 inizia con le parole di Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 14,1). Per il mondo semita il cuore non è la sede dei sentimenti (che sono collocati nelle viscere) ma delle decisioni. Il cuore è l’organo che media tra viscere e testa. Ci può succedere di non riuscire a dominare le nostre emozioni, però normalmente manteniamo noi il controllo sulle nostre decisioni. Ed è a questo livello che Gesù invita a non farsi prendere dall’agitazione o dal panico.

Il Dio della Bibbia, e ancora di più del Nuovo Testamento, non vuole spaventarci, impressionarci, tenerci legati a sé con la paura o le minacce. Sempre interviene invitando a non temere, a non piangere, ad avere fiducia accogliendo la pace. Se nella storia della Chiesa a volte si è preferito sostenere l’immagine di un Dio severo e solenne, perché pareva più adeguato ed efficace, esso però non è il volto di Gesù, né, quindi, del Padre.

Quello a non temere non è un semplice invito vuoto e generico. Gesù sostiene che si debba mantenersi sereni perché nella casa del Padre ci sono molti posti, altrimenti non avrebbe detto che va a prepararli (v. 2), e siccome va a prepararli, questo significa che tornerà (v. 3). D’altronde, i discepoli conoscono già la via per arrivare alla casa del Padre (v. 4). Certo, questo non toglie che sia necessario avere fiducia (v. 1), perché non vediamo ancora tutto. Ma il legame con Gesù ci può spingere a fidarci delle sue promesse. Non ci sono dimostrazioni scientifiche, la nostra serenità non si fonda su dati oggettivi incontrovertibili, ma su una relazione personale che è di amicizia e affidabilità. La nostra serenità si fonda non sulla prova che tutto andrà bene, ma sulla rassicurazione di Gesù che saremo sempre con lui.

La domanda di Tommaso (vv. 5-7)

A questo punto, interviene un secondo discepolo: Tommaso. Normalmente è conosciuto per il suo «non credere» all’apparizione del Risorto (Gv 20,24-28), ma è già stato colui che nel capitolo 11 ha lucidamente osservato che tornare a Gerusalemme avrebbe comportato il rischio della morte (11,16). Tommaso è la persona razionale, che muove una domanda ragionevole: «Non sappiamo dove vai. Come facciamo a conoscere la strada?» (14,5).

La risposta di Gesù è però, almeno in apparenza, tutt’altro che razionale: «Sono io la via, la verità e la vita» (v. 6). È una risposta spiazzante, come è tipico del Vangelo di Giovanni. Vale quindi la pena provare a capire le cose come vengono dette.

Normalmente, per sapere quale percorso intraprendere, fissiamo prima la meta. Gesù ci invita a capovolgere l’ordine: noi conosciamo lui, che è la via. Guardare a Gesù ci fa cogliere come andare al Padre. Non importa il dove andare, ma il come: cioè con la modalità di vita di Gesù. Questo ci dice che già adesso non siamo separati dal Padre, Lui, in qualche modo, è già con noi, nel nostro andare. Il cammino è la meta.

Ecco allora che deve aver ragione Gesù a definirsi anche la verità e la vita. Se lui è la strada per andare al Padre, e non importa il tragitto, ma il cammino sulle sue tracce, è lui a metterci in comunione autentica con il Padre, la verità che ci dà la vita.

La domanda di Tommaso avrebbe pieno senso, anche metaforico, se il Padre ci chiedesse un «minimo etico»: fare almeno certe cose, osservare almeno dei comandamenti specifici. Una comunità organizzata si dà inevitabilmente anche dei precetti e delle regole. Lo ha fatto anche la primissima Chiesa. Giovanni ci invita però a riscoprire che le regole sono secondarie. La risposta di Gesù ha senso se al Padre sta a cuore non ciò che facciamo, ma il fatto di essere in comunione con Lui. Allora il camminare verso Lui è già essere alla sua presenza. Ha ragione Gesù: anche se non conosciamo la meta, conosciamo già la via. L’arrivo ci sorprenderà. Intanto sappiamo di non essere fuori strada.

E Gesù può arrivare a dire esplicitamente che, se conosciamo lui, abbiamo già visto il Padre (v. 7). Il volto di Dio lo conosciamo già, anche se siamo ancora in cammino. Anzi, siamo in cammino perché conosciamo il volto del Padre, che è quello di Gesù. Ciò che cogliamo in Gesù è già la comunione piena con il Padre.

Da Jesus Mafa

La domanda di Filippo (vv. 8-21)

Filippo ci sembra l’entusiasta dei Dodici: chiamato da Gesù mentre dal Giordano ritorna in Galilea, coinvolge anche Natanaele (Gv 1,43-46). È lui a reagire subito prima della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Gv 6,5-7) e a informare Gesù che dei greci lo stanno cercando (Gv 12,21-22).

Lui chiede a Gesù di poter vedere il Padre, di avere direttamente la meta davanti a sé. Questo offre a Gesù la possibilità di ripetere ai discepoli che, per vedere il Padre, basta guardare al Figlio (v. 9). Anzi, la piena comunione tra il Padre e il Figlio, che permette di conoscere il Padre senza averlo visto, è una dimensione in cui Gesù inserisce da subito anche i discepoli.

Seguiamo i passaggi: il Padre e Gesù sono l’uno dentro l’altro, vedere Gesù implica vedere il Padre, come si può notare dalle azioni di Gesù (vv. 9-11).

L’accenno alle azioni è interessante, perché la conoscenza del Padre non è qualcosa di teorico, di astratto, ma si innesta nella vita, anima la vita stessa, quella di Gesù e, quindi, quella dei discepoli. Allo stesso tempo, queste azioni hanno bisogno delle parole di Gesù che le spieghino, perché il suo rapporto con il Padre non è una relazione magica, di eventi e segni che accadono da sé, ma è una vita piena, autentica, concreta che conosce le proprie coordinate, sa le ragioni della propria fiducia. Non c’è una conoscenza astratta senza vita vissuta, né lo spontaneismo di una vita che non si interroghi su di sé.

Il secondo passaggio è che in questa armonia tra Padre e Figlio è inserito anche chi crede in Gesù (vv. 12-14), al punto da arrivare a dire che i discepoli faranno opere più grandi di Gesù stesso.

Perché un’affermazione del genere abbia senso occorre che Dio non sia un giudice severo che vaglia le scelte umane, ma un padre amorevole che vuole vivere nella comunione con i suoi figli, al punto da non offendersi, ma, anzi, inorgoglirsi nel vedere che i figli hanno fatto di più e meglio del padre. È solo con un Dio così che ha senso un Gesù tutto concentrato sulla comunione.

Il terzo passaggio (vv. 15-21) è un appello di Gesù, apparentemente incongruo, a rispettare i comandamenti. In realtà di incongruo non c’è niente, perché i comandamenti che Gesù lascia sono quelli dell’amore, di quella stessa dimensione di affetto e dono di sé che lega Padre e Figlio e che accoglie anche gli esseri umani. È in questo contesto che si ricomincia a parlare dello Spirito, soffio divino inafferrabile ma percepibile, che non si presenta come un «di più», ma come colui che entra nella stessa relazione di amore rendendo possibile anche agli uomini di farne parte.

Nulla parla di ubbidienza a regole formali, tutto si esprime con il linguaggio dell’affetto.

La domanda di Giuda (vv. 22-31)

Al versetto 22 Giovanni presenta la quarta domanda, formulata da Giuda. L’evangelista precisa: «Giuda, non l’Iscariota».

Per la tradizione, questo Giuda coincide con il discepolo che negli altri Vangeli è chiamato Taddeo. Questa è un’altra sorpresa che Giovanni ci riserva: sceglie di introdurre qui  un personaggio finora non nominato, omonimo di un altro ben più noto, quell’Iscariota che ha deciso di ragionare secondo il mondo, tradendo per denaro.

Grazie al confronto con l’Iscariota, risulta ancora più evidente il percorso inverso di questo Giuda, che si pone la domanda sul mondo a partire da quello che ha scoperto su Gesù: «Perché ti sei rivelato a noi, e non al mondo?» (v. 22). È una domanda generosa, buona.

La risposta di Gesù riprende le modalità che abbiamo già imparato a riconoscere. Proviamo a usare parole diverse da quelle del Vangelo: «Voi mi avete conosciuto, mi avete seguito, quindi avete visto il Padre, avete osservato i suoi comandamenti (cioè, mi avete amato) e siete dunque coloro che possono ricevere lo Spirito Santo».

Tutto è relazione personale, non il semplice rispetto di una regola esteriore. Non si è di «quelli di Gesù» perché si fanno delle cose o si rispettano delle norme, ma perché si ama. E l’amore è fatto di relazioni, che possono non avere ragioni. Non esiste uno statuto con delle norme alle quali si decide di aderire così che poi si venga premiati; c’è invece un aver incontrato le persone giuste, forse semplicemente perché si camminava in un certo luogo in un certo momento. Questa casualità sarebbe ingiusta, se l’amore fosse poi giudicante ed escludente. Ma non lo è.

Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Padre di Gesù, che avrebbe potuto essere pensato come un giudice giusto ma solennemente severo, si mostra semplicemente come amorevole e amante.

Da Maria Mfariji shrine, Marsabit, Kenya, L’ultima cena

La pace di Gesù

A questo punto, per la prima volta nel Vangelo, Gesù utilizza l’espressione «Spirito Santo», due parole che quasi non si dovrebbero mettere insieme perché esprimono due realtà contraddittorie: lo «spirito» (o il «soffio», il «vento») è una realtà inafferrabile, incontenibile e invisibile, anche se la si percepisce. Il «santo», invece, nel mondo ebraico è qualcosa di messo da parte, riservato, rinchiuso e protetto perché non sia contagiato dal profano.

Lo Spirito Santo è Dio che si mostra in modi imprevedibili e inafferrabili, eppure logici, coerenti con Gesù, legati indubitabilmente a Dio, al Padre.

È in questo contesto che Gesù promette la pace, ma una pace che è la sua, non simile a quella del mondo. Quando il mondo dà la pace, lo sappiamo e lo vediamo, spesso la dà sterminando le opposizioni: «Fecero un deserto, e lo chiamarono pace» (dal De Agricola di Tacito, ndr). Persino noi che siamo senza potere, quando vediamo ingiustizie, guerre e distruzioni, sentiamo l’istinto di distruggere chi distrugge. Vorremmo combattere la morte senza uscire dalla logica di morte.

Gesù non spiega in che cosa la sua pace sia diversa, ma invita di nuovo a non avere il cuore turbato, e parla della sua assenza, che parrebbe non entrarci niente. In realtà la serenità del cuore a cui ci invita è esattamente quella di chi sa di non essere solo anche se non vede nulla.

Sì, è vero, sta arrivando «il capo del mondo», che vorrà mettere le mani su Gesù, ma l’amore del Padre e di Gesù renderà i discepoli intoccabili. Non perché il capo del mondo non possa dare la morte (Gesù verrà ucciso) ma perché non potrà fermare l’amore, che vince anche la morte. E la stessa sorte di vita toccherà chi vive in comunione con Gesù e con il Padre.

La pace di Gesù è questo volto del Padre che ama, senza condizioni e senza regole. Al punto che può dire che per rispettare i suoi comandamenti è sufficiente amare.

Al versetto 31, Gesù sembra finire il discorso («Alzatevi, andiamo via da qui»: v. 31), anche se poi parlerà ancora molto. È un segno per il lettore: il discorso continuerà, ma sarà un approfondimento, in quanto l’essenziale è già stato detto tutto.

Il volto del Padre è già visibile nella vita di Gesù, in una vita che sta per essere donata per amore, ma non verrà cancellata. «Non sia turbato il vostro cuore».

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 17 – continua)




Amare è servire (Gv 13)

Nel nostro percorso lungo il Vangelo di Giovanni, siamo arrivati all’ultima cena, che nel quarto evangelista assume un carattere molto particolare perché non ci narra l’istituzione dell’eucaristia, che tutti i cristiani sanno essere accaduta proprio in quella sera. Invece, ci racconta di Gesù che si china a lavare i piedi dei suoi discepoli. Si tratta di una sostituzione intenzionale. Giovanni sa perfettamente che persino il credente più distratto e superficiale si aspetta, arrivati alla cena pasquale, che Gesù spezzi il pane e condivida il vino. Eppure, narra altro, ossia un gesto di servizio straordinario, solitamente riservato agli schiavi, da parte del «maestro e Signore». È un gesto insistito, narrato con calma, con una discussione con Pietro che attira ancora di più l’attenzione dei lettori. Quindi arriva la cena, con l’indicazione del tradimento e del traditore.

Seguirà un lunghissimo discorso di Gesù, in due tempi (di cui ci occuperemo in seguito). Ma è chiaro, intanto, che i ritmi abbastanza serrati della prima parte del vangelo, con una serie di «segni» e dibattiti raccontati, lasciano ora spazio a tempi più dilatati con una concentrazione ancora maggiore su Gesù e in particolare sulla sua ultima cena e sulla sua croce.

Il senso globale

Noi siamo abituati a raccogliere il senso di argomentazioni e dimostrazioni alla fine di un’argomentazione, come riassunto. I racconti antichi, però, spesso anticipavano all’inizio quello che aiutava a capire anche i singoli particolari che poi seguivano. È la modalità seguita da Giovanni. I primi tre versetti del tredicesimo capitolo del Vangelo sembrano una semplice introduzione, ma in realtà offrono la chiave di lettura di ciò che segue.

Anzitutto Giovanni ci dice che ci troviamo prima della festa di Pasqua (v. 1). Sappiamo già che non si tratta di una festa banale, perché ricordava e prometteva la liberazione dall’oppressione, in una dinamica di fiducia che coinvolgeva molto altro: era la festa dei pastori che abbandonavano la sicurezza degli accampamenti invernali mettendosi a rischio per arrivare ai lontani e ricchi pascoli primaverili; era il tempo del nuovo raccolto dell’orzo per cui i contadini gettavano le farine rimaste dall’anno prima, confidando che la nuova mietitura sarebbe stata abbondante; ed era soprattutto la memoria della decisione degli ebrei in Egitto di abbandonare una schiavitù che dava però anche la certezza di «mangiare cipolle», e di affrontare il rischio mortale di entrare nel mare per accogliere una promessa di vita da parte di Dio.

Nel quarto Vangelo questa è già la terza Pasqua narrata: la prima (Gv 2,13) era caduta subito dopo il miracolo delle nozze di Cana e aveva visto Gesù scacciare dal tempio i mercanti; intorno al tempo della seconda (Gv 6,4) Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci per una folla di cinquemila uomini, prima di parlare dell’eucaristia.

Ora ci troviamo dopo il ritorno alla vita di Lazzaro, quando i capi religiosi hanno deciso di mettere fine alla sfida costituita da Gesù, il quale proprio a Pasqua entra in questa dinamica di decisione fiduciosa: è il momento di osare, di fidarsi, di «scommettere» sull’affidabilità del Padre abbandonando le relative sicurezze offerte dallo starsene nascosto lontano da Gerusalemme.

In che direzione andrà questa fiducia? Qual è lo scopo di Gesù? Vuole dimostrare la propria divinità? Che è potente ed efficace? Che ha ragione? Giovanni ci dice che Gesù decide di amare i suoi che sono nel mondo fino alla fine (v. 1). È il primo elemento decisivo da tenere presente in questo racconto. Non si tratta di dimostrare la verità di ciò che Gesù proclama, né di imporre la propria forza, ma di amare. Fino alla fine. Fino a dare la propria vita. Il fulcro del discorso non è la dimostrazione di chi sia Gesù, ma del suo amare.

L’«ora», il momento decisivo, verte sull’amore. Se Gesù avesse tergiversato, se avesse atteso ancora, se si fosse ulteriormente nascosto, avrebbe cominciato a lasciar intendere che il suo amore per i discepoli, per «i suoi», era condizionato, arrivava solo fino a un certo punto, finché non rischiava troppo. Invece no, giunge fino «alla fine», alla morte, nel momento in cui il diavolo già ha ispirato Giuda a tradirlo (v. 2).

La lavanda dei piedi

Il gesto di aiuto servile che «prende il posto» dell’istituzione dell’eucaristia mira esattamente a esprimere questo dono di sé per amore, che però è a sua volta introdotto da un’altra osservazione che ci potrebbe sembrare fuori posto. Si dice, infatti, che Gesù fa questo perché sa che il Padre gli aveva dato tutto in mano (v. 3) e che dal Padre veniva e al Padre ritornava.

L’evangelista vuole che ci chiediamo perché questa osservazione sia stata inserita qui. Gesù lava i piedi ai suoi discepoli senza negare di essere «maestro e Signore» (v. 13), ma proprio perché li ama. E, infatti, invita i discepoli a fare lo stesso tra di loro, imitando il loro Signore,
seguendo le tracce del loro
maestro.

Questo gesto, però, è messo sullo sfondo del rapporto di Gesù con il Padre. Gesù si fa servo perché il Padre gli ha messo tutto in mano. Non è la servitù di chi riconosce la propria piccolezza, bensì il servizio di chi si fa umile per amore. Il cuore del discorso non è l’umiliazione, ma il servizio, l’utilità per l’altro, il bene di coloro cui si vuole bene. E nel momento in cui Gesù esprime in questo modo il proprio dono di sé ai discepoli, proprio il fatto di aver avviato il discorso esplicitando il suo legame con il Padre ci ricorda che ciò che Gesù mostra non è innanzitutto la propria umiltà o bontà d’animo, ma il cuore stesso di Dio.

È il Padre che vive la propria grandezza nel donarsi per gli altri, per i suoi amati. È Dio che mostra la propria potenza creando, ossia donando la vita ad altri. Gesù agisce come fa perché è legato al Padre, da lui viene, a lui torna, ed è il suo volto che mostra ed esprime.

Ma se tutto ciò era già stato detto nel Vangelo, e qui semmai arriva al suo culmine in quanto ci troviamo nell’ora della decisione, inizia a emergere un’altra dimensione, che per ora è appena accennata, ma che presto diventerà centrale.

Il gesto della lavanda dei piedi, che mostra il volto del Padre nelle azioni del Figlio, diventa anche quello che Gesù invita i discepoli a riprendere. Non si tratta di un’imitazione banale del lavaggio, come è ovvio, ma del suo senso: «Fate lo stesso anche voi, amatevi!» (v. 14). Gesù invita a imitare lui e il suo amore senza limiti, come segno di essere suoi veri discepoli e per essere autenticamente beati (v. 17). Ma quello che Gesù mostra è l’amore del Padre. Per la prima volta nel Vangelo, ancora quasi timidamente, si dice che l’orizzonte ultimo dell’imitazione di Gesù da parte dei discepoli sarà di mostrare il cuore del Padre e unirsi a lui. Quel Padre inarrivabile, che nessuno ha mai visto, che ci viene mostrato in Gesù, ci invita a imitare lui e a essere in comunione con lui, non solo con suo figlio Gesù, ma proprio con lui, il Padre.

Sarà un tema su cui Giovanni tornerà, ma che ha iniziato a mettere discretamente sul tavolo.

Amore e tradimenti

Chi impone una legge, decide anche le sanzioni di fronte alla sua violazione. Chi chiede amore, potrebbe porre delle condizioni, in mancanza delle quali quell’amore verrà ritirato.

Ma chi si impegna ad amare «fino alla fine», incondizionatamente, è esposto al tradimento, o almeno alla fuga. Chi ama così si fa fragile, e non mancano nella storia umana, anche nel nostro tempo, le voci che invitano a non fidarsi troppo, a non perdere nell’amore la propria dignità. Possono essere consigli forse sensati e utili nella storia umana, ma è chiaro che il Dio della Bibbia non intende seguirli. Il Dio che si mostra nella vita di Gesù ama senza condizioni, e per questo si fa fragile, si espone alle ferite, ai tradimenti. E quando questi arriveranno, come reagirà?

Gesù lava i piedi a tutti e dodici i suoi discepoli. Anche a Giuda, quindi. E non perché non sappia ancora niente, in quanto mostra di aver compreso che è arrivato il momento del tradimento, e chi sia a compierlo. Ne parla esplicitamente, tanto che i discepoli iniziano a chiedersi chi sia il colpevole (vv. 21-22) e Pietro chiede al «discepolo che Gesù amava» di indagare.

La risposta di Gesù è solo apparentemente enigmatica, in quanto indica con chiarezza un discepolo solo, che invita poi a fare subito ciò che deve fare (v. 27). Il segno con cui lo indica, però, è particolare, perché intingere un pezzo di pane nel sugo e offrirlo a una persona, è un gesto di tenerezza e affetto. Gesù è consapevole del tradimento, ma non risponde con astio o vendetta. Piuttosto, offre comunione e amore fino alla fine.

Con la stessa tenerezza quasi rassegnata anticipa anche a Pietro il suo rinnegamento (v. 38). L’amore divino non ama perché viene a sua volta amato, ma ama a prescindere, fino alla fine, qualunque cosa succeda.

L’amore dei discepoli

Quell’amore del Padre, attestato da Gesù, è l’ideale in cui Gesù chiede anche ai discepoli di entrare: «Sapranno che siete discepoli miei da come vi amerete» (v. 37). Perché a caratterizzare il volto di Dio, e quindi il volto autentico degli uomini perfetti, non è la forza, la decisione, la chiarezza di idee o di progetti, ma l’amore. E quanto più i discepoli di Gesù sapranno amarsi a vicenda, tanto meglio vivranno la loro umanità e assomiglieranno al Padre.

Gesù, tuttavia, non è un ingenuo. Prevede il tradimento di Giuda, ma anche il rinnegamento di Pietro (v. 38). In generale, ammette che là dove va lui, sulla strada dell’amore pieno, generoso, totale, senza condizioni, Pietro non può ancora andare. Pietro, ossia il primo dei discepoli, il loro rappresentante, per ora non può seguire Gesù sulla strada dell’amore pieno e incondizionato. Si tratta di crescere, di imparare, di aumentare la propria umanità imitando sempre meglio il volto di Dio. Non si può improvvisare.

Nello stesso tempo, però, l’amore divino non viene meno. Il tono è delicato, come di fronte a certi istintivi ma impossibili slanci di bambini piccoli. «Non puoi per ora seguirmi» (v. 36) implica che un giorno forse potrai, avrai imparato a imitarmi fino in fondo. Per ora, però, nonostante il nostro limite, Gesù e il Padre già lo amano. Ci amano. Senza condizioni.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 16 – continua)




Gesù, rivelazione del volto del Padre (Gv 12)

Gesù è ormai a Gerusalemme. Giovanni ha alluso diverse volte al fatto che le autorità religiose vogliono la sua morte, e lui ora è proprio lì, nel luogo dove il loro potere è più forte. Se ne fosse rimasto lontano, con buona probabilità, avrebbe evitato ogni problema, invece è andato a infilarsi nella città santa proprio in occasione di una festa significativa come la Pasqua che portava a Gerusalemme molti pellegrini. Cosa che poteva essere letta come una provocazione. Tommaso aveva già tratto le conseguenze definitive: «Andiamo anche noi a morire con lui!» (Gv 11,16).

In questo contesto, Gesù con i suoi discepoli si prepara alla cena di Pasqua. Qui arrivano finalmente a piena chiarezza alcune sue considerazioni riguardo il suo rapporto con il Padre.

Il racconto

Il capitolo 12 del Vangelo di Giovanni è pieno di gesti e dialoghi e, se non tutti sono utili per la nostra indagine su come Gesù mostri il volto del Padre, sono però significativi per impostare lo sfondo.

«Sei giorni prima della Pasqua» (Gv 12,1) Gesù si presenta a tavola a Betania, da Lazzaro e dalle sue sorelle. Una di loro, Maria, gli unge di olio i piedi, causando la protesta di diversi presenti. Non solo per lo spreco di denaro, ma anche, e soprattutto, perché il nardo purissimo con cui lei gli unge i piedi evoca le cure che si prestano ai cadaveri.

Poche righe più avanti, Giovanni parla della folla di giudei che accorreva da Gesù anche grazie alla presenza di Lazzaro, che Gesù aveva resuscitato dai morti, e lega questa descrizione con l’affermazione che i capi dei sacerdoti, «allora decisero di uccidere anche Lazzaro», oltre a Gesù.

Tutto, in queste righe, è segnato dall’incombere della morte.

Questo vale anche per due episodi seguenti, apparentemente scollegati tra di loro. Nel primo Gesù viene proclamato come il messia che viene: il grido di «Osanna» da parte della folla, nel suo entrare a dorso di un asinello e i rami di palma con cui è salutato, richiamano le attese messianiche. Un passaggio di gloria, di esaltazione, quindi. Ma, immediatamente dopo, Giovanni ricorda di nuovo i suoi nemici e la loro sensazione di dover agire presto.

Di seguito, l’evangelista racconta della richiesta di alcuni «greci» di voler conoscere Gesù, e di come Gesù stesso legga la loro richiesta come segno dell’arrivo della sua «ora», del momento decisivo in cui essere glorificato, che, nelle parole di Gesù, rimanda subito alla morte.

Neppure il lettore più distratto o che non sappia già quale sia stata la sorte di Gesù, può sfuggire a un senso di angoscia per ciò che potrebbe accadere. E il confronto con la morte non è mai qualcosa di banale, comporta sempre un’attenzione e una profondità speciali.

È a questo punto, e su questo sfondo, che Gesù torna a parlare del Padre.

La gloria del Figlio (Gv 12,23-28)

Se riuscissimo a leggere il Vangelo da ignari, senza sapere già dove va a finire, è probabile che resteremmo fortemente stupiti dalla logica del discorso di Gesù.

Egli viene cercato dei «greci», con tutta probabilità ebrei di lingua greca, arrivati a Gerusalemme in pellegrinaggio per Pasqua. È però vero che la formula, volutamente ambigua, potrebbe quasi lasciarci pensare che Gesù inizi a essere cercato anche da coloro che non fanno parte del suo popolo, il che avrebbe anche una valenza religiosa. In ogni caso, è facile pensare che la fama di Gesù inizi ad allargarsi oltre le sue frequentazioni. È logico, comprensibile, persino ovvio, che di lui si parli sempre di più in giro. E potrebbe sembrarci ovvio che, da questa constatazione, Gesù ricavi la spinta per muovere qualche sfida nuova, per porre un gesto simbolico, fare qualche passo ulteriore e allargare il proprio cerchio d’influenza.

E, invece, inizia a parlare della propria morte. Dice, ad esempio, che il chicco di grano deve morire, altrimenti non può donare la vita: un passaggio che pare illogico, a meno che non cogliamo che Gesù, parlando della propria morte, non la presenta come un’eventualità o una minaccia inevitabile, ma, nella prospettiva del dopo, come di un’opportunità. Il seme muore, ma morendo produce nuova vita (v.24). Il contrario di chi vuole conservare la propria vita e, così facendo, la perde (v. 24), come chi custodisce la propria vita per il mondo a venire, perdendola in questo (v. 25). Lo sguardo è propositivo, ottimista, rivolto al futuro: quella morte serve per avere altra vita.

Ma non sarà solo un’illusione? Qual è il fondamento di questa serenità? È solo lo sforzo morale di un martire convinto di essere nel giusto, e che confida in un domani nel quale ci si ricorderà del suo sacrificio e lo si saprà valorizzare? Ha un semplice valore di esempio?

Se così fosse, nulla costringerebbe Gesù a restare a Gerusalemme: potrebbe continuare a predicare in Galilea dove i farisei potrebbero, al massimo, impegnarlo in qualche discussione teologica. Oppure potrebbe anche lasciarsi incontrare da quei «greci» che forse gli organizzerebbero qualche tournée all’estero. Perché andarsi ad infilare nella tana del lupo?

Onorato dal Padre (Gv 12,29-36)

Proprio il modo con cui Gesù prosegue il discorso, però, ci aiuta a capire la sua logica: dopo l’accenno al chicco caduto in terra e alla custodia della vita per il mondo che verrà, invita i suoi servi ad andare là dove va lui (se ne deduce: offrendo la vita come lui) e, quindi, aggiunge che in quel modo il Padre li onorerà. Nel senso che il Padre non dimenticherà il loro sacrificio? Non solo.

Gesù va ancora avanti chiedendo al Padre di dare gloria al suo nome. E questo appello giunge come reazione all’ipotesi, che Gesù respinge, di chiedere di essere salvato da quell’ora. È a quel punto che arriva dal cielo una voce («non per me, ma per voi»: v. 30) che conferma che il Padre ha glorificato il proprio nome e ancora lo farà.

Proviamo a mettere ordine. Per noi «glorificare qualcuno» può significare esaltarlo, lodarlo, incensarlo. Per il mondo biblico è qualcosa di un po’ diverso: significa valorizzare qualcuno per ciò che davvero è, per le sue qualità autentiche, per le sue imprese effettive. Glorificare un atleta non significherebbe affermare che è il più forte del mondo, ma raccontare le sue gesta sportive.

Come può allora la morte di Gesù entrare nella glorificazione del Padre? Solo se quel dono della propria vita, cui Gesù invita anche i suoi discepoli, evita di essere un sacrificio in solitaria, di mostrare solo la propria forza morale. Solo se, invece, mostra il volto del Padre, la sua gloria, allora, non è l’esaltazione dell’«essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra», bensì del Dio che dona la vita creando, e continuando a donare la propria vita nel Figlio.

Quello che Dio sembra chiedere ad Abramo nel libro della Genesi, il dono del suo figlio, «il tuo unico figlio, che ami» (Gen 22,2), ossia non il sacrificio di se stessi, ma di una persona amata, il Padre non lo pretende dall’uomo, ma lo offre lui per primo.

Il dono di sé di Gesù è, allora, lo svelamento più autentico del volto del Padre, la sua gloria: il Padre non cerca la vita propria, ma quella degli esseri umani.

Ecco il motivo del grido di Gesù: «Che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12,27). È chiaro il turbamento di fronte alla propria morte, ma nello stesso tempo è altrettanto chiaro che Gesù mostra appieno il volto del Padre e compie così la sua più autentica missione.

Giudizio del mondo

Anche noi continuiamo a pensare a Dio innanzi tutto come a colui che, alla fine, giudicherà il mondo. E c’è sicuramente un aspetto autentico in questa immagine che risale addirittura a prima della Bibbia: colui che è all’origine del mondo, lo ricondurrà a sé, premiando i buoni e punendo i cattivi.

Quest’immagine di un Dio giudice severo che abbiamo in testa da prima che Dio stesso inizi a raccontarsi agli uomini, va composta con quello che poi il Padre svela di sé nella Scrittura e in Gesù.

Nel Vangelo di Giovanni (12,31), il Figlio afferma che un giudizio ci sarà, e sarà contro «questo mondo», ma questo non vuol dire che l’intero mondo è malvagio e che Dio lo sterminerà. Sarebbe del tutto incoerente con troppa parte della Bibbia, e ancor più dei Vangeli. Tanto più con la volontà, espressa da Gesù, di donare la propria vita per l’umanità. Incoerente anche con l’immediata conseguenza  che, «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».

A cosa di riferisce allora Gesù quando parla del giudizio? In che modo Gesù e il Padre giudicheranno il mondo?

Intanto, dobbiamo ricordarci che per l’evangelista Giovanni la parola «mondo» rappresenta simbolicamente tutti coloro che rifiutano il messaggio divino: non tanto una descrizione, quanto un’etichetta. Peraltro, in Gv 12,48, Gesù precisa di non essere venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo.

Dobbiamo allora sforzarci di entrare nella logica dell’evangelista, che non ama darci tutte le conclusioni preconfezionate, ma preferisce lasciare che ci arriviamo noi, con le indicazioni che ci suggerisce.

In Gesù noi vediamo il volto del Padre. E ciò che vediamo è un Dio che si dona all’umanità, che vuole la vita delle sue creature, che davanti al rifiuto e all’ostilità del mondo manda suo Figlio, con l’intenzione di fare pace con esso. Il Padre è perfettamente consapevole di correre un grosso rischio: il Figlio potrebbe essere ucciso. Per entrare in comunione con gli esseri umani, il Padre di Gesù non risparmia niente.

A questo punto, chiunque voglia entrare nella logica divina non potrà che pensare come Gesù: vivere donando la propria vita per gli altri come ha fatto lui, consapevole che, se ha ragione Gesù, se il Padre è quello che lui mostra, donarsi agli altri significherà farci come Dio, come Gesù, vivendo la sua stessa sorte, che sarà di vita nuova.

Rifiutare questa logica, continuando a concentrarci su di noi, vivendo il rapporto con gli altri come se fossero nemici, accaparrandoci ogni vantaggio possibile, vorrà dire avvelenarci la vita e, in ultimo, allontanarsi dalla logica della vita che è quella divina. Sarà un giudizio, perché comporterà il rinunciare alla vita vera. Ma non sarà il decreto di un giudice severo che soppeserà dall’esterno le nostre azioni, saremo noi stessi a rinunciare alla vita vera (Gv 12,48-49).

Perché la parola del Padre, trasparente nella vita di Gesù, è solo parola di vita eterna (v. 50).

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 14 – continua)




Il Signore della vita (Gv 11)


Con l’undicesimo capitolo, si chiude la prima parte del Vangelo di Giovanni, quella dei «segni», come li chiama lui. Fino qui, infatti, abbiamo letto dei miracoli di Gesù, segni che alludono ad altro e che spesso hanno aperto discussioni e ampie spiegazioni. Anche questo capitolo presenta un segno, un prodigio che allude a qualcosa di rilevante: Gesù, infatti, riporta in vita un morto.

Il brano, peraltro, è decisamente giovanneo: ci stimola molte più riflessioni e domande di quelle alle quali offra risposte. Proviamo a intuirne alcune.

Il racconto

La vicenda è semplice: qualcuno riferisce a Gesù che Lazzaro, suo amico residente a Betania, sta male (vv. 1-3). Gesù, che dovrebbe trovarsi al di là del Giordano (Gv 10,40), ossia non troppo lontano, sostiene che la malattia di Lazzaro non va verso la morte, ma servirà a mostrare la gloria del Figlio di Dio, vale a dire che illustrerà chi lui è davvero (v. 4). Dopo di che, aspetta due giorni prima di partire: perché? Può darsi che il motivo sia quello suggerito dai discepoli, che Betania è vicinissima a Gerusalemme (15 stadi, ossia circa due chilometri) e quindi sotto l’influenza di coloro che vogliono uccidere Gesù (v. 8).

A questo punto, però, Gesù e i discepoli si avventurano in un dibattito curioso sulla condizione di Lazzaro: è morto o si è solo addormentato (vv. 11-16). E nel lettore si insinua, in modo molto sottile, l’idea che la morte possa non essere un evento definitivo. Come fanno gli scrittori bravi, l’evangelista non ci svela la conclusione della vicenda prima di narrarla, eppure, se tornassimo a leggere quelle righe sapendo già come la storia va a finire, non potremmo non notare che in qualche modo l’esito è già anticipato qui.

Un altro dialogo che ci potrebbe lasciare perplessi è quello che Gesù sostiene una volta arrivato a Betania. Parla dapprima e più a lungo con Marta, riguardo a morte e risurrezione (vv. 21-27), e in un secondo tempo con Maria. È un caso che in tutto il capitolo Gesù sembri conversare con gli altri solo uno alla volta?

Quando Gesù ordina di aprire il sepolcro, Marta oppone resistenza affermando: «è morto già da quattro giorni e ormai puzza» (v. 39). Di fronte a questa obiezione, Gesù rimprovera l’amica per la sua mancanza di fede, quindi ripete l’ordine. A sepolcro aperto, il maestro sembra mettere in scena, e in modo teatrale, la reazione che forse si aspettava dai suoi amici, in quanto ringrazia il Padre prima ancora che dal sepolcro emerga qualcosa: «Io lo sapevo che tu mi ascolti sempre, ma l’ho detto per la folla che sta qui intorno» (v. 42).

Legami personali

La prima dimensione rilevante del racconto, che non può sfuggirci, è che Gesù non si trova di fronte a estranei: Lazzaro, Marta e Maria vengono definiti esplicitamente suoi amici (v. 5). Dai Vangeli sappiamo di altri due episodi in cui Gesù riporta in vita dei morti, il figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17) e la figlia di Giairo (Mc 5; Mt 9; Lc 8). Entrambi gli erano sconosciuti e, alla domanda che può sorgere, «perché loro sì e altri no?», la risposta potrebbe serenamente chiamare in ballo il caso: l’incontro di Nain pare totalmente imprevisto, mentre quando Giairo chiede l’aiuto di Gesù, sua figlia è gravemente malata ma ancora viva.

Il caso di Lazzaro invece è diverso: ci verrebbe quasi da pensare che questo miracolo sia inopportuno. Ci saranno raccomandati e amici anche intorno a Gesù? E se Lazzaro non avesse avuto amicizie importanti, sarebbe stato lasciato nel sepolcro?

Per affrontare queste domande basta constatare che i Vangeli non perdono occasione di presentarci un Gesù che instaura con chiunque una relazione sempre centrata sulla persona, e mai su ruoli o formalità. Il Padre che Gesù rivela non guarda a titoli o precedenze o convenienze, ma incontra persone con storie e caratteristiche loro.

Notavamo poco sopra che, in questo racconto, Gesù sembra quasi parlare solo con singole persone, in modalità «uno a uno», come nei rapporti profondamente personali. Il Padre non conosce incarichi, ma chiama ognuno per nome. Tra il rischio di dare l’impressione di favoritismi e la rinuncia a valorizzare i legami personali, Dio non ha dubbio: le persone vengono prima!

Se sono le relazioni personali a smuovere Gesù, non sembra però che lui si astenga dalle proprie scelte quando invece queste stesse relazioni sono negative: quando ha deciso che si sarebbe partiti per Betania, i discepoli hanno tentato di dissuaderlo, visto che già i suoi avversari, di stanza apparentemente a Gerusalemme, avevano tentato di eliminarlo (v. 8), ma Gesù non ha cambiato idea. Ai discepoli, consapevoli del rischio, non è rimasto che commentare che ciò significava andare a farsi uccidere (v. 16).

Un Gesù, e un Padre, che si muovono per le relazioni personali, ma non si fanno bloccare dalle minacce.

Risurrezione

Centrale, in tutto il capitolo, è il rapporto tra vita e morte.

Le sorelle di Lazzaro sono convinte che Gesù avrebbe potuto guarire il fratello. E confidano nella risurrezione alla fine del tempo. Gesù non le smentisce, su nessuno dei due punti, né conferma le loro idee. La sua risposta, enigmatica come capita spesso nel Vangelo di Giovanni, sposta altrove il centro dell’attenzione: è lui stesso a essere la risurrezione e la vita. La risurrezione smette di essere un evento o una condizione, ma si incentra sul rapporto con Gesù. In modo esplicito, a essere significativo non è più il tempo della risurrezione (alla fine del tempo, come crede Marta?) o la modalità, ma la relazione. Per viverla occorre credere in Gesù, affidarsi a lui, essere in relazione con lui (vv. 25-26). Cruciale non è la vita, ma essere in rapporto con Dio. Il contrario sarebbe come se ci concentrassimo sulla carta che avvolge un regalo invece che sul regalo stesso.

Due altri particolari ci colpiscono. Nel dialogo, Marta si espone con chiarezza: «Credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che viene nel mondo» (v. 27). È la più esplicita tra le affermazioni di fede nel Vangelo e la prima che viene dopo l’affermazione che chi avesse riconosciuto Gesù come Cristo sarebbe stato espulso dalle sinagoghe (Gv 9,22). Marta entra in relazione personale con l’amico e quindi non si fa spaventare dalle minacce. Chi si affida a Gesù, impara, come lui, a vincere la paura.

L’altro particolare potrebbe farci venire la pelle d’oca. Al termine del colloquio con le due sorelle, Gesù chiede dove hanno sepolto Lazzaro. La risposta potrebbe anche sembrare semplicemente funzionale: «Vieni e vedi» (Gv 11,34). E, al limite, il pianto in cui esplode Gesù potrebbe indicare che finalmente anche lui ceda a una commozione e a un affetto che sono comunque percepibili in tutto il capitolo. Ma quelle parole sono chiaramente vicine a quelle che Gesù stesso aveva rivolto ai suoi due primi discepoli, che gli chiedevano dove abitasse: «Venite e vedrete» (Gv 1,39). In quel frangente, l’invito era a coinvolgersi, a fare esperienza personale, e l’esito era stato che i due discepoli di Giovanni avevano iniziato a seguire Gesù. Nel capitolo 11, è come se la morte di Lazzaro invitasse anche Gesù a fare esperienza personale della fine della vita, per coinvolgersene fino in fondo. È ciò che accadrà pochi giorni dopo.

È però solo un anticipo, e imperfetto. Lazzaro, infatti, esce dal sepolcro legato e velato (v. 44) e ha bisogno di essere aiutato a tornare in vita, mentre Gesù lascerà il sepolcro con tutte le bende in ordine, senza alcun testimone (Gv 20,6-7). Lazzaro sarà ancora sottomesso alla morte, Gesù, dopo la risurrezione, non lo sarà più. Ma in entrambi i casi, il Padre chiama sempre alla vita, la sua intenzione è quella, quello desidera, quello prepara. Il Padre non lascia che vinca la morte.

Le conseguenze (vv. 47-53)

Giovanni lo aveva spiegato: Betania è molto vicina a Gerusalemme e molti «giudei» (ossia, nel linguaggio dell’evangelista, avversari di Gesù) erano venuti a consolare le sorelle di Lazzaro. Anche Tommaso (v. 16) aveva preannunciato che avvicinarsi alla città santa avrebbe significato rischiare la vita. Il che puntualmente succederà. I giudei non possono ancora mettergli le mani addosso, ma i capi sacerdotali e i farisei decidono che bisogna far tacere Gesù. Anzi, Caifa, sommo sacerdote, afferma che conviene che sia un uomo solo a morire per tutto il popolo.

Giovanni fa notare che, essendo sacerdote, le sue parole erano profetiche, e attestavano già che la morte di Gesù sarebbe andata a vantaggio di tutti, anzi addirittura anche di coloro che del popolo non facevano parte (v. 52).
È un esempio dell’ironia giovannea: qui Caifa intende semplicemente dire che conviene mandare a morte Gesù anziché lasciare che avvii una eventuale rivolta politica che attirerebbe la reazione dei romani. In effetti, però, anticipa già il senso che la sua morte potrà avere per l’umanità. Allo stesso modo, i capi dei sacerdoti si dicono preoccupati che, se la gente credesse in Gesù, Gerusalemme potrebbe essere distrutta, cosa che (i lettori di Giovanni lo sanno già) accadrà davvero nel 70 d.C., nonostante  la folla avesse scelto di far crocifiggere Gesù (cfr. Gv 19,6.15). Se vogliamo, c’è un esempio di ironia anche nel fatto che lo stesso Lazzaro, appena tornato alla vita, rischia di nuovo di morire presto, stavolta ammazzato per mano delle autorità religiose anziché nel suo letto, accudito dalle sorelle (Gv 12,9-11).

Ma in fondo è tragica ironia anche il senso di tutto questo paragrafo. Le autorità religiose, che dovrebbero avere a cuore la vita del popolo, mentre dicono di interessarsene, riescono soltanto a progettare la morte. La vita viene tramite Gesù, e attraversando la morte stessa.

Ormai siamo verso la fine della vicenda umana del Signore, ci è sempre più chiaro il volto del Padre che Gesù ci sta mostrando (come si era detto in Gv 1,18). È il volto di chi vuole la vita, di chi si commuove e piange di fronte alla sofferenza degli amici, di chi vede negli uomini persone con cui entrare direttamente e profondamente in relazione. È un Padre che ama la vita di tutti.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 14 – continua)

da Jesus Mafa- risurrezione di Lazzaro




Contro l’inverno dell’incredulità (Gv 10,22-42)


Il Vangelo di Giovanni è diviso sostanzialmente in due parti: la prima è zeppa di discorsi, polemiche e «segni». «Segni» è la parola che l’evangelista usa per indicare i miracoli, e non a caso, in quanto, per la sua teologia, non sono semplicemente «prodigi», ma fatti che rimandano ad altro, a qualcosa di più importante. La seconda parte del Vangelo si concentrerà invece sulla croce.  Il capitolo 11, con l’episodio della rianimazione di Lazzaro, sembra quasi mettersi a metà, come punto di passaggio.  Con gli ultimi versetti del decimo capitolo, insomma, Giovanni ci conduce alla fine della prima parte del suo Vangelo. E siccome sa scrivere, dissemina il suo testo di indizi che per aiutarci a concentrarci sul nucleo del discorso: il ruolo di Gesù e il volto del Padre.

Dal tempio al Giordano (Gv 10,22-42)

Questo viene suggerito in modo discreto, nella seconda parte di questo decimo capitolo, dal trucco tutto letterario, che ci può colpire per diverse ragioni: il brano comincia con Gesù nel tempio di Gerusalemme circondato da tanta gente accorsa per la festa della dedicazione, e finisce con Gesù in un luogo solitario, deserto, in riva al Giordano. Tempio e fiume, due elementi a prima vista poco legati tra di loro.

Per il primo elemento, Giovanni parla della «festa della dedicazione», una festa generalmente poco sentita, anche se per alcuni aveva un valore simbolico rilevante: faceva memoria della nuova dedicazione del tempio ad opera dei Maccabei (1 Mac 4,56-59). Questi erano dei fratelli che avevano consacrato la loro vita alla rivolta religiosa contro i sovrani greci (eredi di Alessandro Magno) che avevano voluto imporre i loro dei. La loro era stata un’interpretazione rigida e integralista della scelta religiosa, un deciso rifiuto dei poteri mondani per dare spazio totalmente a Dio. Quella dei Maccabei era stata una lotta spirituale che si era imposta con la forza sul mondano e sul politico, anche se, purtroppo, la loro rivolta, dopo di loro, era finita in una piena commistione tra potere religioso e potere politico con i sovrani asmonei di cui l’ultimo rappresentante importante sarebbe stato Erode.

Il secondo elemento, il fiume, viene introdotto alla fine del capitolo, quando Giovanni racconta che Gesù torna al Giordano, là dove aveva ricevuto il battesimo dal Battista, un profeta che, in qualche modo, segnava l’alternativa più lontana dallo stile dei Maccabei: un profeta solo, che operava in zone disabitate, che rimandava a una concezione antica di Dio, e lo faceva fuori dalle strutture organizzate, lontano dal tempio. Il testimone di una religiosità da cui Gesù si era lasciato affascinare. Ma dov’è il Dio più autentico: nell’apparente irrilevanza del Battista, o in una religione che si impone, come quella dei Maccabei?

Gesù vero uomo (v. 22-23)

Il Vangelo di Giovanni si presta a una lettura molto disincarnata. Nella storia del cristianesimo è spesso stato considerato il «Vangelo spirituale». Eppure, già dal prologo (Gv 1,1-18) insiste sulla «carnalità» del Verbo. Anche in questo brano, quasi senza farsene accorgere, Giovanni sottolinea la concretezza della vita di Gesù.

Dice infatti che era la festa della Dedicazione (v. 22). E che era inverno (o «faceva brutto tempo», come forse sarebbe più opportuno tradurre, dato che per i primi lettori di Giovanni era ovvio che la festa della dedicazione fosse d’inverno, dal momento che arrivava intorno alla metà di dicembre). E Gesù camminava nel portico di Salomone. Sembrano tre osservazioni superflue, scollegate e inutili. Ma chi il tempio lo aveva visto (quando Giovanni scrive, è già stato distrutto), sapeva che il suo cortile interno era cinto da quattro porticati, oltre i quali un muro separava dal resto del santuario. E chi a Gerusalemme c’era stato, sapeva che d’inverno spesso sulla città tirava un vento freddo da oriente. Stando sotto quel portico, con un muro a chiudere il lato Est, quel vento si sentiva meno. Pare, insomma, la descrizione di chi quegli ambienti li conosceva, li aveva frequentati. Perché Gesù è stato una persona vera. Esposto anche a patire il freddo in una ventosa giornata d’inverno. Colui che, tra un attimo, pretenderà di essere come Dio, è pienamente inserito nella nostra umanità anche nei suoi aspetti più superficiali e secondari.

Gesù il Cristo (vv. 24-28)

È in questo momento, durante la festa meno affollata, che gli interlocutori di Gesù pretendono una risposta definitiva, chiara, incontrovertibile: «Se sei il Cristo, sii chiaro» (v. 24).

La risposta di Gesù è netta ed esplicita: «Ve l’ho già detto, e i segni che compio lo confermano. Ma voi non capite la mia voce». Gesù aveva appena parlato del gregge e del pastore, affermando che le pecore non seguono un ladro, uno che non è di quell’ovile. Le pecore seguono il pastore perché ne riconoscono la voce, pur senza saper descrivere come sia fatta. Semplicemente, lo sentono e lo riconoscono come loro. Se quindi delle pecore non riconoscono il pastore, significa che quest’ultimo è un ladro o che le pecore non sono del suo gregge. Gesù e i suoi contestatori non si appartengono, non si riconoscono.

Questi giudei che muovono obiezioni a Gesù vorrebbero una prova incontrovertibile, definitiva del suo essere il Messia. Ma nelle relazioni più profonde e vere questa prova non esiste, c’è solo la percezione di una sintonia, di una vicinanza, di un’appartenenza reciproca. È curioso che la formula utilizzata dai giudei per chiedere che Gesù sia chiaro («Fino a quando ci terrai nell’incertezza?», v. 24), alla lettera dica «fino a quando prenderai la nostra vita, la nostra anima?».

Per questo motivo, nella risposta, Gesù precisa che è lui a donare la propria vita per le sue pecore (v. 28), una vita senza fine. È la sorpresa di chi incontra Gesù, di chi crede di andare in cerca di un Dio da onorare, servire, riverire, e si scopre, invece, coinvolto in una relazione personale, sfuggente e arricchente come tutte le relazioni, e, in più, in una relazione in cui riceve più di quello che dà.

Gesù Dio (vv. 29-38)

Nei versetti che seguono, sembra che Gesù cambi argomento. Dice che nessuno potrà togliergli le pecore cui dona la vita eterna. Perché è il Padre ad avergliele date. Quel Padre che è più grande di tutti. Gesù dona la sua vita alle pecore e le custodisce e «non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano».

Siamo già lanciati verso l’affermazione che segue: «Io e il Padre siamo una cosa sola». Anche se l’evangelista è spesso ambiguo e questa affermazione ha suscitato molte discussioni nella Chiesa antica, è nel suo genere chiarissima. I due restano due, non sono amalgamati in un essere solo; eppure, i due sono una cosa sola. Come in una coppia di innamorati, i due restano distinti e distinguibili, eppure sono una nuova realtà fatta dei due insieme.

L’ascolto è incontro

Gli interlocutori di Gesù stavolta capiscono subito, e prendono le pietre per lapidarlo, perché, a parere loro, facendosi uguale a Dio, ha bestemmiato. Ma è proprio qui che si coglie la differenza tra ciò che loro si aspettano e ciò che, invece, Gesù è venuto a rivelare. Quella che Gesù spera da noi, non è una fede fondata su una dimostrazione, su una prova inconfutabile, ma, come nelle relazioni, sull’accoglienza, la custodia, la capacità di interiorizzare. Occorre fidarsi di ciò che ascoltiamo, mettersi in gioco o rifiutarlo. Occorre ascoltare e intuire, mettersi in cammino o andarsene.

È a questo livello che possiamo cogliere che Gesù e il Padre sono una cosa sola, che vedere Gesù, con tutte le sue scelte, a volte difficili da comprendere, e le sue attenzioni delicate, significa vedere il cuore del Padre all’opera.

E infatti la «prova» che Gesù offre non è teologia, non è filosofia sui massimi sistemi, ma qualcosa di molto concreto e tangibile: «Mostratemi le mie opere cattive; oppure ammettete che sono opere che vengono dal Padre» (v. 38).

In un ragionamento filosofico, il centro sono argomentazioni logiche. La verifica che Gesù offre ha, invece, al centro le azioni, la vita concreta. Ma questa concretezza va interpretata, bisogna coglierne il senso. Come quando le pecore riconoscono la voce del pastore, non perché saprebbero descriverla razionalmente, ma perché parla alla loro intuizione, al loro cuore. Si tratta di un processo di interpretazione, ma che fa appello più ai sentimenti (non le emozioni superficiali, ma il sentire profondo) che alla ragione: è questo il modo in cui Maria Maddalena al sepolcro, sentendo pronunciare il suo nome, riconosce il Signore risorto (Gv 20,16).

Risposta da innamorati

Quello che Gesù ci chiede è di intuire nelle sue azioni lo stile di Dio: si tratta di interpretare, di scommettere, sulla base di qualcosa di concreto. Quello che, invece, gli avversari di Gesù cercano è una dimostrazione incontrovertibile, che parli alla ragione e non consenta interpretazioni diverse. Loro cercano una prova scientifica, lui offre le ragioni del cuore. Quando si tratta del senso della nostra vita, sono queste ultime a contare davvero.

Così, Gesù attesta qual è il modo di fare di Dio, il vero volto del Padre: non mostra un Dio che gestisce un potere, che offre la sicurezza di risposte chiare e obbligatorie, ma un Dio innamorato che sogna una relazione. A un innamorato che ci provoca alla relazione risponderemmo, come fanno i giudei con Gesù, «Allora, adesso dimostrami in modo univoco che tu mi ami»?

Segni e parole (vv. 39-42)

La scena seguente nella quale i giudei cercano di afferrare Gesù (v. 39) senza riuscirci, è molto significativa: secondo gli argomenti della loro teologia, Gesù ha bestemmiato, perché ha azzerato la distanza tra Dio e l’uomo. Cercano di incasellarlo nei loro schemi sicuri. Il Signore però sfugge dagli schemi. Per questo Giovanni non si preoccupa di descrivere come fa concretamente a sfuggire dalle mani dei Giudei. La cosa importante è sapere che Gesù è libero, tanto libero che, più avanti, al Getsemani, sarà chiaro che verrà arrestato solo perché sarà lui a lasciarsi prendere.

Dopo la disputa nel Tempio, Gesù torna al Giordano, dove tutto era iniziato. Il volto del Padre lo si vede qui, in una relazione fatta di fiducia, sfuggente e promettente, autentica, ma senza garanzie, come tutte le nostre relazioni più profonde e vere.

Al Giordano, molti credono in Gesù (v. 42), perché è qui che si vede Dio, dove sono chiamati a mettersi in gioco, a decidere. È qui che Gesù ha scoperto il volto del Padre, come raccontato dagli altri evangelisti che i lettori di Giovanni certamente già conoscono.

Non è allora per polemica o per caso, che l’autore del Vangelo aggiunge un’ultima annotazione (v. 41): la folla nota che il Battista non aveva fatto segni, anche se aveva parlato di Gesù dicendo cose vere (in Gv 1,36: «Ecco l’agnello di Dio»). Si rende merito al precursore, che ha saputo vedere la realtà, benché questa non si imponesse, perché Gesù è apparentemente uno come gli altri, e nello stesso tempo si ammette che quella realtà Giovanni non sapeva cambiarla, e che, comunque, anche il cambiamento portato da Gesù è solo un «segno», rimanda ad altro di più profondo e ulteriore.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 13 – continua)




Porta e pastore (Gv 10,1-21)


Giovanni presenta l’agire e il parlare di Gesù quasi sempre nel contesto delle feste giudaiche nel tempio. Alcune volte presenta un nuovo discorso di Gesù come se fosse una prosecuzione di quello precedente, nonostante sia chiaro che il tema è cambiato.
È quello che succede all’inizio del decimo capitolo del Vangelo, anche se al versetto 21 sembra che il testo accenni di nuovo alla guarigione del cieco nato di cui ha raccontato nel capitolo 9. Questo significa che l’evangelista ci sta suggerendo che i due brani andrebbero visti più o meno insieme? Può darsi. Nel Vangelo di Giovanni spesso succede così, benché questa volta fatichiamo un po’ a capire quale possa essere il collegamento. D’altronde, non è una novità che il quarto Vangelo ci stimoli a cercare di capire senza offrirci la certezza di avere colto davvero tutto.

Vanno probabilmente nella stessa direzione anche le due immagini che Gesù utilizza nel capitolo 10 per parlare di sé: la porta dell’ovile e il pastore del gregge. Si parla in entrambi i casi di pecore, ma verrebbe da dire che se Gesù è la porta da cui le pecore passano, non può essere anche il pastore che ce le fa passare. Sembra una contraddizione, però, al di là di una corrispondenza più o meno precisa dei dettagli, possiamo cogliere che quello che conta è il significato di fondo delle due immagini, ciascuna della quali suggerisce qualcosa su Gesù. E quindi sul Padre.

La porta (vv. 1-10)

Non siamo più abituati a vivere con gli animali «da fattoria». Pochi di noi, probabilmente, hanno visto dal vero una pecora e, meno ancora, un gregge nel suo ambiente consueto, fatto di pascoli e di ovile. Possiamo però immaginarlo. L’ovile è recintato, a volte addirittura chiuso e coperto: consente di difendersi le pecore da ogni minaccia esterna, che siano i predatori o il clima. Nello stesso tempo, però, il cibo si trova normalmente fuori dall’ovile, e occorre comprendere quando è il momento di uscire e di rientrare, quando preferire il riparo e quando il pascolo.

Gesù si presenta come colui che garantisce questo passaggio, dal dentro al fuori. Se volessimo ampliare l’intuizione dell’evangelista, adattandola meglio al nostro contesto, potremmo dire che anche per noi ci sono i momenti di vita privata, di preghiera al Padre nell’intimo della nostra stanza (Mt 6,6), di studio, di esame di sé e della propria vita, e ci sono, viceversa, i tempi in cui, come per il cieco nato, rispondere alle domande, dare testimonianza su Gesù e agire nel mondo in coerenza alle nostre scelte.

Il privato e il pubblico, possono sembrarci contesti talmente lontani da faticare a farli dialogare tra di loro: nella nostra cultura si pensa ad esempio che la vita spirituale, religiosa, vada benissimo se gestita in privato, purché non si noti all’esterno, mentre siamo ogni giorno messi davanti alle vite pubbliche e pubblicitarie di personaggi sui quali ci viene da interrogarci se e quale vita interiore possano condurre.

Gesù sembra proporsi come passaggio tra questi due mondi, che sono entrambi nostri. E lo fa non indicando le regole da seguire, ma appellandosi alla «voce». È un’immagine che sembrerebbe adattarsi meglio al pastore che alla porta, e infatti poi Gesù la riprenderà, ma, un po’ paradossalmente, la utilizza già qui per la porta, quasi che fosse la porta stessa a chiamare per nome le pecore.

Questo accenno alla voce è profondamente significativo: ciascuno aderisce non a una legge o a un programma, ma a una chiamata. Chi ci chiama per nome per farci proposte, o incoraggiarci, o darci suggerimenti, non si limita a offrire delle indicazioni, ma domanda di fidarci. In questo caso non ci adeguiamo alle parole perché convincenti, ma perché confidiamo in chi le dice. La relazione personale è più importante del contenuto del messaggio. È esattamente quello che suggerisce Gesù, nella ricerca del Padre e del pascolo: ascoltare lui, fidarsi di lui, restare in relazione personale con lui.

Nello stesso tempo, la porta – preziosa, ad esempio, per capire chi viene dentro per depredare, e anche perché permette di passare da dentro a fuori e viceversa – resta per così dire secondaria, a servizio. Centrale sì, ma umile, essenziale, ma funzionale. Passo dopo passo Gesù ci conduce a capire che lui è cruciale, sì, ma che l’obiettivo ultimo è il nostro incontro con il Padre, e con la nostra vita più autentica.

Il pastore (vv. 11-18)

Nei versetti successivi Gesù cambia immagine, in una direzione che in qualche modo ha già preparato: «Io sono il buon pastore», anzi, se dovessimo tradurre in modo proprio letterale, «il bel pastore». «Bello» in greco aveva una gamma di significati più ampia del nostro aggettivo, non indicava solo l’aspetto estetico, ma descriveva anche qualcosa come «affidabile, adeguato, generoso».

Gesù è il pastore modello, quello che non pensa a sé ma al bene delle pecore, che conosce per nome, che chiama perché riconoscono la sua voce. Gesù è il pastore che, quando dovesse venire il lupo, non fuggirebbe, ma gli si metterebbe davanti, pronto anche a dare la propria vita per le pecore.

Potremmo pensare che l’immagine sia persino esagerata: il pastore, alla fine, alleva le pecore per la loro lana, il loro latte e magari anche la loro carne. Di certo non difenderebbe la loro vita fino al punto da rischiare la propria. Può darsi, invece, che chi conosce dei pastori sostenga il contrario. L’affetto che li lega alle proprie pecore può portare fin lì. Chi vive con animali domestici in casa sa che il bene provato per quelle bestie, che dipendono da noi e ci donano e domandano amore, può spingerci a difenderli oltre ogni ragionevole limite. E in ogni caso, quello che Gesù dice, per quanto razionale o incredibile ci sembri, è che lui è disposto a dare la propria vita per le sue pecore. Lo farà, infatti, sul Golgota. E non sarà un errore, un incidente di percorso: già prima si è detto disposto a offrire tutto sé stesso per la vita delle sue pecore, che conosce e chiama per nome, che ama una a una.

E in questa relazione, Gesù dice di ripetere, verso le sue pecore, ciò che il Padre fa con lui. Come loro due si conoscono e si amano, così Gesù conosce e ama il suo gregge. Nel suo amore, quindi, si coglie l’amore del Padre che nessuno può vedere.

Come è già successo e ancora succederà nel corso del Vangelo, pare quasi che le direttrici dell’amore si confondano: non è più chiaro chi ami chi e chi dia la vita per chi. È la felice confusione dell’amore, nella quale ci si vuole bene e si è ognuno per l’altro, senza soppesare se qualcuno dà di più o riceve di più. Anzi, come potrebbe confermare chiunque ami, la contabilità del dare e dell’avere non ha senso, perché chi ama è felice di donare e fare il bene dell’amato.

Se allora Gesù si presenta come la porta da cui passare per avere la vita, e come il pastore da ascoltare e seguire perché quella vita sia nutrita e difesa, nel suo agire vediamo il sentimento stesso del Padre, che vuole la vita di chi ama senza mettersi al centro, felice di amare e donare.

Un altro gregge (v. 16)

A questo punto, a sorpresa, Gesù dice di avere anche altre pecore, di un altro ovile. I commentatori si sono sbizzarriti nel cercare di identificarle: saranno i cristiani che vengono dal paganesimo? Saranno quei giudei che non sono lì presenti e magari incontrano Gesù di nascosto? Sarà già un anticipo di quei cristiani divisi in tante chiese?

In realtà, non è difficile capire che non è poi così importante rispondere a queste domande. Quello che Gesù dice è semplicemente che bisogna restare aperti alle novità, all’arrivo di altre pecore. La tentazione di ogni gruppo umano, infatti, è quella di chiudersi, di escludere tutti gli altri, di restare «solo noi che ci vogliamo così bene». Gesù richiama a restare aperti, disponibili, fiduciosi e ottimisti anche nei confronti degli «altri», che saranno pecore buone perché in ascolto del medesimo pastore bello. È la dinamica della Chiesa: i credenti sono una comunità non perché vengano dallo stesso posto o abbiano lo stesso antenato o le stesse sensibilità o passioni, o ragionino allo stesso modo, ma perché tutti ascoltano la voce del medesimo pastore. È Gesù, porta di passaggio, a garantire che si possa essere un gregge solo.

È tanto importante questa armonia offerta dall’unico pastore che ci raduna e ci ama, che Giovanni si lancia anche in un gioco di parole affascinante: l’obiettivo dei discepoli, scrive in greco, sarà quello di essere «un solo gregge e un solo pastore» (mia poimnē eis poimēn).

Le reazioni (vv. 6.19-21)

Gesù ha impostato tutto il suo discorso sulla relazione, non sull’obbedienza a una legge. E in una relazione è sicuramente importante la proposta e l’offerta da parte di uno, tanto quanto lo è la risposta dell’altro. Giovanni, infatti, ne scrive dicendo che la prima reazione dei suoi discepoli è di incomprensione (v. 6). In tutto il Vangelo resta questo dramma della fatica dei discepoli a comprendere le parole di Gesù (la proviamo anche noi, spesso). Qui però è chiaro che, di fronte all’offerta di una relazione con Dio basata su affetto, ascolto e fiducia, la difficoltà dei discepoli non è tanto quella di non capire, quanto quella di accettare. Occorre rinunciare all’immagine di un Dio severo, giudice, che ci farà sentire belli e buoni espellendo dall’ovile e castigando gli altri. L’immagine che Gesù offre è diversa, è una voce che chiama e conosce per nome, che non fa violenza alle pecore, non le costringe, ma offre solo protezione e vita. Quando non si vuole accettare questa immagine di Gesù e del Padre, ci si rifugia nella incomprensione: «Non può essere così, non c’è severità, serietà, selezione».

Non a caso anche dopo la seconda parte del discorso di Gesù c’è una «divisione» tra i suoi ascoltatori, tra chi dice che è pazzo e chi, al contrario, fa notare che nessun pazzo può aprire gli occhi a un cieco. I dati sono lì, sono a disposizione. Ma Gesù non costringe a restare nell’ovile e a seguire la voce del pastore.

Anche noi,oggi, ci troviamo di fronte a un volto divino – trasmesso ed esemplificato da Gesù -, che è di affetto, di relazione personale, di fiducia. Possiamo decidere che è un volto non abbastanza severo e rigido, possiamo non capire, o respingerlo: oppure possiamo lasciarci avvolgere dall’abbraccio che lega il Padre e il Figlio e che si mantiene accogliente per chiunque.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 12 – continua)

 




Buio e luce a duello (Gv 9)


Il nono capitolo del Vangelo di Giovanni narra la guarigione di un uomo nato cieco. Il cuore del capitolo, però, è dedicato alle conseguenze di quella guarigione, in buona parte uno scontro verbale tra coloro che sono definiti farisei o giudei e Gesù. Gli altri personaggi si muovono in quello spazio e sono chiamati a prendere posizione. C’è chi lo fa con trasparenza e lucidità (il cieco guarito) e chi preferisce restare nell’ombra, muoversi senza chiarezza, per tenersi al riparo, come fanno i genitori del malato risanato.

Colui che era cieco, in effetti, ci mostra un atteggiamento limpido, onesto. Quello che Gesù gli chiede di fare, dopo avergli posto del fango sugli occhi: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», lui lo compie (v. 7). Quando i giudei lo interrogano sulla sua condizione, risponde sempre direttamente e senza ambiguità (vv. 9.11.17.24). Ammette serenamente ciò che non sa (vv. 12.25.36), ma intanto non gli manca il coraggio di ragionare e di provare, inutilmente, a far ragionare i suoi interlocutori (vv. 25-34): «Se quell’uomo sia peccatore, non lo so. Ma so che mi ha guarito, e non è cosa che accada tutti i giorni. Ed è strano che un peccatore possa portare a termine un’opera divina straordinaria».

Potremmo dire, seguendo il modo di esprimersi dell’evangelista, che il cieco nato mostra di vederci molto bene (o di essere guarito perfettamente) e di lasciarsi illuminare dalla luce (v. 5), mentre coloro che dovrebbero aiutare gli altri a vedere sembrano accecati dalla gelosia e da un rispetto rigido della legge: si muovono nelle tenebre (vv. 39-41, sui quali torneremo).

Il modo di ragionare umano

Abbiamo già detto che nel Vangelo di Giovanni, e in particolare in questo episodio, gli avversari di Gesù vengono definiti «farisei», ma anche «giudei». Questa seconda espressione è spesso, nel testo, una specie di parola in codice. Che quella non possa essere una definizione razzista lo intuiamo facilmente: anche Gesù è un giudeo, come i suoi discepoli e quasi tutti i personaggi del Vangelo. Per l’evangelista, però, «i giudei» sono coloro che si contrappongono a Gesù rinfacciandogli di non essere rispettoso della legge ebraica.

Molto probabilmente quella formula serviva anche a suggerire un messaggio sottinteso ai lettori di Giovanni. Alcuni di questi, infatti, non avevano abbandonato la frequentazione delle sinagoghe finché non ne erano stati espulsi, provvedimento che a volte li aveva sorpresi e di cui si rammaricavano. Giovanni sembra quasi volerli consolare, insinuando che quei giudei che si presentano come interpreti e garanti della volontà divina non si muovono necessaria- mente nella luce. Ecco perché anche del cieco nato si dice che venga «gettato fuori», espulso (v. 34), come quei cristiani scomunicati dai «giudei».

Questi, quindi, si presentano come rappresentanti della volontà divina, esprimendo un’intenzione buona e un compito prezioso.

Ma in base a cosa interpretano il volere di Dio? In base a una lettura rigorosa e pedante della legge scritta, intesa come un giudizio tranciante sulle azioni e sulle persone. Questo approccio rigido e legalista permette loro di illudersi di distinguere in modo sicuro chi è nel giusto e chi nell’errore: «Noi sappiamo che quest’uomo è peccatore» (v. 24); «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?» (v. 34). È un’impostazione che costituisce sempre un rischio per qualunque persona religiosa, rischio nel quale anche le chiese cristiane nella loro storia a volte sono cadute, quello di porsi davanti alla vita degli esseri umani come giudici inflessibili, forti di una legge scritta che si pensa essere più significativa del modo con cui le persone provano a vivere e interpretare le proprie esperienze.

È lo stesso approccio che porta i discepoli di Gesù a chiedersi: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché fosse generato cieco?» (v. 2). La convinzione di fondo che ispira la domanda è che Dio interviene direttamente e immediatamente nella storia, punendo i malvagi. Questa era l’impostazione più tradizionale della religione ebraica, anche se era già stata contestata da tanti profeti: un’interpretazione consolante, perché rassicura la maggior parte delle persone di essere già a posto, già giuste.

E allora, se così fosse, di fronte a una persona che cieca non lo è diventata ma è nata, ci si interroga al limite se non sconti le colpe di altri, anche dei suoi stessi genitori. Sembrerebbe tutto logico, finché non si mettono in discussione le premesse del discorso.

Il modo di ragionare divino

Ma Gesù non si adegua a questo modo di ragionare. È vero che in questo capitolo non si insiste sul fatto che il suo modo di porsi, di dialogare e di agire rispecchi o attesti quello del Padre, ma è anche vero che il cieco guarito ci aiuta a recuperare come implicito ciò che non viene esplicitato: «Da che mondo è mondo, non si è mai sentito che qualcuno abbia aperto gli occhi di un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 32-33). È il cieco stesso a vedere nella propria guarigione un segno del fatto che quanto compiuto da Gesù è opera divina. E allora, qual è e come si esprime questa opera divina? Fin dall’inizio, Gesù rifiuta di ragionare in termini di peccato. Persino la malattia invalidante è l’occasione di mostrare Dio all’opera (v. 3). E il Dio che interviene nella storia è innanzi tutto colui che permette di vivere, e di vivere in pienezza. E se Gesù fa semplicemente le opere di colui che lo ha mandato (v. 4), ciò significa che è il Padre stesso a volere che gli uomini vivano bene. A dirla tutta, non sembrerebbe che sia semplicemente Gesù ad agire, benché poi nel nostro episodio sia solo lui a fare e discutere. L’evangelista fa infatti dire a Gesù che coloro che devono agire sono tanti, «noi». Come in un lapsus, inizia a suggerire che non è solo lui a dover compiere le opere del Padre, ma anche i discepoli e i futuri credenti, che sono coinvolti in questa comunione tra Padre e Figlio. Per ora sembra un particolare non significativo, un errore casuale, ma più avanti Gesù potrà spiegare meglio che è a quello che sono chiamati tutti i credenti in lui.

Che Gesù non si muova in una logica di peccato e punizione è mostrato dalla modalità del suo intervento, che appare totalmente gratuito, un vero e proprio dono.

Fidarsi

Il cieco non chiede neppure di essere guarito. È Gesù che prende l’iniziativa. Se c’è da parte sua una richiesta previa, è semplicemente quella di fidarsi. Ma non si tratta tanto di una condizione, quanto di un ingresso nella logica divina, che chiede, cerca, spera un incontro personale profondo, giocato sempre e solo sulla fiducia.  Allora Gesù spalma subito del fango sugli occhi dell’uomo, come anticipo della guarigione, ma poi gli chiede di andare a lavarsi. Peraltro, potremmo dire che è Gesù stesso, inviato da un Padre che cerca incontro e fiducia profondi, a fidarsi del cieco, perché non va a controllare che si lavi, né resta lì ad aspettarlo. Lo invia, e confida che tutto sarà fatto secondo l’intenzione del Padre.

Né pretende di essere ricompensato. Solo quando il cieco ora vedente sarà stato mortificato dai farisei ed espulso dalla sinagoga, Gesù, sentendo la notizia, lo cerca e gli propone di credere in ciò che il guarito non sa ancora di conoscere. Gli offre di entrare in una nuova dimensione di fiducia e di ascolto.

Gesù, autentico volto del Padre, rifiuta quindi di ragionare in termini di peccato, ma si muove in una dimensione di relazione personale e di fiducia, offrendola non come mezzo per compiacere se stesso, ma come risposta al desiderio e al bisogno umano.

Non il Dio severo che si offende se si viola una sua regola («Era sabato il giorno in cui Gesù aveva aperto gli occhi al cieco»: v. 14), ma il Padre amorevole che spera di essere amato, e che sa che quell’amore può fare il bene dei suoi figli.

Lo scontro tra luce e tenebra

Comprendiamo allora bene perché l’indagine dei farisei sull’uomo nato cieco sia condotta in quel modo così duro e fastidioso: non stanno cercando di capire il cuore di Dio, né di comprendere bene che cosa è accaduto, vogliono solo ricondurre tutto ai propri criteri prefissati, che attribuiscono a Dio. Tanto che, se del bene è stato fatto fuori dalle regole, è segno che non è bene, che va pensato come peccato.

E si interrogano i testimoni per scoprire tracce di questo peccato, intimidendo i genitori dell’uomo guarito e punendolo perché si limita a indicare ciò che era sotto gli occhi di tutti: «Dio non ascolta i peccatori. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 31.33).

Possiamo allora comprendere meglio la chiusura del capitolo. Gesù sostiene di essere venuto nel mondo per un giudizio, per distinguere la luce dalle tenebre. Chi con le proprie decisioni e azioni cerca di costruire l’umanità, accresce la possibilità per tutti di vivere pienamente, riconoscendo con coraggio i segni di vita e crescita e promessa che coglie intorno a sé, vive nella luce divina, vede e prospera. Gesù giunge nel mondo destinato ad aiutare a distinguere tra chi si muove in questa che è la linea di comportamento divina e chi si lega a leggi, dominio, distinzioni rigide. In questo senso «chi non vede», chi si sente peccatore, sbagliato, inadeguato perché non corrispondente a un modello rigido, tornerà a vedere. E chi crede di vedere e poter giudicare gli altri, diventerà cieco (v. 39).

È possibile che i farisei che ascoltano Gesù comprendano il senso del suo discorso, se reagiscono chiedendo: «Siamo ciechi anche noi?» (v. 40). E la risposta di Gesù è esattamente in quella linea: «Se foste ciechi», ossia se davvero non ci vedeste, senza vostra responsabilità, come un cieco che nasca tale, «non avreste colpa». «Siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (v. 41). Il Padre guarda il cuore, l’intimo, e riconosce i limiti non voluti, le fragilità, le difficoltà (anche il cieco nato ammette di non sapere tante cose), senza pensare che siano dei problemi. Esattamente come chi ama non incolpa l’amato di limiti che non riesce a superare pur provandoci, o che addirittura non riconosce. È la presunzione di essere coloro che sanno tutto, e possono vagliare chi è a posto e chi no, che ci fa essere ciechi.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 11 – continua)

Guarigione del cieco nato. Maria Mfariji Shrine – Marsabit, Kenya (© Gigi Anataloni)




Un modo particolare di scrivere (Gv 8)


Nella nostra lettura del Vangelo di Giovanni, alla scoperta del volto del Padre svelato da Gesù, siamo arrivati al capitolo 8, un testo difficile da comprendere che si presta a considerazioni ampie, valide per la lettura dell’intero Vangelo.

Apparentemente, infatti, il capitolo si mostra confuso e persino incoerente. Presenta discorsi già fatti, altri appena accennati che saranno ripresi più avanti, apparenti salti logici, argomentazioni che a noi non sembrano dimostrare molto. Davanti a pagine come queste, i commentatori provano a spiegare, a ricostruire, a volte immaginare che l’originale avesse meno informazioni o le presentasse in un ordine diverso che forse si può recuperare.

Alcuni di questi tentativi portano a esiti convincenti: ad esempio, è ormai condivisa tra gli studiosi la convinzione che lo splendido episodio dell’adultera perdonata (Gv 7,53-8,11) non fosse in origine parte del testo di Giovanni, in quanto ha uno stile e, in parte, anche dei contenuti che non sono quelli tipici del nostro evangelista. Non sappiamo chi lo abbia scritto né perché sia stato aggiunto al Vangelo di Giovanni, ma siamo riconoscenti che non sia andato perso.

Ci sono, poi, altre ipotesi, difficili da verificare, che solo in parte semplificano la lettura o spiegano il testo. A queste non dedicheremo qui del tempo, pur sapendo che esistono e che a volte sembrano anche sensate.

Più interessante è per noi cogliere il modo di scrivere di Giovanni fatto di continue ripetizioni, di ritorni su temi già trattati, con ragionamenti non lineari e poco organizzati.

L’evangelista sembra a volte procedere a spirale (torna su ciò che ha già detto, aggiungendo qualcosa), fino a sembrare disordinato. Può darsi che in questo modo voglia rispecchiare la vita reale, che non si presenta mai lineare e ordinata, ma piuttosto come una mescolanza apparentemente casuale di sfide, tensioni, gioie, speranze. Dentro questa mescolanza disordinata c’è la nostra esistenza fatta di cose che davvero contano e di altre meno importanti.

Allora Gesù alzò lo sguardo e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». (Gv 8,10-11)

Nel tempio (Gv 8,11-20)

Nel capitolo 8 del Vangelo di Giovanni, Gesù si trova nel tempio, vicino al «gazofilacio», dove si gettavano le elemosine. Probabilmente la scena avviene ancora durante la festa delle Capanne (7,2), quando Gesù era andato a Gerusalemme «di nascosto». Adesso però non si nasconde più e discute apertamente su di sé e sui suoi interlocutori, farisei e «giudei», ossia quelli che lo rifiutano.

La sua predicazione si incentra apparentemente su tre temi. Dapprima parla di sé come della «luce del mondo» (8,12), con una formula che tornerà nel capitolo successivo (9,5) e che riprenderemo a suo tempo. Poi torna sulla testimonianza che ne conferma il messaggio, di cui però ha già parlato nel capitolo 7 (e per il quale rimandiamo alla puntata precedente). Infine, e qui ci fermiamo un poco di più, affronta il tema del giudizio. I tre temi sembrerebbero accostati a caso, ma in realtà sono collegati: la pretesa di Gesù di essere la luce del mondo, ciò che aiuta gli uomini a vedere e giudicare, è confermata dalla testimonianza che su di lui offre il Padre. Questa, a sua volta, è il fondamento della stessa possibilità di Gesù di giudicare (8,16).

In realtà, nel versetto precedente, Gesù sostiene di non giudicare nessuno (v. 15), ed è probabilmente questa affermazione che ha «aiutato» il redattore finale a scegliere di inserire poco prima il racconto dell’adultera. Lì Gesù dice di non giudicare nessuno perché si contrappone ai suoi ascoltatori, che giudicano «secondo la carne». Subito dopo aggiunge che, se anche giudica, lo fa in modo autentico, vero, perché forte della testimonianza del Padre.

La successiva reazione dei farisei («Dov’è tuo padre?», v. 19) e la risposta di Gesù ci aiutano a intuire qualcosa sul senso dell’intero brano. Gesù sostiene infatti che giudei e farisei non conoscono né lui né il Padre. Ma com’è che si conosce una persona? Tramite le sue generalità? Nome, cognome, data e luogo di nascita? Noi siamo le nostre generalità? Questi dati siamo noi? Veramente sapere dove e quando siamo nati suggerisce qualcosa sulle nostre passioni, pensieri, relazioni? Questo modo di «conoscere», per dati oggettivi, sicuri, non opinabili, è ciò che Gesù chiama «secondo la carne». Dati certi, è vero, ma esteriori.

Questo è il modo con cui gli avversari di Gesù provano a «giudicarlo», a valutarlo: chi lo manda? Con che autorità parla? Qual è la prova chiara che noi dobbiamo ascoltarlo? È come se, prima di concedere fiducia a un amico, volessimo avere la prova incontrovertibile che non ci tradirà. Non è possibile, perché nessuna conoscenza oggettiva potrà andare a tale profondità. È profondo lo sguardo di chi coglie, intuisce, persino scommette che sì, quell’amico potrebbe tradirmi, ma non vorrà farlo. E questa conoscenza implica di mettersi in gioco, di non stare alla finestra a valutare. Di non avere certezze oggettive, ma un’intuizione dell’intimo.

Ecco perché Gesù sembra che inverta i termini, quando dice «se conosceste me, conoscereste anche il Padre» (v. 19). Sapendo che il Padre è Dio, ci sembrerebbe più logico dire che «se conosceste il cuore di Dio, sapreste che davvero vengo da lui». Ma l’approccio di Gesù non è quello razionale di una spiegazione scientifica, bensì guarda al midollo esistenziale dell’essere umano. In un rapporto di amicizia profonda, conosco sempre meglio il mio amico, ma anche me stesso. E chi conosce Gesù, coglie meglio anche il Padre, così come capire il Padre aiuta a intuirne la sintonia con Gesù.

Io sono (Gv 8,21-30)

Gesù ribadisce quindi che la radice, l’origine, il modo di pensare di coloro che stanno discutendo con lui, non sono i suoi: «Voi siete di questo mondo» (Gv 8,23). Questo non significa, evidentemente, che Gesù sia un extraterrestre, ma che chi ha davanti ragiona secondo il mondo, vuole garanzie e prove, vuole passare per una persona furba capace di vagliare chi ha di fronte senza ingenuità.

Da questo punto di vista la polemica apre in realtà lo sguardo su Dio: se questo approccio è incompatibile con il luogo da cui Gesù viene e verso cui va, è perché quell’altro luogo segue una logica diversa. Dio segue una logica che non è fatta di verifiche, valutazioni e sguardi accigliati di giudizio, che pensano di avere tutto sotto controllo.

Semmai, Dio è colui che si mostrerà pienamente quando Gesù sarà «innalzato» (v. 28), ossia quando sarà su quella croce che da una parte dice il fallimento, l’insensatezza e la fragilità, ma dall’altra mostra il volto più autentico di Dio, quello di un padre che si mette in gioco e si dona.

Ecco perché Gesù può dire, in questa sezione, che «Io sono» (v. 24). «Tu sei che cosa?», paiono chiedere i suoi interlocutori, così da andare a verificare se davvero funziona. Non capiscono che Gesù ha utilizzato una formula che era già stata usata dal Dio dell’Esodo (cfr. Es 3,14). Io-sono, Io-ci-sono, io sono qui a disturbare le tue certezze e confortare le tue insicurezze. Solo chi non si pone come giudice di fronte alla vita, ma si apre alla speranza di un senso e di una vicinanza, è confortato dalla rassicurazione che «Io ci sono e ci sarò».

Gesù ci indica un Padre che non si presta a definizioni e valutazioni, ma che promette la sua presenza.

E allora il fraintendimento dei farisei può suonare buffo ai cristiani che conoscono la vicenda di Gesù. «Dove vado non potete venire». «Vorrà forse uccidersi?» (vv. 21-22). L’ipotesi è assurda, ma in effetti Gesù vorrà donare la sua vita, fidandosi di un Padre che non dà garanzie o prove di salvare la vita del suo stesso Figlio, ma che promette di non sparire.

È interessante vedere come a questo punto Giovanni annoti che «molti credettero in lui» (v. 30). Se si cambia modo di guardare all’offerta di Gesù, non come qualcosa da vagliare ma come una promessa da accogliere o rifiutare, si può incontrarlo davvero come Dio vuole farsi trovare, nella fiducia e nell’affidamento che contestano ogni forma di puntigliosa verifica dall’alto.

Discussioni varie (Gv 8,32-59)

Diventa allora più chiaro il senso delle discussioni variegate e apparentemente disordinate che seguono nei versetti successivi.

In parte vertono sul rapporto con Abramo: chi discute con Gesù pensa di avere il diritto e la garanzia della libertà perché legati in modo formale e indiscutibile a lui (discendenza dimostrabile dalle genealogie). Gesù contesta, in modi anche duri, che sia sufficiente essere discendenti: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (v. 39), che di Dio si era fidato senza alcuna garanzia. Al di là dei particolari, il filo del discorso resta lo stesso: di fronte a Dio non ci sono diritti acquisiti, magari da altri, ma solo il fidarsi, l’affidarsi, l’entrare in una relazione personale che non offre garanzie ma promesse. Tutto molto più sfuggente e a rischio, ma anche tutto molto più umano e interiore, profondo e spirituale. Gesù svela il modo di ragionare del Padre.

Per questo può addirittura spingersi a parlare di verità e menzogna. Chi ci giudicasse e vagliasse dai nostri dati anagrafici, resterà probabilmente in superficie e non coglierà di noi l’essenziale. Ossia, avrebbe un quadro bugiardo e inaffidabile di noi.

E ciò che Gesù ribadisce è proprio che lo sguardo divino è quello non esteriore, non formale, non di appartenenza dimostrabile, è quello del legame personale, del rapporto più intimo e profondo che passa dalla fiducia. E sottolinea che questo sguardo è il più autentico e vero, quello che può garantire il legame con il Padre che assicura la vita eterna. Ecco perché «chi custodisce la mia parola» (v. 51), che imposta questa modalità di rapporto con Dio, «non vedrà la morte per sempre».

Questo era ciò che Abramo e i profeti avevano intuito, nel cuore di Dio e passando dalla promessa di una terra e di un figlio (v. 56). Questo è ciò che il Padre attesta, nella vita e poi nella risurrezione di Gesù, la sua definitiva e sicura intenzione di prendersi cura della vita degli esseri umani, in una promessa che passa inevitabilmente dall’incertezza di non avere in mano la prova dimostrata che sia affidabile.

Come in ogni dimensione più profonda dell’essere umano, il cuore delle scelte non passa da un calcolo economico, ma dalla decisione se credere o no a una promessa.

Questo Gesù lo può garantire perché conosce il Padre fino in fondo, «prima che Abramo fosse, io sono» (v. 58). È, di nuovo, la formula con cui Dio si era presentato a Mosè, «Io-sono». È la pretesa di conoscere Dio in quanto è come lui. Si capisce la reazione della folla, che pensa di trovarsi di fronte a una bestemmia e tenta di lapidarlo. Ma non è ancora l’ora di Gesù, che si nasconde e fugge. Perché quando consegnerà la propria vita per essere innalzato sulla croce, non sarà per caso o per sfortuna, ma in quanto avrà deciso che è giunto il momento di offrirsi.

Angelo Fracchia
Il Volto del Padre 10 – continua




Una sosta per capire (Gv 7)


Il settimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni a prima vista non è di quelli che restino impressi nella memoria dei lettori. Parrebbe quasi un momento di passaggio, interlocutorio, come una pausa per prendere respiro.

E invece non è così. L’evangelista non vuole lasciarci riposare, e ce lo dice sottolineando più volte che ci troviamo alla festa delle Capanne. Si trattava, soprattutto al tempo di Gesù, di una festa autunnale molto sentita. La sua origine era contadina, legata agli ultimi racconti dell’anno, soprattutto quello dell’uva. Nel tempo, però, era stata collegata, come lo è ancora oggi, agli anni vissuti da Israele nel deserto, quando pur nella precarietà, il popolo era comunque nelle mani affidabili di Dio. Il dormire in capanne di frasche, anche solo simboliche, voleva richiamare quel tempo in cui gli ebrei vivevano in tende e non avevano altra certezza che la presenza protettrice di Dio.

Precarietà e fiducia

E Giovanni sembra proprio costringerci a muoverci in quello spazio incerto. Così, nel capitolo 7, ci descrive un Gesù «rifugiato» in Galilea, a causa delle minacce di morte dei giudei, che dice di non voler tornare in Giudea per la festa delle capanne, ma che poi ci va di nascosto. Un Gesù che a metà dei giorni di festa si mette a predicare nel tempio suscitando attorno a sé dibattiti e divisioni sulla sua identità. La gente discute anche sulla veridicità delle parole di Gesù che affermano esserci chi vuole la sua morte (v. 20), mentre invece c’è proprio chi attivamente cerca di procurargliela (vv. 1.30.32.45).

La gente si domanda: chi è costui? È vero che spiega con profondità e autorevolezza la Bibbia, ma non ha studiato (v. 14-15). Qualcuno crede che Gesù sia il messia, altri invece no, perché quando il messia verrà «nessuno saprà di dove sia» (v. 27). Qualcun altro ricorda che la Scrittura dice che il messia forse verrà da Betlemme (v. 42). Non può quindi essere Gesù: tutti, infatti, sono sicuri che lui è di Nazaret (v. 41). Altri pensano: se le autorità religiose lo lasciano parlare in pubblico, di certo deve dire cose giuste (v. 26), ma non sanno che in realtà proprio quelle stesse autorità stanno cercando di imprigionarlo. C’è chi vede che è buono e fa gesti grandiosi (vv. 12.31) e chi lo ritiene indemoniato (v. 20).

Di Gesù sembra potersi dire tutto e il contrario di tutto. A chi credere?

Anche alcuni di quelli che più sono vicini a Gesù, che lo conoscono meglio, non credono in lui; ma, nello stesso tempo, i gesti che compie, e soprattutto le parole che condivide, sembrano aprire prospettive di profondità, di vita, di nutrimento e acqua fresca. Come ha detto Pietro a nome dei dodici poco prima: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,69).

La testimonianza del Padre (Gv 7,14-25)

È Gesù stesso a offrire una chiave di comprensione, anche se potrebbe sembrarci persino più astrusa. Dice, infatti, che è il Padre ad avergli mostrato tutto, e che, se si vuole vagliare la sua credibilità, è al Padre che bisogna guardare (vv. 16-18).

Da una parte, come dicevamo, questo ci complica le cose. Finora era sembrato che fosse Gesù a farci conoscere il Padre, a mostrarcelo, e che si potesse guardare a Gesù esattamente per conoscere meglio il Padre. Ora però Gesù ci dice che, per credere al Figlio, si deve fare riferimento alla testimonianza del Padre… che però noi conosciamo tramite il Figlio. Sembra di annodarci in un ragionamento senza uscita.

Se ci pensiamo, però, è proprio questa la logica delle relazioni umane. Gesù sostanzialmente dice che se si guarda a ciò che il Padre ha fatto nella storia, e che si conosce dal Primo Testamento, si può cogliere la coerenza con ciò che insegna lui. Non siamo di fronte a un ragionamento filosofico o matematico (da A si ricava B, da B si ottiene C), ma di coerenza intima: «Ciò che insegno non è forse coerente con ciò che Dio ha sempre fatto?». Di fronte a questo appello, chi ascolta non può più semplicemente mettersi alla finestra come un giudice che stabilisce se il ragionamento tiene, ma deve coinvolgersi, decidere, schierarsi. È come trovarsi di fronte a un’opera d’arte: magari non siamo artisti, ma per capire un quadro dobbiamo seguire i suggerimenti del pittore, ripercorrere la sua intuizione, dobbiamo farci un po’ artisti.

Ecco perché così tanti discepoli e persone vicine a Gesù, in questa parte del vangelo, non credono più in lui. Perché non si tratta più solo di ascoltare e valutare, ma di prendere posizione, di credere o no. Come in un’amicizia, come in una relazione, ci può essere un tempo in cui provare a vagliare se quei segni di vicinanza sono affidabili, ma poi arriva il momento in cui non si può più stare alla finestra, perché bisogna scommettere se quella relazione può essere autentica, e quindi conviene darle fiducia e farla crescere, o se invece la riteniamo ingannevole o pericolosa e allora va abbandonata (cfr. il v. 12, dove si ipotizza proprio che Gesù «inganni la folla»). Tenersi neutrali non è possibile, è come rifiutarla.

Da qui in poi, allora, il discorso sul Padre da parte di Gesù si farà più intimo e complesso, perché non potremo più semplicemente porci come spettatori e ascoltatori. Dobbiamo entrare in gioco.

Tra afferrare e lasciare scorrere (Gv 7,30-39)

Cogliamo così il legame che c’è tra due temi che noi, forse, non avremmo messo vicini.

Da una parte c’è chi cerca di afferrare Gesù, invano (vv. 30.32.45), per arrestarlo: le autorità, i sommi sacerdoti e i farisei. Cercano di zittirlo, non di controbattere o di entrare in dialogo, di provare a capire e a rispondere, ma di farlo tacere, così come sono riusciti a mettere a tacere chi si interrogava su Gesù (v. 13).

E qui entra prepotente la mano dell’evangelista, che afferma che si potranno mettere le mani su Gesù soltanto quando sarà il momento. Giovanni non è interessato a scrivere una cronaca, e quasi non ci spiega perché le autorità non riescano ad arrestare Gesù. Ci dice solo, verso la fine del capitolo, che le stesse guardie, persone abituate a ubbidire senza farsi domande, affermano che «mai un uomo ha saputo parlare così!» (v. 46). L’attenzione non è sulle azioni di Gesù, ma sulla sua sapienza, sulle sue parole che sanno evocare un desiderio umano profondo.

Giovanni, che non a caso chiama «segni» i miracoli, insiste sul fatto che non è lo stupore o l’interesse a portarci stabilmente verso Gesù, ma le parole di vita che sa donare, la vita promettente che sa evocare.

Dall’altra parte, infatti, contro coloro che vorrebbero «afferrarlo» e rinchiuderlo, Gesù si erge in piedi, solenne, a gridare, nell’ultimo giorno della festa, che chiunque ha sete è chiamato ad andare a dissetarsi da lui. «Fiumi d’acqua viva fluiranno dalle sue viscere!» (v. 38), dice Gesù affermando di citare la Scrittura, anche se non si capisce di preciso a quale passo stia pensando (Ezechiele? Zaccaria? I salmi?). Non si capisce quindi di preciso se l’intimo, il cuore, le viscere da cui scaturiranno fiumi d’acqua viva siano di Gesù o di chi va a lui. Ma in realtà questa ambiguità è probabilmente voluta. È Gesù che dona acqua viva, ma sarà anche chi si affida a lui che potrà fare come Gesù. L’acqua, ciò che non si può restringere, non si può chiudere in confini, non può essere «afferrata» e rinchiusa. Acqua viva, che continua a scorrere, che sa dissetare senza risparmio, senza paura, che purifica e rinfresca.

Da una parte c’è chi pretende di chiudere la fedeltà a Dio in regole, silenzio e ubbidienza; dall’altra ci sono parole che evocano la libertà e l’appagamento di acque vive. E il Padre, dice Gesù, è da questa seconda parte.

Germi di ascolto (Gv 7,40-52)

Non è allora per ripetizione che Giovanni torna a recuperare sia la domanda sull’origine di Gesù (vv. 40-43), sia il tentativo di afferrarlo e rinchiuderlo (vv. 44-47). Questi due temi, apparente-
mente slegati, sono invece intrecciati, e l’evangelista, ripetendoli, ci suggerisce che dobbiamo connetterli e non dimenticarli.

Perché, sembra dirci, è giusto farsi domande su Gesù, sulla sua pretesa di comunicarci il Padre e sul suo legame con Lui. È giusto perché non è una realtà evidente, che si imponga. Non è una dimostrazione matematica, che ci costringa a riconoscerne la verità. È invece un’intuizione profonda, autentica, esistenziale che ci chiede di prendere posizione, di decidere da che parte stare.

Assomiglia alle relazioni umane, perché ciò che Dio cerca è esattamente una relazione. Non ci sono infatti parole dure, nei vangeli, nei confronti di chi fatica a credere. Perché l’incertezza, l’insicurezza, sono comprensibili. I giudizi pesanti, invece, sono verso chi vorrebbe far tacere Gesù e le domande, anche a costo di mentire.

Alle guardie che, contro la loro natura e la loro etica, mandate ad arrestare Gesù, si fermano perché «mai un uomo ha saputo parlare così», i capi religiosi ribattono che soltanto gli stupidi, «la folla, ignorante della Legge», si è lasciata sedurre da Gesù. È l’obiezione dei presuntuosi, che guardano i titoli di merito («dove ha studiato, costui?», v. 15) e non si lasciano coinvolgere dalla possibilità di parole di vita. E che mentono, affermando che solo gli ignoranti si farebbero ingannare da questo presunto messia.

Giovanni lo fa subito notare, perché uno del sinedrio, quel Nicodemo «che prima era andato a lui di notte» (v. 50), non prende posizione netta a favore di Gesù, ma si rifiuta di condannarlo senza prima ascoltarlo, peraltro facendo appello proprio alla Legge.

Nicodemo è una figura incantevole del Vangelo di Giovanni, perché, pur non prendendo posizione, si mette in ascolto: va a parlare a Gesù, pur con molte diffidenze e senza volersi far notare (Gv 3,1-21), e sarà tra coloro che si prenderà cura del corpo del crocifisso (Gv 19,39). Non un discepolo in senso pieno, ma una persona che si lascia coinvolgere, che vuole ascoltare e capire, che si lascia scomodare.

È uno di quei discepoli «in spirito e verità» (Gv 4,23-24) che il Padre cerca e spera. Non necessariamente persone che abbiano già deciso definitivamente e con fermezza, ma che si lasciano mettere in discussione, che ascoltano e meditano, che non hanno verità preconcette.

Perché, come nelle nostre relazioni, nel nostro orientamento di vita, in tutte le questioni più profonde, Gesù e il Padre sanno che non è facile affidarsi, decidersi, scegliere, e comprendono chi fatica, chi è incerto. Perché il messaggio di Gesù sul Padre non è un teorema matematico incontrovertibile, ma una parola di vita, promettente ma senza garanzie previe. L’unica risposta sbagliata è quella di chi non vuole neppure ascoltare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 09 – continua)




Volete andarvene anche voi? (Gv 6,59-71)


Nella scorsa puntata abbiamo interrotto la lettura del lunghissimo sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni al versetto 58. Ora la riprendiamo per vedere quanto lontano vuole portarci l’evangelista che ci aveva narrato la moltiplicazione dei pani, seguita da una lunga riflessione su quale sia il cibo che davvero ci fa vivere. Questo ha portato il discorso sul tema della centralità di Gesù, «io sono il pane vivente, disceso dal cielo» (Gv 6,51), autentico cibo e bevanda (v. 55) che chiede di affidarsi a lui solo, e di nutrirsi di lui.

La fatica di fidarsi (Gv 6,60-62)

Addomesticati da secoli di formule liturgiche, è possibile che a noi sfugga la portata rivoluzionaria e scandalosa di ciò che Gesù sosteneva e incentivava: al posto di sacrifici animali per chiedere perdono a Dio, Gesù proponeva solo un banchetto, incentrato sul nutrirsi del suo stesso corpo e sangue offerti come sacrificio, seguito dalla celebrazione della comunione con Lui. Ossia sanciva l’abolizione dei sacrifici animali (centrali per il culto nel tempio sostenuto dal Primo Testamento), sostituiti simbolicamente dal sacrificio del suo corpo (nella religione ebraica è sempre stato considerato un abominio toccare la vita umana) e dall’offerta del suo sangue come bevanda (cosa assolutamente vietata dalla legge, già da Gen 9,4)). Così facendo, Gesù metteva al centro del culto sé stesso, sostituendosi a Dio.

Non stupisce quindi che alcuni, anche tra i discepoli di Gesù, abbiano pensato che «questo discorso è duro» (Gv 6,60), ossia faticoso da capire e da fare proprio. Hanno mormorato tra loro, ma non l’hanno detto a Gesù.

A dire la verità, persino per noi oggi alcuni dettagli del discorso di Gesù risultano ostici, tanto che moltissimo inchiostro è stato usato per renderne ragione. Tra i molti tentativi di spiegazione, ne scegliamo uno che può forse sembrare più lineare. Tra l’altro, è un tentativo di spiegazione che si lascia guidare dal fluire del discorso evangelico.

È infatti Gesù a reagire all’obiezione che i suoi discepoli non gli fanno esplicitamente (possiamo immaginare che gli sia stata svelata dallo Spirito, o che Gesù fosse particolarmente attento e acuto riguardo a ciò che si muoveva intorno a lui). E dice, più o meno: «Ciò che ho detto vi fa inciampare (vi scandalizza), non vi aiuta a fidarvi? Figuratevi quando mi vedrete salire al cielo!».

Qui possiamo domandarci per quale motivo l’ascensione avrebbe dovuto causare scandalo. Non sarebbe stata la certificazione che Gesù aveva detto il vero?

Sì, la sarebbe stata, ma, nello stesso tempo e più in profondità, avrebbe attestato che il Padre voleva eliminare la divisione tra divino e umano, che è quindi coerente guardare a un uomo per guardare a Dio, e che fosse Dio stesso a suggerire qual è il volto umano più autentico. Quindi è coerente che, per guardare a Dio, si guardi a un uomo, e che sia Dio a suggerirci il volto umano più autentico. D’altronde, il divieto di cibarsi di sangue era dovuto alla convinzione che nel sangue risiedesse la vita, e che la vita appartenesse a Dio. Ma Dio può donare ciò che è suo. E, lo si noti, il Dio biblico è quello che, piuttosto che chiedere sacrifici agli altri, li fa in prima persona, già dalla relazione con Abramo.

Tutto, logicamente, può tornare. Ma per farlo occorre fidarsi di Gesù.

Spirito vivificatore (Gv 6,63-65)

A volte la logica del vangelo di Giovanni ci sembra strana, ma se ci lasciamo coinvolgere, spesso la troviamo più profonda e autentica di quanto non avessimo colto in prima battuta.

Ciò che segue, infatti, e che ci aspettiamo sia una spiegazione più approfondita, appare invece come un cambio di discorso: «Colui che dona la vita è lo Spirito, la carne non serve a niente» (v. 63). A molti è sembrata un’affermazione illogica e che, tra l’altro, sembra negare il valore dell’eucaristia («mangiate il mio corpo»). In realtà la contrapposizione non è tra la «carne» da una parte e l’«anima» o la «sapienza» o la «conoscenza» dall’altra, ma tra la «carne» e lo «Spirito». Non, quindi, tra una realtà tangibile e una non visibile, bensì tra ciò che dipende semplicemente da una sicurezza esteriore, formale, quella che san Paolo chiamerà la «lettera» (Rm 2,29; 2 Cor 3,6), e ciò che ha e garantisce il senso in profondità.

Qui siamo di nuovo pienamente nel flusso del pensiero di Gesù, che ci ha invitati a metterci in una relazione di fiducia con lui, a cibarci di lui e a lasciarci guidare solo da lui per arrivare al Padre. Non come chi segue una regola e quindi si sente «a posto» (si può anche mangiare il corpo di Cristo con questo stato d’animo…), ma come chi fà proprio un gesto simbolico fidandosi di ciò che significa, affidandosi alle parole di chi ha promesso di essere presente in quel segno. Gesù ci invita a credere che il valore autentico di quel cibarsi, ciò che ai gesti e alle parole umane può «donare vita», sta nella fiducia in lui, assistiti dallo Spirito. D’altronde, ogni forma di dedizione umana autentica si lega non in primo luogo a ciò che concretamente si fa, ma alle intenzioni che ci muovono. Gesù si pone al livello delle nostre intuizioni di vita più profonde, che ci chiedono di valutare e discernere con attenzione le opzioni che abbiamo di fronte, per arrivare alla fine a decidere di che cosa vogliamo fidarci. Se stiamo solo a misurare con il bilancino i pro e i contro, non ci muoveremo mai e non vivremo. Gesù invita ad affidarci a lui, a entrare in quella prospettiva di fiducia che promette che la separazione tra divino e umano non si farà più, come in lui già non esiste più.

E Gesù può dire che ciò è stato «dato dal Padre» perché Dio è davvero superiore a noi, e non possiamo essere noi ad abolire la separazione, ma solo Lui può donare la comunione.

Gesù non sta pensando a dei compiti che noi dobbiamo fare per essere all’altezza dell’esame divino, ma a un incontro di comunione. Questo però, siccome non è tra due pari, non può che partire dall’alto, dal Padre ed è, allo stesso tempo, affidato alla risposta umana, proprio perché avviene tra due libertà.

Volete andarvene? (Gv 6,66-71)

Si può però comprendere che «molti dei discepoli» (v. 66) rinuncino a seguire Gesù. È un discorso troppo «duro», è un discorso che non ci permette di sentirci «a posto» quando facciamo ciò che ci è richiesto (come succede agli schiavi disciplinati), ma ci chiede di entrare in una relazione personale profonda, di dedizione e fiducia. Una relazione che non lascerà mai comodi, perché mai potremo dire di aver fatto abbastanza né di avere in mano certezze. Nello stesso tempo, se si imposta così il discorso non saremo mai esclusi dalla comunione, perché ciò che è richiesto è di aprirsi e fidarsi, non di raggiungere un livello minimo di realizzazione pratica.

Siccome però stiamo parlando di un dialogo, persino Dio non può anticipare come andrà a finire. Da parte sua, Lui ha aperto un credito illimitato, come è chiaro da ogni pagina dei Vangeli: il Padre vuole la comunione con gli esseri umani. Non vuole essere servito, ma incontrato, scoperto e amato.

E l’amore non sopporta forzature, neppure da parte di Dio. Quindi, di fronte allo «scandalo» di molti discepoli (non estranei, ma gente che ha voluto seguirlo), Gesù fa la domanda diretta, che in tutti i Vangeli prima o poi arriva: «E tu? Che dici? Volete andarvene anche voi?» (v. 67). La domanda è ancora più sorprendente perché è fatta ai «dodici», che noi sappiamo chi sono, ma dei quali finora nel vangelo di Giovanni non si è mai parlato.

L’evangelista ci sorprende, ci costringe a ripensare se li aveva già presentati, e così ci fermiamo, rileggiamo, facciamo ancora più attenzione a quella che è una domanda fondamentale, diretta, che chiede coinvolgimento, che interroga sulla comunione possibile. Perché non si tratta di ubbidire a un ordine, ma di aderire a un’offerta.

E la risposta di Pietro è esemplare: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna!» (v. 68). È una reazione che si pone sullo stesso tono di Gesù. Non dice di avere le prove che Gesù sia chi pretende di essere, non introduce doveri o responsabilità. Parla invece di «parole di vita eterna». Ciò che Gesù dice, spiega, fa intuire, ha il gusto dell’eterno, prospetta e promette un senso. Non dà le soluzioni definitive, che nella vita, nelle questioni esistenziali più profonde, non esistono, perché nessuno può dire con certezza matematica di aver fatto bene a fidarsi di questa persona, di questo stile di vita, di questa vocazione. Ma può sentire che dentro a una certa situazione è già presente una promessa di vita autentica, una parola che chiama, che non dà certezze, ma offre una relazione.

E allora, da chi altri andare?

Una volta che si è iniziato a gustare quel profumo di senso, non se ne può più fare a meno. E nessun altro lo offre, anche se persino Pietro non può dire di aver capito tutto, di avere tutto chiaro. Però sai che quel gusto di senso, altrove non c’è.

E il Padre?

Sembrerebbe quasi che il Padre, questa volta, resti sullo sfondo.

Ma dopo tutti i discorsi già fatti è chiaro che Gesù non parla di sé senza coinvolgere anche il Padre, che si mostra e rivela in lui.

Riscopriamo ancora, quindi, un Padre che desidera una relazione di fiducia con gli esseri umani, che abbatte la separazione che esiste tra sé e l’umanità e la abolisce nella speranza, nella promessa, in attesa dell’ascensione al cielo. Come tutte le promesse, non si basa su una garanzia legale, su minacce di punizioni, ma sull’affidabilità della relazione, sulla fiducia: «Ti credo solo perché sei tu a promettermelo».

È una costante talmente regolare che potremmo non notarla più: il Padre di Gesù non imposta la sua relazione con l’uomo sulla base di regole e punizioni, come siamo abituati a veder fare dai potenti e come l’umanità solitamente immagina che faccia Dio, ma sulla base di una relazione personale di comunione e fiducia. Su promesse e affidabilità. E quindi sulla libertà.

Il Padre di Gesù vuole essere amato, e non sopporta quindi costrizione. Non esiste amore senza libertà di andarsene. «Volete andarvene? Andate, non vi trattengo». Non a caso, in questi tempi in cui ancora ci sono persone che ne mantengono altre legate a sé con ricatti morali, con catene economiche o con la violenza, non fatichiamo ad ammettere che quello che loro chiamano amore, amore proprio non è.

Il Padre di Gesù lascia libero chi vuole andarsene. Quando, nella storia della nostra Chiesa, non si sono lasciate le persone libere di scegliere, al di là delle ragioni storiche e culturali, si è tradito lo spirito del cristianesimo.

Come un innamorato, anche il Padre vuole lasciarci liberi di andarcene, sperando però che non vogliamo farlo, che restiamo assetati delle parole di vita eterna, che Lui continua a offrirci tramite Gesù.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 08 – continua)