Torino. Il progetto Migrantour. «Oggi vi accompagniamo noi»


A Torino, migranti di diversi paesi sono diventati «accompagnatori interculturali» nella città che li ha accolti. Gli obiettivi sono importanti: promuovere la coesione sociale e la convivenza, valorizzare il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso. Il successo del progetto è stato tale che oggi viene proposto in altre città italiane ed europee.

«L’altro giorno stavo andando a fare la spesa a Porta Palazzo, quando all’angolo tra piazza della Repubblica e via Milano mi sono imbattuto in una comitiva di turisti. Francesi? No. Tedeschi? Nemmeno. Americani? Neanche. Giapponesi? Neppure. Si trattava di turisti ancora più esotici. Italiani.  Lì per lì, a dire il vero, mi è sembrato quasi normale, anche se appena una decina di anni fa la cosa sarebbe stata inimmaginabile. Così ho tirato dritto. Poi però, con la coda dell’occhio, ho intravisto qualcosa che mi ha fatto dapprima rallentare e infine fermare. Mi sono voltato. Ho guardato meglio. Sì, non c’erano dubbi. La guida che stava illustrando le meraviglie di Porta Palazzo alla comitiva di connazionali era una ragazza nordafricana con tanto di chador, che tra l’altro si esprimeva usando un italiano perfetto».

La «Tettoia dell’orologio», a Torino, passeggiata interculturale di Migrantour «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

Itinerari urbani: Torino e le altre

Quello che avete appena letto è un estratto di un articolo dello scrittore torinese Giuseppe Culicchia che, forse inconsapevolmente, qualche anno fa poté osservare l’esito di un lungo lavoro iniziato a Torino nel 2009.

Gli itinerari urbani ideati dagli «accompagnatori interculturali» della rete Migrantour sono oggi una realtà quotidiana, non solo nel capoluogo piemontese, ma anche in moltissime altre città italiane ed europee, nonché da un paio d’anni in alcuni piccoli borghi e località rurali e montane.

Si tratta di passeggiate di un paio d’ore, in cui persone che hanno vissuto a livello personale o familiare l’esperienza della migrazione accompagnano concittadini, studenti e turisti alla scoperta dei quartieri mostrando come le migrazioni abbiano trasformato la città nel corso del tempo, arricchendone il patrimonio culturale tangibile e intangibile. Si cammina insieme per vie e piazze, si attraversano mercati, si entra in luoghi di culto, si osserva il tessuto urbanistico e architettonico da prospettive inusuali.

Al centro di tutto vi è la dimensione dell’incontro, del dialogo, del confronto capace di lasciare la traccia di un’esperienza significativa nei ricordi di chi partecipa alle passeggiate Migrantour.

Nascita ed espansione della rete

Il progetto Migrantour è stato ideato e sperimentato inizialmente dalla cooperativa Viaggi solidali, tour operator attivo nel campo del turismo responsabile e socio fondatore dell’«Associazione italiana turismo responsabile» (Aitr) che, nel 2009-2010, a Torino, realizzò il primo corso per «accompagnatori interculturali», rivolto a venti migranti di prima e seconda generazione residenti in città.

A partire da quel progetto pilota, Fondazione Acra e Oxfam Italia diedero poi il loro fondamentale contributo ottenendo, nel 2013-2015, il primo finanziamento dalla Commissione europea per consolidare l’iniziativa in Italia ed estenderla ad altri paesi (Francia, Spagna e Portogallo).

Nacque così un network costituito da nove città che includeva, oltre a Torino, anche Milano, Genova, Firenze, Roma, Marsiglia, Parigi e Valencia, con partner locali incaricati di realizzare le attività in ogni città. Una seconda, importante fase di sviluppo dell’iniziativa si ebbe poi nel 2018-2019, grazie a due nuove progettualità: l’Asylum migration and integration fund (Amif) della Commissione europea e l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) permisero in quegli anni l’ingresso nella rete di altre città italiane (Bologna, Napoli, Catania, Cagliari e Pavia) ed europee (Bruxelles in Belgio e Lubiana in Slovenia) e soprattutto di organizzare delle specifiche attività per coinvolgere nell’iniziativa richiedenti asilo e rifugiati.

Nel corso degli anni successivi, la rete Migrantour ha continuato ad ampliarsi (aggregando le città di Parma e Bergamo).  Anche nel terribile 2020, segnato dalla pandemia, la rete ha dato vita a due programmi di scambio «Erasmus+» che le hanno permesso di estendere il progetto ad altre città (Barcellona in Spagna, Copenaghen in Danimarca, Utrecht nei Paesi Bassi) e, per la prima volta, in una serie di aree non urbane: Borgata Paraloup in Piemonte, Camini in Calabria, e altre località rurali in Slovenia, Grecia e Bulgaria. Oggi Migrantour è, dunque, una rete molto ampia, coordinata da Fondazione Acra e Viaggi solidali, ma sempre aperta ad accogliere nuovi partner e avviare nuove collaborazioni.

Mirela (Romania), accompagnatrice interculturale, la «Tettoia dei contadini», passeggiata «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

La formazione

Come funziona concretamente l’ideazione degli itinerari interculturali di Migrantour? Tutto comincia con un percorso formativo partecipato, offerto – sempre gratuitamente – a un gruppo di cittadini con background migratorio in seguito all’apertura di una call pubblica.

Il gruppo in formazione si impegna, dunque, per alcuni mesi in un lavoro fatto di momenti di approfondimenti sulla storia delle migrazioni, sul patrimonio culturale, sul turismo responsabile. Soprattutto cerca di sviluppare, attraverso lo scambio e la condivisione delle conoscenze tra i partecipanti (cui i formatori forniscono strumenti utili per l’identificazione e la restituzione dei contenuti delle passeggiate): le tecniche di narrazione autobiografica e di storytelling, la realizzazione di brevi ricerche di campo di tipo etnografico, attraverso la pratica dell’osservazione partecipante, la raccolta di interviste e la produzione di documentazione visuale, la produzione di mappe mentali ed emozionali del territorio urbano.

Le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali divengono così, giorno dopo giorno, una «comunità di pratiche», che si fa gradualmente anche «comunità patrimoniale», nella misura in cui si impegna nel salvaguardare e trasmettere un patrimonio interculturale ritenuto rilevante per promuovere la coesione sociale, la valorizzazione del pluralismo culturale e del dialogo interreligioso.

I risultati

Considerata l’ormai lunga durata di questa iniziativa e l’ampiezza della rete delle città coinvolte, può essere interessante domandarsi quali siano i risultati tangibili ottenuti finora dal progetto.

A tal proposito, negli anni 2018-2019, l’International research centre on global citizenship education dell’Università di Bologna ha realizzato uno studio per valutare l’impatto del progetto Migrantour prendendo a campione le città di Torino, Bologna, Napoli e Cagliari.

Dal report finale emergono due cambiamenti rilevanti: i partecipanti alle passeggiate interculturali Migrantour cambiano le proprie percezioni sul fenomeno migratorio in termini di sicurezza e di contributo allo sviluppo della società rivalutando i quartieri in cui si svolgono le passeggiate; le accompagnatrici e accompagnatori interculturali migliorano la percezione del sé, rafforzandosi e affrancandosi attraverso il lavoro e trovando una modalità di realizzazione personale.

Nel report si legge ancora: «Da un’iniziale motivazione personale, legata alla possibilità di trovare un impiego, di mettere in pratica alcuni temi studiati all’università, o di migliorare l’italiano, per molti partecipare a Migrantour diventa qualcosa di più importante di un semplice lavoro o dello studio. Può favorire una più effettiva integrazione e contribuire alla preparazione di una nuova generazione alla convivenza multiculturale».

In effetti l’impatto più significativo, ancora oggi nel 2023, riguarda – a nostro avviso – proprio le accompagnatrici e accompagnatori interculturali. Lasciamo, dunque, la parola alle protagoniste e ai protagonisti di Migrantour.

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo, San Salvario (Torino), passeggiata interculturale «United colors of San Salvario». Foto Ornella Orlandini.

Cosa dicono

«L’impatto su di me – spiega Romina – è assolutamente positivo perché ho modo di confrontarmi, conoscere, capire, sentire altre storie di migrazioni. Lavorare a fianco di altri migranti mi dà un senso di appartenenza, mi sento capita, senza dovermi giustificare o spiegare, ma semplicemente raccontandomi in maniera naturale e spontanea direi».

Adriana: «Per me fare l’accompagnatrice interculturale è un privilegio perché è uno spazio in cui puoi autoraccontarti, autodefinirti, al di là di quello che le altre persone possono pensare di te semplicemente sapendo che sei nata in Colombia oppure che vivi a Barriera di Milano, come nel mio caso. Ti permette di raccontare come vedi e come vivi la città in uno spazio protetto e in generale di non giudizio».

Migrantour appare, dunque, come uno spazio in cui potersi confrontare liberamente e senza barriere. Un luogo in cui le storie personali o familiari di migrazione s’intrecciano e le narrazioni trovano spunti di riflessioni e linguaggi comuni. È significativa la consapevolezza del potere di rappresentazione tanto più in un contesto dove prevale nella comunicazione pubblica un punto di vista esterno (giornalisti, esperti, ricercatori, politici). Gli itinerari interculturali, al contrario, si fondano su uno sguardo interno, quello di chi ha vissuto personalmente l’esperienza della migrazione e sceglie di voler connettere la propria storia individuale con quella collettiva di altri migranti e della città.

Come abbiamo visto introducendo le modalità del percorso formativo, Migrantour è un luogo di scambio reciproco in cui costruire una comunità di pratiche. La costruzione degli itinerari è il risultato di un percorso partecipativo. Esso prevede uno scambio di competenze: si condivide, si insegna, si impara e si trasmette non solo quanto si sa personalmente ma anche i saperi degli altri partecipanti per costruire un dialogo autenticamente interculturale, capace di restituire la complessità degli scambi tra culture che, quotidianamente, avvengono nei quartieri dove si svolgono le passeggiate.

Come ricorda Mirela: «Essere accompagnatrice interculturale vuol dire anche essere parte di una grande famiglia dove ognuno di noi ha l’occasione sia di imparare sia di insegnare qualcosa agli altri. Questo senso di appartenenza fa bene a tutti, ci fa stare bene, ci fa voler portare avanti questo progetto».

Il sentirsi parte di una comunità rappresenta anche un’opportunità di emancipazione e di partecipazione alla società civile, nel rivendicare il proprio contributo nei processi di trasformazione della società.

«Diventare – spiega Monica –  un’accompagnatrice interculturale ha significato una grande svolta per la mia vita: quella dell’emancipazione come persona e come cittadina perché sono uscita da quella emarginazione nella quale mi ero lasciata collocare come immigrata. Avevo assunto su di me i pregiudizi sull’immigrazione e, soprattutto, i pregiudizi sulla mia comunità di appartenenza, quella rumena, vergognandomene purtroppo. Grazie a Migrantour ho capito e visto la ricchezza culturale che mi porto dentro e che posso condividere con gli altri. Ho cambiato prospettiva nel guardare me stessa, la mia comunità e le migrazioni in generale. Ora sono diventata consapevole delle mie molteplici identità, della bellezza del mondo che emigra e sento la necessità di ripagare Torino, questa bellissima città che mi ha accolta, diventando una cittadina attiva che si prende cura del proprio luogo del cuore».

Noi e la città

Un elemento che accomuna le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali è il rapporto che, man mano, si costruisce e rafforza con la città. Una città fatta di persone e storie con cui entrare in contatto, in cui si ha un ruolo per fare qualcosa per gli altri (Mirela), in cui sentirsi cittadine attive e sempre più torinesi (Adriana, Monica e Romina), in cui sentirsi a casa (Hassan).

Si sviluppa un senso di responsabilità, che sprona a formarsi di continuo, per inserire le proprie narrazioni nel quadro più ampio di una città in continua trasformazione grazie all’incontro tra culture e per restituire un discorso non stereotipato sulle migrazioni. In altre parole, un senso di responsabilità per aprire luoghi, relazioni, significati, possibilità, per rigenerare e costruire comunità.

Rosina (Italia-Perù), coordinatrice e accompagnatrice interculturale, passeggiata interculturale «Borgo San Paolo sin fronteras» per il progetto Detour, promosso da Fondazione Merz. Foto Matteo Montenegro.

«Città chiusa» versus «città aperta»

È proprio su questo impegno che, in conclusione, vorremmo richiamare l’attenzione: aprire la città. Potremmo riassumere così, in estrema sintesi, l’orizzonte ideale del progetto Migrantour.

Come ha giustamente indicato il sociologo americano Richard Sennett, una delle più cruciali sfide politiche della nostra contemporaneità è quella tra i fautori della «città chiusa», segregata, segmentata e sottoposta a un regime di controllo antidemocratico, e coloro che, invece, sostengono la possibilità di una «città aperta», che presuppone un diverso modo di pensare e abitare lo spazio urbano.

Una città «storta e sbilenca», scrive Sennett nel suo libro Costruire e abitare. Etica per la città (2018), una città diversa e molteplice, che riconosce di contenere al suo interno «ineguaglianze accecanti».

Per «aprire la città» e renderla maggiormente «accessibile», ciascun cittadino è chiamato dunque a «praticare un certo tipo di modestia: vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso», e in cui a contare è «la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato».

Rosina I. Chiurazzi Morales
e Francesco Vietti


Gli autori

  • Rosina Irene Chiurazzi Morales, torinese per nascita ma con origini peruviane. Ha sempre mantenuto un forte legame con la terra d’origine, anche in campo professionale partecipando a progetti di ricerche archeologiche in Perù. Dal 2014 al 2019 ha coordinato le attività sul campo della «Missione Etnologica» in Ecuador del Cesmap di Pinerolo e dell’Università di Torino. Dal 2009 collabora con Viaggi solidali al progetto Migrantour, come accompagnatrice interculturale e come coordinatrice per Torino e per la rete europea.
  • Francesco Vietti, antropologo, insegna all’Università di Torino. Ha svolto ricerche sul nesso tra mobilità e patrimonio culturale nell’Europa Orientale e nel Mediterraneo. In Italia, collabora da molti anni con istituzioni e soggetti del terzo settore in progetti per la coesione sociale e il dialogo interculturale. Dal 2009 collabora al coordinamento scientifico della rete europea Migrantour. Pubblicazioni: Il paese delle badanti (Meltemi 2010), Hotel Albania. Viaggi, migrazioni, turismo (Carocci 2012), Etnografia delle migrazioni (con C. Capello e P. Cingolani, Carocci 2014).

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Fare a pugni con la quotidianità


Non è mai stata facile la vita nell’isola caraibica. Oggi la profonda crisi economica (con l’immancabile embargo) l’ha resa ancora più dura. E le soluzioni non paiono dietro l’angolo.

«Il tramonto di Cuba, irripetibile, specialmente all’Avana, dove il sole va a cadere come un’immensa palla nel mare, nel profumo del sale, della vita, del tropico». Sono le parole con cui lo scrittore Reinaldo Arenas (1943-1990, fu un avversario del governo castrista, ndr) racconta l’amore e la struggente malinconia che, per tutta la vita, lo legheranno alla sua amata Cuba, anche quando ormai sarà emigrato in America in cerca di una vita migliore.

Ed eccolo di fronte a me quel tramonto, proprio uguale a come ce lo descrive lo scrittore: il sole scende sul Malecón, il lungomare dell’Avana, tinge di rosa i muretti, le strade, gli scogli. È una delle fotografie più scattate, uno degli scenari più suggestivi: ogni turista deve necessariamente passare di qui, perdersi nella musica e nel brusio di chi, al tramonto e fino a notte fonda, suona la chitarra seduto sul muretto di fronte al mare o chiacchiera bevendo una birra.

Alle mie spalle, l’Avana: i colori, i suoni, l’allegria, la città viva a ogni ora. La luce calda e potente dei tropici che illumina i palazzi del Parque Central, il Capitolio, gli hotel alla moda, le Cadillac e le altre macchine d’epoca tirate a lucido e parcheggiate proprio di fronte a quegli stessi hotel in attesa di un turista che voglia provare l’ebbrezza di sentirsi per un momento immerso nelle magiche atmosfere degli anni Cinquanta.

Una veduta di l’Avana dall’alto. Foto di Valentina Tamborra.

L’Avana nascosta

E poi c’è «l’altra» l’Avana: quella nascosta che pure esiste e resiste. Palazzi fatiscenti, quartieri dimenticati, strade dissestate, code infinite davanti ai negozi statali che non hanno più tutto ciò che dovrebbero assicurare ai cubani.

È questa l’Avana dove mi trovo a camminare insieme a Karla, una guida giovane e sorridente, che conduce me e altre quattro persone a scoprire il lato nascosto di Cuba.

Karla fa parte di un gruppo chiamato free walking tour: ogni giorno le guide partono dal Parque Central e con una passeggiata di tre ore conducono turisti e curiosi a guardare meglio e più a fondo la città. Il tour è gratuito con un’offerta libera e nasce per divulgare una conoscenza diversa e più precisa su una realtà complessa come la capitale cubana.

Dopo il Covid, infatti, Cuba è precipitata in una situazione davvero difficile. Manca, o comunque scarseggia, tutto, dai farmaci ai generi alimentari, dai beni di uso comune ai materiali edilizi. Eppure, camminando per la zona più turistica dell’Avana, non si direbbe. Lì migliaia di visitatori sono impegnati a sorseggiare mojito e gustarsi la musica che arriva da ogni piccolo locale o casa privata e a chiacchierare fumando uno dei famosi sigari cubani, costosissimi se si pensa che ciascuno di essi può arrivare a 150 dollari mentre lo stipendio medio di un impiegato a Cuba è fra i 15 e i 20 dollari mensili.

Quella turistica è una facciata brillante che nasconde, che cela. Ma i cubani di oggi vogliono parlare di quello che le sta dietro, vogliono spiegare, vogliono mostrare. La loro preoccupazione più grande è quella per il futuro: molti infatti sono i giovani che se ne vogliono andare, legalmente o illegalmente. Karla ci racconta che l’arrivo di internet sull’isola ha aperto una «finestra» sul mondo e ha mostrato come si vive altrove e questo attira, spingendo molti ragazzi verso altri paesi.

Una delle guide del «free walking tour Havana» che aiuta a scoprire la capitale cubana con le sue luci e ombre. Foto Valentina Tamborra.

La scuola di boxe

Impossibile non pensare alla prima casa particular (casa privata) dove ho soggiornato, gestita da una donna e sua figlia. La madre stava preparandosi a partire per San Diego, negli Stati Uniti, lasciando a Cuba la ragazza, non per volontà ma per impossibilità di portarla con sé. Ottenere i documenti e i permessi per lasciare il paese non è facile.

Per molte persone che se ne vogliono andare, altre però decidono di fermarsi, di rimanere, di provare a costruire un futuro diverso. Ed è proprio proseguendo il mio cammino per la città che mi imbatto nel Gimnasio de boxeo: una scuola di boxe costruita in uno dei quartieri più difficili della città, il Colón.

Il gimnasio è racchiuso fra mura scrostate ma per i ragazzi rappresenta un sogno. Foto Valentina Tamborra.

Qui, fra palazzi fatiscenti e cortili abbandonati, un italiano, Samuel Fabri, dopo aver vissuto in diversi paesi e aver partecipato a molte cause umanitarie e contribuito a costruire un orfanotrofio in Kenya, ha deciso di fermarsi e dare forma a un sogno e a una speranza.

Grazie alla scuola, infatti, allontana i bambini dalla strada, spiega loro i pericoli connessi a una vita che a prima vista può sembrare più semplice ma che nasconde insidie e dolori. Affronta il tema del turismo sessuale, insegna a essere solidali con un amico debole, a combattere il bullismo, a creare una «famiglia» con i propri compagni.

Il gimnasio è gratuito, ma c’è un requisito essenziale: bisogna andare bene a scuola. Samuel e i suoi collaboratori, tutti ragazzi cubani, danno anche ripetizioni. Mentre parliamo, sono tre i bambini che, dopo la lezione di boxe, ripassano geografia, storia e spagnolo.

Il Gimnasio de boxeo è una vera eccellenza: i ragazzi che vengono da questa scuola hanno vinto otto campionati provinciali in 11 anni e oggi sono già nove i campioni nazionali. Si allenano nel cortile che separa due palazzi che sembrano dover crollare da un momento all’altro. Boxano su un ring che ha visto tempi migliori, utilizzando corde e guantoni che riescono a fatica a stare insieme. Eppure, lo spirito che anima questi ragazzi è qualcosa di potente, di coinvolgente.

Portare avanti questa realtà è dura: infatti non è una questione economica che impedisce al gimnasio di avere tutto l’occorrente, ma l’impossibilità di trovare gli strumenti essenziali.

Con l’embargo è impossibile procurarsi ciò che serve: ad esempio, guantoni, fasce, calze, sacchi da boxe, paradenti. Al momento, una delle necessità più urgenti sono le corde da ring. Samuel non chiede denaro, ma ciò che serve ai ragazzi per allenarsi, per uscire da una realtà difficile e poter coltivare i propri sogni. Usati o nuovi, poco importa, conta solo riuscire a combattere per un futuro diverso.

L’istruttore di boxe viene da Guantanamo: un duro dal cuore d’oro. Foto Valentina Tamborra.

Senza energia elettrica

Dopo l’Avana, raggiungo Cienfuegos, Viñales e Trinidad: ciò che colpisce, come a l’Avana, sono i continui blackout che rendono la vita in città davvero difficoltosa. A causa della poca energia elettrica disponibile, il governo è costretto a interrompere l’erogazione anche per diverse ore mettendo a dura prova i cittadini cubani.

Il cibo conservato nei frigoriferi, i farmaci, già scarsi, i generi alimentari, così difficilmente reperibili, rischiano di deperire in fretta dato il caldo impietoso e, per una popolazione già allo stremo, questo rende la quotidianità una sfida costante.

Un po’ meglio si vive a Viñales, in quella che possiamo definire «campagna»: qui grazie all’allevamento e all’agricoltura si riesce a reperire più facilmente il cibo e c’è un’atmosfera diversa dalle città.

Lo si nota anche dalle abitazioni: a l’Avana, Trinidad, Cienfuegos e – in generale – nelle città più popolose, non si vede un motorino o una bicicletta o una macchina lasciata incustodita in strada e ogni finestra ha sbarre di protezione mentre a Viñales le sbarre alle finestre non ci sono e non è raro vedere, di notte, auto, moto e motorini parcheggiati in strada.

In un angolo di una vecchia fabbrica un parrucchiere ha aperto il proprio posto di lavoro. Foto Valentina Tamborra.

Laicità e religiosità: la santeria

C’è però un tratto comune che lega le zone più rurali alle grandi città ed è la spiritualità: un mix di credenze religiose che, a prima vista, si potrebbe non notare ma che una volta scoperto affascina e colpisce. Cuba infatti è un paese laico dove convivono, nel pieno rispetto reciproco, diverse religioni: cattolici, protestanti, ebrei, spiritisti e poi i seguaci del culto di origine africana, chiamato santeria. Praticato da una larga parte della popolazione, si tratta di un credo che nasce dalla religione della popolazione Yoruba, proveniente dalla Nigeria, in Africa dell’ovest, e arrivata a Cuba nel periodo del colonialismo e della schiavitù (quest’ultima abolita nel 1880).

La santeria è pratica religiosa sincretica: accanto alle divinità di questa religione, gli Orixa, troviamo infatti alcuni santi appartenenti alla tradizione cattolica, come Santa Barbara.

Interessante da sapere: la parola «santeria» è stata coniata dagli spagnoli e, in origine, si trattava di un termine denigratorio per indicare quelle persone che mostravano un’eccessiva devozione ai santi.

Oggi manifestazioni e processioni di santeria si possono vedere in tutta Cuba, e sono veri e propri momenti di riunione della comunità e di preghiera collettiva per chiedere un anno propizio alle proprie divinità. Uno dei luoghi dove è possibile farsi un’idea più chiara di questa religione è Palmira, sede di diverse confraternite.

Per quanto alcuni riti restino privati, è possibile fermarsi e chiedere informazioni e normalmente un santero, ovvero il celebrante dei riti della santeria, sarà disponibile a raccontarvi qualcosa di più.

Nelle case private si trovano facilmente altari dedicati alla propria fede, sia essa cattolica o legata alla santeria. Foto Valentina Tamborra.

Non basta il tramonto sul Malecón

Il mix di culture, etnie, tradizioni, modernità e realtà ferme nel tempo, rendono Cuba un paese straordinario, dalle mille sfaccettature. Viaggiare lungo le strade di quest’isola significa imbattersi in un caleidoscopio di sensazioni e di emozioni contrastanti e farsi un’idea chiara non è semplice. Ciò che è sicuro, purtroppo, è che la situazione economica è in drastico peggioramento e che senza un cambia-

mento di direzione, senza un nuovo piano di sviluppo, Cuba rischia di perdersi, di vedere andare via i propri giovani e rimanere solo una meta di vacanza, dove turisti senza troppa voglia di porsi domande raggiungono hotel di lusso su cayos da sogno senza scoprire l’altra faccia di questo luogo complesso e affascinante.

Il tramonto sul Malecón è sempre lì, rosso, potente e bellissimo, ma perché continui a illuminare anche i cubani e il loro futuro è necessario uno sguardo più consapevole e scevro da ideali e idealismo, uno sguardo capace di posarsi sulle luci di questa meravigliosa isola ma anche di indagarne le ombre.

«Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera». Sono le ultime parole di Reinaldo Arenas, e oggi è l’augurio che mi viene da rivolgere a questa isola straordinaria e disperata, mentre guardiamo il sole calare ancora una volta sul Malecón.

Valentina Tamborra

Il cardinale Beniamino Stella stringe la mani al Il presidente cubano Miguel Diaz Canel durante la sua visita all’isola (8 febbraio 2023).


Chi resta, chi va

Dollari o rubli?

Sono in tanti a sostenere che Cuba stia vivendo la peggiore crisi economica e sociale della sua storia, addirittura più grave di quella del cosiddetto «periodo speciale», negli anni Novanta. Varie circostanze sembrano confermare questa affermazione. Da ultimo, la cancellazione della sfilata per la festa del Primo maggio a causa della penuria di combustibile.

Nel 2022, sono stati oltre 270mila i cubani emigrati negli Stati Uniti, circa il 2,4 per cento della popolazione complessiva (11,1 milioni di persone), un record. La quasi totalità vi è arrivata illegalmente e quasi sempre con l’aiuto economico degli 1,4 milioni di cubani residenti negli Usa. Oggi la via migratoria più seguita – racconta la Bbc – è quella di volare in Nicaragua (l’unico paese latinoamericano che non richiede visto ai cittadini cubani) e da qui proseguire per duemila chilometri verso il confine statunitense attraversando Honduras, Guatemala e Messico. La seconda via, molto più breve ma più pericolosa, consiste nell’attraversamento dello stretto della Florida con imbarcazioni di fortuna (le cosiddette «balsas»).

Dal punto di vista delle relazioni internazionali, per Cuba questo 2023 è iniziato con due visite distinte, ma entrambe importanti. Tra fine gennaio e inizio febbraio, è stato sull’isola caraibica il cardinale Beniamino Stella, già nunzio apostolico sull’isola (dal 1992 al 1999), inviato di papa Francesco. L’occasione era rappresentata dal 25° anniversario della storica visita di Giovanni Paolo II (1998). Nelle due settimane di permanenza, il cardinale ha incontrato il presidente Miguel Díaz-Canel (poco prima della riconferma di quest’ultimo per altri cinque anni) e ha chiesto la liberazione delle persone (circa 700) imprigionate a seguito della rivolta dell’11 luglio 2021. Ad aprile è, invece, arrivato a l’Avana Sergey Lavrov, ministro degli esteri della Russia, in tour nei paesi latinoamericani per comprare adesioni o rafforzare il sostegno alla politica putiniana.

La Russia, assieme al Venezuela, rifornisce Cuba di petrolio. Inoltre, da aprile, le banche cubane accettano pagamenti effettuati con le carte Mir, il circuito di pagamento gestito dalla Banca centrale di Mosca. E questo per favorire l’afflusso sull’isola di turisti russi.

Paolo Moiola

In un angolo della cucina di un contadino, una statua appartenente al culto della santeria con ai piedi offerte votive. Foto Valentina Tamborra.




Ingiustizie che prendono quota


Ecosistemi sconvolti, intere comunità sfollate, denaro pubblico usato a beneficio di pochi. I progetti aeroportuali nel mondo crescono in numero e in violenza ambientale e sociale. E i movimenti locali di opposizione si mettono in rete.

«Ampliaciones, no. En lucha por el clima, la salud y la vida», «No ampliamenti. In lotta per il clima, la salute e la vita». Nel centro di Barcellona e nel vicino comune di El Prat de Llobregat, dove si trova l’aeroporto internazionale Barcelona-El Prat, lo scorso 19 settembre hanno manifestato con questo slogan oltre 10mila persone.

Convocati dalla coalizione Zeroport e dalla Rete per la Giustizia Climatica (Xarxa de justícia climàtica) della capitale catalana, i manifestanti si opponevano al progetto di ampliamento della struttura aeroportuale.

L’aeroporto che rischiava di mangiarsi il delta del fiume Llobregat era al centro di un acceso dibattito politico in Catalogna e in Spagna. Sia la Generalitat catalana (il governo della comunità autonoma) che il governo centrale spagnolo, infatti, sotto la pressione di gruppi imprenditoriali catalani, come il Grupo Godó, avevano stanziato 1,7 miliardi di euro per aumentare la capacità aeroportuale. L’obiettivo era quello di passare dai 55 milioni di visitatori e turisti annuali in epoca pre Covid a 70 milioni (alcuni hanno perfino parlato di 100 milioni). Più turismo, trasporto più rapido, più servizi, più attrazioni e più shopping tra un volo e l’altro. Il progetto, già traballante al momento della manifestazione, poco dopo è stato dichiarato «sospeso per cinque anni» dal governo nazionale che l’ha escluso dal «Piano aeroportuale spagnolo 2022-2026».

Dallas-Fort Worth International Airport Aerial / flickr.com

Niente interesse generale

Visti gli attuali dati climatici e le previsioni di innalzamento del livello dei mari che hanno da tempo dimostrato l’inevitabile inondazione dell’area dell’aeroporto nei prossimi decenni, il progetto di ampliamento pare segnato da una visione alquanto ottimista. Ed è anche una visione fuori contesto, dati gli impegni di riduzione delle emissioni di CO2 che lo stesso governo spagnolo ha preso nei vertici Onu per il clima. L’aviazione globale è, infatti, uno dei settori più contaminanti in termini di emissioni.

Inoltre, la terza pista in progetto passerebbe nel bel mezzo de La Ricarda, una delle zone paludose del delta del fiume Llobregat più popolate di biodiversità di tutta la penisola iberica, tanto da essere inserita in diverse liste di protezione ambientale a livello catalano, statale ed europeo.

Quella del progetto è, infine, una visione con la quale reti organizzate come la coalizione Zeroport dissentono profondamente anche per questioni sociali. Stanchi, infatti, del turismo di massa che ha sconvolto il tessuto sociale e commerciale di Barcellona, molti cittadini e cittadine rivendicano una maniera diversa di viaggiare e visitare il mondo: lenta, responsabile e attenta alle realtà locali.

Nel mezzo dell’emergenza climatica e con l’attività aeroportuale attualmente in crisi per la pandemia, afferma Zeroport, risulta chiaro che l’ampliamento dell’aeroporto di Barcellona non è un progetto d’interesse generale. Ciò che è in ballo, piuttosto, sono gli interessi di grandi imprese costruttrici d’infrastrutture e degli azionisti di Aena, società spagnola quotata in borsa in mano a fondi d’investimento, proprietaria della maggior parte degli aeroporti del paese. Gli stessi interessi che girano attorno al mondo delle crociere turistiche e delle grandi navi da carico nel porto della città.

Una mappa dei conflitti

Alla manifestazione di settembre a Barcellona ha partecipato anche la rete globale Stay Grounded («Restiamo a Terra»), a dimostrazione del fatto che la tendenza all’ampliamento delle infrastrutture aeroportuali è un fenomeno globale.

Con l’intento di visualizzare tale tendenza, sulla base dei dati forniti dal Center of Aviation (Capa), il gruppo di ricerca dell’Ejatlas (l’atlante della giustizia ambientale) ha identificato più di 350 progetti aeroportuali attualmente in costruzione o interessati da piani di ampliamento, dei quali oltre il 60% in Asia. Molti di essi hanno generato gravi conflitti relativi all’acquisizione di terreni, allo spostamento di persone, alla distruzione di ecosistemi, all’inquinamento e alla salute.

Nell’aprile del 2021 l’Ejatlas ha pubblicato una mappa tematica con più di 80 casi di conflitto e resistenza contro progetti aeroportuali, arricchita da ulteriore informazione cartografica.

Passeggeri e merci

Ma perché si stanno ampliando tanti aeroporti, o costruendo vere e proprie «aerotropoli»1? Possono esserci diverse ragioni, ma tutte legate alla fiducia nell’aumento degli investimenti per rilanciare i settori turistico, mercantile ed energetico. Molti sono, infatti, i progetti aeroportuali volti a far crescere il turismo e il numero dei passeggeri, come l’aeroporto di Chinchero già in costruzione, che mira ad aumentare il numero di visitatori a Machu Picchu in Perù.

La mappa dell’Ejatlas include anche aeroporti cargo, come quelli di Ebonyi e di Ogun Cargo in Nigeria. Quattro casi indicati nella mappa riguardano aeroporti cargo costruiti per la consegna di attrezzature per importanti progetti riguardanti combustibili fossili: l’aeroporto di Komo, ad esempio, per servire il progetto di gas naturale liquefatto (Gnl) della Papua Nuova Guinea; quello di Hoima per supportare lo sviluppo petrolifero sulle rive del lago Albert in Uganda; la pista di atterraggio di Afungi per servire il Gnl del Mozambico e l’aeroporto di Suai che serve piattaforme petrolifere al largo della costa di Timor Est.

Aereoporto di Malpensa / foto Gigi Anataloni

Aerotropoli

Una delle tendenze più eclatanti, soprattutto nel Sud del mondo, è quella delle «aerotropoli»: infrastrutture abnormi, circondate da centri commerciali e industriali, hotel, complessi logistici o collegati a zone economiche speciali. Non si tratta dunque di scali logistici con servizi di comfort, ma di una nuova concezione dell’esperienza aeroportuale. Lo sviluppo delle aerotropoli è iniziato in Europa e negli Stati Uniti negli anni ‘90, in particolare intorno agli aeroporti di Amsterdam, Monaco e Dallas. Ai più grandi progetti di aerotropoli del mondo vengono normalmente assegnate aree di gran lunga superiori alle necessità. Basti pensare a Kuala Lumpur, dove l’aeroporto sorge su 100 chilometri quadrati di terreno, a Denver con uno sviluppo aeroportuale pianificato su 137 km2 e al nuovo aeroporto di Dubai, a cui ne sono stati assegnati ben 140 (la superficie coperta dall’intera città di Napoli è di 119 km2 per 3 milioni di abitanti, ndr).

Tali estensioni sono ufficialmente giustificate dal fatto che le aerotropoli sono motori di sviluppo che galvanizzano la crescita economica per tutti i cittadini. L’obiettivo principale, tuttavia, è massimizzare il commercio e il traffico di passeggeri e di merci al servizio dei profitti delle multinazionali, tra le quali i produttori di aeroplani, le compagnie aeree, quelle petrolifere, di costruzioni, di cemento e asfalto, di sicurezza, i consorzi di grandi hotel e catene di vendita che trattano marchi globali.

I commerci locali di piccole e medie dimensioni sono esclusi.

Essendo grandi progetti infrastrutturali che richiedono, ad esempio, autostrade, collegamenti ferroviari, complessi turistici, le aerotropoli promuovono un ampio processo di espansione urbana e di speculazione immobiliare che finiscono per generare impatti e conflitti socio ambientali a catena.

20/02/2020 Protest in front of Environment Department, Manila – Photo: PAMALAKAYA

Sfollamenti e repressione

L’assegnazione di grandi siti per i progetti aeroportuali, spesso terreni agricoli e zone di pesca, comporta che intere comunità, in alcuni casi migliaia di persone, perdano le loro case e i loro mezzi di sussistenza. In molti dei casi studiati dall’Ejatlas si sono verificati espropriazioni di terre (50% dei casi totali) e sfollamenti coatti (47%).

Molte comunità che hanno resistito hanno subìto diverse forme di repressione da parte dello stato: sgomberi forzati, vessazioni, intimidazioni, arresti, incarcerazioni e violenze che hanno provocato anche morti e feriti. Si sono verificati alti livelli di violenza nel 35,5% dei casi, repressione nel 30% e militarizzazione nel 29%. Alcuni esempi sono quelli dell’aeroporto di Arial Beel (Bangladesh), di Mieu Mon (aeroporto militare in Vietnam) e di Lombok (Indonesia).

In Messico, le organizzazioni locali e la comunità indigena Rarámuri, che si oppongono alla costruzione di un aeroporto a Creel, hanno denunciato come crimine di stato l’omicidio di Antonio Montes Enríquez, un leader indigeno che si opponeva al mega progetto turistico «Barrancas del Cobre», trovato senza vita il 6 giugno 2020. Nei casi degli aeroporti di Bhogapuram e Salem in India si sono documentati casi di suicidi tra le persone che sarebbero state sfollate.

Uno degli episodi storici di violazione dei diritti umani si è verificato ad Atenco nel 2006, zona assegnata a un nuovo aeroporto per la Città del Messico: due giovani sono stati uccisi, 26 donne torturate e stuprate e 207 persone arrestate (12 di loro incarcerate per più di quattro anni durante i quali hanno subito torture). Oggi quel progetto è cancellato, ma l’attuale governo di Andrés Manuel Lopez Obrador non ha abbandonato il sogno della mega infrastruttura: un’altra zona, infatti, è stata identificata per il nuovo aeroporto di Santa Lucia, che causerà conseguenze su altre comunità. Ad Atenco e sul lago di Texcoco, rimangono cicatrici di tralicci, cemento e macchinari abbandonati. L’area permane recintata e l’accesso proibito.

Distruzione di ecosistemi

Nei casi analizzati da Ejatlas si sono registrati paesaggi deturpati (48%), deforestazione (41%) e perdita di biodiversità (32%). Uno dei casi più gravi di deforestazione in Sri Lanka si è verificato nell’area in cui è stato costruito l’aeroporto di Mattala. Nelle Maldive, l’espansione dell’aeroporto di Noonu Maafaru sta portando alla perdita di una vasta area della laguna, mettendo a rischio le tartarughe marine e altre specie. Le mangrovie nella baia di Manila, nelle Filippine, sono già state tagliate per il Bulacan Aerotropolis, mentre in Malaysia le barriere coralline e le praterie di alghe sono a rischio per un secondo aeroporto sull’isola di Tioman. La bonifica del terreno per l’aeroporto di Sanya Hongtangwan, in Cina, è stata interrotta per due anni dopo le denunce per gli impatti sull’habitat dei delfini bianchi cinesi, una specie protetta per il suo alto rischio di estinzione. Il sito per un secondo aeroporto pianificato a Lisbona (Portogallo) si trova nella riserva naturale dell’estuario del Tago, un ecosistema cruciale per l’alimentazione di dozzine di specie di uccelli.

Problemi di salute

Se la costruzione di aeroporti crea impatti sugli ecosistemi, ha ripercussioni negative anche sulla salute umana. Durante la fase di costruzione, si registrano molti casi di incidenti, come all’aeroporto indiano di Navi Mumbai, dove alcuni operai sono rimasti feriti in seguito all’uso di esplosivo per aprire passaggi in pareti di roccia e per livellare il terreno e dove, inoltre, soffrono di alti livelli di inquinamento da polvere. Negli Stati Uniti, i residenti nelle vicinanze dell’aeroporto di Cincinnati/Northern Kentucky hanno intentato un’azione legale collettiva per l’eccessiva polvere, rumore e onde d’urto dovute a esplosioni per la costruzione di un hub di carico.

Una volta che gli aeroporti sono operativi, le comunità limitrofe sono esposte agli inquinanti emessi dagli aerei e ad alti livelli di rumore. Le perdite di carburante per l’aviazione possono contaminare le riserve idriche. Ne sono state documentate in relazione alle strutture che riforniscono due basi aeree statunitensi, Kirtland Afb e Red Hill Bulk Storage Facility alle Hawaii.

Play card demonstration – Simara-Bara (Nepal) – 7/11/2021

Disuguaglianze mondiali

Le ingiustizie ambientali e sociali di cui abbiamo parlato dovrebbero essere inserite in una cartografia mondiale sulle diseguaglianze in termini di possibilità di spostamento e di attraversamento di frontiere, nonché di accessibilità ai beni trasportati negli aeroporti cargo.

Le persone con passaporto europeo possono viaggiare in più di 180 paesi senza visto preventivo, mentre i cittadini di paesi più poveri in molti meno, ad esempio gli afghani solo in 26. Per non parlare poi della capacità di far fronte alle spese per i biglietti aerei. I paesi dove è più alta la percentuale di cittadini che non possono fare viaggi internazionali sono quelli nei quali le persone soffrono maggiormente gli impatti sociali e ambientali dei progetti aeroportuali. A questi aeroporti accedono milioni di persone di altri paesi per turismo e per acquistare beni di difficile (o impossibile) accesso per i residenti locali.

Un altro dato su cui riflettere è quello delle disuguaglianze mondiali di emissioni da trasporto aereo. Le emissioni pro capite di CO2 per il turismo del paese più inquinante (Emirati Arabi Uniti) sono 2.908 volte superiori al paese con meno emissioni (Tagikistan). La maggioranza dei paesi (71%) produce emissioni pro capite relative al settore turistico inferiori alla media globale (242 kg). Ventisette paesi, per lo più in Africa, Medio Oriente e Asia meridionale, registrano emissioni di CO2 pro capite (relative al turismo) inferiori a 50 chilogrammi, il che dimostra che i loro cittadini viaggiano molto poco in aereo. Tuttavia, vi troviamo 419 aeroporti operativi e 113 aeroporti pianificati.

Un esempio è l’India, con pochissime emissioni pro capite relative al settore turistico (17,56 kg) ma con 77 aeroporti principali operativi e 52 in costruzione. Numeri destinati a crescere ancora, tramite il programma del governo per la connettività regionale (Udan) che ha l’obiettivo di «rendere il volo una realtà per l’uomo comune delle piccole città». A tal fine, il governo prevede di costruire altri 100 aeroporti entro il 2024.

Barcelona El Prat Airport 2019 – foto Christine Tyler / Stay Grounded

Le mobilitazioni sociali

La mappa dell’Ejatlas mostra anche una serie di vittorie contro progetti aeroportuali.

Nel 39 per cento dei casi analizzati, la resistenza è stata vista da parte di chi l’ha operata come (parzialmente) riuscita: per l’aumento della partecipazione della popolazione, o per i risarcimenti ottenuti, o, ancora, per le moratorie o cancellazioni dei piani di costruzione. Un esempio famoso in Europa è la resistenza contro il nuovo aeroporto di Nantes, che ha dato vita al movimento zadista (dall’acronimo Zad, zone à défendre, zona da difendere) e alle sue molteplici iniziative di produzione agroecologica, biocostruzioni e attività culturali nei terreni dell’area altrimenti concessionata all’aeroporto.

Tra i casi percepiti come «positivi» rientrano quelli dove le comunità sfollate hanno ottenuto maggiori indennizzi per l’acquisizione di terreni. È questo il caso degli aeroporti di Sentani (Indonesia) e di Bhogapuram (India). Quest’ultimo è un esempio di attivismo che ha ridotto la superficie assegnata al progetto.
In Nigeria, le famiglie agricoltrici espropriate delle loro terre senza preavviso per un aeroporto cargo a Ekiti hanno ottenuto una sentenza del tribunale che ha riconosciuto come illegali le procedure per l’acquisizione forzata delle terre e ha ordinato il pagamento dei danni.

Nella stragrande maggioranza delle storie di successo (80%) la resistenza è iniziata prima dell’inizio dei lavori, e ciò dimostra l’importanza di una strategia preventiva nell’organizzazione sociale. Tuttavia, in molti casi l’opposizione allo sviluppo di un aeroporto provoca lo stallo del progetto piuttosto che l’arresto, come nei casi delle terze piste degli aeroporti di Heathrow (Regno Unito) e di Vienna (Austria).

La possibilità sempre latente che i progetti aeroportuali siano riattivati provoca incertezze e difficoltà presso le comunità interessate, oltre che incontrollabili speculazioni sui terreni limitrofi.

Le domande dei movimenti

Bristol XR in Glasgow – Glasgow (UK) – 3/11/2021

Che cosa chiedono, dunque, i movimenti sociali? In poche parole, ripensare il settore dell’aviazione e la maniera in cui viaggiamo. La coalizione Stay Grounded chiede una moratoria sulla costruzione o ampliamento di nuovi aeroporti, sulle aerotropoli e sulle relative zone economiche speciali che beneficiano di riduzioni fiscali e di regolamentazioni sindacali e ambientali deboli. Chiedono inoltre la fine dei sussidi e delle agevolazioni fiscali a favore delle compagnie aeree. Per non parlare dei piani di salvataggio e cancellazione dei debiti di molte imprese.

Oltre alla politica fiscale e alla spesa pubblica a favore dell’industria dell’aviazione, Stay Grounded segnala anche la problematicità della strategia di mitigazione climatica. Quest’ultima prevede, infatti, che per compensare le emissioni di CO2 le imprese aeree possono comprare crediti di carbone derivanti da programmi di riforestazione o di energia rinnovabile. Un meccanismo interessante che si traduce in iniziative nefaste, come l’implementazione di monocolture di alberi che non garantiscono la biodiversità e che escludono le popolazioni locali dall’accesso ai relativi territori, o la costruzione di dighe idroelettriche che provocano perdita di foreste primarie, sconvolgimenti idrogeologici e sfollamenti coatti.

Queste iniziative non riducono gli impatti sociali e ambientali, ma li rimuovono dalla vista dei loro clienti e li spostano in territori e comunità marginalizzati.

Stay Grounded infine raccomanda cautela nell’affidarsi all’innovazione e alle «soluzioni» tecnologiche, come le ipotesi di sostituire il cherosene con biocombustibili o di costruire aerei elettrici. Mentre, infatti, i biocombustibili si sono già dimostrati inefficienti a livello energetico e problematici a livello ambientale, la conversione di un settore come l’aviazione attuale a tecnologie elettriche sembra del tutto irrealizzabile per l’elevatissima quantità di materiali, metalli ed energia che richiederebbe.

Luton Airport protest Luton (UK) 6/11/2021 Credits: @stevemerchantphotography (stevemerchantphotography.co.uk)

Viaggiare diversamente

C’è bisogno, dunque, di un profondo ripensamento del nostro modo di viaggiare.

Tra le azioni da intraprendere quanto prima rientra la riattivazione delle reti ferroviarie locali e a lunga distanza. Allo stesso tempo, i voli a corta distanza dovrebbero essere limitati, seguendo l’esempio di iniziative come quella di Barcellona che sta cercando di eliminare i voli peninsulari di meno di mille chilometri sostituibili con i treni.

La manifestazione di settembre contro l’ampliamento dell’aeroporto di Barcelona-El Prat, il suo clima festoso e propositivo, con la partecipazione di un ampio spettro di gruppi sociali diversi, dimostra che la volontà di pensare in modo diverso il turismo e la mobilità non manca.

Ciò che ora non deve mancare è la volontà politica di ascoltare e immaginare soluzioni all’altezza dei nuovi contesti sociali, ambientali ed economici che si stanno velocemente formando davanti ai nostri occhi.

Daniela Del Bene

Note:

1- neologismo che unisce i termini «aeroporto» e «metropoli»: indica un’area metropolitana le cui infrastrutture, uso del suolo ed economia sono centrate su un aeroporto.


Atlante della Giustizia Ambientale

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental justice atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.

Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.

Red Line Bike demonstration A bike demonstration in Vienna 2017. Photo by Christian Bock




Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti

 




Turismo e Covid-19, un’estate in salita

testo di Chiara Giovetti | foto simboliche del Kenya da AfMC |


La pandemia ha colpito molto duramente il settore del turismo e dei viaggi, in tutto il mondo. Mentre molti si chiedono se e come sarà possibile una ripresa e come cambierà il nostro modo di viaggiare, qualcuno insiste sull’importanza di usare questo momento per ripensare il turismo e renderlo più sostenibile.

Lo scorso giugno l’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto) ha pubblicato i dati sul turismo internazionale relativi ai mesi da gennaio ad aprile del 2020: rispetto all’anno precedente, i viaggi internazionali sono stati 180 milioni in meno, pari a un calo del 44 per cento in termini percentuali nel primo quadrimestre dell’anno.

Il dato più negativo si è registrato in aprile: meno 97 per cento. La perdita complessiva rispetto al 2019 negli introiti derivanti dal turismo – voce che rientra nelle esportazioni per il paese che riceve i turisti – è stata di 195 miliardi di dollari, con la regione Asia Pacifico capofila delle zone del pianeta più duramente colpite dalla diminuzione degli arrivi – meno 51 per cento -, seguita dall’Europa con il 44 per cento degli arrivi in meno, dal Medio Oriente (-40 per cento), dalle Americhe (-36 per cento) e dall’Africa (-35 per cento).

Alcuni timidi segnali di ripresa hanno cominciato a emergere a giugno, sempre a detta della Unwto, con l’avviarsi dell’emisfero Nord verso l’apice della stagione estiva e in seguito alla rimozione in diversi paesi delle limitazioni agli spostamenti e alla ripresa di voli internazionali@.

Occorrerà ovviamente aspettare la fine dell’anno per tracciare un quadro più solido, ma appare già piuttosto chiaro che si è interrotta l’espansione del settore turistico che da qualche anno sembrava inarrestabile – solo a gennaio le stime davano probabile una crescita del 3-4 per cento anche per il 2020 – e che secondo quanto riportato dal forum britannico World travel and tourism council (Wttc) aveva generato nel 2019 esportazioni per 1.700 miliardi di dollari e contribuito al Pil mondiale per il 10,3 per cento, pari a quasi novemila miliardi@.

A Bagamoyo, Tanzania, sull’Oceano Indiano

La perdita di posti di lavoro

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni unite con sede a Ginevra, ha quantificato in 305 milioni i lavoratori di tutti i settori che potrebbero perdere il proprio impiego a causa della pandemia@.

Di questi, molti sono proprio nel settore turistico, dal quale nel 2019 dipendevano 330 milioni di posti di lavoro, uno ogni dieci a livello mondiale: per ogni lavoro creato direttamente, il turismo ne generava quasi uno e mezzo in modo indiretto o nell’indotto. I sotto settori dell’ospitalità e dei servizi di ristorazione da soli impiegavano 144 milioni di lavoratori a livello mondiale, di cui 44 milioni erano lavoratori in proprio.

A fornire una stima più precisa sul numero di posti di lavoro a rischio è ancora il Wttc, che ha identificato lo scorso giugno tre possibili scenari@ a seconda della durata dei divieti di spostamento:

  • nello scenario peggiore, che ipotizza restrizioni per i viaggi a corto, medio e lungo raggio prolungate rispettivamente fino a settembre, ottobre e novembre, gli impieghi persi nel settore del turismo e dei viaggi arriverebbero a 197,5 milioni, con una diminuzione del Pil mondiale di 5.543 miliardi e un calo del 73 per cento negli arrivi internazionali.
  • Lo scenario base, che anticipa di tre mesi la rimozione delle restrizioni, stima invece in 121 milioni i lavoratori che perderebbero il posto, con una riduzione del Pil mondiale pari a 3.435 miliardi di dollari, oltre la metà degli arrivi internazionali in meno e arrivi nazionali ridotti di un terzo.
  • Lo scenario migliore, ipotizzando spostamenti possibili con un ulteriore mese di anticipo rispetto allo scenario base, parla di una perdita negli impieghi pari a 98 milioni, con 2.686 miliardi di dollari di Pil mondiale in meno, arrivi internazionali diminuiti del 41 per cento e arrivi nazionali ridotti di un quarto.

La maggior parte delle aziende turistiche, si legge ancora nel rapporto dell’Oil, sono micro, piccole e medie imprese con meno di cinquanta dipendenti; un terzo della forza lavoro totale è attivo in aziende che hanno fra i 2 e i 9 dipendenti, e tre aziende su cinque, attive nell’ospitalità o nei servizi di ristorazione, sono microimprese o addirittura singoli lavoratori in proprio.

Pur avendo un ruolo fondamentale nel creare impiego, in particolare nei paesi a medio e basso reddito, le piccole imprese hanno spesso difficoltà ad accedere al credito, hanno scarse risorse per far fronte a eventuali perdite e faticano a beneficiare di eventuali incentivi se questi non sono mirati a esse e congegnati per raggiungerle.

Il traghetto a Likoni, Mombasa, Kenya

La situazione nei Paesi meno sviluppati

All’inizio di luglio, i 47 paesi meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni unite, contavano circa 280mila casi di Covid-19. Il paese più colpito era il Bangladesh, con oltre 155mila contagi e quasi 2mila decessi, mentre il Laos chiudeva la lista con 19 casi e nessuna vittima@.

Come riporta l’Enhanced integrated framework (Eif), programma di sviluppo globale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per i paesi meno sviluppati, il turismo rappresenta il 7 per cento delle esportazioni di questi stati.

Il ruolo del settore turistico è stato decisivo in passato per permettere a Capo Verde, Maldive e Samoa di migliorare le proprie condizioni al punto da uscire dal gruppo dei paesi meno sviluppati e unirsi a quelli con un grado di sviluppo più elevato.

L’Eif analizza la situazione zona per zona, e segnala per quanto riguarda il Pacifico che a complicare le cose si è aggiunto anche il ciclone Harold. Un paese come Vuanatu, in cui il turismo rappresenta un terzo del Pil, rischia di vedere la propria economia contrarsi del 13,5 per cento.

Quanto all’Africa, dove si trovano 33 dei 47 paesi presi in esame, il settore turistico e dei viaggi potrebbe perdere almeno 50 miliardi di dollari e almeno due milioni di posti di lavoro. La diminuzione dei viaggi aerei, inoltre, ha avuto un impatto anche sull’esportazione di prodotti, come i fiori recisi, che dipendono dallo spazio destinato al trasporto merci sui voli passeggeri.

Il Gambia, continua Eif, aveva perso di recente molti turisti a causa del fallimento del gruppo britannico Thomas Cook, mentre la Sierra Leone e l’Uganda stavano ancora affrontando le conseguenze dell’ebola. L’arrivo della pandemia in questi paesi già in difficoltà ha aggravato le cose.

Nel caso del Ruanda, dove il turismo – specialmente le attività legate al trekking e all’osservazione dei gorilla – rappresenta il 30 per cento dei ricavi delle esportazioni, il governo ha dovuto includere la chiusura dei parchi nazionali@ fra le misure adottate lo scorso marzo per limitare la diffusione del virus. I parchi hanno riaperto solo a metà giugno.

Vedutadel Monte Kenya

Prima adattarsi e poi ripartire

Aziende e operatori del settore turistico hanno dovuto immediatamente tentare di adattarsi alla nuova situazione e spesso lo hanno fatto riorientando su altri servizi le proprie competenze e attrezzature.

In Gambia, ad esempio, l’ente nazionale per il turismo ha collaborato con i gruppi di giovani che lavoravano come guide turistiche convertendoli in guide anti Covid e incaricandoli di percorrere i quartieri delle loro città per sensibilizzare i loro connazionali sui comportamenti da tenere per limitare la diffusione del contagio@.

A New York un’agenzia turistica gestita da un cittadino di origine cinese, Zhan Di, impegnata nel facilitare i viaggi dalla Cina agli Usa, ha utilizzato la propria piccola flotta di minibus turistici per il trasporto e la consegna dei prodotti venduti da Amazon@.

A Roma, Roberta d’Onofrio, che gestisce case vacanze attraverso la piattaforma Airbnb, ha proposto gli alloggi a persone in lavoro agile che avevano bisogno di un posto diverso sia dall’ufficio che dalla propria abitazione per lavorare durante i mesi delle restrizioni@.

Queste sono alcune delle strategie che hanno aiutato gli operatori del settore turistico a tenersi a galla, ma ora si pone la necessità di immaginare nuove configurazioni del modo di viaggiare e di alloggiare anche alla luce dei problemi causati dal turismo di massa che la pandemia ha messo in pausa ma che erano comunque lontani dall’essere risolti.

Competizione per fuoristrada nei dintorni di Nairobi, Kenya

Solo danneggiati o anche danneggiatori?

Lo scorso maggio, riporta il giornalista Christopher de Bellaigue sul Guardian, la Unwto ha avvertito che la crisi legata al coronavirus rischia di danneggiare il settore al punto che i progressi verso una maggior sostenibilità dei flussi turistici potrebbero non solo arrestarsi ma fare passi indietro. Dall’inizio della pandemia, ricorda il giornalista inglese, le compagnie aeree e quelle che vendono crociere hanno fatto una massiccia attività di lobbying chiedendo ai propri governi di concedere loro sgravi fiscali e di sacrificare le misure di tutela dell’ambiente a vantaggio di una più rapida e massiccia ripresa della mobilità@.

I danni del turismo di massa o comunque non sostenibile erano noti: «Dal carburante e particolati vomitati dalle moto d’acqua ai pesticidi che inzuppano i campi da golf, le innocenti evasioni dei vacanzieri somigliano all’ennesima botta inferta a questo povero vecchio pianeta. Ci sono poi il cibo abbandonato in frigo e gli agenti chimici usati per lavare le lenzuola dopo ogni singola nottata passata da un ospite in uno nei 7 milioni di alloggi Airbnb e il carburante cancerogeno bruciato dalle navi da crociera».

E, ancora, le emissioni di anidride carbonica, che – secondo uno studio del Nature climate change, la sezione della rivista Nature dedicata al cambiamento climatico -, sono aumentate fino a rappresentare circa l’8 per cento dell’impronta di carbonio a livello mondiale. Il grosso è dovuto ai viaggi aerei.

La crescita del settore turistico prima della pandemia stava rapidamente controbilanciando e superando gli effetti degli sforzi di decarbonizzare le proprie tecnologie.

Molti osservatori e operatori stanno constatando che la pandemia ci ha costretti a immaginare un turismo più sostenibile anche perché più locale.

Veduta del Monte Kilimanjaro dal Kenya

Paesi come il Kenya, il cui turismo è legato ai parchi naturali e agli animali selvatici dipendono in maniera quasi esclusiva da ricchi visitatori occidentali. Tali paesi hanno toccato con mano come l’interruzione dei viaggi metta a repentaglio non solo i posti di lavoro nel settore ma anche le aree protette e la loro fauna, che dagli introiti provenienti dal turismo dipendono per essere difesi dagli attacchi dei cacciatori di frodo e anche dal rischio che le riserve siano convertite in terreni agricoli.

In aprile, il ministro keniano del turismo Najib Balala invocava un cambio di paradigma che favorisca il turismo interno al Kenya e panafricano: «Non possiamo più permetterci di aspettare che arrivino i turisti internazionali. Se cominciamo ora, in cinque anni riusciremo a diventare resilienti rispetto a qualunque shock, compresi i disincentivi agli spostamenti imposti dai paesi occidentali».

Qualcuno, conclude de Bellaigue sul Guardian, ha già iniziato: il consiglio comunale di Barcellona, ad esempio, si è riappropriato di alcune parti della città prima abbandonate al turismo selvaggio, mentre il governatore di East Nusa Tenggara (Isole della Sonda), in Indonesia, aveva almeno tentato di limitare i flussi turistici alzando i prezzi per l’accesso al parco naturale dove vivono i draghi di Komodo, decimati dalla presenza massiccia di turisti che disturbava l’accoppiamento dei rettili, dalla caccia di frodo che privava gli animali della loro fonte di cibo e dal disboscamento che aveva distrutto il loro habitat.

La pressione delle compagnie che organizzano immersioni subacquee, degli hotel e dei ristoranti dell’area aveva spinto il governo a scavalcare la decisione del governatore e ripristinare l’accesso di massa al parco naturale. Ora la pandemia, in seguito alla quale entrare nell’area protetta è vietato a tutti tranne che alle comunità di pescatori che vivono nella zona, ha paradossalmente rimesso la palla al centro.

Chiara Giovetti

Il Fort Jesus a Mombasa, Kenya




Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra

 




Tutto in 22 km quadrati

testo e foto di Simona Carnino |


Nella splendida isola, più vicina all’Africa che all’Europa, i turisti sono in grande aumento. I migranti che vi approdano sono invece in rapida diminuzione. E i giovani cercano di andarsene.

Vista dall’alto di un aereo, sorge come uno scoglio in mezzo al Mediterraneo, più vicina al Nord dell’Africa che all’Italia, si trova a 224 km da Porto Empedocle in Sicilia e a 188 km da Sfax, in Tunisia. È la maggiore tra le Isole Pelagie, che in greco antico significa «in mare aperto». Lampedusa è un’isola rocciosa, terra delle antiche abitazioni in pietra calcarea chiamate dammusi e luogo prescelto dalle tartarughe caretta caretta per la riproduzione. Il mare trasparente e caldo rende piacevole un tuffo anche in ottobre e l’Isola dei Conigli o le spiagge di Cala Madonna e Cala Pulcino fanno sognare i tropici. Nell’aria, il profumo di finocchietto selvatico avvolge ogni cosa.

Nell’ultimo decennio, l’arrivo sulle sue coste di migliaia di persone provenienti dal Nord Africa ha reso i 22 km quadrati dell’isola universalmente conosciuti. Lampedusa è rappresentata oggi dai media quasi unicamente come «l’isola dei migranti». Eppure, come un vero porto di mare, terra di passaggio, sull’isola, luogo utopico e reale, convivono e intrecciano le loro vite viaggiatori di ogni tipo, volontari o forzati, lavoratori stagionali, residenti, gente che arriva e giovani che se ne vanno.

I tanti volti di Lampedusa

Meta di turismo di mare. Così appare Lampedusa agli occhi di Marcello, un impiegato di Milano di 51 anni che, a fine settembre 2019, ha scelto di sfuggire alle prime nebbie padane e di rifugiarsi sull’isola per una breve vacanza. Di giorno trascorre il tempo alla ricerca delle spiagge più belle. La sera, invece, si siede in qualche piano bar di via Roma, tra un bicchiere di vino e un karaoke. Classica vacanza di mare. Non sa niente del tema migratorio e non gli interessa. Migranti non ne vede e gli va bene così.

Meta di turismo solidale. Così vede l’isola Roberta di Perugia che si trova sull’isola nello stesso periodo di Marcello. Anche lei è una turista, arrivata per il Festival di Lampedusa, un appuntamento organizzato da ragazzi residenti e artisti italiani per portare una proposta culturale sull’isola.

Roberta è interessata a conoscere la Lampedusa Porta d’Europa, terra di frontiera e sede di organizzazioni culturali che si occupano di temi sociali, ambientali e promozione dei diritti umani. Trascorre il tempo a Porto M, un piccolo museo gestito dal movimento culturale Askavusa, dove sono contenuti oggetti appartenenti a migranti e ritrovati sulle spiagge. Guarda le scarpe spaiate, frammenti di barche, maglie stracciate e pezzi di giubbotto salvavita. Va all’archivio storico, sfoglia le foto in bianco e nero di una Lampedusa antica e scopre che l’isola è stata sede di un carcere di alta sicurezza agli inizi del Novecento e di una base militare durante la Seconda Guerra Mondiale. Parla con alcuni residenti dell’isola che non dimenticano i naufragi a cui hanno assistito negli ultimi anni. Roberta vorrebbe anche parlare con qualche migrante per ascoltare la loro storia. Ma rimane delusa. Eppure si era fatta l’idea, leggendo i giornali, che Lampedusa straripasse di migranti.

Luogo da cui scappare. Per Louay, un ragazzo di 21 anni originario della Tunisia, Lampedusa ha l’aspetto di un carcere. Arrivato nella notte del 29 settembre 2019, insieme a circa 180 connazionali divisi su più imbarcazioni, Louay vede l’isola come una zona di transito obbligato. Il suo obiettivo è arrivare in Francia e poi spostarsi in Germania.

Quando Louay arriva a Lampedusa alle 2 di notte, Marcello e Roberta stanno dormendo.

Dormono anche tanti dei seimila residenti di Lampedusa, molti dei quali al mattino si alzano all’alba per lavorare in bar e ristoranti. Per loro Lampedusa è una casa e il flusso turistico rappresentato da Marcello e Roberta è il lavoro.

Non dormono invece gli operatori di alcune organizzazioni umanitarie presenti sull’isola, che si svegliano e si dirigono al porto per portare generi di conforto e documentare l’arrivo di Louay e delle altre persone che i carabinieri trasporteranno nell’hotspot, il centro di prima accoglienza. Per coloro che lavorano in Ong nazionali e internazionali o nelle forze armate italiane, Lampedusa è un posto dove trascorrere una parte della propria vita svolgendo una missione, chi ubbidendo a ordini militari, chi lavorando per i diritti umani o facendo volontariato.

Per altri, infine, Lampedusa è il luogo da cui spiccare il volo. La vedono così i ragazzi lampedusani che desiderano una formazione accademica. I ragazzi in età universitaria sanno che devono trasferirsi in Sicilia o spostarsi in qualche altra regione italiana o magari all’estero, se vogliono ottenere una laurea.

Tra un ragazzo di 18 anni di Lampedusa e Louay non c’è molta differenza. Entrambi hanno il sogno di costruirsi una vita. Però solo il ragazzo con il passaporto italiano ha in mano il lascia passare per trasferirsi in Europa, su un aereo e con le carte in regola. L’altro è forzato a rischiare la vita in mare o nel deserto, cercando di attraversare qualche frontiera.

Bruciare i documenti

Louay è arrivato a Lampedusa su una barca da 20 posti, intercettata in mare dalla Guardia Costiera che l’ha scortato fino al porto. Poi è stato trasferito all’hotspot, dove chi arriva senza documento viene trattenuto durante le pratiche del foto segnalamento prima di essere mandato nei centri della Sicilia o del resto d’Italia, nei quali rimarrà in attesa di una risposta alla richiesta di protezione internazionale. A fine settembre 2019, l’hotspot, che ha una capienza massima di circa 95 posti, è sovraffollato. Sono presenti intorno alle 250 persone in attesa di essere trasferite. La maggior parte sono tunisini. Tra di loro anche alcuni ragazzi eritrei e altri originari dell’Asia, tra cui Bangladesh.

Louay, come altri ragazzi, esce da un buco nella recinzione che percorre il perimetro dell’hotspot e si dirige verso la chiesa del paese, dove il parroco ha messo a disposizione il wifi gratuito.  Indossa pantaloni rossi e una  t-shirt bianca, il vestiario in dotazione dell’hotspot. «Circa il 30% delle persone nel centro ha meno di 18 anni – racconta Louay mentre cammina sotto il sole caldo delle 2 del pomeriggio -.  Il viaggio fino a Lampedusa da Sfax è durato 36 ore circa e la barca su cui ero io era solida e il mare calmo. Ce l’abbiamo fatta. Ora però il mio obiettivo è andarmene da qui».

Quando Louay arriva in paese, la piazza della chiesa è quasi deserta. Qua e là qualche ragazzo come lui cerca la connessione internet. Quando Whatsapp comincia a funzionare, Louay chiama suo padre e gli dice che il viaggio è andato bene. Dall’altra parte dello schermo un uomo sorridente lo saluta felice. «Adesso devo capire come arrivare in Francia – dice Louay -. Ci sentiamo dopo». Poi si dirige verso il porto e cerca di comprare un biglietto del traghetto per Porto Empedocle. Un impiegato della biglietteria gli chiede i documenti. Lui non li ha e quindi non riesce nel suo intento. A poco servono i soldi per pagare.

«No, non ho i documenti con me – ci spiega Louay -. Noi usiamo la parola harga per dire che viaggeremo verso l’Europa in barca, attraverso il Mediterraneo. Harga deriva dalla parola araba che significa “bruciare”. In questo caso, bruciare i documenti, perché non vogliamo essere riconosciuti. Per noi tunisini non ci sono molte speranze di avere un permesso di soggiorno in Italia, quindi è molto meglio non avere nessun documento di identità con noi».

Il decreto interministeriale del ministero degli Affari esteri del 4 ottobre 2019, emanato di concerto con il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia, anche detto decreto Di Maio, stabilisce che la Tunisia può essere considerata un paese sicuro, per cui le persone originarie di quello stato, senza un regolare visto, possono essere rimpatriate in pochi giorni, se non dimostrano di aver subito una persecuzione personale nel paese di partenza. Louay, come molti dei suoi connazionali, scappa da un salario misero, dalla carenza di opportunità lavorative, e ha il sogno di vivere in Europa. Tuttavia, non esistono possibilità di accedere a un visto lavorativo se non si ha un contatto diretto con il datore di lavoro nel paese di destinazione. Per Louay non c’era un’alternativa di viaggio, senza visto. L’unica possibilità era bruciare i documenti e provare ad attraversare la frontiera in un altro modo.

Invasione di turisti

Nelle strade di Lampedusa a inizio ottobre ci sono più turisti che migranti. «Lampedusa non è per niente collassata a causa dei migranti – ci spiega Nino Taranto, il direttore dell’Archivio storico del paese -. Spesso i giornalisti confondono l’isola con il suo hotspot. Se il centro di prima accoglienza è sovraffollato, non significa che lo sia l’isola. Lampedusa non è il suo hotspot».

Negli anni, si è radicata la narrazione che l’Italia sia invasa dai migranti partiti dal Nord Africa e che Lampedusa, una delle sue frontiere, sia sprofondata sotto il peso della responsabilità di accogliere tutti. «Si tratta di un immaginario che si è costruito nel 2011, quando sull’isola sono cominciate ad arrivare le persone in fuga dagli scontri prodotti durante la cosiddetta Primavera araba. Oggi le cose non stanno più così – continua Taranto».

Delle 11.741 persone arrivate in Italia nel 2019 attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, 7.155 sono approdate in Sicilia e le altre principalmente tra Sardegna, Calabria e Puglia. Gli arrivi dei migranti a Lampedusa sono superati dall’arrivo dei turisti. Secondo le ultime elaborazioni prodotte nel 2018 dall’Osservatorio turistico della regione siciliana sulla base dei dati forniti dall’Enac, Ente nazionale per l’aviazione civile, si è verificato un notevole aumento del numero dei turisti passando da 185mila arrivi all’aeroporto nel 2015 a oltre 253mila nel 2017, con un aumento esponenziale dei passeggeri nei mesi estivi. Ad esempio, ad agosto del 2017 sono arrivate all’aeroporto 58.422 persone a fronte delle 4.793 durante il mese di gennaio.

«Il turismo di massa è aumentato a dismisura negli ultimi anni – commenta il direttore -. Ma la gestione di questo settore è lasciata ancora un po’ al caso, manca addirittura un ufficio del turismo ben strutturato e un progetto di sviluppo ordinato».

Negli ultimi anni Lampedusa ha registrato il tutto completo a luglio e agosto e basta fare un giro su blog e siti di prenotazioni e vacanze per leggere recensioni di utenti che consigliano ai futuri visitatori di mettere piede sull’isola in bassa stagione, se si vuole godere di un’esperienza rilassante senza doversi fare largo a gomitate tra gli altri turisti.

Tra percezione e realtà

Nonostante ci siano infiniti modi di guardare Lampedusa, negli anni l’isola si è trovata al centro di un’interpretazione ridotta a due sole narrazioni: descritta a volte come «l’isola dell’accoglienza», altre volte come «l’isola collassata per i troppi arrivi dei migranti». L’immagine dell’isola è stata focalizzata unicamente sui temi migratori e cambia a seconda della maggioranza che governa il paese.

I cittadini di Lampedusa stanno facendo ancora i conti con un’immagine semplificata ed eccessivamente politicizzata che spesso non accettano. «Noi non ci sentiamo rappresentati nei racconti di giornali e televisioni. Vogliamo articolare un discorso su Lampedusa e le migrazioni che si smarchi dalle due retoriche dominanti, quella, per farla breve, dei “migranti cattivi” e quella dei “migranti buoni”, la stessa retorica semplicistica che ha visto i lampedusani passare dall’essere descritti come tutti eroi a tutti razzisti – spiega Giacomo Sfarlazzo del collettivo Askavusa -. Nessuno ha ascoltato le voci dei lampedusani e quelle delle persone migranti, nessuno si è chiesto perché le persone lasciano il proprio paese e quali responsabilità ha l’Unione europea in questi processi, e nessuno ha messo al centro del discorso la regolarizzazione dei viaggi. Perché la cosa importante non è pensare se salvare o non salvare le persone quando stanno già affogando, ma dare loro una possibilità di viaggiare e muoversi in sicurezza in modo che non rischino di annegare».

Nessuno dei pescatori o dei residenti dell’isola che si sono messi a disposizione per dare una mano ai migranti durante i numerosi naufragi si sente un eroe. «Abbiamo fatto il nostro dovere, niente più di questo – racconta Lino, residente a Lampedusa, che ha soccorso alcuni migranti con la sua barca durante il grande naufragio del 3 ottobre 2013 -. Se senti delle persone “vusciare” (disperarsi nel dialetto dell’isola, nda) nell’acqua, che fai? Le salvi, no?».

Sfiducia nello stato

Anche la vittoria della Lega, che ha ottenuto il 45,85% dei voti di Lampedusa e Linosa durante le ultime elezioni europee di maggio 2019, in realtà nasconde un significato che va oltre un semplice trionfo della destra sulla sinistra. A Lampedusa, più del 70% delle persone aventi diritto non è andata ai seggi e l’alta percentuale di astensionismo dimostra una sfiducia della cittadinanza nei confronti dello stato e della politica italiana in generale. Da anni, molti lampedusani si lamentano della raccolta dei rifiuti, della militarizzazione costante dell’isola, della presenza di radar per motivi di sicurezza nazionale e di una gestione limitata della sanità. Sull’isola manca un ospedale attrezzato, cosa comprensibile se si considera il basso numero di residenti, ma che genera scontento nella popolazione.

Eppure sembra difficilissimo per i residenti di Lampedusa liberarsi della narrazione fatta dai media nazionali e dalla percezione che si è creata intorno al fenomeno migratorio e al ruolo dell’isola.

I problemi di percezione dipendono da una rappresentazione mediatica spesso urlata che propone un’immagine dell’isola che ricorda quella del 2011, quando si è verificata un’impennata di arrivi dei migranti rispetto al 2010, ma anche dal fatto che lo stato italiano continua a descrivere l’inclusione dei migranti già presenti sul territorio come un’emergenza. In realtà, la gestione dei processi di integrazione è diventata più caotica in seguito all’introduzione del Decreto sicurezza bis, che ha abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari, condannando molte persone già in Italia alla condizione di irregolarità e ad uscire dai progetti Sprar.

Cala la percezione d’insicurezza

Nonostante i provvedimenti anti migranti, nel 2019 è diminuita la percezione di insicurezza che provano gli italiani nei confronti delle persone che arrivano nel paese.

Un recente rapporto dell’Associazione Carta di Roma, intitolato «Notizie senza approdo» ribadisce che c’è «una assenza di correlazione tra quantità̀ di esposizione mediatica del fenomeno e l’incremento della percezione di insicurezza delle persone». Nel 2019 il tema migratorio è stato molto presente sui media: sui 304 giorni analizzati, solo uno è stato privo di notizie sull’immigrazione. Tuttavia, si è verificato un calo di dieci punti dell’insicurezza percepita nei confronti di migranti e stranieri. Ad aiutare il cambiamento è stata una riduzione dei toni sensazionalistici che sono spesso utilizzati dai media per descrivere il fenomeno migratorio.

Sebbene ancora un italiano su tre consideri i migranti una minaccia alla sicurezza personale e sociale, gli altri invece hanno cominciato a provare meno preoccupazione di fronte agli arrivi delle persone dal mare, forse perché si sono annoiati o talvolta abituati all’eccessiva rappresentazione del fenomeno e hanno cominciato a considerare normale qualcosa che è stato spesso comunicato come anormale.

Inoltre una buona parte di chi arriva in barca sulla rotta del Mediterraneo centrale non vuole rimanere in Italia. Probabilmente in questo momento storico, i migranti e gli italiani condividono le stesse preoccupazioni sulla difficoltà di accedere a un lavoro ben pagato in questo paese.

Secondo i dati Istat del 2019, alla fine del 2018, gli stranieri regolari residenti in Italia erano l’8,7% del totale della popolazione, dato che si conferma più o meno uguale negli ultimi anni. A livello percentuale, c’è stata una riduzione del 3,2% delle iscrizioni all’anagrafe italiana da parte di persone residenti all’estero. Invece è aumentato dell’1,9% il numero degli italiani, in particolare giovani diplomati e laureati, che vivono e lavorano stabilmente all’estero. Negli ultimi 10 anni sono 816mila gli italiani che hanno deciso di partire. Quasi la quantità di persone di una città delle dimensioni di Torino. Il numero è ancora più alto se si considerano tutti gli italiani che di fatto vivono all’estero, ma non hanno trasferito la residenza. Intanto la natalità in Italia si riduce e nel 2018 il saldo tra i nati vivi e i morti è stato negativo di 193mila unità. Nel 2018 sono nati 439.747 bambini, il minimo storico dall’Unità d’Italia.

Se si guarda ai dati, al di là di ogni rappresentazione e percezione, in Italia si nasce di meno e sembra che la gioventù scappi più che arrivare.

A metà ottobre Louay è stato rimpatriato in Tunisia, dopo aver trascorso 9 giorni nell’hotspot di Lampedusa e 5 giorni in Sicilia, dove è stato stabilito che il ragazzo non corre un reale pericolo di vita nel suo paese d’origine. Negli stessi giorni, qualche studente di Lampedusa ha preso il volo verso l’università. In qualche altra regione italiana, una laureata o un diplomato ha fatto la valigia per Londra, o forse Ginevra o magari per la Cina. Sullo sfondo rimane un paese un po’ più anziano e un po’ meno accogliente per i giovani di qualsiasi nazionalità, che si concentra su improbabili invasioni per evitare di riflettere sull’immobilismo a cui sta consegnando il suo futuro.

Simona Carnino

I dati sconfessano le dichiarazioni  dei politici

Arrivi dimezzati,  morti aumentati

Louay è una delle 11.741 persone arrivate in Italia nel 2019 sulla rotta del Mediterraneo centrale secondo i dati dell’Unhcr/Acnur, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Gli arrivi dell’ultimo anno sono i più bassi in assoluto dal 2012 e sono il 50,9% in meno dei 23.370 arrivi via mare del 2018. I numeri si sono molto ridotti negli ultimi 2 anni, se si considera che nel 2017 sono entrate in Italia attraverso il mare 119.369 persone.

Nonostante la riduzione degli arrivi, secondo le statistiche pubblicate il 3 gennaio 2020 sempre dall’Agenzia dell’Onu, nel 2019 sono morte o sono state dichiarate disperse 750 persone durante il viaggio. Nell’ultimo anno è aumentata la mortalità sulla rotta del Mediterraneo centrale con 65 persone morte o disperse su 1.000 rispetto alle 54,7 su 1.000 del 2018.

Negli anni, i governi italiani hanno ridotto o eliminato le iniziative di soccorso in mare, a partire dal 2014 con la chiusura dell’operazione di salvataggio Mare Nostrum, per finire con la criminalizzazione delle navi per il recupero dei naufraghi gestite da Ong nazionali e internazionali. Secondo gli articoli 1 e 2 del decreto legge 53, detto anche Decreto sicurezza bis del 15 giugno 2019, attualmente in processo di modifica, il ministro dell’Interno «può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale» per ragioni di ordine e sicurezza e la sanzione per chi viola il divieto è una multa fino a 50mila euro per il comandante e la confisca della barca. In pratica, il decreto mette sullo stesso piano i volontari e gli operatori delle organizzazioni umanitarie che salvano i naufraghi in mare e i cosiddetti trafficanti, che lucrano sul trasporto dei migranti.

La conseguenza di una condotta politica che elimina i soccorsi non è stata la riduzione degli arrivi, ma l’aumento dei decessi dei migranti in mare, che in genere viaggiano su imbarcazioni precarie ad alto rischio di avaria. Le partenze per l’Europa si sono ridotte non tanto perché siano cambiati i motivi che portano le persone a muoversi verso il Nord geopolitico, ma a causa degli accordi tra Italia e Libia firmati dal governo Gentiloni nel 2017, che autorizzano lo stato nordafricano ad aumentare i controlli per contrastare la migrazione cosiddetta clandestina. Come conseguenza di questo accordo di esternalizzazione della frontiera europea, la polizia libica persegue e reclude nelle proprie carceri i migranti provenienti dall’area subsahariana ben prima che possano prendere la via del mare e dirigersi in Europa.

Simona Carnino

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Isole Svalbard, l’ultima frontiera

Testo e foto di Valentina Tamborra


L’arcipelago delle Svalbard sono il lembo di terra abitato più a Nord del pianeta. Qui la vita è dura e domina una natura estrema. Storicamente area di miniere, oggi sta prendendo piede anche il turismo. Ci vivono circa 2.200 persone di 40 nazionalità diverse. L’autrice vi ha condotto un particolare lavoro di approfondimento fotografico.

Le Isole Svalbard sono un territorio amministrato dalla Norvegia ma soggetto a un trattato internazionale che ne riconosce l’autonomia.

Si tratta di un arcipelago del Mar Glaciale Artico, di isole posizionate fra il 74° e l’81° parallelo Nord. Sono la parte più settentrionale della Norvegia e le terre abitate più a Nord del pianeta. Le terre emerse coprono un’area di circa 62.000 km2 e si trovano a circa 1.000 km dal Polo Nord geografico. Per questo l’immaginario comune le vuole interamente coperte dai ghiacci e con poche forme di vita (orsi polari, renne, volpi artiche, foche, balene). Il termine Svalbard infatti, significa «costa fredda».

Un progetto fotografico

«Mi Tular» in antico etrusco significa «Io sono il confine». In questo lembo di terra ghiacciata incastonato nel Mar Glaciale Artico, orsi polari e uomini si contendono un confine invisibile. La parola Tular riporta alla mente il mito dell’Ultima Thule, l’ultima isola del mondo conosciuto.

Questa è l’idea di fondo del mio progetto fotografico, che mi ha portata a viaggiare fino alle Isole Svalbard.

Quando ho deciso di indagare queste isole, ad attirarmi è stata proprio l’idea di assenza di confine: il deserto artico, per sua natura, è un mondo di ghiaccio e luce assoluta. Luce che spesso inganna gli occhi, i sensi, rendendo impossibile indovinare l’orizzonte.

Alle Isole Svalbard l’unico confine è quello fra esseri umani e animali: sono infatti le terre dell’orso polare, 3.500 orsi contro circa 2.200 abitanti.

Sulla mappa, il confine sicuro è indicato da una linea rossa che mostra la zona entro cui si può girare non armati: oltre è necessario possedere un fucile. Camminando per Longyearbyen, la città più popolosa delle Svalbard (sede dell’aeroporto e della residenza del Governatore, qui chiamato Sysselmannen), è possibile imbattersi in cartelli che indicano la fine del confine sicuro proprio con il disegno di un orso.

E in effetti alle Svalbard tutti hanno un fucile e tutti sanno sparare ma è il luogo con il minor tasso di criminalità al mondo. Nessuno infatti, spara a cuor leggero, nemmeno a un orso polare, perché la legge prevede, in caso di uccisione di uno di questi meravigliosi animali, un’inchiesta del tutto simile a quella che si avrebbe in caso di omicidio.

Un luogo multiculturale

Queste isole sono anche il luogo con la più alta concentrazione di nazionalità differenti: ben 40, anche grazie al Trattato delle Svalbard, il cui articolo numero 3 sancisce la piena libertà di diventarne cittadino legittimo senza necessità di visto, e recita così: «I cittadini di tutte le nazioni aderenti dovranno avere uguale libertà di accesso ed entrata per qualsiasi ragione od oggetto, qualsivoglia fiordo e porto dei territori specificato nell’articolo 1 (confini territoriali Svalbard, nda); sono soggetti all’osservanza delle leggi e regolamenti locali, possono mandare avanti senza alcun impedimento qualsiasi attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sulla base dell’assoluta uguaglianza.

Saranno ammessi alle medesime condizioni di uguaglianza, all’attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sia a terra che in mare e nessun monopolio dovrà essere stabilito da parte di alcuno».

È quindi possibile ottenere la residenza permanente senza bisogno di avere visti o permessi di soggiorno, ma non si ottiene così la cittadinanza norvegese. Infatti, ci sono persone che pur vivendo alle Svalbard da più di 10 anni non posso restare in Norvegia continentale per un periodo superiore da quello concesso dagli accordi fra il loro paese d’origine e la Norvegia.

Ma chi sono dunque gli abitanti delle Svalbard?

È un luogo dove non si può nascere: per questioni di sicurezza infatti le donne incinte vengono mandate a partorire sulla terraferma, a Tromsø, città a Nord della Norvegia. Ma non si può neppure essere seppelliti: a causa del permafrost, che «rigetterebbe» il corpo. Il permafrost è un terreno tipico delle regioni dell’estremo Nord Europa, della Siberia e dell’America settentrionale e risulta perennemente ghiacciato. In realtà durante l’estate i primi due metri di profondità, a causa del riscaldamento superficiale che può raggiungere anche i 10 gradi, si sciolgono dilatandosi. Quest’attività di congelamento e scongelamento dello strato superficiale determina un movimento di contrazione del terreno che agisce su quanto è interrato nel suo primo strato, facendo sì che risalga.

In queste isole come è possibile creare una propria identità? Esiste una memoria condivisa?

Questi sono gli interrogativi che mi sono posta e a cui le persone che ho incontrato hanno saputo fornire una risposta.

Le Svalbard prima di tutto hanno una memoria storica legata all’attività mineraria. L’estrazione del carbone infatti, è stata per anni l’unica fonte di lavoro e l’unica ragione per decidere di stabilirsi qui, in uno dei luoghi più inospitali del pianeta.Basti pensare infatti che in inverno la temperatura scende fino a -35° e che la luce è completamente assente da novembre a febbraio. Tempeste di neve sono all’ordine del giorno e negli ultimi tempi, a causa del cambiamento climatico, ci si è trovati a fare i conti anche con il rischio di valanghe.

Passato e presente di miniere

Ad oggi due sono le miniere ancora attive alle Svalbard: la Mine 7, a Longyearbyen, e l’altra a Barentsburg, cittadina abitata da 500 minatori di nazionalità russa e ucraina.

Ho incontrato alcuni minatori e con loro sono scesa nelle viscere della montagna: 200 metri sotto il ghiaccio ho trovato un mondo nero, buio ma ricco di vita. Uno dei minatori, Tommy, lavora qui da oltre 20 anni. La miniera è «casa sua», nonostante sia originario di Oslo.

Tommy nel tempo libero compone canzoni e scrive fiabe per bambini: lontano dallo stereotipo del minatore rude e schivo, ha sempre il sorriso e la battuta pronta.

Mi racconta che oggi le Svalbard vivono prevalentemente di turismo e che per loro, i minatori, è sempre più difficile vivere qui.

Ogni mattina Tommy si sveglia alle 4,30 e alle 5 è già in miniera per preparare il caffè per i suoi ragazzi. Si prende cura degli altri minatori, come un padre, forse proprio perché conosce questo lavoro duro e antico che porta gli uomini a muoversi in cunicoli alti poco meno di un metro.

Ci sono dei passaggi infatti, in cui ci si può muovere solo carponi.

Eppure quello che mi viene raccontato dai minatori, non solo da Tommy, è l’attaccamento a questi luoghi: la miniera è una sorta di rifugio oltre che lavoro. È un mondo altro, nascosto sotto al ghiaccio, è forse la vera natura di questo luogo così remoto che sono le Svalbard.

«Ieri sera hai visto cosa faccio per divertirmi, oggi vedi cosa faccio per vivere». Questa è la frase con cui mi accoglie Daniel, 24 anni, uno dei ragazzi che lavorano con Tommy. Sì, perché la sera prima l’avevo visto cantare nel coro della compagnia mineraria Det store Norske.

Molti dei minatori cantano nel coro ma non solo loro: ne fa parte infatti, anche il direttore dell’unico ospedale dell’isola, il prete e uno dei capi della compagnia mineraria.

Un gruppo variegato che, come è normale su queste isole, non fatica a condividere provenienze e formazioni diverse ma anzi ne fa un punto di forza. Canzoni folk, ma anche repertorio blues e pezzi conosciutissimi come «sixteen tons» fanno parte dei loro concerti.

Turismo alle Svalbard

Ma c’è un altro lavoro che è diventato fondamentale alle Svalbard: la guida turistica. Con l’incremento del turismo infatti, è sempre necessario avere figure preparate che sappiano guidare le persone alla scoperta di un territorio selvaggio e pericoloso.

Incontro una di loro, giovanissima, Astrid: trasferitasi qui tre anni fa con l’idea di rimanere solo per una stagione, ha deciso di stabilirsi alle Svalbard e farne casa propria. Oggi lavora per Svalbard Husky e tutti la conoscono come «la fiamma» per via dei suoi capelli rosso fuoco che spiccano nel paesaggio bianco che ci circonda. Astrid insegna ai turisti come guidare una slitta trainata dai cani, e con loro raggiungere posti meravigliosi come la blue cave (una spettacolare grotta di ghiaccio azzurro che si confonde con il cielo). Mi racconta che qui non è così facile però trovare casa, soprattutto per le guide. I prezzi sono alti, le case poche e spesso le guide si ritrovano a condividere un piccolo appartamento in 3 o 4 persone.

Questa, dice, è la parte più difficile del vivere qui: non avere un posto proprio.

Pyramiden

C’è poi da raccontare di un altro luogo, ancora più isolato, Longyearbyen, ovvero Pyramiden, un insediamento minerario russo semiabbandonato ormai dal 1998.

Città fondata nel 1910 da minatori svedesi, venne venduta alla compagnia mineraria Russkij Grumant e in seguito, nel 1930, alla Arktikugol che tutt’ora ne è proprietaria pur rimanendo Pyramiden terra norvegese. Insediamento costruito per ospitare circa mille persone, non solo minatori ma anche le loro famiglie e un ufficio del Kgb, era fornito di ogni comodità: una biblioteca, un ospedale, una scuola, ma anche un cinema e una piscina pubblica. L’erba che ricopre il suolo era stata importata dall’Ucraina al fine non solo di abbellire il luogo, ma anche e soprattutto di consentire la coltivazione di frutta e verdura. Doveva infatti fungere da città modello del perfetto comunismo: l’insediamento mostrava al mondo la grandezza dell’Unione Sovietica.

Oggi in questo luogo a ridosso del ghiacciaio Nordenskjoldbree, dove comunicare è possibile solo grazie a telefoni satellitari o via radio, vivono undici persone fra cui un governatore: Petr Petrovich.

Qui il cibo viene portato tramite elicottero e paracadutato sulla comunità. La comunicazione con questa «porzione» delle Svalbard è possibile tramite motoslitta in inverno (con un viaggio di quasi un giorno) e tramite nave in estate. Ad oggi è possibile visitare Pyramiden con dei tour organizzati di qualche ora: si possono vedere gli edifici semi abbandonati e bere un caffè o una tipica grappa russa all’unico bar e hotel del luogo.

In pochi si fermano per più di poche ore nonostante l’hotel sia accogliente: è un luogo remoto, dove la natura domina e dove è facile infatti sentirsi in soggezione.

Eppure chi vive qui oggi, ha fatto questa scelta proprio per fuggire al «rumore» del mondo.

Zheka, la guida che mi ha condotta in giro fra edifici abbandonati e ghiacciai incontaminati, lascia Pyramiden solo una volta l’anno per uno o due mesi. Mesi in cui si dedica alla sua grande passione: la musica. Organizza concerti, suona diversi strumenti e viaggia in giro per il mondo. Poi, torna nel suo angolo di paradiso, o almeno lui così lo definisce.

C’è anche Barentsburg: l’altra «grande» città delle Svalbard. Cinquecento minatori russi e ucraini che difficilmente parlano inglese e che vivono solo e soltanto attorno alla miniera. Anche qui è presente un hotel e due bar (uno di questi però riservato ai soli minatori) ma davvero pochi turisti decidono di fermarsi a Barentsburg

Architettura tipicamente sovietica, Barentsburg fu fondata nel 1932 da una compagnia carbonifera olandese che la cedette in seguito alla sovietica Arktikugol’, che tutt’ora gestisce la miniera.

Dista circa 55 km da Longyearbyen ma non vi sono strade di collegamento fra i due centri abitati. Per raggiungerla infatti, ho compiuto un lungo viaggio in motoslitta: quasi 5 ore la sola andata.

Non ultima in termini di importanza, la cittadina di Ny-Ålesund è un insediamento situato nel Nord Ovest dell’isola, popolato da circa 200 abitanti in estate e soltanto 30 in inverno, per lo più ricercatori scientifici. Anch’essa è raggiungibile in nave durante il periodo estivo e in motoslitta (circa sei ore da Longyearbyen).

Un archivio mondiale

Ma c’è un altro fatto che caratterizza le Svalbard. Abbiamo detto che la memoria storica è legata al carbone e dunque l’identità del luogo è strettamente connessa al lavoro dell’uomo. Ma è proprio qui alle Svalbard che trovano sede due realtà interessantissime: Il Global seed vault e l’Arctic world archive.

Il primo è una sorta di «banca mondiale dei semi»: in caso di guerra, di disastro nucleare o carestia l’umanità trova qui una sua riserva per ripartire. Semi da tutto il mondo giacciono addormentati sotto il permafrost.

Ma se l’uomo per vivere ha bisogno di cibo è pur vero che ha bisogno anche di ricordarsi da dove viene: ed è con questa idea che la Piql, azienda norvegese, ha creato l’Arctic world archive.

Sito nella miniera numero 3, ormai in disuso, il container ospita, scansionati su un’apposita pellicola creata dalla Piql in un polimero segreto, alcuni fra i documenti più importanti della storia dell’umanità.

I primi a portare qui documenti sono stati l’archivio della Biblioteca apostolica vaticana, l’Esa (Ente spaziale europeo), l’archivio Alinari e la cineteca di Bologna.

In un luogo privo di confini e con una memoria recente dunque, nasce il tentativo di creare una memoria del mondo.

Questa è davvero forse l’ultima Thule.

Valentina Tamborra

 

 




Tigri, uomini e riserve in India:

La vita non vale un parco

Testi e foto di Eleonora Fanari


Sommario

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Popolazioni Indigene in India
I parchi in India

Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:  Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Conservazionisti versus Ambientalisti
Campa

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati: Largo al turismo

Questo dossier è stato firmato da:

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Essere pescatori residenti nei dintorni della riserva delle tigri di Sundarbans e vedere rispettati i propri diritti è sempre più difficile. Le politiche ambientaliste del governo producono norme e divieti che portano molti alla fame, diversi a rischiare l’illegalità e, a volte, la morte per sbranamento, e molti altri all’emigrazione.

La riserva delle tigri del Sundarbans – il cui nome in bengalese significa «la bella foresta» -, patrimonio dell’Unesco dal 1987, è il parco naturale nel quale si consuma uno dei più discussi e complessi conflitti tra conservazione ambientale e diritti umani nel territorio indiano. La riserva, che si trova nell’India Nord orientale, è situata nel golfo del Bengala, sul delta del Gange, estremo Sud dello stato del Bengala occidentale, nella più grande foresta di mangrovie del mondo.

Il grosso arcipelago sul quale si estende è formato da 102 isole, 54 delle quali ospitano una popolazione di 4,5 milioni di persone, per la gran parte dalit e indigeni che lottano per la propria sopravvivenza spartendosi il territorio con la famosa tigre del Bengala, una specie in via d’estinzione e protetta dal 1973.

Remi in barca, ma senza smettere di lottare

Sohankharo Arhi, abile pescatore del villaggio di Mathurakhanda, raccoglie i remi della sua piccola barca per sistemarla sulla sponda del fiume.

Ci troviamo qui, sull’isola di Bali (non quella famosa), una delle isole dell’arcipelago, per svolgere delle ricerche sul conflitto che da anni produce vittime tra i più poveri, e lo osserviamo. In questo villaggio, secondo il censimento del 2011, vivono 3.826 persone, delle quali l’80,4 per cento sono dalit, la casta più bassa degli intoccabili, e il 2,2 per cento indigeni1.

Oggi Sohankharo torna a casa a mani vuote. La sua famiglia e le famiglie dei suoi colleghi pescatori in questa giornata mangeranno, forse, solo riso bianco. Le guardie forestali li hanno avvistati mentre navigavano all’interno della riserva, in zona proibita, e li hanno sanzionati con una multa di 2mila rupie (25 euro) a testa e la confisca delle reti e dell’intero pescato. Da quando le normative sulla conservazione ambientale hanno iniziato a inasprirsi, influenzando le sorti di questi piccoli pescatori, un nuovo conflitto socio ambientale emerge in questa «bella foresta» di mangrovie.

Mentre la tigre del Bengala diventa sempre più visibile, soprattutto agli occhi stranieri, attraendo milioni di turisti ogni anno da tutto il mondo, le comunità che abitano questo territorio sono, al contrario, sempre più invisibili. Le loro necessità, i loro bisogni e i loro diritti sembrano affondare in quel terreno fangoso sul quale abitano che non lascia tregua nemmeno nei momenti di secca.

Nuove regole contro la pesca

Il rischio continuo di maree e alluvioni tipico del territorio e la salinità della terra, che impedisce una florida attività agricola, creano una costante incertezza. Gli uomini come Sohankharo non hanno facoltà di scelta, e l’attività di pesca rimane una delle più importanti fonti di reddito per la maggior parte delle famiglie, sfamando circa l’ottanta per cento della popolazione.

Il «Progetto tigri», nato nel 1973, è stato rinforzato dal governo tra il 2005 e il 2006 con nuove norme che hanno creato, tra le altre cose, zone protette inviolabili nelle quali l’accesso è proibito. La popolazione si è ritrovata, così, senza un’alternativa valida, se non quella di infrangere la legge.

«La zona accessibile non è abbastanza pescosa per poter sfamare tutti e, spesso, non siamo al corrente dei confini imposti dalle guardie. Nessuno ci avvisa, se non a bastonate e con multe salate quando ci sorprendono pescare nelle acque del fiume», si sfoga Sohankharo, mentre ci racconta delle difficoltà poste da un territorio già di per sé difficile, e si lamenta del fatto di aver dovuto pagare ingenti somme di denaro semplicemente per svolgere il proprio lavoro.

L’isola si affaccia direttamente sulla zona inviolabile del parco al di là del fiume, e navigare quelle acque rappresenta un rischio.

923 licenze di pesca per 52mila pescatori

Le ultime norme emanate sulla protezione ambientale si assommano ad altre e macchinose regolamentazioni del passato. Una di queste è quella riguardante il certificato di licenza di navigazione, un documento rilasciato nel 1973 dal dipartimento forestale per regolare l’attività di pesca in un’area di 892 km2. Da allora queste licenze, pari a un numero di 923, non sono mai state incrementate e, a oggi, quelle attive per i 52.917 pescatori dell’intero arcipelago, sono di circa 713, un numero irrisorio che lascia quasi tutti i pescatori in una situazione di illegalità permanente.

Alcuni titolari di queste licenze le adoperano dandole in affitto a prezzi inaccessibili ai piccoli pescatori che spesso si indebitano pur di proseguire la loro attività.

Sohankharo commenta: «Non essendo in possesso della licenza, per pescare ho bisogno di prenderne una in concessione a un costo di 30/32mila rupie l’anno (circa 400 euro). Ma negli ultimi anni questo certificato non mi ha permesso ugualmente di pescare, e molti di noi si sono ritrovati a pagare il certificato e anche le sanzioni e le confische da parte delle guardie, lasciandoci in un perenne stato di debito».

Pescatori sbranati e tigri in aumento

Mentre, da un lato, i pescatori lottano con le norme proibizioniste imposte dal dipartimento forestale e con il sistema burocratico e corrotto che ne consegue, dall’altro si ritrovano a dover fare i conti con le «norme naturali» imposte da un territorio ostile nel quale anche l’aggressività delle stesse tigri protette ha la sua parte.

Il timore di essere intercettati dalle guardie forestali spinge la maggior parte dei pescatori a recarsi in luoghi meno visibili, esponendosi di fatto ai possibili attacchi dei felini.

Per il dipartimento forestale del Bengala gli attacchi mortali delle tigri sono dieci all’anno, ma per le comunità locali e le organizzazioni che operano nel territorio, i morti sono almeno dieci al mese2.

Mentre visitiamo il villaggio di Muthurakhanda, abbiamo l’onore di conoscere il capo del villaggio, Ankul Das, che ci racconta: «Nel corso degli anni la popolazione di granchi, gamberetti e pesci è diminuita nelle zone cuscinetto (zone attigue alla riserva, accessibili alla popolazione, ndr). Gli abitanti dei villaggi entrano illegalmente nella zona centrale alla ricerca di una buona pesca, e alcuni vengono uccisi. Poiché queste morti non vengono denunciate, il governo ne rimane all’oscuro».

Le numerose vedove del Sundarbans spesso non ricevono alcun compenso per la loro perdita: un eventuale rimborso è stabilito solo se il pescatore viene aggredito dalle tigri in acque legali.

Da quando il «progetto tigri» è stato inaugurato, il numero dei felini è in crescita. Nilanjan Mallick, il direttore della riserva del Sundarbans, lo conferma al quotidiano «The Tribune»3: le videocamere installate nella riserva hanno registrato nell’anno 2016/17 un numero di circa 83 tigri.

Questo risultato rispecchia gli sforzi del progetto del governo indiano. Il paese è oggi sede della maggior parte delle tigri nel mondo: 2.226 secondo la stima ufficiale del 2014. Un aumento del 30 per cento rispetto alle 1.706 del 2010.

Il mondo conservazionista esulta a questi numeri, mentre le vedove come Aparna Singh, 30 anni e tre figli, dell’isola di Koltali, gemono in silenzio e a stento mandano avanti le loro famiglie.

Incontriamo Aparna nella nostra seconda visita alle Sundarbans nel marzo 2017. Timida, ci invita a entrare nella sua piccola casa. Appesa alla parete di bambù vi è la foto del marito, Pradhan Singh. Con gli occhi rivolti verso il basso Aparna ricorda il giorno in cui il marito fu catturato dalla tigre: «Erano in tre nella barca. Come ogni giorno, erano andati per la raccolta dei granchi. Da quel giorno Pradhan non è mai ritornato».

Il padre di Pradhan, che vive insieme alla nuora, ci spiega che gli attacchi sono aumentati, sia per l’aumento delle tigri che per la necessità dei pescatori di spingersi in acque pericolose: «I pescatori, per paura dei guardiaparco, si avventurano nelle zone forestali più interne, ed è lì che si trovano le tigri». Poiché la tigre attacca sempre una persona alla volta, i pescatori vanno in gruppetti di almeno tre persone. Se uno di loro dovesse morire per un attacco, gli altri si assumerebbero l’onere di prendersi cura della sua famiglia.

L’alternativa di emigrare

Mentre le guardie forestali ingrassano con le confische di pesce fresco, i piccoli pescatori si indebitano per rischiare la vita ogni giorno.

Per capire meglio le condizioni di vita dei pescatori, ci rechiamo nell’isola Satjelia, una delle più povere e popolose. «Non abbiamo altra scelta, se non quella di morire di fame», commenta Utpal Mishra, un pescatore che ci spiega come le norme vigenti non propongono alcuna alternativa alle comunità locali, se non quella di emigrare. Utpal Mishra ci racconta che alterna il lavoro di pescatore a quello di migrante: «Per sei mesi all’anno vivo a Delhi, per fare il bracciante nell’edilizia. Altre volte vado a Mumbai, Bangalore, Calcutta, o Tamil Nadu. Siamo in molti a spostarci, ma la famiglia e il legame con la nostra terra non ci permettono di abbandonare le acque del fiume».

Un altro pescatore sui 50 anni, anche lui da mesi senza licenza in quanto confiscata dalle guardie, ci dice che suo figlio vive lontano, in Italia. Ce lo dice con fierezza. Anche alcuni suoi amici che vivono nella Sundarbans del Bangladesh, al di là del confine nazionale, hanno famiglia in Italia.

Senza possibilità di sopravvivenza in India, si recano in terre lontane: potremmo forse chiamarli rifugiati della conservazione ambientale?

Quelli che invece rimangono qui, rischiano ogni giorno sanzioni, estorsioni o abusi da parte del corpo forestale, e a volte la vita, com’è successo il 16 marzo 2017, quando un peschereccio con 28 persone a bordo è stato avvistato dalla forestale e capovolto. Gli uomini, le donne e i bambini, subito soccorsi e trasportati in ospedale, hanno poi dovuto sostenere i costi per le cure mediche, negate dal dipartimento forestale4.

Pescatori no, turisti sì

Il Sundarbans, ecosistema ricchissimo di biodiversità, è oggi un territorio a rischio. Le problematiche legate al suo degrado non sono certo da attribuirsi solo ai suoi abitanti, ma a decadi di sfruttamento delle risorse. Nonostante questo, i pescatori continuano a essere incriminati per danni contro l’ambiente, mentre il turismo continua a proliferare in maniera incontrollata. Vengono proibite le imbarcazioni a remi dei residenti, ma le numerose barche turistiche a motore attraversano ogni giorno la zona protetta del parco senza problemi.

Gli abitanti della zona si domandano se queste misure di protezione ambientale, che ledono i loro diritti fondamentali, stiano effettivamente contribuendo alla protezione dell’ecosistema. Alcuni denunciano, ad esempio, la presenza di uomini, probabilmente legati alla mafia del legname, che tagliano alberi nella foresta senza curarsi di farlo anche quando sono in fiore, ostacolandone la riproduzione. È una pratica teoricamente illegale che però pare non essere ostacolata dalla forestale. Molti altri denunciano poi i grossi pescherecci che attraversano le acque protette rilasciando materiale inquinante.

Tutto ciò senza menzionare i diversi disastri ambientali che non vengono risolti dalle autorità, come quello causato nel 2014 da una petroliera che, collidendo con un’altra imbarcazione nelle acque al confine tra Bangladesh e India, ha rilasciato nel mare migliaia di litri di petrolio5.

Le popolazioni locali esistono

Secondo l’ambientalista Santanu Chacraverti, autore del report The Sundarbans fishers pubblicato nel 2014 dal Collettivo internazionale a sostegno dei pescatori (International collective in support of fishworkers), la problematica in Sundarbans è legata all’incapacità dell’amministrazione locale di analizzare il problema in termini olistici e di cercare soluzioni che prendano in considerazione tutte le questioni: dal degrado ambientale al sovraffollamento, dalla protezione forestale ai diritti delle popolazioni, dal turismo alla gestione comunitaria delle risorse. Quest’ultimo elemento è tra i più importanti, perché riguarda l’inclusione delle comunità locali nella gestione del territorio.

Nonostante l’assoluta importanza della protezione della biodiversità, le norme legate alla conservazione ambientale non possono dimenticarsi dell’esistenza dell’uomo che vive dentro o ai margini di questi territori.

Alcuni studiosi, come Paul J. Ferraro (del dipartimento di economia alla Georgia state university di  Atlanta, Usa), osservano che la creazione di zone protette con misure restrittive, come nel caso del Sundarbans, non sempre crea vantaggio all’ambiente, in quanto i conflitti che sorgono in risposta al malessere della popolazione impediscono la giusta gestione del territorio.

Gli abitanti delle Sundarban, come Utpal Mishra o Sohankharo, sono i primi a voler proteggere la natura. La loro vita dipende da essa, ma per loro non è solo fonte di reddito, rappresenta la loro casa e la loro identità.

È proprio Utpal Mishra che, un giorno, esplorando le Sundarbans in barca, ci dice: «Scendiamo, camminiamo nella foresta. Come potete studiare il nostro territorio se non capite cosa significa camminare su questo terreno?».

Mentre una guerra globale sulle risorse naturali è alla ricerca di ipocrite soluzioni omogenee per tutti, i pescatori delle Sundarbans ci dicono che non si possono trovare soluzioni se non si sa cosa vuol dire sporcarsi i piedi nel terreno fangoso e buio della foresta.

Eleonora Fanari

Note:

1   www.census2011.co.i
2  Shreya Das, The tiger widows of Sunderbans: caught between the tiger and apathy, «The Indian Express», 27/12/2017.
3  Pritha Lahiri, Sujoy Dhar, Tigers burn bright in the Sundarbans, «The Tribune», 07/10/2017.
4  Informazione condivisa con l’autrice dall’organizzazione Dakshinbanga Matsyajibi Forum (Dmf).
5  Un sends team to clean up Sunderbans oil spill in Bangladesh, «The Guardian», 18/12/2014.

 

Popolazioni Indigene in India

I popoli originari dell’India, o adivasi, rappresentano l’8,6 per cento del totale della popolazione indiana, circa 104 milioni di persone (secondo il censimento del 2011). L’uso del termine adivasi risale al periodo coloniale e si parla di comunità tribali già nel primo censimento del 1901.

A livello istituzionale le comunità tribali in India vengono riconosciute con la locuzione scheduled tribes (St) che appare per la prima volta nella costituzione indiana del 1950, nell’articolo 366 (25). In essa si attribuiscono agli adivasi diritti legati al loro stato di marginalità storica e alla loro diversità culturale, considerata una ricchezza per il paese.

Secondo l’Iwga (International work group for indigenous affairs) «in India, ci sono 705 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti come scheduled tribes. Ci sono poi diversi gruppi indigeni non riconosciuti. La maggiore concentrazione di queste popolazioni si trova nei sette stati Nord orientali dell’India e nella cosiddetta “cintura tribale centrale” che si estende dal Rajasthan al Bengala occidentale». Gli adivasi vivono in tutta l’India, ma principalmente nelle zone montuose e collinari, lontano dalle pianure fertili. Tra le comunità più conosciute vi sono i Santhal e i Gond nello stato di Orissa, i Baiga in Chattisgarh, i Gujjar e i Tharu in Uttar Pradesh e Uttarakhand.

La lotta indigena per il bene comune

Gli adivasi considerano la terra come una risorsa comune, e tradizionalmente hanno sempre controllato e gestito le risorse naturali disponibili attraverso istituzioni comunitarie consolidate.

La maggior parte di queste comunità vive in aree fortemente boscose, la loro economia si basa principalmente su un’agricoltura di sussistenza, sulla caccia o la raccolta.

Le politiche Indiane da decenni sfruttano le risorse naturali delle terre ancestrali indigene danneggiando l’ambiente e minando lo stile di vita delle popolazioni native. I numerosi conflitti, a volte armati (come in Bhastar, Chattisgarh), tra lo stato e le comunità indigene, continuano a perpetuarsi in tutto il territorio indiano, incidendo sul loro stato di povertà e di salute. Per questo motivo, un gran numero di membri di queste comunità si ritrova a dover migrare nelle grandi città come New Delhi, Mumbai e Calcutta, nelle quali vengono spesso sottopagati e posti alla mercé di grandi impresari e latifondisti (Karnika Bahuguna, Madhu Ramnath et al., Indigenous people in India and the web of indifference, DownToEarth, 10/08/2016).

E.F.

I parchi in India

L’idea di istituire delle aree protette nasce negli Stati Uniti nel 1872 con la creazione dello Yellowstone nel territorio di Montana e Wyoming. In India, i parchi naturali nascono nel 1935, quando viene fondato il primo, l’Haley national park, oggi conosciuto come il Corbett national park, nello stato di Uttarakhand.

Fino al 1970 i parchi istituiti sono cinque. Ma a inizio anni ‘70 esplode l’interesse per la protezione ambientale, ed entra in vigore la Wildlife protection act (Wlpa) 1972, una legge molto restrittiva per la gestione e la protezione di flora e fauna. La Wlpa 1972 proibisce la caccia all’interno delle zone protette e stabilisce una serie di reati classificati sotto la fattispecie di crimini ambientali.

Da questo momento in poi le restrizioni aumentano e iniziano i conflitti tra le comunità indigene e il corpo forestale.

 

Mezza Italia di aree protette

Fino al 2002 le aree protette erano divise in due categorie: National park (Np), dove non sono permesse numerose attività umane, e Wildlife sanctuary (Wls) dove le attività umane sono maggiormente tollerate. Con la modifica della Wlpa nel 2002 vengono introdotte due nuove categorie di aree protette: Conservation reserves e Community reserves, aree protette che fungono da zone cuscinetto o connettori e corridoi di migrazione tra parchi nazionali, riserve naturali e foreste protette. Le aree di conservazione sono quelle disabitate e di proprietà del governo indiano, ma utilizzate per sussistenza da comunità umane, le aree comunitarie sono quelle nelle quali parte delle terre è di proprietà privata.

Secondo i dati ufficiali del Gennaio 2019, in India oggi vi sono un totale di 868 aree protette (104 parchi nazionali, 550 santuari della fauna selvatica, 87 riserve di conservazione, 127 riserve comunitarie), che coprono circa il 5 per cento del territorio indiano, 165.088 km2, equivalente a mezza Italia.

Alcuni parchi nazionali e santuari della fauna selvatica che ospitano una considerevole popolazione di tigri, sono stati definiti Tiger reserves, riserve delle tigri, e godono di uno status speciale e di politiche di maggiori restrizioni. A oggi nel paese le riserve delle tigri sono 51.

E.F.


Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:

Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Nella corsa mondiale alla conservazione ambientale, l’India si difende bene. Le sue foreste coprono una superficie maggiore di due volte l’Italia, le aree protette aumentano a vista d’occhio, e tra queste, fiore all’occhiello, le riserve delle tigri sono quasi raddoppiate in 15 anni. Peccato che le sue politiche sempre più restrittive per conservare l’ambiente producano migliaia di sfollati, soprattutto tra le popolazioni più povere di indigeni e dalit, territori militarizzati, violenze impunite e appetiti economici che tutto sono fuorché rispettosi della natura.

Negli ultimi decenni siamo stati testimoni dello sviluppo internazionale di nuove politiche ambientali per espandere zone verdi, creare aree protette, ridurre il bracconaggio, preservare specie animali a rischio, conservare la biodiversità.

Il tema è all’ordine del giorno di numerosi paesi che vedono nella biodiversità anche un contributo alla sicurezza alimentare e alla salute dell’intera società, e un fattore di diminuzione della vulnerabilità del territorio di fronte ai disastri ambientali e ai cambiamenti climatici.

La Convenzione sulla diversità biologica

Il principale strumento che la comunità internazionale si è data per la tutela della biodiversità a livello planetario è la Convenzione delle Nazioni unite sulla diversità biologica (Cbd), oggi sottoscritta da 193 paesi. Adottata a Rio de Janeiro nel 1992 al primo Summit della terra, la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni unite (Unced), la Cbd è un trattato giuridicamente vincolante che si pone come obiettivi principali «la conservazione della diversità biologica, l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche».

L’organo di governo della Cbd è la Conferenza delle parti (Cop) che si riunisce ogni due anni per analizzare i progressi compiuti, verificare le priorità e pianificare nuovi ambiti di lavoro. Tra i venti obiettivi stabiliti nella Cop10 tenutasi nell’ottobre 2010 in Giappone, nella prefettura di Aichi, l’undicesimo prevede che, entro il 2020, le aree di conservazione coprano almeno il 17 per cento delle zone terrestri del pianeta e il 10 per cento delle aree marine e costiere.

Questo obiettivo, secondo il rapporto Protected planet 2019 del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), si sta raggiungendo efficacemente: «Vi sono buoni progressi nell’ampliamento delle aree protette. La copertura terrestre è in aumento dal 14,7 per cento nel 2016 al 14,9 nel 2019, e la copertura marina è passata dal 10,2 per cento al 17,3 delle acque nazionali. Se gli sforzi da parte dei governi per attuare gli impegni proseguiranno, è probabile che gli obiettivi di copertura terrestre e marina saranno raggiunti entro il 2020. […] Attualmente le aree protette nel mondo sono 245.449. La maggior parte di esse sono terrestri e coprono oltre 20 milioni di km2. Le aree marine protette coprono 26 milioni di km2, rappresentando il 7,47 per cento degli oceani»1.

L’India, le aree protette e gli sfollati

In linea con gli obiettivi della Cbd, anche l’India sta compiendo il suo percorso di espansione forestale e di creazione di aree protette: le foreste, a inizio 2019, sono arrivate a coprire il 21,34 per cento del territorio, cioè 701.673 km2, più di due volte l’Italia, e le aree protette sono passate da 604 nel 2006 a 868 nel 20192, un’area pari a 165.088 km2, il 5 per cento della superficie complessiva del paese.

Si direbbe un successo per tutti, se non fosse che queste politiche, che vogliono rispondere alla crisi ambientale planetaria, sono talvolta strumento di violazione dei diritti dei popoli che abitano da sempre le terre che si vogliono preservare.

In India, si stima che vivano nelle zone forestali protette circa 4,3 milioni3 di persone, e la loro presenza, per la maggior parte dei casi, è indesiderata e bersaglio di violenze e sfratti.

Il governo, nel salvaguardare le foreste, ha «dimenticato» di tutelare i diritti delle popolazioni che vi abitano: spesso le zone protette sono state create senza tener conto delle esigenze delle comunità locali, le quali, in maniera inaspettata, si sono ritrovate a vivere dentro nuovi confini.

Se prendiamo il caso particolare delle riserve delle tigri, dal 2005 a oggi il loro numero è raddoppiato, da 28 a 51, provocando lo sfollamento di migliaia di famiglie. Secondo uno studio di Lasgorceix e Kothari4, già nel 2009 il numero delle famiglie sfrattate dalle proprie terre era di circa 20mila, cioè più o meno 100mila persone.

Secondo la nostra ricerca sul campo, condotta per conto dell’organizzazione Kalpavriksh e finanziata da Rights and resources inititiaves (Rri)5, sarebbero da aggiungere negli ultimi dieci anni altri 60mila6 sfollati ai 100mila rilevati nel 2009.

In nome delle tigri

«Le tigri sono sempre state venerate da noi come animali sacri, noi le rispettiamo e loro rispettano noi […]. Non abbiamo paura delle tigri, il nostro peggiore nemico sono ora le guardie forestali», ci dice Sukharo Arhi, pescatore del Sundarbans.

In questo territorio le vittime delle tigri del Bengala sono molte, ma per i locali la vera minaccia sono le guardie forestali. Le restrizioni legate alla pesca, le minacce e, a volte, le torture inflitte ai pescatori per vietarne l’attività, hanno lasciato l’intera comunità senza un’alternativa, facendola sprofondare in una situazione di miseria.

Stiamo parlando di violazioni di diritti umani tollerati dalle istituzioni. Esse di solito non vengono denunciate e, quando lo sono, non vengono perseguite dalle autorità perché a denunciare sono persone di casta bassa, indigeni o dalit, che non vengono prese in considerazione.

Secondo le popolazioni locali e numerose organizzazioni, tra le quali Kalpavriksh, negli ultimi dieci anni i casi di torture e minacce da parte dello stato sono aumentati7. Questo dato è confermato anche dal recente rapporto delle Nazioni unite (Report of the special rapporteur on indigenous people 2018), nel quale si afferma che il numero di crimini, violenze, conflitti e sfratti dalle zone protette è in continua crescita.

L’aumento di restrizioni all’interno di queste aree coincide con l’aumento di attenzione internazionale per la difesa della tigre, considerata specie a rischio e inserita dal 2008 nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura). L’allarme sull’estinzione delle tigri, ha condotto le numerose organizzazioni conservazioniste e lo stesso ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste a prendere dei provvedimenti.

Senza scienza né consenso

In India il primo documento che parla esplicitamente della necessità di aumentare le restrizioni per preservare le tigri, è un rapporto del 2005 redatto dalla «Task force della tigre» istituita nel 2003 dal ministero indiano dell’Ambiente e delle foreste, intitolato Joining the dots, nel quale si evidenzia come l’estinzione della tigre sia un effetto della crisi ambientale8.

Nello stesso 2005 l’India ha creato un nuovo corpo per la protezione della tigre, la National tiger conservation authority (Ntca), con lo scopo di assicurare la riproduzione della specie e la protezione del suo habitat. L’anno dopo, nel 2006, è stata modificata la Wildlife protection act del 1972 per stabilire nuove regole e delimitazioni all’interno delle riserve delle tigri istituendo un’area inviolabile chiamata Critical tiger habitat (Cth) nella quale è vietata qualsiasi attività umana e, attorno a essa, una cintura di territorio protetto, la buffer area (zona cuscinetto), che prevede la coesistenza tra fauna e attività umana. La buffer area dovrebbe garantire i diritti forestali delle popolazioni locali, come l’uso sostenibile delle risorse naturali, e i diritti sociali e culturali.

Il 16 Novembre 2007 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste e la Ntca hanno dato ordine ai singoli stati del paese di creare le Critical tiger habitat entro il 2008. Sono state così create 31 zone inviolabili in tempi brevi, violando le misure che si sarebbero dovute adottare, cioè fare degli studi scientifici preventivi e approfonditi, informare le comunità locali e raccoglierne il consenso.

Queste nuove disposizioni, oltre a negare alle comunità l’uso delle risorse naturali, hanno istituito un meccanismo che legalizza gli sfratti prevedendo una semplice ricompensa economica. Ne è conseguito che dal 2008 gli sfratti dalle aree protette sono aumentati senza peraltro che siano state elargite le ricompense alle comunità colpite.

Sradicati, su terre sterili e senza diritti

Uno dei tanti casi è quello della riserva di Achanakmar, nello stato del Chattisgarh: nel 2009 sono stati sfollati dal Critical tiger habitat sei villaggi che corrispondevano a circa 600 famiglie, tutto ciò senza alcun consenso da parte delle comunità.

Abbiamo visitato la zona di recente, e constatato che oggi quelle famiglie, ricollocate all’esterno dell’area inviolabile, si trovano a vivere in case di cemento decadente, su un lembo di terra sterile, e prive del diritto di accedere alle risorse naturali.

Secondo il nostro studio sul campo, lo stesso è accaduto nella riserva delle tigri di Melghat, in Maharastra, dove sono state sfrattate 1.360 persone. Altre 20mila sfrattate dal parco delle tigri del Kanha nel Madhya Pradesh; 597 famiglie dal parco di Sariska in Rajasthan e più di 3.814 famiglie dal parco di Nagarhole in Karnataka9. La lista continua, e si allunga sempre di più.

Le riserve delle tigri sono le zone più colpite, ma gli sfratti riguardano tutte le zone di conservazione, perfino i corridoi ecologici, cioè quelle «corsie» create per far muovere liberamente gli animali da una zona protetta all’altra, e altre zone attigue ai parchi. Com’è successo, ad esempio, al villaggio di Tummadhia Katha che si trova ai margini del parco naturale del Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, dove le dimore abitate dalla comunità indigena dei Van Gujjar, una comunità pastorizia di origini musulmane, sono state demolite per due volte negli ultimi tre anni.

Proteggere la natura con le forze armate

Com’è chiaro dai casi riportati, le politiche di conservazione non si limitano a salvaguardare la biodiversità, ma a controllare i territori utilizzando spesso modalità militari, come l’uso di forze armate e di network informativi.

Le armi da fuoco vengono utilizzate contro le comunità locali accusate di bracconaggio o di altri crimini contro l’ambiente. Di fatto queste comunità sono considerate dai conservazionisti, come ad esempio il Wwf, nemiche dell’ambiente e usurpatrici dell’ecosistema. Un giudizio che si riflette nelle politiche ambientaliste del governo indiano.

Un recente rapporto del Wwf Italia, pubblicato nel maggio 2018, intitolato Bracconaggio connection, descrive il bracconaggio come una delle cause principali dell’estinzione animale, considerando queste azioni «pervasive e devastanti». Questo nonostante alcuni studi dell’Iucn, pubblicati nella rivista online «Natura» e nel Iucn red-list report10, mostrino come tra gli undici maggiori rischi per l’estinzione delle specie animali non vi sia il bracconaggio, ma altre attività umane come lo sfruttamento delle terre per le attività agricole e lo sviluppo urbano. È interessante notare come il report del Wwf colleghi la rete di criminali che fa bracconaggio alla povertà e al bisogno di «facili guadagni»: sono collegamenti pericolosi che si ritorcono sulla pelle dei piccoli contadini locali, doppiamente vittime delle politiche conservazioniste e delle grosse organizzazioni illegali di bracconaggio.

Con la licenza di sparare a vista

Uno dei casi più discussi ed emblematici dell’India è quello del parco nazionale di Kaziranga, in Assam, dove una squadra armata di 430 uomini, tra guardie forestali, paramilitari11 e forze speciali per la protezione della tigre e del rinoceronte, pattugliano la zona con fucili calibro 200 e 303.

Il parco, famoso per i rinoceronti a un corno in via d’estinzione, è altrettanto famoso per il numero delle vittime uccise in nome della lotta al bracconaggio. I guardaparco, per assicurare la massima protezione agli animali, godono di immunità legale e, in accordo con quanto dichiarato nel Piano di conservazione dei rinoceronti nel parco nazionale di Kaziranga, hanno il dovere di «sparare a vista»12 a chiunque sia sospettato di bracconaggio, senza prove, senza arresto né processo.

Come denunciano diversi attivisti locali, questa condizione d’immunità conferita alle guardie, le ha deresponsabilizzate spingendole a sparare anche senza una ragione. Ne è un esempio il caso di Akash Orang, un bambino di 7 anni che nel settembre 2016 è stato ferito alla gamba da un guardaparco con dei colpi di pistola che gli hanno procurato un’invalidità a vita. Secondo gli attivisti, molte vittime della lotta al bracconaggio sono innocenti cittadini che vengono utilizzati dalle guardie per esibire dei risultati visibili. Secondo i dati della Bbc13, dal 2009 a oggi sono state circa 65 le persone uccise ai margini del parco. Numerose quelle accusate di crimini contro l’ambiente, arrestate o torturate impunemente.

Diritti forestali: sanciti e poi violati

La legge indiana sui diritti forestali delle popolazioni indigene e degli altri abitanti tradizionali della foresta (il Fra, Forest rights act), emanata nel 2006, riconosce la diversità dell’uso, dell’accesso e delle pratiche di conservazione della foresta e della biodiversità da parte delle popolazioni native, e garantisce alle comunità il diritto alla terra ancestrale. Il Fra riconosce l’ingiustizia sociale ed economica inflitta alle popolazioni forestali sin dal periodo coloniale, conferendo ampio potere di gestione del territorio al gram sabha (il consiglio degli anziani), e aprendo nuovi spazi democratici e meccanismi d’inclusione a favore di un nuovo modello di conservazione.

Queste disposizioni legislative che concepiscono la conservazione come basata sulla coesistenza piuttosto che sul conflitto, sono in linea con gli impegni internazionali sottoscritti dall’India firmando la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). Nella Cbd, infatti, si afferma la necessità di «promuovere la piena ed effettiva partecipazione delle comunità indigene e locali, e anche il loro previo e informato consenso e coinvolgimento nella creazione, espansione e gestione delle aree protette».

Le atrocità raccontate sopra allora non violano solo i diritti umani e costituzionali fondamentali, ma anche le stesse disposizioni nazionali e gli impegni internazionali in materia di conservazione ambientale presi dal paese. Lo afferma anche il già citato rapporto delle Nazioni unite sui diritti degli indigeni14 che denuncia: «In India i popoli tribali sono stati sfrattati dalle riserve delle tigri per decenni, spesso senza alcuna forma di riparazione. Ciò continua a verificarsi nonostante il Forest rights act del 2006».

Interessi ambientali o economici?

Nonostante quello che dicono l’Onu e altri osservatori internazionali, il governo indiano continua a essere appoggiato da una rete di organizzazioni protezioniste come il Wwf, la Wcs (Wildlife conservation society), l’Ifaw (International fund for animal welfare), e altre (anche chiamate Business international organizations, Bingo), che difendono un modello di conservazione basato su esclusione e controllo. Sembra non interessare loro che dietro la pretesa governativa della difesa ambientale ci siano anche corposi interessi economici.

Secondo un rapporto del 2015 dell’Istituto indiano per la gestione delle foreste di Bhopal15 che ha stimato i dati economici relativi a 25 servizi ecosistemici offerti al paese da sei riserve delle tigri (quelle di Corbett, Kanha, Kaziranga, Periyar, Ranthambore e Sundarbans), il loro valore economico ammonta a circa 1 miliardo di euro l’anno. Di questo, solo il 9 per cento (90 milioni) va a favore dalla popolazione locale. Il 47 per cento (470 milioni) a favore del paese, mentre ben il 43 per cento (430 milioni) è il valore in qualche modo utilizzato a livello mondiale.

Tra i valori economici stimati, quello che riguarda l’industria del turismo è facilmente quantificabile. Ogni anno i parchi delle tigri, infatti, mentre tengono fuori le popolazioni locali, attirano migliaia di persone dall’India e dal resto del mondo. L’introito derivato dai biglietti per l’ingresso al parco di Corbett ammonta a 1 milione di euro annui.

Un altro elemento di contraddizione delle politiche restrittive per la salvaguardia dell’ambiente è il giro d’affari legale e illegale legato al taglio degli alberi16. Capita che il corpo forestale favorisca gruppi criminali organizzati nel taglio e commercio illegale della legna. Nella riserva delle tigri di Buxa, nello stato del Bengala occidentale, alcuni agenti forestali e alti ufficiali di polizia sono stati colti in flagrante17.

Nel parco di Buxa e di Jaldapara le comunità locali avevano già più volte denunciato il taglio illegale degli alberi ma non avevano ottenuto alcuna risposta dalle autorità, in quanto queste erano direttamente coinvolte. Altri introiti provengono da attività come la pesca, il foraggio, la vendita di miele, frutti e altri prodotti che tradizionalmente vengono utilizzati dalle comunità per la loro sussistenza, ma che sempre di più vengono controllate dai governi locali degli stati indiani.

Per esempio, dal 2017 lo stato del Chattisgarh ha proibito la vendita diretta del mahua, un frutto da cui si ricava un liquore che rappresenta un’importante fonte di sussistenza per la comunità indigena dei Baiga. Questa proibizione ha influenzato negativamente l’economia locale18.

Inoltre è molto importante lo sfruttamento da parte dello stato dei bacini idrici utilizzati anche per la produzione di energia elettrica. Molte sono le dighe presenti all’interno di zone protette, come ad esempio la diga di Kalagarh nella riserva di Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, costruita nel 1974 per contribuire alla distribuzione idrica in tutto lo stato e nella città di New Delhi.

La diga ha lasciato gli abitanti di queste zone quasi a secco.

Inoltre, bisogna menzionare il mercato legato allo scambio di emissioni di gas serra – ossia le quote di emissioni fissate dai rispettivi governi locali alle imprese – che gioca un ruolo fondamentale nell’interesse sulla protezione delle foreste. In India, uno dei meccanismi per ridurre le emissioni inquinanti e riforestare le zone degradate è il Campa, o Compensatory Afforestation Act, un meccanismo di compensazione in base al quale il valore delle imposte versate dai privati è calcolato in rapporto alla perdita forestale in termini di biodiversità e servizi ecosistemici. Questi fondi poi dovrebbero essere utilizzati per riforestare aree degradate, peccato che spesso anche questo meccanismo si basi su giochi di corruzione e interesse. Infatti in molte zone, le aree prese in considerazione per riforestare non sono aree degradate ma aree utilizzate a livello comunitario dalle popolazioni indigene che vengono quindi sgomberate. Come è avvenuto nel caso del parco delle tigri del Tadoba, nel Maharastra, dove a Sitarampeth, in quella che era una zona usata dalla popolazione locale per il pascolo, è stata eretta una staccionata per creare un sito di «riforestazione» con circa 100 alberi in un terreno che ha una superficie di 608 ettari, 6 milioni di metri quadrati.

Un paese in lotta

«Se la comunità internazionale continua a nascondersi dietro false promesse di conservazione, non ci resta altro che lottare, e mostrare che un nuovo modello di conservazione non è solo possibile ma necessario», commenta Neema Pathak dell’organizzazione indiana Kalpavriksh. Numerose sono le realtà, sia in India che in altre parti del mondo, che hanno tramutato la loro lotta in atti fruttuosi, riuscendo a sviluppare dei progetti di conservazione e di gestione comunitaria del territorio.

È necessario riesaminare e rivedere criticamente le pratiche di conservazione e di sviluppo, e utilizzare le disposizioni della legge sui diritti forestali e sulla protezione della biodiversità per costruire dei progetti di convivenza non solo nelle aree protette, ma anche nelle aree limitrofe. Bisogna inoltre fare in modo che le istituzioni internazionali prendano coscienza delle situazioni locali e che si preoccupino di usare maggiori provvedimenti per far rispettare gli accordi internazionali sul rispetto dei diritti umani. Solo allora lo stato indiano, e gli stati tutti, riusciranno a prendere dei provvedimenti per garantire la conservazione della biodiversità in maniera adeguata, garantendo anche diritti e opportunità uguali per tutti.

Eleonora Fanari

Note:

Conservazionisti versus Ambientalisti

Organizzazioni come la World wide fund for nature (Wwf), la Wildlife conservation society (Wcs) e l’International conservations (Ic), sono considerate estremiste da molti attivisti e ambientalisti, a causa delle loro politiche di conservazione, identificate sotto il nome di Fortress conservation. Infatti nonostante il Wwf riconosca apertamente la necessità di integrare le comunità locali nella conservazione dell’ambiente, spesso finanzia operazioni militari come nel citato parco di Kaziranga in Assam.

Questo comportamento è da un lato frutto della cecità di molti conservazionisti nel considerare la protezione ambientale una priorità a qualsiasi costo, anche quello della vita delle persone. Dall’altro queste organizzazioni internazionali risentono di idee coloniali ed eurocentriche e non considerano le popolazioni tribali capaci di governare in maniera appropriata le zone forestali.

L’importanza di includere le comunità indigene nella conservazione ambientale è stata riconosciuta solo recentemente, nel 2007, dalle Nazioni unite.

Questa mentalità coloniale, in un paese come l’India è rappresentata dalle classi dominanti che spesso siedono ai vertici di queste organizzazioni e che ostacolano il riconoscimento di leggi come la Forest Rights Act.

Dall’altro lato, come dimostrato dalle ricerche di Rosaleen Duffy (Rosaleen Duffy, We need to Talk about the militarisation of conservation, 20/07/2012)., sono numerose le organizzazioni transnazionali che finanziano training militari e altre misure anti bracconaggio, attività che risultano lucrative per il settore privato. Inoltre numerosi sono gli articoli che accusano il Wwf di scandali e di partnership con grosse multinazionali. In un articolo di Jonatham Latham (Jonathan Latham, Way Beyond Greenwashing: Have Corporations Captured Big Conservation?, 07/02/2012). si legge che l’organizzazione del panda ha stipulato delle partnership con aziende come la Monsanto, legata agli Ogm, e la Wilmer, una delle più grandi compagnie mondiali di olio di palma, primo responsabile della distruzione forestale del Borneo indonesiano.

Survival International ha inoltre più volte condannato le attività del Wwf, considerato direttamente coinvolto in Africa in attività lucrative come concessioni per la caccia e per il taglio di legname.

Il dibattito tra nuovi e vecchi conservazionisti è oggi grosso oggetto di discussione, e un campo di ricerca ancora in esplorazione.

E.F.

Campa

Il Campa (Compensatory and afforestation fund management and planning authority bill), approvato nel luglio 2016, rappresenta una delle strategie del governo Indiano per ridurre le emissioni inquinanti senza rinunciare all’obiettivo della crescita economica, considerata prioritaria.

Attraverso il meccanismo del Campa il governo ha dichiarato l’investimento di 6,2 miliardi di dollari per le politiche di riforestazione, fondi che provengono dai tributi pagati dai privati negli ultimi 12 anni per impiantare le proprie aziende in zone forestali.

Il Campa, come affermato dal ministro dell’Ambiente, Prakash Javadekar «potrà assicurare la crescita economica senza rinunciare alla salvaguardia degli ecosistemi».

La legge è stata fortemente criticata e considerata come «anti tribale», «anti forestale» e, infine, contraria ai princìpi etici. Le politiche di riforestazione, infatti, consentono l’approvazione dei progetti ancor prima che vengano individuate le stesse aree forestali interessate dai piani di riforestazione. Un sistema che rischia di compromettere abitabilità, diritti ed economie rurali.

Uno studio condotto dal Community forest rights – learning and advocacy ha analizzato un campione di 2.548 piantagioni, approfondendo 63 casi attuali di riforestazione coperti con i fondi del Campa. Esso rivela che nel 60 per cento dei casi i progetti sono consistiti nella installazione di monocolture, per lo più di alberi teak piantati in zone precedentemente utilizzate dalle comunità locali. Inoltre molti piani di riforestazione hanno trasformato zone precedentemente considerate come aree di massima biodiversità in monocolture. Ciò significa che questi fondi non solo vengono utilizzati nella violazione più totale del diritto alla terra delle comunità locali, ma che stanno anche contribuendo alla distruzione degli ecosistemi, là dove erano nati per uno scopo esattamente opposto, ovvero quello di preservare e proteggere l’ambiente.

E.F.

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati:

Largo al turismo

Mentre le comunità locali sono cacciate dalle loro terre perché considerate nemiche dell’ambiente, numerosi resort turistici sorgono dentro e attorno le riserve.

Il 14 febbraio 2017 il villaggio di Tumadhia Katta è assalito dalle guardie forestali che hanno distruggono le case degli abitanti, accusati di invasione illegale in territorio protetto. Il villaggio si trova all’esterno dei limiti del parco naturale di Jim Corbett, ed è abitato da 46 famiglie della comunità indigena dei Van Guajjar, una comunità nomade che da sempre si dedica alla pastorizia.

La riserva delle tigri di Jim Corbett, situata nella prospera foresta occidentale del Tarai, nello stato dell’Uttarakhand, è il più vecchio parco naturale del continente asiatico istituito nell’anno 1936. È la riserva con la maggiore densità di tigri, circa 215, e rappresenta un importante polmone verde e uno dei parchi più preziosi del paese. È distante 200 km dalla caotica capitale New Delhi, e offre un facile accesso per i 200mila turisti che lo visitano ogni anno.

Nel report The value of wildlife tourism for conservation and communities pubblicato nell’ottobre 2017 da TofTigers, si legge che il turismo è un’importante fonte di reddito per le comunità locali, le quali possono giovarsi di tale risorsa come beneficio positivo per il loro sviluppo economico. Purtroppo però, al contrario di quanto sostenuto dallo studio, i Van Gujjar non sembrano godere di una situazione particolarmente favorevole. Spesso, anzi, il loro stile di vita nomade e pastorizio, è considerato ostile per la conservazione e la protezione del territorio e quindi osteggiato.

I Van Gujjar, pastori discriminati

Gli abitanti del villaggio di Tumadhia lottano dal 2013 contro l’ordine di sfratto emanato dal tribunale dell’Uttarakhand, ordine fortemente contestato sia per la sua infondatezza che per il suo carattere discriminatorio.

I Van Gujjar sono una comunità proveniente tradizionalmente dagli altopiani del Jammu e del Kashmir. Secondo la loro mitologia discesero dalle alte cime dell’Himalaya su richiesta del Re, perché gli portassero in dono il loro pregiato latte di bufala, principale prodotto dei pastori Van Gujjar. Nel corso del tempo si insediarono nelle ricche praterie dell’Uttarakhand, preziose per il pascolo del bestiame.

Intorno alla foresta protetta di Corbett vi sono oggi circa 37 insediamenti abitati da una popolazione di 340 famiglie. La maggior parte di esse si trova nel distretto di Nainital, dove sorge il villaggio di Tumadhia Katta.

In balia degli umori delle guardie

Nel nostro viaggio verso il parco naturale di Corbett incontriamo Safi Bhai, 42 anni, membro dell’Aiufwp (All indian union of forest working people), un sindacato nazionale che supporta i diritti delle comunità forestali. Ci accompagna nel villaggio di Tumadhia Katta, dove risiede.

Saphi è il pastore della casa, si sveglia ogni mattina alle 5 per mungere i bufali e inizia la sua giornata con un denso chai (té) lattiginoso. Nella sua dimora, che si trova al centro di un’immensa prateria, ognuno ha un ruolo ben definito. Il figlio di 15 anni raccoglie il fieno per il bestiame, la figlia prepara la colazione e la madre ripulisce l’esterno della casa dalle erbacce.

I Van Gujjar del villaggio di Tumadhia, come molti altri nella zona, sono sempre stati discriminati dalle istituzioni dell’Uttarakhand, stato che non ha mai riconosciuto la comunità nomade come gruppo indigeno.

Considerati estranei nella loro terra, sono maltrattati dal dipartimento forestale che ha sempre esercitato un potere di tipo feudale sulla comunità. Sempre in balia degli umori delle guardie, i Van Gujjar trascorrono la vita pagando imposte e sanzioni ingiustificate al dipartimento che, in cambio di permessi, come quello per il pascolo, richiede tangenti sotto forma di latte, burro, yogurt e altri prodotti.

Proteggere zone eco fragili con espulsioni

Le problematiche nel villaggio sono aumentate dopo la revisione del 2011 delle linee guida per l’istituzione di una zona eco fragile (Esz, eco sensitive zone) intorno all’area protetta: una fascia di 10 km lungo il suo perimetro. Nonostante l’Esz abbia la potenzialità di regolare le attività commerciali e di sviluppo, alcune organizzazioni ambientaliste e sociali la considerano problematica perché non dice niente sulle necessità degli abitanti.

Nel 2015 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste ha iniziato a fare pressione sul processo di istituzione dell’Esz perché venisse accelerato, tanto che il 19 dicembre 2016, la corte suprema dell’Uttarakhand ne ha disposto la creazione. Nella stessa ordinanza, il tribunale ha ordinato anche l’immediata espulsione della comunità dei Van Gujjar dalla zona, poiché considerati «responsabili di incendi e altre attività illecite all’interno e ai margini dell’area protetta».

Ashok Chaudhary, il presidente dell’Aiufwp, ha dichiarato al Times of India che «oltre ad essere un’affermazione infondata, non dobbiamo dimenticare che i diritti dei Van Gujjar sono protetti dal Forest rights act del 2006, che deve essere ancora riconosciuto sia nei fatti che nello spirito».

In seguito al pronunciamento della corte, Saphi Bhai, già nel mirino delle autorità locali per il suo attivismo, nel febbraio 2017 è stato sfrattato con la sua famiglia dalle forze di polizia e dalle guardie forestali. Il loro villaggio è stato assalito con violenza, gli abitanti umiliati e le case distrutte.

La moglie di Saphi Bhai è stata vittima di abusi sessuali, i suoi figli sono stati brutalmente molestati e lui pestato e poi arrestato.

Resort turistici vs nativi

Mentre da un lato le comunità locali soffrono lo stigma di stranieri nella propria terra e sono vittime di violenze, dall’altro investitori e turisti sembrano essere accolti nelle aree protette a braccia aperte. Il parco, infatti, ospita 77 resort sorti per la maggior parte lungo i corsi dei due fiumi principali che attraversano la zona cuscinetto della riserva, il Ramganga e il Kosi. Questi resort, che possono accogliere fino a 3.200 persone, sono tutti privati e, secondo un reportage prodotto nel 2012 dalla testata locale Tehelka, intitolato Corbett: now on sale, gli appezzamenti di terra che si trovano lungo i 17 km che vanno dal fiume Dumunda fino a Marcha sono tutti in vendita. Inoltre quasi tutte le località turistiche sono recintate e il 70 per cento di esse sono state costruite in terre che originariamente erano coltivate dalle comunità locali. Ma chi vende queste terre che dovrebbero essere protette dal dipartimento forestale?

 

Crimine organizzato e forestali corrotti

Nel corso delle nostre ricerche sulle violazioni del Forest rights act intorno all’area protetta di Corbett, incontriamo Nainital P. C. Joshi, un attivista che abita nella città di Ramnagar, ai margini del parco. Secondo Joshi queste terre erano precedentemente di proprietà delle numerose comunità che abitavano in questi territori. «Col tempo la maggior parte dei villaggi sono stati evacuati per la creazione della riserva delle tigri; altri sono stati minacciati dalla mafia edilizia, e la maggior parte dei villaggi oggi presenti nella zona cuscinetto sono quasi disabitati».

Joshi mi racconta che un’organizzazione criminale sta inducendo i contadini, tramite minacce, a vendere le loro terre per un prezzo irrisorio di 125 euro per ettaro. Lo scopo è quello di rivendere in seguito quelle stesse terre a prezzi commerciali per lo sviluppo di attività turistiche.

Le stesse notizie vengono riportate da Tehelka che documenta il coinvolgimento del dipartimento forestale nella vendita privata di terreni teoricamente protetti e nel rilascio di permessi per lo svolgimento di attività lucrative all’interno del parco. Rajiv Bhartari, direttore del parco dal 2005 al 2008, racconta a Tehelka che durante il suo mandato aveva sollevato diverse obiezioni sugli accordi presi dal suo predecessore con alcuni privati, in particolare con il Leisure Hotel che utilizzava parte della riserva delle tigri come sua proprietà privata con libero accesso al fiume e alle strade forestali anche durante la notte. Bhartari, in seguito alle sue denunce, è stato trasferito.

L’ipocrisia del turismo sostenibile

Mentre si vietano attività commerciali alle comunità locali, il turismo, sotto la forma di «eco turismo», viene giustificato come attività sostenibile in grado di migliorare le condizioni di vita delle comunità locali.

Di fatto, però, i grossi interessi legati al turismo così come ad altre attività lucrative all’interno della foresta, non fanno altro che ledere sia i diritti delle comunità indigene dei Van Gujjar, sia quelli della natura stessa.

Molti resort stanno estraendo pietre e sabbia dal letto dei fiumi, incidendo sull’intero equilibrio idrico. Mentre, la pesca nel fiume Ramnagar, autorizzata dal 2004 con il pretesto di generare profitto per le comunità locali, è diventata un’attività eco sostenibile promossa dai vari resort per i loro ospiti appassionati di quello sport.

Tutto questo va a discapito degli animali da proteggere che non sono liberi di accedere a quei luoghi recintati da alti muri. Motociclette, musica ad alto volume e matrimoni sontuosi si svolgono nelle località alla periferia della riserva, in violazione delle disposizioni conservazioniste che sono invece perentorie per quanto riguarda lo sfratto della comunità dei Van Gujjar dalla loro terra.

In definitiva, i Van Gujjar, che vengono considerati invasori delle aree protette e nemici della conservazione ambientale, vivono in case fatte di mattoni di terra cruda, consumano solo cibo vegetariano e conducono una vita semplice senza fuoristrada, macchine, strade asfaltate o altre fonti di inquinamento. Al contrario, i promotori del turismo sostenibile sono stanziati all’interno della zona protetta del parco con numerosi resort di lusso, strade asfaltate e attività che minacciano la zona eco fragile della riserva delle tigri.

Il richiamo sordo della notte

I Van Gujjar, il cui nome significa «Gujjars che vivono all’interno della foresta», non vengono riconosciuti come abitanti nativi di queste zone e, ancor meno, come loro protettori, nonostante la foresta rappresenti il loro rifugio, il loro tempio e il loro dio. «Noi ci prendiamo cura degli alberi e dei nostri bufali, e loro si prendono cura di noi», commenta ad alta voce Safi Bhai. Durante la nostra visita al villaggio di Tumadhia, i suoi abitanti si riuniscono nel patio della casa di Saphi per discutere sulle strategie e i nuovi sviluppi politici da intraprendere. «Siamo stanchi di queste accuse di intrusione nella zona protetta. Vorremmo solo vivere una vita sicura e il governo dovrebbe darci l’opportunità di farlo». Mentre ci appisoliamo su una piccola branda postaci sulla terrazza della casa, respiriamo il silenzio scandito dai dolci mormorii della notte: la brezza smuove le erbacce da togliere al mattino; sentiamo il muggito del bufalo in attesa di esser munto; l’acqua del fiume si rinfresca nella notte per essere riposta nelle ampolle dalle donne. C’è anche il leggero ronfo di Saphi Bhai che riposa i suoi sensi per potersi prendere cura della foresta al sorgere del sole. «Siamo come animali», dicono i Van Gujjars, «noi eseguiamo il richiamo della natura e la natura ci restituisce i suoi frutti». Se il governo indiano rispondesse al grido di queste popolazioni, se ascoltasse i rumori della notte e il richiamo della foresta, forse potrebbe creare delle alternative valide e nuovi modelli di protezione ambientale nel rispetto della natura e della vita dei suoi abitanti.

Ma questo non cambierà, finché verranno salvaguardate le sole tigri per farne un’attrazione turistica.

Eleonora Fanari

Bibliografia

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  2. Ntcs, Rhino Task Force report, maggio 2015.
  3. Indian Institute of Forest Management, Report on economic evaluation of tiger conservation in India, 2015.
  4. A. Kothari, Conservation suicide. Infochange, 2011.
  5. A. Lasgorceix, A. Kothari, Displacement and Relocation of Protected Areas: A Synthesis and Analysis of Case Studies. Economic and Political Weekly, 44 (49), 2009.
  6. E. Fanari, Relocation from protected areas as a violent process in the recent history of biodiversity conservation in India. Ecology, Economy and Society – the Insee Journal, 2 (1): 43–76, January 2019.
  7. C. R. Bijoy, The great Indian Tiger Show, Economic and Political Weekly, January 22, 2011, vol xlvi no 4.
  8. N. Pathak et al, Biodiversity conservation and forest rights act, Economic and Political Weekly, 52 (25), 2017.
  9. Justin Rowlat, Kaziranga: the park that shoots people to protect Rhino, Bbc, 2017.
  10. Amrtya Sen, Community-based natural resource management in the Sundarbans, The Economic and Political Weekly, July 22, 2017 vol liI no 29.
  11. Chacraverti Santanu, The Sundarban Fishers: Coping in an Overly Stressed Mangrove Estuary, International Collective in Support of Fisherworkers, 2014.
  12. Paul J. Ferraro et al., More strictly protected areas are not necessarily more protective: evidence from Bolivia, Costa Rica, Indonesia, and Thailand, Environ. Res. Lett., 8, 025011, 2013.
  13. R. S. Chundawat, The Value of Wildlife Tourism for Conservation and Communities, TofTigers, 2017.
  14. Jay Mazoomdaar, Corbett. Now on Sale, Tehelka, 12/05/2012.
  15. Tapti Meenal, Pathak Neema, No country for pastoralist, The Wire, 14/02/2018.
  16. N. Pathak, E. Fanari, To Protect Human Rights, the government should strategies to coexist first, No to Evict, The Wire, 12/03/2018.
  17. Soumitra Ghosh, Legal and illegal logging behind deforestation in India, World Rainforest Movement, Bulletin 98, 13/09/2005.
  18. Soumitra Ghosh, Compensatory Afforestation: Compensating loss of forest or disguising Forest Offsets?, Economic and Political Weekly, 23/09/2017 vol liI no 38.

 


Questo dossier è stato firmato da:

  • Eleonora Fanari – ricercatrice indipendente, attivista ambientale. Laureata in Lingua e letteratura hindi all’Università orientale di Napoli. Dopo un master in Sociologia alla Jawaharlal Nehru University, New Delhi, ha iniziato a collaborare con varie organizzazioni indiane no profit, in particolare Kalpavriksh, interessandosi principalmente dei problemi legati all’esclusione sociale e al diritto alla terra.
    Negli ultimi anni si è interessata dei conflitti socio ambientali derivanti dalla contraddittorietà di molti processi di sviluppo nel sub continente indiano, con particolare riferimento alla complessità dei cosiddetti forest rights. Ora lavora come ricercatrice presso l’Universita autonoma di Barcellona, Spagna, nel progetto di ricerca dell’EjAtlas/EnvJustice, una piattaforma interattiva che cataloga migliaia di storie di resistenza locale. Per l’EjAtlas continua ad affrontare le tematiche relative alla conservazione ambientale e ai conflitti derivanti da essa.
  • A cura di – Luca Lorusso, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC: Survival International, La loro terra, il nostro futuro, dossier MC agosto-settembre 2017.

 




Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti