Urbanizzazione e sicurezza alimentare

 

Nel mondo soffrono la fame tra i 690 e i 783 milioni di persone. In Africa una persona ogni cinque. In Asia una ogni 12. L’obiettivo della «fame zero» entro il 2030 appare irraggiungibile.

Fame zero entro il 2030. È questo il secondo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

Man mano che passano gli anni, però, la speranza di riuscire a raggiungerlo entro i tempi previsti è sempre più risicata e un recente report dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) lo conferma. Nel 2022, il 9,2% della popolazione mondiale (tra 690 e 783 milioni di persone) era in una condizione di fame, ovvero non consumava la quantità minima di cibo necessaria per disporre dell’energia essenziale per una vita attiva e salutare.

Una percentuale in crescita rispetto al 7,9% registrato nel 2019. Cosa che rende evidente l’impatto negativo sul settore agroalimentare della pandemia da Covid-19 – che ha causato un rallentamento dell’economia mondiale – e del conflitto in Ucraina – che ha reso difficile reperire beni alimentari di prima necessità e ha provocato un’impennata dell’inflazione fino al 9% (2022).
Persistono inoltre altri fattori destabilizzanti come cambiamento climatico, conflitti e diseguaglianze.

Ricerche complementari al report sono scese nel dettaglio, analizzando i livelli di fame nel mondo dal punto di vista geografico e temporale.
Dalla comparazione dei loro risultati emerge come l’Africa registri i valori più elevati del pianeta: nel 2022, il 19,7% degli abitanti del continente (282 milioni di persone) soffriva la fame. Ma non solo. Sempre in Africa si è verificato l’incremento maggiore dell’insicurezza alimentare, cresciuta di più del 4% in soli due anni tra il 2020 e il 2022.

Considerando i valori assoluti, invece, è l’Asia a raccogliere più della metà della popolazione mondiale in condizione di fame: 402 milioni di persone (l’8,5% degli asiatici, in leggero calo rispetto all’8,8% del 2021).

Basandosi sui dati raccolti nelle diverse aree del mondo, la Fao stima che entro il 2030 la fame nel mondo si ridurrà, ma non si azzererà, dato che coinvolgerà ancora 600 milioni di persone. La maggior parte dei progressi dovrebbe avvenire in Asia con un dimezzamento dei valori, mentre al contrario in Africa si prevede un ulteriore incremento dell’insicurezza alimentare che dovrebbe arrivare a coinvolgere 300 milioni di persone.

Significativa è la decisione degli autori del report di studiare la correlazione tra la sicurezza alimentare – e, nello specifico, l’accesso a una dieta sana – e il fenomeno epocale dell’urbanizzazione. Infatti, se nel 1950 viveva nelle città il 30% della popolazione mondiale, nel 2021 la cifra era salita al 57% e le stime per il 2050 prevedono il 70%. In particolare, Africa subsahariana e Asia meridionale sono le due regioni dove le città stanno crescendo più rapidamente, con tassi tre volte superiori alla media mondiale.

Il report evidenzia come l’espansione delle città – combinata a fattori come l’aumento di reddito e di opportunità lavorative fuori casa, oltre al cambiamento degli stili di vita – stia profondamente influenzando il sistema agroalimentare. Da un lato, si assiste a una modificazione della dieta della popolazione mondiale; dall’altro, la catena produttiva diventa sempre più lunga e complessa.

Cresce la domanda di latticini, carne e pesce, ma anche quella di cibi già pronti, altamente processati, ad alto contenuto energetico ma privi di nutrienti. I sistemi agroalimentari devono quindi produrre e distribuire quantità sempre maggiori di beni. La catena produttiva si allunga, creando una profonda interconnessione tra aree rurali, periurbane e urbane: il sistema agricolo non si basa più sul piccolo mercato locale, ma guarda alle città. Ne deriva una catena sempre più complessa, caratterizzata da una produzione maggiore in termini quantitativi e qualitativi – grazie a migliori input e tecnologie provenienti dalle città – e da forme di processazione e trasporto più efficienti e articolate.

Tendenzialmente, secondo gli autori del report, la relazione tra urbanizzazione e sicurezza alimentare è positiva: man mano che la popolazione si sposta nelle città, si riducono gli indici di fame. Tuttavia, persistono ostacoli all’accesso a una dieta sana, come ad esempio l’inflazione – che negli ultimi anni ha eroso il potere d’acquisto della popolazione mondiale, spingendola verso cibi più economici – e i «deserti alimentari» – aree spesso periferiche dove i prodotti alla base di una dieta sana sono difficilmente reperibili.

Dunque, la strada verso l’eliminazione della fame nel mondo resta ancora lunga e tortuosa.

Aurora Guainazzi




Mongolia. Lo sguardo oltre l’infinito

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Ricordi impressi nelle immagini che dipingono paesaggi desertici, scenari lunari, cieli blu cobalto, orizzonti infiniti dai colori saturi e contrastati. Memorie romantiche e nostalgiche.

La Mongolia è un paese sorprendente che ti porta, attraverso una grande varietà di paesaggi sconfinati, dalla terra arida e piatta della steppa al caldo soffocante (o al freddo a -40°) del deserto del Gobi. Le distanze sono incredibilmente grandi, possono passare molte ore di viaggio (in fuoristrada) senza intravedere alcuna presenza umana, quando in lontananza si scorgono finalmente piccole strutture bianche circolari. Sono le yurte, dall’antico nome turco adottato dai Russi, ma i Mongoli le chiamano gher, che significa abitazione.

Nelle parole di suor Esperanza, missionaria della Consolata di origini colombiane, c’è una definizione che descrive perfettamente il rapporto simbiotico tra la gente di qui e l’ambiente. «Il popolo mongolo ha bisogno della purezza dell’aria per respirare e per vivere, dell’ampiezza di un respiro infinito come l’orizzonte del cielo che ti viene incontro e ti sostiene. Quando sembra che stia per finire dietro una montagna, si riapre e riparte verso l’indefinito offrendosi allo sguardo incredulo di chi supera la cima. È come il senso della nostra vita».

I numeri da record fragile ecosistema

La Mongolia detiene molti record. È una nazione tra le prime 20 più estese al mondo, ma con appena 3 milioni di abitanti (dei quali oltre la metà vivono nella capitale Ulaanbaatar e dintorni). Il deserto del Gobi è il quinto deserto più grande e copre un’area di quasi 1,3 milioni di km2, quattro volte l’Italia, mentre la Mongolia stessa si estende per quasi 1,6 milioni di km2. Quello che colpisce di più è però il numero di animali da allevamento: ben 64 milioni di capi tra pecore, capre, mucche, cavalli e cammelli. Ma la Mongolia è molto di più che questi enormi numeri e uno dei deserti più affascinanti del mondo. È un paese di contrasti e di colori.

Il popolo mongolo è costituito da circa 20 gruppi di etnie diverse.  I Khalkh sono il gruppo più numeroso e quello più diffuso in tutta l’Asia settentrionale. Gli appartenenti a questa etnia sono considerati i discendenti diretti del clan di Chinggis Khaan (che noi conosciamo come Gengis Khan), e quindi i veri conservatori della cultura mongola. Nel tredicesimo secolo, Chinggis Khaan formò il più grande impero nella storia del mondo. La lingua khalkha è di conseguenza la principale lingua mongola.

Un popolo nomade

La vita del popolo nomade della Mongolia, che costituisce circa un terzo della popolazione totale della nazione, è stata plasmata dal clima per oltre tre millenni. Questi pastori, che vivono nelle vaste steppe del paese, dove pascolano il loro bestiame, fonte principale del loro sostentamento, hanno sviluppato un elevato livello di resilienza che li aiuta a rimanere in equilibrio con la natura.

Il clima secco e la scarsità d’acqua dell’Asia centrale, combinati con il suolo in gran parte inadatto all’agricoltura, hanno portato le popolazioni locali a prendersi cura del proprio ambiente. Conoscono infatti i tempi lunghi che l’ecosistema nel quale vivono impiega per rigenerarsi. Il sostentamento dei nuclei nomadi dipende dal loro bestiame e quando i pascoli si esauriscono, essi sono costretti a spostarsi.

Purtroppo, a causa degli imperativi economici di un mercato globalizzato e dei cambiamenti climatici, che stanno entrambi degradando rapidamente i pascoli della Mongolia, i pastori nomadi non riescono più ad adattarsi.

Oggi, a causa della scarsità di cibo e delle difficili condizioni climatiche e naturali, molti di loro sono costretti a migrare verso i centri urbani e a unirsi ai ranghi dei poveri.

I «Gher District»

Negli ultimi tre decenni, più di 600mila pastori, circa il 20% della popolazione del paese, hanno abbandonato il loro stile di vita nomade e si sono trasferiti nella capitale Ulaanbaatar, che ora sta lottando per fornire servizi di base alla sua popolazione in rapida espansione. Queste famiglie hanno abbandonato i loro animali e, in alternativa alle steppe sconfinate, hanno scelto la relativa sicurezza dei «Gher District», aree alla periferia di Ulaanbaatar costituite dalle tradizionali dimore mongole.

Non c’è stata alcuna pianificazione urbanistica nel modo in cui questi distretti sono stati creati, e gli agglomerati di gher sono cresciuti a dismisura.

Il tenore di vita in queste zone è molto basso. Inoltre, il carbone bruciato durante l’inverno dalle famiglie in questi insediamenti ha trasformato Ulaanbaatar in una delle città più inquinate del mondo.

Le sfide

La Mongolia sta affrontando sfide vitali per preservare il suo stile di vita tradizionale e l’equilibrio naturale. L’alto livello di inquinamento della capitale e l’aggressiva politica mineraria attuata in collaborazione (e dipendenza) con i Cinesi, creano seri problemi all’ambiente.

Tuttavia l’aspetto positivo è che c’è una popolazione di giovani, istruita e ambiziosa con una formazione solida nell’ambito dell’ecoturismo, delle tecnologie, delle scienze ambientali e dello sviluppo sostenibile. Tutto questo sta portando a un cambiamento di atteggiamento. Molte iniziative dal basso stanno prendendo forma con l’obiettivo di risolvere i problemi della dipendenza dal carbone e dello sfruttamento delle risorse naturali, comprese iniziative per salvare la fauna selvatica in via di estinzione.

Dan Romeo

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Questo reportage fotografico in una terra difficile e complessa come la Mongolia è stato possibile grazie ai Missionari della Consolata e all’organizzazione sul campo di mons. (allora ancora «padre») Giorgio Marengo che ci ha accompagnato alla scoperta delle radici, della cultura, delle religioni e delle sfide di questo popolo. Nel prossimo appuntamento andremo alla scoperta del tradizionale Naadam Festival e dei paesaggi selvaggi e surreali che fanno della Mongolia uno dei luoghi più suggestivi al mondo.




Fuga dalle campagne città al colasso


Migrazioni e megalopoli

«Casa-macchina», un sogno che si paga

Con una valigia di sogni (e di illusioni), milioni di persone si spostano verso le città, che crescono a dismisura. Così come aumentano i problemi, in primis quello dell’inquinamento.

Nella Hong Kong degli anni immediatamente precedenti all’handover (restituzione) del 1997, i prezzi degli immobili schizzarono in alto. Favorite dall’ultimo governo coloniale britannico, le immobiliari avevano costituito un vero e proprio cartello del mattone e del cemento che diminuì il parco case disponibile e intascò un boom dei prezzi del 400 per cento tra il 1992 e il 1996.

In quegli anni, alcune comunità urbane autonome riuscivano ancora a ritagliarsi uno spazio tra i grattacieli. Il caso forse più leggendario fu la «Walled City», la Città Murata di Kowloon, il posto più densamente popolato al mondo. Nel 1987 ci vivevano 33mila persone compresse in 2,6 ettari, con appartamenti grandi una sola stanza. La sua unicità nasceva dal fatto che era la sola parte di Hong Kong che non fosse stata ceduta dalla dinastia mancese Qing alla Corona britannica, dopo le sconfitte militari dell’Ottocento. Era però irraggiungibile dall’amministrazione di Pechino e, al contempo, era un’enclave sottratta alla legge coloniale britannica. Nel Novecento, si riempì di cinesi che a ondate fuggivano dal loro paese.

Nel 1994, la Città Murata fu demolita. I britannici, che stavano per restituire Hong Kong alla Cina, non volevano lasciarsi alle spalle luoghi «indecenti» che avrebbero potuto essere utilizzati strumentalmente contro l’immagine della Corona.

Nel nome del decoro, sopravvisse dunque un solo «modello Hong Kong», quello ripulito dalle forme di vita alternative.

Il modello Hong Kong si estese alla Cina e a tutta l’Asia. Si basa su diversi fattori, il primo è la crescita di un nuovo ceto medio che sul binomio «casa-macchina» fonda la propria identità e la propria idea di benessere. Sono i nuovi piccoli borghesi che, in tutto il continente sempre più urbanizzato, comprano immobili per abitarli, ma anche per specularci a loro volta, perché in società dove non esiste ancora un welfare compiuto (sanità, pensioni), il mattone è il modo migliore per garantirsi un tesoretto per i tempi grami, per mandare i figli a studiare all’estero o per comprare nuove case e nuove macchine. In Cina, la leadership ha letteralmente creato il ceto medio sulla proprietà immobiliare, incentivando funzionari e dipendenti pubblici ad acquistare le case che già abitavano. Ma anche i «donju» (signori dei soldi) nord coreani indicano che la rendita immobiliare è ormai il principale mezzo di accumulazione globale a prescindere dai modelli politico-economici.

Il secondo fattore della diffusione del modello Hong Kong è la disponibilità di forza lavoro a basso costo. Si tratta quasi sempre di ex contadini fuggiti o espulsi dalle terre, che si riversano nella metropoli a cercare lavoro. Le campagne così si svuotano creando vari problemi economici, come la necessità di riorganizzare l’agricoltura affinché produca abbastanza cibo per le megalopoli in espansione, a fronte di una riduzione progressiva dei terreni disponibili. Tra i problemi sociali, il più noto è invece quello dei minori e degli anziani abbandonati. In Cina sono circa 61 milioni i «liushou ertong», cioè i «bambini lasciati indietro», che accumulano ritardo sociale e sono a rischio devianza o violenze. Se chi resta in campagna si condanna a vivere una condizione di serie B, anche il lavoro vivo di chi si inurba arricchisce soprattutto gli altri. Qualora però gli inurbati di seconda o terza generazione riescano ad accumulare il necessario, eccoli divenire nuovo ceto medio che ingrossa le megalopoli e il caos che le attraversa.

Si arriva quindi al problema dell’inquinamento, dovuto non solo alle automobili e all’alta concentrazione di attività industriali – è questo per esempio il caso della Cina «fabbrica del mondo» -, ma alla stessa densità demografica. Succede così a Delhi, in India, dove la quantità di umani che usano rifiuti come combustibile domestico rende inutile l’adozione di targhe altee. O a Ulan Bator, capitale di quella Mongolia che è sinonimo di cieli azzurri, che diventa d’inverno una delle città più inquinate del pianeta, perché con temperature sui 30 sotto zero, gli abitanti di Cingeltej, l’enorme slum di ger (yurte) sul lato Nord della città, si scaldano e cucinano usando come combustibile tutto ciò che capita loro a tiro.

È una brutta gatta da pelare: l’urbanizzazione dovrebbe creare il nuovo ceto medio competitivo su scala globale e creare consenso per i governi. Ma espone anche a nuovi, grandi problemi.

Gabriele Battaglia
direttore di China Files


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Rd Congo Kinshasa la bella


Kinshasa è un paese nel paese. Vi si trovano grandi bidonville e città super lusso. Case di latta e grattacieli. Aumenta al ritmo 390mila abitanti all’anno. Mentre mancano i servizi di base, come l’acqua potabile e le fogne. Viaggio nei quartieri simbolo della capitale congolese.

Kinshasa. Da oltre 25 anni, Christian si prende cura sia dei vivi che dei morti. Ai primi taglia i capelli, ai secondi scava la fossa. La sua sede di lavoro è sempre la stessa: il cimitero di Kinsuka, all’estrema periferia occidentale di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo (Rdc). Kinsuka in lingala, la principale lingua del paese, significa letteralmente «la fine di Kinshasa»: un nome apparentemente calzante per un quartiere noto per il suo cimitero.

Le donne stendono i panni tra i rami degli alberi del cimitero, o trascinano i secchi colmi d’acqua raccolta dai pozzi. Dicono che quell’acqua abbia un sapore stranamente acido. Eppure a ispirare ansia non è né il rischio di contaminazione della falda acquifera né lo spirito dei morti. Ben più oscura e minacciosa è la burocrazia congolese. Soprattutto in uno spazio conteso come il cimitero di Kinsuka.

Baracche di lamiera spuntano accanto alle tombe. Alcune sono fantasmi di case in muratura che esistevano a poca distanza. I proprietari conservano gelosamente gli atti di proprietà, per i quali hanno pagato i funzionari locali. Il likasu è un piccolo frutto dal sapore dolciastro, ma anche il nome usato in Congo per il denaro fatto scivolare furtivamente nelle mani di ufficiali e amministratori per aprire porte o ottenere permessi.

È così che centinaia di famiglie hanno avuto l’autorizzazione per costruire nel cimitero. Ma con nuovi arrivi ogni giorno, il valore dello spazio del cimitero continua a salire e i likasu non sono mai abbastanza. Delle case vengono demolite, altre vengono erette, mentre nuove tombe si aggiungono alle precedenti.

Il cimitero di Kinsuka è lo specchio di una città in cui la crescita vertiginosa di popolazione travolge anche i muri tra i vivi e i morti.

Inurbamento selvaggio

I nuovi kinois, come sono chiamati gli abitanti di Kinshasa, arrivano dalle province orientali lacerate da una miriade di guerriglie, dalle province centrali, dove le miniere traboccanti di diamanti sono ormai solo un ricordo, dal Nord, dove il recente conflitto nella Repubblica Centrafricana ha costretto alla fuga i profughi di guerre precedenti. Dal Kivu, dal Kasai, dall’Equateur: in migliaia, ogni settimana, discendono la corrente del fiume Congo viaggiando per giorni su barconi che assomigliano a villaggi galleggianti, finché il corso d’acqua si allarga in un’ansa e, sulla riva meridionale, appaiono, velati da un sipario di vapore acqueo, gli svettanti edifici di Gombe, il distretto degli affari che nell’era coloniale era interdetto ai nativi.

Secondo le stime di Un-Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sviluppo urbano sostenibile, 390mila persone, ogni anno, si riversano a Kinshasa, per sfuggire alla guerra o alla povertà, ma anche per studiare o inseguire una speranza.

È come se, ogni anno, la capitale congolese fagocitasse una città di medie dimensioni, digerendola nel suo tessuto urbano che pulsa al momento di oltre 12 milioni di anime.

Nell’annuale rapporto The State of African Cities, Kinshasa è entrata proprio quest’anno nella tea delle megacittà africane, dopo il Cairo (Egitto) e Lagos (Nigeria), al di sopra della media di un continente che pure rappresenta la regione al mondo col maggior tasso di urbanizzazione. Secondo le previsioni, entro il 2035 la metà della popolazione africana vivrà in aree urbane. Eppure, ancora oggi, nelle città africane due abitanti su tre vivono in baraccopoli. Una situazione a cui l’agenda d’azione redatta nella conferenza di Addis Abeba per i finanziamenti allo sviluppo del 2015 dedica ampio spazio: un boom demografico troppo rapido può avere effetti devastanti su spazi urbani particolarmente fragili, soprattutto sulle infrastrutture idriche e i servizi di gestione dei rifiuti, aumentando il rischio di epidemie.

Nel 2012, WaterAid, una Ong britannica che si occupa di progetti sull’acqua, ha avviato un programma per studiare soluzioni sostenibili per le infrastrutture idriche di Maputo, in Mozambico, Lusaka, in Zambia, Lagos, in Nigeria, e, per l’appunto, Kinshasa. Secondo John Garrett, analista di WaterAid che si occupa dell’iniziativa, il caso di Kinshasa è particolarmente drammatico. «La città manca di una rete fognaria pubblica e solo i quartieri benestanti dispongono di fosse settiche», dice. «In alcune zone esistono latrine comuni di cui si occupa la Ratpk, la società pubblica che gestisce la distribuzione idrica, alcune Ong e operatori privati. Ma la massa di rifiuti organici prodotti quotidianamente è talmente elevata che la maggior parte viene dispersa nell’ambiente».

Un grande immondezzaio

Un tempo la chiamavano Kin la Belle; oggi, per i kinois, è Kin la Poubelle, ovvero l’immondizia in francese, per l’enorme quantità di rifiuti prodotti e l’incapacità del governo di gestirli.

L’Unione europea, l’agenzia statunitense per la cooperazione Usaid e alcune altre, soprattutto francese e giapponese, hanno avviato dei programmi d’intervento sulle infrastrutture urbane. Ma per la maggior parte delle organizzazioni inteazionali Kinshasa è solo una base d’appoggio per le operazioni nell’Est del paese, dove la guerra civile continua ad uccidere.

I maggiori partner economici della Repubblica democratica del Congo, la Cina su tutti, hanno rimesso in sesto le principali strade della capitale in cambio di concessioni minerarie, ma rimangono ampie zone d’ombra anche a pochi chilometri dal palazzo in cui il presidente Joseph Kabila governa dal 2001, e dal quale sembra di non volersene andare (vedi Box).

Assenti all’interno delle baraccopoli, le forze di sicurezza ne controllano però l’accesso. «Gli stranieri potrebbero dare un’immagine negativa del paese», ci dice un funzionario di polizia, riferendosi a Pakadjuma, un insediamento illegale che si snoda lungo la ferrovia che unisce Kinshasa a Matadi, il maggiore porto fluviale del sud del Congo, a ridosso del bacino in cui vengono riversati gli scarichi delle fosse settiche della città.

Il torrente Kaluma taglia la baraccopoli, attraversa il bacino e prosegue oltre per affluire nel fiume Congo. Pur essendo un agglomerato di baracche, Pakadjuma è una delle aree di Kinshasa abitate ininterrottamente da più tempo.

La posizione strategica lungo la ferrovia e a poca distanza dalle rive del fiume ne ha fatto fin dall’inizio del ventesimo secolo uno snodo cruciale per i sudditi del Congo belga prima, e quindi per i cittadini dello Zaire e della Rdc che confluivano nella capitale per lavorare e commerciare, anche nel mercato del sesso. Fattori scatenanti, secondo uno studio delle università di Oxford e di Lovanio, della «tempesta perfetta» da cui probabilmente prese il via negli anni ‘20 l’epidema globale di Hiv esplosa poi negli anni ‘80.

Quando si riesce ad accedere al quartiere, ci si rende conto che la situazione non è molto diversa da quella di un secolo fa. Pakadjuma resta il distretto della prostituzione a basso costo, praticata nei cosiddetti kuzu, postriboli dove ci si prostituisce anche per mezzo dollaro o in cambio del pesce che i pescatori del quartiere non riescono a vendere al mercato.

Come racconta Nicolas Muembe, l’infermiere che gestisce l’unico presidio sanitario della baraccopoli, un terzo degli utenti dell’ambulatorio è sieropositivo. La maggior parte dei suoi pazienti sono donne. Il virus si propaga rapidamente in corpi già debilitati. «Molti dei sieropositivi che abbiamo in cura hanno già avuto il colera in passato e sono esposti a dissenteria cronica e a nuove infezioni che si diffondono a causa delle condizioni igieniche precarie».

Ci sono solo due latrine in muratura per una popolazione di diverse migliaia di abitanti. Le fogne sono un reticolato di rivoli d’acqua nera che strabordano nella stagione delle piogge, facilitando la diffusione di diarrea e vermi intestinali. Sui pochi letti dell’ambulatorio creato da Nicolas con l’aiuto dei Caschi Blu tunisini del contingente internazionale Monusco (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo, nrd) si alternano partorienti e malati gravi. Il materiale sanitario è fornito da una Ong statunitense. Solo dopo l’epidemia di colera che nel 2013 ha fatto centinaia di vittime, il ministero della Salute congolese ha stabilito un altro presidio sanitario nella zona. Al momento, però, la struttura è dedicata alle decine di migliaia di nuovi arrivati nell’ultimo anno dal vicino Congo Brazzaville: anche loro congolesi, ma rifugiati di un conflitto mai finito.

I veterani di Pakadjuma arrivarono a Kinshasa dalla provincia settentrionale di Equateur lungo il fiume ai tempi dell’ex dittatore Mobuto Sese Seko, salito al potere con un colpo di stato nel 1965 e deposto solo nel 1997 da Laurent-Désiré Kabila, padre dell’attuale presidente. I nuovi arrivano perché l’Equateur continua a essere una delle province più emarginate del paese. Molti abitanti di Pakadjuma sono Ngbandi, il gruppo etnico maggioritario nel Nord della Rdc, da dove proveniva Mobuto, e leggono la mancanza di infrastrutture attraverso una lente politica: l’abbandono da parte dello stato sarebbe una punizione verso i sostenitori del regime precedente, dicono in tanti.

Un’enorme disuguaglianza

Non esistono dati certi sulla popolazione delle baraccopoli, gli unici spazi in cui i nuovi arrivati possono permettersi un tetto in una megalopoli che, secondo Mercer, un’agenzia di consulting, è la 13ª città più cara del mondo, subito dopo Londra. È un paradosso nel paradosso, quello di un paese in cui lo stato, come ha detto recentemente l’esperto di Congo Pierre Englebert, è troppo debole per fornire servizi ai propri cittadini ma abbastanza forte per tenerli soggiogati. L’élite congolese e i dipendenti stranieri di multinazionali godono di servizi di standard internazionale in quartieri fortificati che si stanno moltiplicando qui come in altre aree urbane in Africa e America Latina, prefigurando un futuro di disuguaglianze crescenti.

A Kinshasa, questa distopia sta prendendo forma sulle rive del fiume che ha plasmato la storia del paese. Cité du Fleuve, quartiere di lusso, è la vetrina della Kinshasa di domani, un’area residenziale tuttora in fase di completamento su una penisola affacciata sul Congo. Dietro il progetto c’è la Hawkwood Properties, una società d’investimenti con sede a Lusaka, in Zambia, che ha dato forma ai sogni di un’alta borghesia che si ritrova alla «settimana della moda di Kinshasa» o nei ristoranti di lusso di Gombe. Condomini e case unifamiliari dagli stili più diversi si affacciano su ampi viali con lampioni. Un Hummer limousine bianco è parcheggiato in uno dei viali principali. Affittarlo per un’ora costa 350 dollari e un meccanico che ne sta revisionando il motore ci informa che le prenotazioni sono complete per i mesi a venire. Molte abitazioni sono ancora vuote, ma le previsioni sono rosee, e presto apriranno anche negozi e supermercati. L’idea alla base di Citè du Fleuve è fae una comunità autonoma dal resto di Kinshasa, un frammento di Europa sul fiume Congo, lontano dalle immagini stereotipate di miseria e malattie del paese.

Eppure queste immagini incombono a poche centinaia di metri, al di là della ringhiera di protezione e di un ramo del fiume su cui le piroghe scivolano lentamente. Migliaia di pescatori risiedono in un agglomerato di baracche concentrate in un fazzoletto di terra sul livello dell’acqua, esposto alle periodiche esondazioni. Non possono allontanarsi perché dalla pesca ricavano l’unica forma di sostentamento ma, dicono, dall’inizio della costruzione di Cité du Fleuve, nel 2008, la loro situazione è peggiorata: «I sistemi di sbarramento per proteggere il quartiere residenziale impediscono il riflusso del fiume», dice Vincent, un leader comunitario del villaggio dei pescatori. «L’acqua ristagna. E così il colera ritorna regolarmente».

Il sito web di Cité du Fleuve specifica che la costruzione del quartiere è stata preceduta da un accurato studio idrogeologico, ma la nostra richiesta alla società finanziatrice di un commento alle accuse dei pescatori non ha ricevuto risposta. Intanto, gli abitanti del villaggio si proteggono dalle esondazioni del fiume come possono, costruendo su palafitte o creando degli argini. Non abbastanza, secondo Florence, una madre di quattro figli che ha sistemato sacchi di sabbia attorno alla propria abitazione, per impedire che l’acqua entri in casa, trasportando con sé feci e rifiuti organici. Lei è uno dei pochi abitanti ad avere costruito una latrina, e spera che altri seguano il suo esempio. La latrina sorge proprio sulla sponda del fiume, sul lato opposto di Cité du Fleuve, la Kinshasa del futuro.

Ma, a Kinshasa, il futuro, come i servizi igienici, è un lusso che non tutti possono permettersi.

Gianluca Iazzolino

Questo reportage è parte del progetto «Toilet for all» realizzato con il contributo dell’Innovation in Development Reporting Grant programme dello European Joualism Centre. La prima parte «India. A mani nude», è stato pubblicato su MC marzo 2016.


Il presidente Kabila tenta di mantenersi al potere

Per seguire le orme di Mobutu

Si preannuncia un autunno caldo per la Repubblica democratica del Congo. Il secondo, e ultimo, secondo la Costituzione congolese, mandato del presidente Joseph Kabila termina quest’anno, ma la situazione politica in atto sembra ricalcare tristemente un copione comune a tanti stati africani: il tentativo del presidente in carica di estendere il proprio mandato, cambiando la Costituzione o rinviando le elezioni a data da destinarsi. Joseph Kabila ha preso in mano le redini del Congo nel 2001, subito dopo l’assassinio del padre, Laurent-Désiré, il leader guerrigliero d’ispirazione marxista (negli anni Sessanta ricevette anche l’aiuto di Che Guevara, che però, nei sui scritti, ne lascia un ricordo poco lusinghiero1) che, nel 1997, mise fine al governo trentennale di Mobutu Sese Seko per poi replicarne gli aspetti più autoritari, incluso il culto della personalità. Secondo le teorie più accreditate, dietro l’assassinio di Kabila padre, organizzato da uomini d’affari libanesi e portato a termine da una delle sue guardie del corpo, ci sarebbe stato il Rwanda, piccola ma aggressiva potenza regionale e precedente sponsor della scalata al potere dello stesso Désiré Kabila.

Il figlio ereditò un paese impelagato in una guerra sanguinosa, la cosiddetta «seconda guerra del Congo», o anche «guerra mondiale africana», che almeno nove stati e diverse decine di gruppi guerriglieri contribuirono a rendere il conflitto il più sanguinoso dalla fine della Seconda guerra mondiale, facendo oltre cinque milioni di morti. A capo del governo di transizione Joseph negoziò la ritirata, perlomeno ufficiale, delle truppe ruandesi di Paul Kagame dalle regioni dell’Est e fece incetta di voti alle elezioni del 2006, la prima consultazione elettorale nel paese in 41 anni. Replicò il successo nel 2011, nonostante le numerose accuse di brogli da parte sia di oppositori interni che di osservatori inteazionali, e puntellò il suo governo comprando la fedeltà delle élite locali grazie al boom delle esportazioni di materie prime. Ma la fame di minerali della Cina ha rimpinguato i conti personali, più che le casse dello stato, e i risultati sono evidenti a Kinshasa.

Alleato chiave di Joseph Kabila, in questo periodo di crescita tumultuosa, è stato Moïse Katumbi Chapwe, uomo d’affari nel settore minerario e soprattutto a lungo governatore del Katanga, la regione più ricca del paese grazie alle abbondanti riserve di rame e uranio. Figlio di un ebreo greco e di una congolese, e proprietario del TP Mazembe, la principale squadra di calcio congolese e una delle più premiate d’Africa, questo politico e imprenditore ha abilmente usato i proventi delle concessioni minerarie per dotare il Katanga di infrastrutture inesistenti nel resto del Congo, e così costruire il proprio consenso tra la popolazione e conquistarsi le simpatie delle compagnie straniere nella zona.

Il rallentamento della domanda cinese e la flessione nel prezzo delle materie prime, però, ha coinciso con la fine dell’alleanza tra Kabila e Katumbi. Il primo ha fatto capire sempre più chiaramente di non avere alcuna intenzione di lasciare il suo posto, tagliando i fondi alla commissione elettorale, e così rendendo inevitabile che la Corte suprema giudicasse irrealistica la prospettiva di andare alle ue a novembre 2016, come precedentemente stabilito, e inasprendo la repressione dell’opposizione. Il secondo è ufficialmente entrato nell’agone politico nazionale a marzo, assurgendo immediatamente a leader incontrastato dell’opposizione e perciò finendo nel mirino del presidente. La risposta di Kabila non si è fatta attendere: a maggio, Katumbi è stato accusato di aver assunto dei mercenari per organizzare un colpo di stato. Pochi giorni dopo, Katumbi è stato ricoverato in un ospedale di Lumunbashi, la capitale del Katanga, e da lì è fuggito in Sudafrica. L’ultimo colpo di scena in una saga che si annuncia lunga e complessa.

Gianluca Iazzolino

  1. 1. «L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte. Il diario di Eesto “Che” Guevara in Africa», P. I. Taibo II, F. Escobar, F. Guerra, Il ponte delle Grazie, 1994.



Urbanizzazione 2: meno acciaio e mattoni più ricerca e sviluppo


Il modello della Cina «fabbrica del mondo» ha emancipato 800 milioni di persone dalla povertà e fatto nascere il ceto medio cinese. Oggi quel sistema non funziona più: inquinamento, sovrapproduzione, bolle speculative, disparità sociali sono emergenze straordinarie. Per risolverle, il presidente Xi Jinping vuole «meno quantità, più qualità». Per questo il paese sta investendo come nessun altro in ricerca e sviluppo.

Il ciclo perverso dell’economia cinese è reso perfettamente da Behemoth, il documentario del regista cinese Zhao Liang (2015) ispirato alla Divina Commedia. Infeo, Purgatorio, Paradiso, in questo caso sono la miniera di carbone, la fornace dell’acciaieria, la città fantasma.

La miniera produce il combustibile fossile in uno scenario davvero dantesco, in cui la natura devastata, rinsecchita, annerita come in un vero e proprio girone infeale, combacia con l’erosione della salute fisica dei minatori. Sono agghiaccianti, per esempio, le immagini del liquido nerastro drenato dai polmoni dei lavoratori – che vanno a fare visite di controllo in ospedale – e raccolto in ampolle. Una fila di camion carichi di carbone prende poi la strada dell’acciaieria, il gigantesco impianto dove uomini perennemente sudati producono, producono, producono milioni di tonnellate di metallo che in qualche modo deve poi essere impiegato. Ed ecco l’uscita «a riveder le stelle», o meglio il cielo azzurro della città di Ordos, Mongolia Intea – cioè quella cinese – l’Empireo finalmente. Peccato che Ordos sia sinonimo di sicheng, termine che traduciamo come «città fantasma», ma che in cinese suona più come «città morta». Tutto quell’acciaio (e quel cemento) che arrivano dalle imprese inquinanti della regione autonoma si traducono in file e file di nuovissimi palazzi alti venti-trenta piani e raccolti in compound perimetrati, ma drammaticamente vuoti, qualcuno con l’intonaco che già si sgretola.

Questa parabola così chiara ci trasmette immediatamente l’idea di come l’inquinamento, in Cina, sia legato indissolubilmente ad almeno altri tre problemi: il lavoro, cioè i minatori, gli operai dell’acciaieria, i muratori della città; l’eccesso di offerta industriale, cioè quegli 800 milioni – un miliardo di tonnellate di acciaio che ogni anno la Cina produce, metà del quantitativo globale; l’urbanizzazione, cioè la città. Detto altrimenti: non si può parlare di ambiente se non si parla anche di economia, lavoro, società e, last but not least, politica.

La crisi di un modello di successo

Il modello economico lanciato da Deng Xiaoping a fine anni Settanta non regge più.

Si basava su un alto tasso di investimenti in Cina – prima stranieri, poi anche cinesi – che hanno permesso di creare fabbriche, delocalizzare impianti, aprire succursali. In definitiva, di trasferire nel paese asiatico la «fabbrica del mondo». L’industrializzazione degli ultimi trent’anni si è concentrata soprattutto sul delta del Fiume delle Perle, cioè a Shenzhen, prima «zona economica speciale», attraente per le agevolazioni fiscali, nonché per il basso costo del lavoro e dei terreni. L’intera provincia del Guangdong è diventata, da allora, un enorme conglomerato industriale, che oltre a Shenzhen ha inglobato Dongguan, poco più a Nord, Guangzhou, la vecchia Canton, Foshan, Zhuhai, Zhongshan. Oggi è la provincia più ricca della Cina.

Il nuovo modello si innestava sulla vecchia industrializzazione, quella di tipo sovietico risalente agli anni Cinquanta-Sessanta, che aveva invece come epicentro la «cintura della ruggine» del Nord della Cina. Erano, queste, le vecchie industrie pesanti di stato che subirono una prima ristrutturazione tra il 1998 e il 2003. Un «bagno di sangue» che portò al licenziamento di 28 milioni di lavoratori, con costi a carico dello stato di circa 73 miliardi di yuan (quasi 10 miliardi di euro al cambio odierno) in fondi di ricollocamento.

Il binomio costituito da piccole industrie private o semiprivate a capitale misto e grandi industrie di stato ha comunque trainato la Cina, emancipato 800 milioni di persone dalla povertà e prodotto il ceto medio cinese, che a sua volta ha preso a spendere per quell’accoppiata «casa-macchina» che connota tutta la piccola borghesia planetaria.

Nel frattempo, i contadini espropriati dai terreni adibiti a uso industriale o residenziale si riversavano nelle maggiori metropoli a caccia di opportunità e di lavoro. Sono stati loro la carne umana divorata dalla macchina del progresso perché un sistema tipicamente cinese che legava diritti e servizi minimi al luogo di residenza – chiamato hukou – li esponeva allo sfruttamento e ne abbatteva il potere contrattuale se lontani da casa.

Oggi è necessaria un’altra ristrutturazione perché le imprese di stato sono sempre tante – circa 150mila – e di solito corrispondono più a criteri politico/affaristici – l’arricchimento delle consorterie che si annidano al loro interno e la stabilità sociale garantita dal fatto che danno lavoro – che di efficienza. Il fenomeno è quello delle «imprese zombie», tenute in vita per ragioni di opportunità, ma irragionevoli da un punto di vista economico. Zombie che continuano a inquinare.

Il mattone e la bolla immobiliare

Allo stesso tempo, Pechino deve fare i conti con un’altra emergenza. La crisi globale del 2008-09 ha ridotto i volumi dell’export cinese verso l’Occidente, mandando in crisi le piccole-medie imprese del «virtuoso» delta del Fiume delle Perle. La filiera tessile, per esempio, ma anche l’elettronica di consumo, i giocattoli.

Infine, per garantirsi una sicurezza sociale in assenza di welfare compiuto – pensioni e sanità universali sono un lavoro in corso – i cinesi di solito investono nel mattone. Questo ha prodotto un fenomeno speculativo che secondo parecchi osservatori è ormai una bolla immobiliare pronta a scoppiare. Costruire corrisponde in realtà a tre esigenze: crea ricchezze immediate per palazzinari e investitori; permette di bruciare risorse in eccesso, come nel caso dell’acciaieria di Behemoth; offre occupazione. Ma sul lungo periodo, porta all’estremo i difetti del modello cinese: inquinamento, investimenti che non restituiscono profitti, bolle speculative.

Verso un nuovo modello: meno quantità, più qualità

La crisi/riconversione di fine anni Novanta fu l’occasione per fare anche esperienza di crisis management. Il potere del Partito comunista si basa sulla promessa di una Xiaokang Shehui, «società del benessere moderato». Oggi, le autorità cinesi si affrettano a precisare che la transizione del paese verso un diverso modello economico non porterà agli stessi licenziamenti di massa che hanno avuto luogo negli anni Novanta, bensì all’esubero di «soli» 5-6 milioni di lavoratori, che verranno debitamente ricollocati.

Insomma, per liberarsi dal circolo vizioso fatto di inquinamento, sovrapproduzione (oversupply, eccesso di offerta), bolla immobiliare e investimenti che non tornano indietro, la leadership cinese cerca di muovere verso un diverso modello economico, ma al tempo stesso vuole farlo in maniera non traumatica, per non destabilizzare il sistema e mantenere la promessa di arricchimento.

La Cina punta quindi a diventare «economia evoluta» rivedendo il proprio ruolo di fabbrica del mondo. Meno quantità, più qualità; meno carabattole, più produzioni ad alto valore aggiunto; meno lavoratori migranti, più giovani istruiti, tecnologizzati, cosmopoliti. Così, le ricchezze accumulate in trent’anni di boom sono spese per incentivare i giovani a creare start up, per costruire parchi tecnologici, per finanziare la ricerca. Tra il 2014 e il 2015, l’investimento delle imprese cinesi in ricerca&sviluppo è aumentato del 46 per cento, contro numeri a cifra singola per l’Europa e gli Stati Uniti. Le esenzioni fiscali e i ponti d’oro non sono più fatti alle industrie straniere tradizionali, bensì sempre più a quelle che trasferiscono tecnologia, know how: biotecnologie, settore farmaceutico, elettronica avanzata, prodotti finanziari. Idem per le acquisizioni all’estero.

Il tredicesimo piano quinquennale 2016-2020 ha proprio annunciato queste trasformazioni, ma le riforme è più facile annunciarle che farle, perché il potere cinese è sempre combattuto tra la necessità di accelerare e quella di rallentare, per non creare terremoti sociali. Nei mesi scorsi si sono moltiplicati i conflitti sul lavoro di comunità operaie del Nord Est cinese di fronte all’annunciata chiusura di miniere e impianti. Nella provincia dell’Heilongjiang, la proprietà della miniera di Shuangyashan ha per esempio annunciato il licenziamento di 100mila lavoratori nei prossimi due o tre anni, sui 224mila totali. Il gruppo Longmay, proprietario del giacimento, è controllato dal governo provinciale ed è in perdita dal 2012, per rimanere a galla chiede nuove linee di credito alle banche.

Tutto il potere a Xi Jinping

Il problema inquinamento si trova dunque al centro del tira e molla tra chi spinge e chi fa resistenza.

L’ultima manifestazione di questa tensione sembrerebbe essere il conflitto latente tra il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang, il numero uno e il numero due del potere cinese. Recenti studi hanno infatti rivelato che i continui piccoli stimoli economici permessi dalla gestione di Li Keqiang – in sostanza, crediti – avrebbero permesso a parecchie industrie pesanti «zombie» e inquinanti destinate alla chiusura non solo di stare a galla, ma anche di annunciare piani di espansione.

A questo punto, Xi Jinping avrebbe parzialmente esautorato il premier e preso in prima persona il controllo dell’economia. Alcuni recenti articoli dei media di stato sottolineano il ruolo sempre più marcato del presidente nel dettare l’agenda economica, che di solito è invece appannaggio del premier. Xi ha in programma di accelerare le riforme e di imporre chiusure e fusioni di imprese nel settore dell’acciaio, del carbone e del cemento con enorme eccesso di capacità.

Nella Cina dei paradossi, la soluzione al problema dell’inquinamento passerebbe così anche attraverso l’ulteriore accentramento del potere da parte di un presidente già accusato di essere un Mao Zedong redivivo.

Gabriele Battaglia


Mingong e hukou

  • Mingong: è il lavoratore migrante.
  • Hukou: è la registrazione della residenza. Un persona, con tutto il suo nucleo familiare, è registrata nel luogo di nascita e solo lì ha diritto a tutta una serie di diritti e servizi (sanità, istruzione, pensione, etc).

È un sistema che risale alla Cina imperiale (ma non solo Cina, anche Giappone, Corea, etc.) e che è stato riadottato in epoca maoista per controllare i grandi spostamenti di popolazione ed evitare che tutti si concentrino in alcune aree del paese e, al contrario, altre zone siano abbandonate. Con le riforme di Deng Xiaoping, il sistema si è di fatto rotto perché grandi masse di mingong si sono trasferite dalle aree rurali a quelle urbane/industriali. Ma l’assenza di hukou in quelle aree li ha privati dei servizi essenziali, creando di fatto una popolazione di serie B, esposta a ricatto salariale.

Da tempo si parla di abbatterlo o di riformarlo. Alcune piccole riforme sono già avvenute. Per esempio, è ora possibile «comprare» l’hukou urbano, oppure viene concesso a speciali categorie o a gente che lavora da un certo numero di anni in una data città. Non si parla però della sua abolizione tout court, perché le autorità cinesi non vogliono che milioni di persone si spostino nelle megalopoli già intasate. Stanno invece pensando di concedere l’hukou in città più piccole o di nuova costruzione, in modo di distribuire razionalmente la popolazione sul territorio.

Ga.B.


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Urbanizzazione: avanti piano


Un tempo paese prevalentemente rurale, oggi la Cina vede oltre la metà della sua popolazione urbanizzata. Tanto che il sovraffollamento delle megalopoli è diventato un problema prioritario. Complice anche la contrazione delle attività economiche, ora il governo vuole reindirizzare i flussi dei migranti (mingong) verso le province della Cina centrale e occidentale. E pensa di favorire la crescita di città di medie dimensioni, a misura d’uomo, sostenibili e tecnologiche.

Quest’anno per qualcuno le vacanze del Capodanno lunare sono cominciate prima del solito. Il crollo degli ordini e il rallentamento della produzione ha spinto molte fabbriche ad anticipare la chiusura, rispedendo a casa milioni di lavoratori migranti (mingong). Qualcosa di simile era già successo nel 2009, quando il colpo di coda della crisi globale sferzò anche la Cina. Poi era arrivato il salvifico pacchetto di stimoli da 4 trilioni di yuan (circa 400 miliardi di euro di allora), l’economia era ripartita e gli operai erano tornati alle loro linee di produzione concentrate lungo le coste urbanizzate. Uno scenario che difficilmente si ripeterà anche stavolta.

Megalopoli, migranti e «hukou»

Il governo non ha alcuna intenzione di continuare ad alimentare le varie bolle (prima tra tutte quella immobiliare) legate alle politiche monetarie espansive degli scorsi anni. Né, d’altronde, disprezza l’idea di un’inversione del flusso migratorio orientandolo dalle province urbane della Cina orientale verso quelle centrali e occidentali, ancora largamente rurali. Il che permetterebbe di alleviare il sovraffollamento delle megalopoli e colmare gradualmente il divario tra zone ad alto e a basso reddito.

È un restyling a cui la dirigenza cinese lavora da un paio d’anni. Ovvero da quando nel 2013 Pechino ha dichiarato di voler arrivare al 60 per cento di popolazione urbanizzata entro il 2020 rispetto al 52,6 per cento del 2012, quando è avvenuto il primo sorpasso numerico dei «cittadini» in senso proprio: una svolta epocale per un paese tradizionalmente agricolo. Entro il 2011, le «cittadone» e i piccoli centri avevano attratto 690,7 milioni di persone, ovvero più del doppio della popolazione complessiva degli Stati Uniti.

L’operazione che si vuol mettere in atto ora segue criteri più selettivi e consiste nel direzionare i migranti verso le città medio-piccole. In una parola chengzhenhua, ovvero «urbanizzazione sostenibile» votata alla realizzazione di decine di nuovi centri di media grandezza, a misura d’uomo, sostenibili e tecnologici, con lo scopo di decomprimere le megalopoli affette da ipertrofia. Per invogliare i mingong a lasciare le «big cities» – di cui hanno trainato la crescita sobbarcandosi i lavori più sporchi, snobbati dalla borghesia cittadina – il governo ha riformato ad hoc i termini per l’assegnazione del hukou, il controverso sistema che lega welfare e servizi al luogo di residenza lasciando a mani vuote la popolazione mobile.

La riforma in cantiere – che copre comunque meno della metà dei 274 milioni di migranti interni presenti al di qua della Muraglia – prevede un allentamento delle restrizioni nelle megalopoli soltanto per una ristretta cerchia di individui («laureati, lavoratori qualificati e immigrati di ritorno»), mentre per i mingong rurali ci sono le città di seconda e terza fascia, quelle ancora in fase espansiva, in cui i servizi sono così così e i palazzoni – costruiti durante il boom edilizio post stimoli – sono ancora in attesa di essere riempiti.

L’esempio di Shanghai

All’inizio dell’anno la municipalità di Shanghai, la città che, assieme alla metropoli di Chongqing, si contende il primato di città cinese più popolosa, ha annunciato di voler bloccare il numero dei residenti a quota 25 milioni. Ufficialmente per assicurare «una migliore pianificazione urbana, una ragionevole distribuzione delle risorse pubbliche e una gestione efficiente della vita sociale». In realtà, tuttavia, il trend sembra aver già registrato una brusca frenata senza bisogno di alcun tappo.

Secondo dati rilasciati a gennaio dal National Bureau of Statistics, nel 2015 la popolazione «fluttuante» è scesa di 5,68 milioni di unità nel 2015, primo calo in trent’anni. Un’inversione attribuibile da una parte al crollo del settore manifatturiero labor-intensive nelle regioni «ex fabbrica del mondo» costiere e urbane – con progressiva delocalizzazione degli impianti verso le più economiche province intee – dall’altra al crescente sviluppo dell’economia rurale. Ora che il progresso si sta estendendo vicino casa, i mingong non hanno più ragione di percorrere centinaia di chilometri per trovare un impiego soddisfacente. Con il risultato che ormai oltre la metà risulta stabile nella provincia di appartenenza, rivelano stime governative.

Il «ritorno al villaggio» dei giovani

In totale sono già 2 milioni i migranti ad aver lasciato le grandi città per cercare opportunità di lavoro nelle cittadine d’origine. Soltanto nella provincia del Sichuan – che costituisce il principale «vivaio» di mingong – nell’ultimo anno oltre 400mila lavoratori di ritorno si sono lanciati in iniziative imprenditoriali, agevolati da alcuni provvedimenti governativi: programmi di microcredito per rilanciare l’economia rurale; espansione della rete internet sino ad abbracciare gli anfratti più remoti delle regioni occidentali del paese; nuova spinta sulle infrastrutture, che secondo Pechino rappresentano il vero barometro per testare la qualità della vita a livello locale. Fatto sta che, stando alle previsioni ufficiali, quest’anno il reddito rurale pro capite dovrebbe scavalcare per la prima volta i 10mila yuan, confermando per il quinto anno di seguito un tasso di crescita superiore a quello delle aree cittadine. Tutti fattori che concorrono a polverizzare il vecchio stereotipo delle megalopoli come trampolino per fare carriera.

Stando a quanto evidenzia un’inchiesta della rivista Nanfeng Chuang (bisettimanale di ispirazione riformista e liberale, che si distingue per i suoi reportage, ndr), i giovani sono sempre più disillusi verso la possibilità di rimanere in pianta stabile nei grandi centri. Un maturato pragmatismo li distingue dalla vecchia «tribù delle formiche» che fino a qualche tempo fa ambiva ad amalgamarsi alla popolazione di Pechino, Shanghai o Guangzhou. Per «formiche» intendiamo i laureati fra i 22 ed i 30 anni, dotati di un alto grado di istruzione e di un reddito mediocre, che risiedono in comunità nelle periferie delle grandi metropoli cinesi. Un fenomeno balzato agli onori della cronaca intorno al 2009, quando il gigante asiatico era ancora nel pieno della sua espansione edilizia sulla scia dei Giochi Olimpici ospitati dalla capitale cinese l’anno precedente. A distanza di oltre un lustro, i giovani cominciano a preferire l’ipotesi di un rientro a casa. Un fenomeno che in cinese prende il nome di huixiangchao («corrente di ritorno al villaggio») e che ha motivazioni di ordine economico più che affettivo.

Come evidenzia l’indagine del Nanfeng Chuang – che copre 22 contee lungo la linea Aihui – Tengchong tra la regione dello Heilojiang, nel Nord Est della Cina, e quella dello Yunnan, nel Sud Ovest del paese – nonostante il livello economico e il salario medio nelle varie contee sia molto differente, ovunque i giovani migranti percepiscono uno stipendio più alto della media locale una volta tornati nel luogo d’origine. Questo proprio perché tornano temprati dalle megalopoli, con più esperienza e skills da mettere al servizio della comunità di nascita.

«Le grandi città sono come delle pompe per l’acqua: “risucchiano” la manovalanza in arrivo da villaggi e nuclei urbani di piccole dimensioni, per poi “sputare fuori” le giovani élite delle zone rurali. Grazie al flusso di ritorno di questi ragazzi istruiti, le città di seconda e terza fascia avranno maggiori opportunità di sviluppo», conclude l’inchiesta.

Storia di Tian

Tian Wangfu è originario di Huaihua, città-prefettura dello Hunan, di 340mila anime. Nel 2010 si è laureato in Arte e Design ambientale alla Beijing Forestry University, dopodiché ha trovato lavoro in una società di progettazione vicino a Guomao, il quartiere del business di Pechino. Aveva soltanto un giorno di riposo alla settimana: la domenica. Per comodità aveva affittato un appartamento vicino a Dawang Lu. Ogni giorno impiegava mezz’ora di bici per andare e per tornare. Spartiva con sette persone un appartamento formato da tre camere da letto, un salone, una cucina e un bagno. Tian si era aggiudicato la cucina per 950 yuan al mese; ma la cucina non si poteva chiudere a chiave ed era impossibile trovare un po’ di privacy. Soltanto il pensiero del suo lauto stipendio lo aiutava a stringere i denti. Aveva anche cominciato a valutare l’idea di mettere su famiglia con la sua ragazza, ma il costo delle case lo terrorizzava: «I prezzi di Pechino erano talmente alti che non potevamo nemmeno permetterci di prenderli in considerazione. A Pechino non si può più stare», ha raccontato al Nanfeng Chuang.

Nel luglio 2013, Tian ha deciso di ritornare a Huaihua, dove ha lavorato per sei mesi in una società di progettazione. Questo gli ha permesso di comprendere a fondo le esigenze del mercato locale. Poi lo scorso giugno ha inaugurato ufficialmente uno studio di design tutto suo. Al momento fattura 500mila yuan all’anno. Il suo obiettivo è quello di ampliare la propria attività per poter assumere quegli amici ancora sparsi per la Cina.

Alessandra Colarizi


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Urbanizzazione: Nuova Delhi oltre il limite


I 25 milioni di abitanti della capitale indiana respirano un’aria tra le più inquinate del mondo, superando di molto la stessa Pechino. Per la politica ultraliberista del presidente Modi l’importante è la crescita del Pil. L’aria avvelenata è soltanto un inciampo.

Negli anni, purtroppo quasi sempre a sproposito, si è parlato di testa a testa tra i giganti d’Asia: Cina e India protagoniste dell’economia del nuovo millennio, «il secolo asiatico», due stati-continente espressione di due modelli antitetici di gestione della Cosa pubblica in lotta per la supremazia mondiale.

Ma se per quanto riguarda la potenza economica Pechino e New Delhi (Nuova Delhi) hanno sempre gareggiato – e gareggiano tuttora – in campionati separati (le superpotenze mondiali la prima, i paesi dei miracoli economici la seconda, anche a parità di crescita del Pil), nella poco ambita competizione dell’inquinamento atmosferico lo scorso anno la capitale indiana è stata capace, suo malgrado, di salire sui gradini più alti del podio.

New Delhi e Pechino: testa a testa

New Delhi, benvenuti nella capitale mondiale dell’inquinamento. Così recitavano i titoli della stampa internazionale nel dicembre del 2015, quando la pubblicazione di un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), stilato prendendo in esame 1600 città campione, per la prima volta tributava alla capitale indiana il primato delle polveri sottili nell’aria, scavalcando la tradizionale capolista Pechino.

Un sorpasso netto e terrificante: non solo i livelli di irrespirabilità dell’aria delhese erano 15 volte quelli fissati dall’Oms, ma triplicavano i valori (vedi box) – già molto preoccupanti – della capitale cinese.

Lo scorso mese di novembre New Delhi è stata stabilmente oltre quota 300 (indice di pericolo), toccando picchi di irrespirabilità vicini a quota 500 in giorni invernali dove la coltre giallognola che tradizionalmente ricopre la città si mostrava particolarmente fitta agli occhi degli oltre 25 milioni di residenti. Picco di un annus horribilis che, complice il battage mediatico internazionale, ha portato all’attenzione dell’amministrazione locale la questione – si vorrebbe – non più rimandabile dell’aria che viene respirata in città.

Misure «innovative»: le targhe altee

Sotto i colpi dell’«emergenza inquinamento» e della psicosi diffusa in città – con tanto di ospedali pubblici congestionati e avvisi alla popolazione per non far uscire anziani, malati e bambini durante le ore peggiori – il governo locale di New Delhi, guidato da Arvind Kejriwal (di Aam Aadmi Party, una sorta di movimento della società civile tramutatosi in partito dalle tinte pentastellate nostrane), ha introdotto un primo periodo di prova di quindici giorni (dal primo al 15 gennaio 2016) per la cosiddetta «odd even rule», le nostre targhe altee.

Una misura inedita nel panorama indiano con l’obiettivo, se non altro, di mostrare all’opinione pubblica un governo «del fare» deciso a combattere l’emergenza irrespirabilità.

Le due settimane di test, molto criticate da chi ha lamentato un sovraffollamento dei mezzi pubblici, hanno senz’altro rappresentato una ventata d’aria fresca nel contesto politico nazionale, risultando in una buona performance di sensibilizzazione popolare sui problemi di salute legati all’inquinamento dell’aria. Ma, ragionano i tecnici, due settimane di targhe altee hanno un impatto miserrimo nel computo generale dell’ambiente locale. Le automobili inquinano, è vero, ma i problemi di Delhi – e dell’India in generale – sono ben altri.

Secondo uno studio pubblicato dall’Indian Institute of Technology (Iit) di Kanpur, basato sulle rilevazioni dell’aria nella capitale tra il novembre del 2013 e il giugno 2014, i gas di scarico delle automobili rappresentano solo il 9 per cento dei Pm 10 e il 20 per cento dei Pm 2,5 nell’aria.

Mentre la più vaga categoria di «polvere stradale» contribuisce rispettivamente al 56 e al 38 per cento dei due tipi di polveri sottili. Conseguenza diretta dello stato pietoso in cui versa gran parte del manto stradale cittadino, al quale si aggiungono i detriti e la terra – o sabbia – trasportati dal vento provenienti dalle zone aride delle campagne circostanti (negli stati di Haryana e Uttar Pradesh). Per ridurre del 50 per cento gli effetti dannosi della «polvere stradale» basterebbe – d’obbligo il condizionale, poiché non si sta ancora facendo – bagnare le strade una volta a settimana.

In aggiunta, altre componenti tossiche arrivano dai roghi di rifiuti domestici, pratica comune nel subcontinente, dai foi tandoor utilizzati per cucinare in gran parte dei ristoranti e delle bettole cittadine, dalle betoniere artigianali e dai generatori d’energia elettrica a diesel, la soluzione autoctona alla penuria di potenza elettrica installata nazionale e ai conseguenti – non infrequenti – blackout.

Sempre secondo lo stesso studio, i livelli di concentrazione di Pm 10 e Pm 2,5 per metro cubo d’aria d’estate e d’inverno raggiungono picchi spaventosi. Considerando che la soglia di salubrità dovrebbe essere 2 micron per metro cubo, le tabelle dell’Iit di Kanpur mostrano concentrazioni medie fino a 1200 micron per metro cubo d’inverno, oltre 500 d’estate.

Il problema, insomma, ha dimensioni enormemente più vaste del traffico stradale cittadino, soprattutto in una congiuntura storica e politica che vede il sistema India lanciato verso nuovi sforzi di crescita.

La politica ultraliberista di Modi

L’impulso per una ripresa della rincorsa al colosso cinese, in campo economico, è arrivato dalla vittoria schiacciante alle ultime elezioni nazionali del 2014 della coalizione di destra conservatrice guidata da Narendra Modi, esponente del Bharatiya Janata Party (Bjp). La parola d’ordine, da allora, è stata vikas: quel progresso, in hindi, che NaMo ha promesso di portare in tutta la Repubblica seguendo il modello di sviluppo già applicato nella propria precedente esperienza amministrativa a capo del governo locale del Gujarat. Un miracolo economico (crescita media del Pil all’8 per cento in otto anni di reggenza, due mandati) fatto di infrastrutture, svendita di terreni agricoli a multinazionali, incentivi statali per attirare i tanto agognati Foreign direct investments di cui l’India ha disperato bisogno per crescere. In una parola: ultraliberismo.

In un contesto simile, quando l’India si sta preparando a diventare la nuova «fabbrica del mondo», le questioni di carattere ambientale diventano materia di discussione risibile, se non direttamente affrontata con fastidio. Ne è stato esempio plastico l’approccio indiano alla conferenza sui cambiamenti climatici Cop21 tenutasi a Parigi nel dicembre del 2015.

Mentre le potenze mondiali si riunivano alla ricerca di un accordo che limitasse le emissioni di gas serra in uno sforzo globale a tutela dell’ambiente, la delegazione indiana – esprimendo opinione condivisa da molti paesi in via di sviluppo – dichiarava all’Huffington Post India: «Non abbiamo intenzione di scusarci per il nostro utilizzo di carbone. L’America e il mondo occidentale si sono sviluppati per gli ultimi 150 anni grazie all’energia a basso prezzo derivata dal carbone. E grazie a questa “energia low cost” si sono costruiti le loro autostrade, le loro ferrovie, le loro fabbriche, i loro laboratori e improvvisamente tutta la loro gente ha un lavoro, ha una casa, il loro Pil pro capite supera i 70mila dollari all’anno e la loro crescita è ferma a zero. E adesso hanno lo stomaco di chiedere al resto del mondo “per favore, non crescete. Se crescete tutti alla velocità dell’India, cosa ne rimarrà di noi e dei nostri paesi?”».

A sostegno della posizione indiana, piace citare un dato – vecchiotto in realtà (è del 2012), riportato dal Financial Times qualche giorno prima del Cop21 – relativo alle emissioni pro capite globali: l’India contribuiva a un «misero» 1,6 tonnellate di diossido di carbonio a persona, contro le 7,1 cinesi e le 16,4 statunitensi. Solo che in India ci vivono 1,2 miliardi di persone, e stiamo parlando di una stima al ribasso, proiettata a sfondare la soglia di 1,5 miliardi entro il 2020. E nulla lascia intendere che a un incremento demografico corrisponderà una diminuzione dell’inquinamento.

L’aria non conta nulla

Con proiezioni di crescita del Pil stimate al 7 per cento – primo paese tra le economie emergenti, nonostante l’aritmetica della stima sia fortemente dibattuta agli analisti – questa seconda metà degli anni Dieci per l’India non è proprio il momento adatto per porsi problemi «da primo mondo».

Da un lato si promuovono quindi soluzioni altisonanti e sul lungo termine – dalla catastrofica campagna Swacch Bharat (India Pulita) alla proposta di un’«alleanza globale solare» per il potenziamento dell’energia solare dei paesi situati tra il tropico del Cancro e del Capricorno, che dovrebbe vedere il proprio quartier generale amministrativo proprio a New Delhi – ma dall’altro, inevitabilmente, si continua a far finta di nulla, perseguendo l’obiettivo del progresso ad ogni costo. Anche al costo dell’aria che si respira.

A riprova della dimensione nazionale del fenomeno, lo scorso 12 maggio la stampa indiana ha euforicamente accolto un nuovo rapporto dell’Oms sull’inquinamento dell’aria nelle città del mondo.

Titolo: «New Delhi non è più la capitale dell’inquinamento». Occhiello: «Zabol, in Iran, è la nuova città più inquinata della Terra. Giubilo delle amministrazioni e rivendicazioni di bontà dell’esperimento “odd even rule” da parte del “sindaco” Kejriwal». Ma, come spesso succede, c’è il trucco.

Il nuovo rapporto ha preso in esame altre 1.400 città da 103 paesi, portando la base del sondaggio a un totale di 3.000 centri urbani. New Delhi si attesta in tredicesima posizione. Ma il posizionamento nazionale nella classifica rimane allarmante: nelle prime venti città più inquinate al mondo (riferimento alla concentrazione di Pm 2,5 nell’aria), dieci si trovano in India, il paese più rappresentato assieme alla Cina (quattro città, e non c’è Pechino, in 56esima posizione).

Matteo Miavaldi


Gli indici d’inquinamento

La misurazione dei livelli di insalubrità dell’aria analizza la quantità di polveri sottili, ozono, diossido di azoto e anidride solforosa per metro cubo d’aria, secondo le linee guida dell’Oms (Air Quality Guidelines, Aqg) stilate nel 1987 e aggiornate nel 1997.

Le polveri sottili, in particolare, si dividono in due tipi: Pm 2,5 (particelle grandi fino a 2,5 micron) e Pm 10 (fino a 10 micron). Entrambe le particelle sono responsabili delle complicazioni di carattere medico legate all’esposizione ad ambienti inquinati: tosse, crisi respiratorie, infezioni polmonari o estese, nel caso riescano a trovare le vie sanguigne dai polmoni. Patologie che, secondo l’American Association for the Advancement of Science (AAAS), solo in India uccidono 1,3 milioni di persone all’anno.

Le tabelle di riferimento utilizzate in tutto il mondo per misurare l’inquinamento dell’aria si riferiscono alla concentrazione degli agenti tossici elencati sopra, individuando per convenzione sei categorie distinte: buona (da 0 a 50), moderata (da 51-100), insalubre per categorie sensibili (anziani, bambini, donne incinte, malati, da 101 a 150), insalubre (da 151 a 200), molto insalubre (da 201 a 300), pericolosa (da 301 in su).

Ma.M.


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Urbanizzazione


A maggio, dopo 36 anni di assenza, a Pyongyang è tornato a riunirsi il congresso del Partito dei lavoratori. Il regime ha aperto le porte ai giornalisti stranieri, anche per mostrare lo sviluppo urbanistico della capitale nordcoreana. Una cosa è apparsa a tutti chiara: anche nella Corea comunista di Kim Jong Un i ricchi ci sono. E spendono.

Da un paio di anni su Youtube circola un video che, almeno negli intenti, vuole essere un inno alla bellezza di Pyongyang, la capitale nordcoreana. Accompagnate da una musica struggente, le immagini, per una decina di minuti, guidano lo spettatore, come se fosse in auto, per le strade e le architetture della città illuminata.

Benvenuti a Pyonghattan. Il termine, una crasi con Manhattan, ha fatto capolino nei titoli di quotidiani e riviste. Tanto più in occasione del settimo congresso del Partito dei lavoratori coreano (6-9 maggio 2016), il primo in 36 anni. Per l’occasione il regime ha aperto le porte ai giornalisti stranieri. Tenuti fuori dall’appuntamento che ha ufficializzato l’ascesa al potere del giovane Kim Jong Un (del quale, peraltro, hanno dovuto seguire in differita le oltre tre ore di discorso), i cronisti e gli inviati hanno comunque avuto occasione di girare per la capitale e riportare le ormai consuete «rare» pillole di vita nordcoreana.

Trasformazione urbana

I più assidui frequentatori del paese non hanno mancato di notare i cambiamenti e lo sviluppo nello skyline della città. Crescono i palazzi di 20 e più piani, scrive l’inviato della Reuters, nel confrontare la capitale di maggio con quella vista a ottobre del 2015. Mirae Scientists Street è uno degli esempi della trasformazione urbana in corso: il viale che corre lungo il fiume Taedong è costeggiato da palazzoni in blu e in rosso (che sono anche i colori della bandiera nordcoreana), i cui appartamenti sono stati assegnati a scienziati, ingeneri e insegnanti. La strada è stata inaugurata lo scorso ottobre. Per la stampa di regime è «una struttura di cui andare fieri nella gloriosa era di Kim Jong Un».  Motivo per il quale è diventata anche una delle tappe del tour deciso dal regime per i giornalisti accorsi a Pyongyang per l’assise del Partito, assieme a una fabbrica di cavi elettrici e a un complesso scientifico.

Il prossimo traguardo, annunciato lo scorso 18 maggio dall’agenzia Kcna, sarà la costruzione di Ryomyog Street. Il nome significa «lì dove l’alba incontra la rivoluzione coreana». Secondo quanto riportato, pare che lo stesso Kim ritenga l’area adatta a veder sollevarsi in alto i grattacieli: «Non si tratta semplicemente di costruire un viale» ha detto il Brillante compagno, «è una chiara occasione per mostrare lo spirito della Corea contro ogni sorta di sanzioni e pressioni degli Stati Uniti imperialisti e dei loro alleati».

Il mutamento della città sembra quindi non risentire delle sanzioni inteazionali imposte in risposta ai test atomici e balistici condotti dal regime a gennaio e febbraio, seguiti da mesi di minacce e tensioni che hanno anticipato l’inizio del Congresso.

Il ruolo dei «signori dei soldi»

«Le costruzioni sono l’ennesima evidenza del crescente ruolo dell’economia di mercato», può pertanto commentare la Reuters. E, in un certo senso, non gli si può dare torto. La vivacità del mercato immobiliare di Pyongyang è merito dei donju. Sono i «signori dei soldi» spuntati già da una decina di anni, i cui investimenti stanno favorendo i progetti immobiliari e le costruzioni. A loro modo svolgono anche il compito di broker e agenti immobiliari, animando un mercato privato che scavalca le procedure di assegnazione degli alloggi basato sulla professione.

Chi ha soldi, scrive il coreanista russo Andrey Lankov, può trovare qualcuno disposto a vendergli casa. Ci si trova in una zona grigia, un po’ come per quanto avviene nei mercati semi legali, tollerati ma non normati, germoglio di economia di mercato nella Repubblica democratica popolare in cui trovare pc, telefonini, prodotti sudcoreani, merci d’importazione dalla Cina. È comunque un mondo ancora ristretto alle élite.

Pyonghattan, ha sottolineato Anne Fifield sul Washington Post, è la città dell’1 per cento della popolazione, «un universo parallelo per i ricchi figli della Corea del Nord». I prezzi degli immobili sono in aumento. Secondo uno studio del professore Jung Eun-lee dell’Università Gyungsang, le «proprietà di prestigio» possono arrivare a valutazioni sino a 150mila dollari. In media ci si aggira attorno ai 70mila dollari. I prezzi scendono invece quando ci si sposta dalla capitale. E le transazioni avvengono in valuta pesante, principalmente in dollari statunitensi. Da alcuni anni è anche in funzione un ufficio del governo per la gestione degli immobili, apparentemente un modo per normare gli scambi.

In un’analisi del 2014 il professor Lankov era già entrato nei dettagli di questo «mercato». Teoricamente i nordcoreani hanno la possibilità, se non di vendere e acquistare casa, almeno di scambiarsela, pur con alcune restrizioni territoriali. La scorciatornia per pompare il mercato è ricevere in cambio case con un valore inferiore alla propria, compensando la differenza in soldi (cui poi vanno aggiunte anche possibili stecche ai funzionari che seguono la registrazione dell’accordo).

A sostenere il mercato c’è inoltre l’interesse degli stranieri per il real estate nordcoreano. Per molti è uno dei pochi investimenti sicuri nel paese, portato avanti con contratti di lunga durata, anche oltre i 20 anni, con l’obiettivo di cogliere le opportunità che potrebbero spuntare nell’eventualità di una reale riforma e apertura economica.

Le «aperture» di Kim Jong Un

Dalla sua salita al potere, alla morte del padre Kim Jong Il nel dicembre del 2011, il poco più che trentenne Kim Jong Un pare abbia voluto incoraggiare lo sviluppo del settore immobiliare. Tale interesse rientra nel processo di apertura economica, che pur non nella direzione di una riforma sul modello cinese e vietnamita, sta prendendo piede a piccoli passi, anche se al termine del Congresso nessun vero cambiamento è stato annunciato. Ma è stato lanciato un piano quinquennale che potrebbe presupporre mobilitazioni di massa per sostenere la crescita economica del regime.

Il comparto delle costruzioni è diventato uno dei motori di crescita della Corea del Nord negli ultimi anni. Fermi restando i valori assoluti, che indicano un paese in difficoltà, nel 2014 il prodotto interno lordo nordcoreano, secondo i dati della Bank of Korea, la banca centrale del Sud, è cresciuto dell’1 per cento, in leggera flessione rispetto al +1,1 per cento fatto registrare nel 2013. Dalla contrazione del 2010 si è passati a quattro anni di crescita; modesta, ma pur sempre di crescita. In questo contesto le costruzioni sono cresciute dell’1,4 per cento, in ripresa dal declino dell’anno precedente, sfruttando soprattutto la realizzazione di impianti e strade.

L’importanza data al comparto emerge anche dalla sorprendente copertura data dalla stampa ufficiale al crollo di una palazzina in costruzione a marzo del 2014, nel quale si ritiene siano morte decine di persone. Gli articoli indicavano precise responsabilità per il disastro, evento più unico che raro quando queste rischiano di ricadere sul governo.

All’epoca, gli esperti di Choson Exchange, organizzazione non governativa singaporiana specializzata nella formazione imprenditoriale in Corea del Nord, lessero la reazione della stampa come un tentativo del regime di mostrarsi pronto a prendersi le proprie responsabilità, presentandosi comunque fautore del progresso economico del paese, che nelle intenzioni di Kim deve correre di pari passo con il rafforzamento delle proprie capacità militari e del deterrente nucleare.

Costruire verso l’alto

Lo sviluppo urbano nordcoreano, sottolineano quelli di Choson Exchange in un’analisi più recente, si muove lungo quattro direttrici. La prima è il cambiamento stesso nelle costruzioni: ai blocchi di palazzine basse tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, si è passati a complessi monumentali che svettano verso l’alto. La seconda considerazione da fare è proprio il ruolo delle entità non statali coinvolte nei progetti di sviluppo residenziale: se dovessero arrivare norme che favoriscono gli investimenti esteri nell’immobiliare, si arriverebbe alla sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo e di finanziamento.

Un fattore che va letto assieme all’autonomia di pianificazione concessa ai diversi quartieri, in accordo con le linee guida statali. L’ultima direttrice è la collaborazione e i consorzi che possono mettere assieme esperti di design, ingegneri e costruttori e dar vita a entità capaci diversificare l’ambiente urbano. Prima di tutto nella capitale.

Andrea Pira


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Questo dossier è stato firmato da:

  • Gabriele Battaglia – È milanese e vive a Pechino. Corrisponde per Radio Popolare, collabora con Il Venerdì di Repubblica e con le altre testate a cui China Files, di cui è direttore, fornisce contenuti. Ha scritto per Asia Times e altri media in lingua inglese. È autore dell’e-book «Fucili contro Burma» (2014, con Nicola Longobardi) e del documentario «Inside Beijing» (2012, con Claudia Pozzoli). Per MC ha pubblicato un reportage sul Myanmar nell’agosto-settembre 2014.
  • Alessandra Colarizi – Bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di lingua cinese. Ha una predilezione per il «Far West» cinese, le repubbliche centroasiatiche e la nuova Via della Seta.
  • Matteo Miavaldi – Sinologo emigrato nel subcontinente indiano, è caporedattore di China Files e collaboratore da New Delhi per il Manifesto. Vive in India dal 2011 ed è autore di «I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto», edizioni Alegre. Per East online dal 2013 tiene il blog «Elefanti a parte».
  • Andrea Pira – Laureato in Lingue e civiltà orientali alla Sapienza, ha scritto di Asia per l’agenzia Ntnn, il Riformista e per il web magazine l’Interprete internazionale. Ha imparato il mestiere del giornalismo al desk di Lettera 22. Si occupa di Cina per MilanoFinanza. Per MC ha pubblicato un reportage sulla Corea del Nord nel luglio 2013.
  • A cura di: China Files e Paolo Moiola (redazione MC).