L’ora dell’addio (Gv 16)
Il lungo discorso di Gesù, iniziato al capitolo14 del Vangelo di Giovanni, al capitolo 16 volge al termine: il maestro inizia a spiegare il motivo del discorso e ciò che accadrà. E sembra un discorso luttuoso.
I lettori del Vangelo lo sanno già, Gesù sta per avviarsi alla croce e fisicamente non sarà più presente insieme ai suoi discepoli. Come ogni separazione, questo è un motivo di tristezza. Resa però più complicata e tragica, qui, dall’impressione di fallimento. Questo perché la morte in croce sembrava comportare un rifiuto, una condanna da parte di Dio («Maledetto chi pende dal legno», scriverà Paolo in Gal 3,13). Non a caso è voluta proprio da coloro che si consideravano i rappresentanti di Dio in terra, sommi sacerdoti e scribi.
Gesù ammette che la croce potrebbe essere un motivo di «scandalo», ossia un inciampo che fa cadere, che confonde. Infatti, può far pensare che la pretesa di Gesù di mostrare il vero volto del Padre non abbia fondamento, che dica piuttosto il rifiuto di Gesù da parte di Dio. Per questo Gesù ne parla prima, di modo che i suoi discepoli sappiano bene che il Figlio resta sempre amato dal Padre.
Il fallimento, poi, è anche quello che sperimentano i discepoli nella vita di ogni giorno. Qui, il Vangelo parla innanzitutto ai contemporanei di Giovanni diventati discepoli: «Vi renderanno degli allontanati dalle sinagoghe» (v. 2). Noi, oggi, tendiamo a immaginare che i primi cristiani abbiano consapevolmente abbandonato la religione di Israele per abbracciarne un’altra, ma, in realtà, continuavano a sentirsi ebrei, convinti che fosse arrivato il Messia, pienezza delle promesse profetiche.
Anche i dodici, dopo la risurrezione, si erano fermati a Gerusalemme e andavano ogni giorno nel tempio, senza rompere, neppur minimamente, i rapporti con il mondo religioso ebraico.
Giovanni, quindi, mette in scena Gesù che prevede ciò che i lettori stanno sperimentando nel momento in cui il Vangelo viene composto: l’essere espulsi dalla comunità religiosa ebraica. Non abbiamo certezza di quando e come ciò sia accaduto, se in contemporanea in tutto il Mediterraneo e se ovunque con la stessa durezza, ma è chiaro che durante la seconda generazione cristiana, i «fratelli» hanno iniziato a essere identificati come un movimento distinto dal resto degli ebrei e problematico, e a essere dichiarati «non graditi» nei luoghi di preghiera ebraici. È ovvio che l’immagine che questi cristiani hanno di se stessi possa andare in crisi.
È l’«ora», il momento decisivo, che fa cogliere le cose come stanno e costringe a prendere posizione. E l’«ora», ovviamente, è segnata anche dall’assenza di Gesù, che storicamente e fisicamente non è più presente tra i suoi.
Vado, e mando il Paraclito (v. 7)
La consolazione, offerta da Gesù ai suoi discepoli, si concentra sul dono dello Spirito Santo e comporta due dimensioni. Da una parte c’è la consapevolezza che l’ordinario della vita umana non comprende la presenza fisica di Gesù. Un Dio incarnato, che scende nell’umanità realmente e non per finta, deve accettare di essere presente solo in un tempo e in un luogo specifici, non in tutti gli altri, sempre. L’«ora», il momento decisivo di svelamento della realtà, comporta la separazione da Gesù, che ipoteticamente avrebbe anche potuto non morire in croce, ma sarebbe comunque dovuto morire separandosi dai suoi, a meno che la sua incarnazione non fosse soltanto finta.
Il secondo aspetto è quello più significativo: Dio non smette di essere presente. Lo è ancora nella forma dell’assistenza dello Spirito Santo, il quale prevede l’assenza fisica di Gesù per potersi esprimere.
Ecco allora che la certezza della partenza di Gesù diventa anche la promessa di una sua presenza diversa, della permanenza di una comunione che non viene meno in ogni caso.
La certezza di questa presenza Gesù la ricava dalla garanzia del Padre (v. 15), che ha tutto in mano e garantirà tutto ciò.
L’immagine utilizzata dal Vangelo per parlare dello Spirito è molto interessante: viene definito «paraclito». Questa parola indica l’avvocato difensore, che nei tribunali greci non parlava al posto dell’imputato, ma gli scriveva i discorsi e restava al suo fianco per suggerirgli come rispondere. Non è, quindi, chi fa al posto di un altro, ma colui che chiede il pieno coinvolgimento senza far mancare mai la propria presenza e assistenza.
Eccola, dunque, l’«ora», il momento in cui decidere di fidarsi di Gesù: quello nel quale si affianca alla certezza della sua assenza fisica, la certezza della presenza dello Spirito che conduce a un’esistenza autentica, reale, affidata alla libera responsabilità del discepolo.

L’opera dello Spirito (16,8-15)
Giovanni sceglie di affidarsi a una specie di enigma per spiegare che cosa farà lo Spirito presente nel mondo al posto di Gesù e da lui inviato.
L’evangelista fa dire a Gesù che lo Spirito, venendo, «dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio» (Gv 16,8).
È una scelta coerente quella di utilizzare un enigma che non spiega tutto, perché, in un certo senso, la vita di tutti è enigmatica, e va interpretata, intuita: la scelte che facciamo, le portiamo a termine senza certezze assolute, fidandoci di ciò che ci sembra garantirci bellezza e verità.
Giovanni, però, ci offre anche delle vie di soluzione, che non spiegano tutto e hanno fatto scrivere e discutere moltissimo, ma che se sono seguite nel loro contesto e nel discorso ci svelano abbastanza.
Sul peccato il discorso sembra chiaro: «Perché non credono in me», dice Gesù al versetto 9. Noi abbiamo spesso un’idea molto legalista del peccato, come se coincidesse con la disubbidienza a dei comandamenti. In realtà tutta la Bibbia, soprattutto nel Nuovo Testamento, richiama il fatto che il peccato è innanzitutto l’allontanamento da Dio e la mancata comunione con Lui. Sembrerebbe ovvio, allora, che «il non credere in Gesù» sia un peccato, perché è rifiutare la comunione definitiva offerta dal Padre attraverso di Lui. Ma anche il rifiuto dei fratelli che credono in Gesù e la loro espulsione dalle sinagoghe nella presunzione di interpretare la volontà divina, è peccato e segno di un comportamento che dimostra la non conoscenza del Padre (v. 3). La pretesa di accusare il peccato negli altri ci svela come peccatori, non in comunione con il Dio che vorremmo difendere, ma non conosciamo.
L’accenno alla giustizia, poi, potrebbe suonarci del tutto incomprensibile, e invece è proprio quello che ci aiuta a cogliere al meglio l’opera dello Spirito come la presenta Gesù: «Perché vado al Padre e non mi vedrete più» (v. 10). Che c’entra? Se pensiamo alla giustizia come adeguamento alle leggi, in effetti non sembra proprio entrarci niente. Ma, secondo la tradizione biblica, la «giustizia» è piuttosto la corrispondenza a relazioni corrette, sane, impostate bene. Giustizia è la visione del mondo secondo il piano di Dio. In questo piano, Gesù non è presente nella storia, nello spazio e nel tempo, è con il Padre. E questo significa che solo lo Spirito può aiutarci a impostare in modo corretto il rapporto con Gesù e con il Padre, i quali, non essendo presenti, non possono essere toccati e interrogati. Ecco lo spazio per l’opera dello Spirito, che può metterci nella relazione «giusta» con il Padre e il Figlio, fatta di affidamento e fiducia.
E questo spiega anche l’accenno al giudizio, il quale non è il pronunciamento di un giudice, ma la sentenza definitiva della storia, di Dio. Se il Padre non abbandona il mondo, vivere seguendo la logica del mondo e non secondo quella divina ci pone al di fuori della speranza di una vita autentica.
Non a caso Gesù insiste sul fatto che tra poco non sarà più visto dai discepoli, i quali, però, poi lo vedranno di nuovo (v. 16). La promessa è quella di riprendersi in mano la relazione con i suoi amici, ma nella realtà di una presenza nuova, non visibile.
Il Padre e la preghiera
Certo il passaggio dalla presenza fisica di Gesù a quella dello Spirito si sente ed è impegnativo, porterà però a una pienezza di vita simile a quella che si sperimenta al momento del parto per venire al mondo (v. 21).
La condizione alla quale i credenti sono introdotti è quella della vita normale delle persone, nella quale il rapporto con Dio passa da elementi non controllabili, non oggettivi. Non è il parlare a tu per tu con una persona, ma è una preghiera che da una parte è sfuggente ma dall’altra è sempre disponibile.
Il dilemma di fondo dell’essere umano, in effetti, è cogliere se «dall’altra parte» ci sia qualcuno che ascolta. Molto spesso la spiritualità si esprime tramite mediatori che consentano alle preghiere di arrivare al creatore, come se avessimo bisogno di qualche prova concreta per fidarci. È quello che alcuni settori della fede ebraica cercavano negli angeli e che a volte anche noi vediamo nei santi intercessori.
Gesù però è chiaro: sostiene che ci verrà dato ciò che chiederemo al Padre nel nome, con l’annotazione che fino a ora i discepoli non l’hanno fatto.
Qui potremmo anche offenderci, perché a chiunque di noi è successo di pregare senza ottenere nulla. Gesù precisa, però, «nel mio nome» (v. 23). Se questo significasse che basta intestare la domanda a Gesù, ci troveremmo di fronte a un padrino mafioso, che vuole la raccomandazione per farci un favore.
Quando ci presentiamo a qualcuno dicendo che ci ha mandati un amico, non usiamo quella indicazione come trucco per essere trattati meglio degli altri, bensì come presentazione: «Sono amico di Tizio, che è amico tuo, vogliamo le stesse cose, ragioniamo in modi simili, ci vogliamo bene: siamo quindi in sintonia anche io e te». Presentare richieste «in nome di Gesù» significa anche farlo come lo farebbe Gesù, con la stessa logica di fiducia e di dono di sé, con lo stesso sguardo appassionato e innamorato sul mondo.
Ma subito dopo Gesù è ancora più diretto. «Non vi dico che intercederò per voi presso il Padre, perché lui stesso vi ama» (vv. 26-27). Non c’è bisogno di pizzini o raccomandazioni. Gesù è il volto del Padre, ci mostra l’amore di cui ci ama il Padre. Il processo di svelamento è completo.
Ecco, allora, la ragione della reazione dei discepoli che a prima vista ci potrebbe sembrare incongrua: «Stavolta parli apertamente» (v. 29).
In realtà, anche in questo capitolo Gesù ha usato immagini, evocazioni. Ma è arrivato al punto: Egli vivrà con il Padre, dopo la risurrezione, però noi non siamo lasciati soli, abbiamo chi ci comprende, perché Gesù è stato uomo come noi. E, proprio perché non è con noi, ci lascia lo Spirito paraclito per continuare ad accompagnaci. Ed è proprio quell’uomo e Signore che ci dice che che ci possiamo fidare del Padre con la stessa tranquillità con cui ci fidiamo di Lui, e che il Padre ci ama come ci ama Lui. Sulla croce è come se ci fosse anche il Padre. L’amore visibile in Gesù è quello invisibile del Padre.
Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 19 – continua)








