L’occidente  e l’enigma cinese

testo di Paolo Moiola |


Quello che fu il «Celeste impero» è un paese continente difficile da decifrare senza qualche solida conoscenza. Per guardare oltre le accuse odierne e gli antichi stereotipi, ci siamo fatti aiutare da due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni. Perché con la Cina – volenti o nolenti – tutti noi dobbiamo fare i conti. Adesso.

Per gli occidentali comprendere e relazionarsi con la Cina è sempre stato complicato. Lo era ai tempi dell’impero. Lo è ancora di più da quando il partito comunista è andato al potere e il paese ha accresciuto in maniera irrestistibile la propria forza economica e la propria influenza internazionale. Le imprese e i capitali cinesi sono ormai radicati in moltissimi paesi dell’Africa e dell’America Latina. Mentre un suo gigantesco progetto infrastrutturale, noto come nuova Via della seta (ufficialmente, Belt & Road Initiative), sta cercando di fare breccia in Europa. Insomma, oggi Pechino lotta per strappare agli Stati Uniti il ruolo di prima potenza mondiale. Di tutto questo abbiamo parlato – separatamente – con due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni, giornalisti e scrittori con una lunga esperienza in Cina.

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Una Cina «perfetta»

«Mi raccomando: non scrivere che sono sinologo perché sarebbe una bugia. Il mio livello di mandarino è basic, il che significa che mi faccio capire e capisco qualcosa, ma purtroppo (almeno per ora) nulla di più».

Michelangelo Cocco vive a Suzhou, nella provincia dello Jiangsu. È direttore esecutivo del Centro studi sulla Cina contemporanea (Cscc) e scrive per Il Messaggero, dopo essere stato corrispondente da Pechino per il Manifesto. Da poco è uscito il suo libro «Una Cina “perfetta”. La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale» (Carocci, 2020).

«Il titolo fa riferimento al tentativo del Partito – in particolare attraverso la rinnovata centralità dell’ideologia e del controllo della popolazione mediante strumenti high tech – di dar vita a una governance “perfetta” del XXI secolo: favorire una gigantesca modernizzazione del sistema economico cinese, promuovere una cultura ambientale, garantire a tutti “una vita migliore”, come ha promesso Xi Jinping. Una governance “perfetta” per un paese continente pieno di problemi e contraddizioni: è questa la sfida epocale lanciata da un Partito che da 70 anni è sempre più la guida dell’economia e della società cinese».

Parlare oggi di «perfezione» è dura, viste le accuse di responsabilità per la diffusione del Sar-CoV-2, il «virus cinese» come lo chiamava l’ex presidente Usa Trump.

«Eventuali responsabilità cinesi – commenta Michelangelo – al momento sono estremamente difficili da accertare, anche perché gli scienziati non hanno ancora chiarito definitivamente dove e in quali circostanze si è sviluppato e trasmesso all’uomo questo nuovo coronavirus. Ciononostante un gruppo di governi (statunitense, britannico, brasiliano), che hanno negato a lungo la gravità della pandemia, l’hanno poi utilizzata a fini politici, per accusare la Cina con la quale – ormai da un paio d’anni – è in corso uno scontro che investe tutti gli ambiti: tecnologico, commerciale, politico, e valoriale. Probabilmente le autorità dello Hubei hanno reagito all’epidemia in ritardo, negandola in un primo momento e censurando i medici che avevano lanciato l’allarme sulle polmoniti misteriose. Ma tutta la polemica che si è scatenata – in un contesto ormai polarizzato Cina versus Occidente – non ha alcun valore scientifico. Si tratta di una battaglia politica che aggrava tensioni preesistenti, che ha pregiudicato quella che sarebbe stata un’utilissima cooperazione sanitaria internazionale e che impedirà qualsiasi indagine indipendente sul Sars-CoV-2».

I tre pilastri del nuovo Impero cinese

Prima dell’arrivo del Covid-19, nell’immaginario collettivo occidentale la Cina non era più quella delle campagne, ma quella moderna, ipertecnologica e simil-occidentale delle sue grandi città. Cioè, provando a sintetizzare, i pilastri del marxismo e del confucianesimo innestati nel cosiddetto «socialismo di mercato». Chiediamo a Michelangelo Cocco se questa sia un’interpretazione corretta.

«Diciamo che il “socialismo di mercato” – affermatosi “definitivamente” dopo la repressione di piazza Tiananmen (era il 1989) e dopo il viaggio al Sud di Deng Xiaoping del 1992 – ha introdotto, in un paese ufficialmente socialista, dosi sempre più massicce di capitalismo. Tuttavia, a un certo punto – approssimativamente durante il decennio 2003-2013 (con Hu Jintao presidente e Wen Jiabao primo ministro) -, il Partito ha capito che, alle riforme di mercato e al deficit ideologico, andava posto un limite, altrimenti il sistema sarebbe crollato per le tensioni create dalle disuguaglianze crescenti e dal distacco tra il Partito e la società. Xi Jinping ha assunto il compito – in maniera esplicita a partire dal XIX Congresso del 2017 – di riprendere il controllo sull’economia e sul popolo. Il pendolo Stato-mercato con Xi ha oscillato decisamente più dalla parte del primo, anche se il mercato resta un elemento imprescindibile dell’economia cinese. Attraverso un potente mix ideologico fatto di marxismo, confucianesimo e nazionalismo, la leadership ha riaffermato la propria autorità sul Partito, ricompattandolo, e sta provando a ridare un certo inquadramento ideologico-patriottico a una società che, fino a poco tempo fa, era attratta soprattutto dalle opportunità di avanzamento sociale (che, peraltro, oggi si stanno restringendo)».

il presidente cinese Xi Jinping con António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Foto: Yun Zhao / UN Photo.

Non soltanto Hong Kong

La cronaca delle recenti rivolte nell’ex colonia britannica di Hong Kong ha riportato alla luce anche i conflitti nella regione autonoma del Tibet e nel Xinjiang a maggioranza islamica. «Anche se si tratta in tutti e tre i casi di periferie ribelli all’interno del nuovo Impero cinese, sono tre situazioni molto diverse – spiega Michelangelo -. Il Tibet e il Xinjiang esprimono un nazionalismo debolissimo e, di fatto, non hanno rappresentanti riconosciuti, né all’interno della Cina né all’estero. In questa situazione, ritengo che il Partito potrà portare avanti – a ritmo accelerato, approfittando dell’attuale vantaggio – le sue politiche di assimilazione culturale e di controllo del territorio di queste due immense regioni frontaliere, povere e scarsamente popolate ma che, assieme, rappresentano un terzo del territorio del paese.

Diverso è invece il discorso per Hong Kong, una regione amministrativa speciale piccola, ricca e densamente popolata. Qui la società è fortemente polarizzata: una parte sta con Pechino, l’altra contro. I contestatori dell’ordine costituito sono spesso giovanissimi e di ceto medio alto, hanno i loro partiti e movimenti politici, comunicano col resto del mondo e sono riusciti ad attirare la simpatia e l’appoggio delle democrazie liberali per la loro causa. Nonostante la recente approvazione della Legge sulla sicurezza nazionale, le tensioni con questa parte importante della società dell’ex colonia britannica potrebbero rappresentare una “nuova normalità” in una Hong Kong profondamente divisa e destinata a diventare meno rilevante da un punto di vista economico per la Repubblica popolare, “sostituita” da Shanghai o dalla confinante Shenzhen».

Il volto espressivo di una donna tibetana. Foto: Smokefish – Pixabay.

«La nuova Silicon Valley è cinese»

A Pechino è rimasto per quasi 10 anni. Nella capitale cinese – era il 2008 – è stato cofondatore di China Files, agenzia editoriale che riunisce giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. «Quando non lavoravo come giornalista, mi divertivo a fare l’allenatore dei bambini in una scuola di calcio locale», ricorda con una punta di nostalgia. Rientrato in Italia per motivi personali, oggi Simone Pieranni è caporedattore al Manifesto e da poco ha pubblicato «Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina» (Laterza, 2020). Lo disturbiamo mentre è alle prese con i suoi due gemelli di quindici mesi.

Da Huawei a Tiktok: tecnologia e controllo

«Red mirror», il suo terzo lavoro dedicato alla Cina (d’imminente uscita anche in Francia e in America Latina), inizia descrivendo una giornata a Pechino usando il cellulare e WeChat (Weixin, in mandarino), un’applicazione della multinazionale cinese Tencent.

«Sono arrivato in Cina nel 2006 – racconta Simone – e in pochi anni mi sono ritrovato a fare tutto con il cellulare. Il libro nasce dall’esperienza di quanto è accaduto in quel paese a livello tecnologico».

Già, la tecnologia cinese. È contro di essa che si sono scagliati Donald Trump (la vicenda del social TikTok è emblematica) e, a ruota, il premier inglese Boris Johnson. Stati Uniti e Gran Bretagna spingono gli alleati a respingere l’avanzata tecnologica cinese e in particolare quella del gigante Huawei. Anche se – almeno finora – i maggiori scandali legati allo spionaggio digitale sono nati proprio nei paesi accusatori, con la National Security Agency statunitense (scandalo Datagate del 2013) e la britannica Cambridge Analytica (scandalo del 2018).

«Il pericolo dietro Huawei – conferma il nostro interlocutore – è identico a quello delle grandi aziende americane o occidentali. Qualunque sia l’impresa che gestisce i dati, c’è sempre il rischio di un utilizzo fuorilegge delle informazioni raccolte. Sulla Cina – questo è vero – si innescano però altre dinamiche che rendono tutto ancora più complicato. Inutile nascondersi dietro a un dito, la scelta è e sarà politica».

«Socialismo di mercato»

La strada dei barbieri a Kashgar, capitale dello Xinjiang, stato a maggioranza islamica. Foto: F. Charton / UN Photo.

Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del «socialismo di mercato».

«Un apparente ossimoro – spiega Pieranni -, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro».

Secondo Pieranni, l’economia spiega anche perché le situazioni di crisi interne al paese – Tibet, Hong Kong e Xinjiang – rimangono circoscritte e senza conseguenze pesanti per Pechino.

«Il Tibet è praticamente dimenticato. Hong Kong, dopo la legge sulla sicurezza nazionale (che di fatto riporta la città dentro all’ordinamento cinese) e qualche protesta, è ormai un elemento acquisto. La regione dello Xinjiang invece mette a nudo la nuova Cina, iper tecnologica e iper controllante. Tuttavia, è una situazione che si protrae da anni e che è riemersa di recente soltanto perché utilizzata da Trump in chiave elettorale. Purtroppo, nessuno ha veramente interesse a chiedere spiegazioni alla Cina, dato che sono ancora troppi i vincoli economici che legano il paese asiatico al mondo occidentale».

Pechino e la Chiesa di Roma

Abbiamo visto che dipanare l’enigma cinese non è facile e, in questo senso, i mezzi di comunicazione non aiutano.

Chiediamo a Simone se, secondo la sua prospettiva privilegiata, i media italiani e occidentali in generale parlino in maniera corretta e veritiera della Cina o prevalgano invece maschere ideologiche e preconcetti.

«Difficile – spiega – fare un ragionamento generale, perché esistono eccezioni. Però possiamo dire che i media mainstream hanno un atteggiamento, se non pregiudiziale, piuttosto superficiale sulla Cina, creando nello spettatore e nel lettore la necessità di vedere tutto o bianco o nero. Sono i media che creano le tifoserie. Purtroppo, sulla Cina accade così da tempo».

Tifosi. Proprio come avviene per la Chiesa di papa Francesco: o sei con lui o contro di lui. A metà ottobre, gli Usa dell’ex presidente Trump e del suo segretario di stato Mike Pompeo avevano cercato d’interferire in maniera pesante sulle relazioni tra il Vaticano e la Cina che stavano lavorando per rinnovare l’accordo provvisorio del 22 ottobre 2018 sul processo di nomina dei vescovi.

Sul Corriere della Sera del 2 ottobre, Ernesto Galli della Loggia aveva parlato di «una patetica resa di fatto, e quindi in un gigantesco regalo, ai governanti cinesi» da parte di un «papa terzomondista». Vaticano e Cina non hanno badato alle critiche e, alla scadenza, hanno rinnovato l’accordo.

«Mi si perdoni l’iperbole – chiosa Pieranni -, ma io penso che sia il rapporto tra due organismi politici molto simili. Si tratta di due istituzioni che ragionano con tempi molto più lunghi di qualsiasi governo al mondo, hanno gli stessi modi, talvolta, di gestire questioni interne e sono molto abituati a “segreti”. Credo sia realpolitik: la Chiesa sa che in Cina la crisi dei valori favorisce l’evangelizzazione; la Cina sa che un accordo con la Chiesa la mette al riparo da certe critiche occidentali».

Paolo Moiola

Repubblica popolare cinese

  • Superficie:
    9,5 milioni di chilometri quadrati (quarto paese più vasto al mondo dopo Russia, Canada e Stati Uniti).
  • Popolazione:
    1,4 miliardi di persone (primo paese al mondo).
  • Sistema politico:
    Repubblica popolare a partito unico
    (Partito comunista cinese).
  • Economia:
    socialismo di mercato; 2° Prodotto interno lordo (Pil) al mondo dopo quello degli Stati Uniti.
  • Etnia principale:
    Han (92 per cento) e altre 55 etnie ufficiali.
  • Lingua ufficiale: mandarino.
  • Religioni:
    ateismo (ufficiale); taoismo, buddhismo, islam, cristianesimo (tra il 3 e il 5 per cento).
  • Criticità interne: Tibet, Xinjiang, Hong Kong.
  • Info in italiano: www.cscc.it; www.china-files.com.
  • Pa.Mo.

Dall’Impero alla Cina comunista

  • Immagine storica di Mao Zedong, il «grande Timoniere». Foto: Anefo.

    1912 – Dopo 2mila anni, cade l’Impero cinese.

  • 1927-1949 – Guerra civile cinese.
  • 1949 (ottobre) – Dopo la sconfitta dei nazionalisti, Mao Zedong fonda la Repubblica popolare cinese.
  • 1949 (dicembre) – I nazionalisti, sconfitti dai comunisti di Mao, si ritirano sull’isola di Taiwan, da allora «provincia ribelle» secondo Pechino.
  • 1950 – L’esercito di Mao occupa il Tibet.
  • 1989 (aprile-giugno) – Rivolta e repressione di piazza Tiananmen.
  • 1997 (luglio) – Hong Kong passa dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese.
  • 2013 (marzo) – Inizia la presidenza di Xi Jinping.
  • 2019 (marzo) – L’Italia firma un Memorandum d’intesa con la Cina sulla «Belt and road initiative» (Bri), popolarmente nota come «nuova Via della Seta».
  • 2019 (novembre) – Primi casi di Covid-19 nella provincia di Hubei (Wuhan).
  • 2020 (20 settembre) – L’amministrazione Trump vieta in Usa le applicazioni cinesi TikTok e WeChat.
  • 2020 (22 ottobre) – Viene rinnovato l’accordo (provvisorio e segreto) tra Vaticano e Cina sulla nomina dei vescovi.

Pa.Mo.

La copertina del libro «Red Mirror» di Simone Pieranni.

La copertina del libro «Una Cina “perfetta”» di Michelangelo Cocco.

 




Il nostro cervello e il frigo intelligente

testo di Rosanna Novara Topino |


Siamo circondati e spesso sommersi da onde elettromagnetiche. Quasi sempre nell’indifferenza, anche per mancanza d’informazioni comprensibili e affidabili. Adesso arriva la tecnologia detta del 5G e l’«internet delle cose». Quali sono le conseguenze per l’ambiente e la salute? Siamo certi che questo futuro così pubblicizzato sia una rivoluzione positiva?

Salgo su un’auto che si guida da sola, per portarmi al lavoro in un’azienda 4.0 (nel mio reparto siamo solo quattro umani, tutti gli altri sono robot) e intanto mi arriva sullo smartphone un messaggio dal mio frigorifero intelligente, che mi comunica un suo certo vuoto interiore, a cui posso porre immediato rimedio ricorrendo all’app del mio ipermercato. Con essa posso scegliere i miei prodotti preferiti e concordare l’orario per l’arrivo del drone, che me li porterà direttamente sul terrazzo di casa. Sembra fantascienza, ma invece l’«internet delle cose» è già realtà, magari a livello di prototipo, come nel caso delle auto a guida da remoto.

La tecnologia 5G

L’espansione della tecnologia wireless (senza fili) 5G (5th Generation) per le telecomunicazioni – che consente l’«internet delle cose» – è attualmente in fase sperimentale in alcune smart city italiane come Milano, l’Aquila, Matera, Prato, Bari e Torino – quest’ultima è la prima città d’Italia con la rete live 5G Edge («Edge computing» è un sistema di elaborazione delle informazioni ai margini della rete servita, che riduce i tempi di latenza dei dati, permette risposte in tempo reale e risparmio di banda) con droni connessi, utilizzabili per il monitoraggio ambientale e la sicurezza dei cittadini. Questa tecnologia migliorerà enormemente anche la telemedicina. Peccato che quest’ultima potrebbe ritrovarsi a curare proprio le patologie eventualmente indotte dalle radiofrequenze su cui è basata la tecnologia 5G. Già, perché la sua sperimentazione è partita nelle suddette città e in un centinaio di comuni italiani minori verrà effettuata nei prossimi due anni, senza minimamente mettere in conto i possibili rischi per la salute umana e animale e per l’ambiente, non essendo stati coinvolti né il ministero della Salute, né quello dell’Ambiente. Ma che tecnologia è il 5G e a quali rischi possiamo andare incontro con la sua diffusione?

Le radiazioni e le frequenze

La tecnologia 5G, come le tecnologie wireless di grado inferiore, che l’hanno preceduta e che tuttora usiamo, impiega onde elettromagnetiche, in particolare onde radio, cioè onde non ionizzanti di frequenza di gran lunga superiore a quella delle tecnologie precedenti ed è caratterizzata da lunghezze d’onda millimetriche. In particolare le bande di frequenza utilizzate per il 5G sono inizialmente comprese in tre fasce da 700 MHz,  3,4-3,8 GHz, 26 GHz (in fisica l’Hz è l’unità di misura della frequenza; 1 Hz = un impulso al secondo; 1 MHz = 1.000.000 Hz e 1 GHz = 1 miliardo Hz) e successivamente verranno utilizzate bande comprese tra 24-25 e 86 GHz (secondo l’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Considerando le tecnologie 2G, 3G, 4G attualmente in uso (che non verranno sostituite, ma affiancate dal 5G), le loro frequenze vanno complessivamente da 800 a 2600 MHz.

Il fatto che per il 5G le radiofrequenze abbiano una lunghezza d’onda millimetrica implica che sono necessarie migliaia di stazioni radio base e un numero molto elevato di mini-antenne sul territorio, che permetteranno il collegamento tra loro di circa un milione di oggetti per chilometro quadrato, con una iperconnessione permanente e ubiquitaria e una velocità di trasferimento dati da 100 a 1.000 volte superiore, rispetto all’attuale. Per implementare l’iperconnessione, le società di telecomunicazioni (supportate dai governi) non si limiteranno all’uso di stazioni radio terrestri, ma nelle previsioni arriveranno ad utilizzare circa 20mila satelliti posizionati nella magnetosfera. L’obiettivo è quello di arrivare ad un cambiamento tecnologico su scala globale per avere case, imprese, autostrade, città di tipo «smart», cioè «intelligenti» e auto a guida autonoma. In Italia è prevista una copertura del 5G del 99,4% del territorio entro giugno 2023.

Studi e rapporti: a chi credere?

Cosa comporta tutto questo per la salute e per l’ambiente?

La risposta a questa domanda vede schierati su fronti opposti i sostenitori di questa tecnologia: da un lato solitamente fisici, informatici, ingegneri, matematici spesso legati alle società di telecomunicazione, e dall’altro medici e biologi che portano i risultati di almeno 10mila studi peer review (la procedura di selezione di articoli e progetti operata dalla comunità scientifica, ndr) i quali dimostrano effetti biologici avversi a seguito dell’esposizione a campi elettromagnetici (Cem).

La prima contestazione dei sanitari riguarda il limite, secondo loro troppo elevato, della potenza massima di trasmissione attestato in Italia sui 6 V/m (6 volt/metro misurati in una media di 6 minuti), limite stabilito dall’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), un organismo non governativo, basato in Germania e riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si occupa di ricercare i possibili effetti nocivi sul corpo umano dell’esposizione a radiazioni non ionizzanti. Questo organismo ha elaborato linee guida, cioè delle raccomandazioni ai governi nazionali per l’adozione di limiti di esposizione per la protezione delle persone (pubblico e lavoratori). Sulla base di tali linee guida, nel 1999 l’Unione europea ha emanato una raccomandazione, affinché gli stati membri adottassero una normativa comune per la protezione del pubblico basata sui dettami dell’Icnirp e nel 2004 è seguita una direttiva per la protezione dei lavoratori. I medici contestano i valori limite dettati dall’Icnirp, perché ottenuti studiando gli effetti dei Cem su manichini riempiti di gel, i phantom, come modelli umani, senza considerare che tali modelli non possiedono le stesse proprietà dielettriche del corpo umano. Essi inoltre affermano che sono stati presi in considerazione unicamente gli effetti termici delle radiofrequenze, ma non quelli biologici, le cui conseguenze sono state dimostrate dagli studi sunnominati, che sono in parte epidemiologici ed in parte sperimentali.

Secondo il rapporto indipendente sui campi elettromagnetici e diffusione del 5G dell’Isde (International society of doctors for environment, l’Associazione dei medici per l’ambiente) pubblicato il 10 settembre 2019, la maggior parte degli studi che rassicurano sul rischio per la salute da esposizione a radiofrequenze, tra cui il progetto Interphone, sul quale si basano le posizioni dell’Oms, hanno ricevuto finanziamenti da soggetti privati, tra i quali i gestori della telefonia mobile. Per quanto riguarda l’Icnirp, la quale afferma che sotto i limiti da essa fissati per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti non vi sono rischi per la salute umana, in un’inchiesta pubblicata il 16 gennaio 2019 da il Fatto Quotidiano si legge che diversi membri di questa commissione collaborano a vario titolo con le società di telecomunicazione e da quel settore ricevono compensi.

Le patologie indotte

Nel 2015 scienziati di 41 paesi hanno informato le Nazioni Unite e l’Oms che molti studi scientifici dimostrano che i campi elettromagnetici colpiscono gli organismi viventi a livelli anche molto più bassi rispetto a quelli indicati come sicuri dalla maggior parte delle linee guida internazionali e nazionali (già da 0,6 V/m). Oltre agli effetti termici da esposizione acuta, i Cem determinano effetti biologici da esposizione cronica. Tra i principali effetti biologici, indipendenti da quelli termici, ci sono i danni alla barriera ematoencefalica, con un aumento del rischio di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, l’infertilità soprattutto maschile (lesioni strutturali e funzionali del testicolo, alterazione dei parametri dello sperma e della sua concentrazione nell’epididimo), disturbi neuro-comportamentali, danni alle cellule neuronali, danni al feto e alterazioni del neuro-sviluppo, aumento dello stress ossidativo, danni al Dna, disturbi metabolici e del sistema endocrino, alterazioni del ritmo cardiaco. In particolare l’aumento dello stress ossidativo e i danni al Dna si traducono in un aumentato rischio di tumori. A seguito di esposizione prolungata a radiofrequenze è stato osservato l’aumento dei gliomi cerebrali soprattutto ipsilaterali, dei neurinomi acustici, dei linfomi, dei tumori del pancreas, del cuore e delle ghiandole surrenali.

Nel 2011, la Iarc (International agency for research on cancer) inserì le radiofrequenze in classe 2B (possibile cancerogeno), ma, alla luce delle nuove evidenze scientifiche di numerosi studi, tra cui quelli compiuti su modelli animali da due autorevoli e indipendenti gruppi di ricerca, l’Istituto Ramazzini in Italia e il National toxicology program negli Stati Uniti, essa ha deciso di rivedere la classificazione delle radiofrequenze, che potrebbero passare in classe 2A (probabile cancerogeno) o addirittura in classe 1A (cancerogeno certo).

Accade nelle nostre scuole

Diversi studi hanno evidenziato una particolare vulnerabilità alle radiofrequenze nei bambini e nelle donne in gravidanza. In particolare uno studio svedese di Hardell et al., 2013, ha dimostrato che l’uso del cellulare prima dei 20 anni porta a un rischio di glioma ipsilaterale quattro volte superiore, rispetto ai controlli. Questo dato è particolarmente importante, se si pensa che ormai bambini e adolescenti sono costantemente immersi nei campi elettromagnetici, che tutti insieme vanno a costituire l’elettrosmog. Non solo i bambini e ragazzi ormai dispongono quasi tutti di un cellulare, pc o tablet, ma passano parecchie ore delle loro giornate in scuole sempre più connesse, per le quali il cosiddetto «Bando Wi-Fi» del luglio 2015 ha stanziato un finanziamento di circa 90 milioni di euro per la realizzazione o il miglioramento delle reti wi-fi all’interno delle scuole del I e II ciclo d’istruzione. Purtroppo, nei bambini e nei ragazzi, la capacità di assorbimento delle radiofrequenze è superiore rispetto agli adulti a causa del maggiore contenuto di acqua dei loro tessuti e del minore spessore delle ossa craniche. Questo espone i ragazzi ad un maggiore rischio di contrarre patologie importanti come il cancro.

Del resto, si può immaginare il livello di esposizione in una classe dove siano contemporaneamente presenti 25-30 cellulari (liberalizzati dalla ex ministra all’Istruzione Fedeli, che ha sostenuto il Byod, Bring your own device, «Porta il tuo dispositivo», nell’ambito del progetto Buona scuola), alcuni pc o tablet, la lavagna elettronica (detta Lim) e la connessione wi-fi della scuola.

Nel 2017 l’Isde italiana (il suo sito: www.isde.it) ha chiesto una moratoria al governo, per interrompere la sperimentazione del 5G in atto, finché non si sappia qualcosa di più circa la sua pericolosità o innocuità. Tutti i dati scientifici a disposizione si riferiscono a frequenze di gran lunga inferiori a quelle utilizzate dal 5G e di fatto ci ritroviamo a fare da cavie umane in questa sperimentazione. Sarebbe perciò doveroso applicare il principio di precauzione ed evitare di esporre la popolazione a inutili rischi, in assenza di studi mirati.

Nell’agosto 2019 l’Istituto superiore di Sanità ha emesso il rapporto Istisan 19/11, nel quale gli autori, dopo avere escluso dalla loro analisi importanti studi sia epidemiologici, che sperimentali in modo del tutto arbitrario, con motivazioni errate come la mancanza di significatività statistica o pretestuose come la non ancora avvenuta pubblicazione su riviste peer review, sono giunti a conclusioni rassicuranti sugli effetti delle radiofrequenze e sull’utilizzo dei cellulari. Addirittura essi sostengono che, alla luce dei dati attuali, l’uso comune del cellulare non sia associato all’aumento del rischio di alcun tumore cerebrale, mantenendo un certo grado d’incertezza per un uso molto intenso soprattutto dei vecchi modelli di cellulare con maggiori potenze di emissione rispetto a quelli di ultima generazione. Anch’essi inoltre affermano di non potere fare previsioni sull’impatto del 5G sulla salute. Poiché il rapporto Istisan è stato stilato a seguito di un esame incompleto della letteratura scientifica, senza la valutazione delle più recenti evidenze sperimentali, per cui esso tiene in conto solo gli effetti termici delle radiofrequenze e non quelli biologici (in linea con l’Icnirp), l’Isde italiana ha chiesto il ritiro di questo documento all’Istituto superiore di Sanità ed una sua rielaborazione più ampia.

Ne vale la pena?

Il 2 ottobre 2019 è terminata l’asta per l’assegnazione delle frequenze 5G. Le offerte per le bande messe a disposizione hanno superato i 6,5 miliardi di euro, superando la cifra minima stabilita dalla legge di bilancio. Il 5G inizialmente funzionerà con elementi emittenti nella fascia 3,5-3,6 GHz e antenne phase array, cioè a «schiera in fase». Sarà necessaria l’installazione nelle aree urbane di moltissimi micro-ripetitori, con conseguente aumento della densità espositiva, poiché i molti palazzi e piante rappresentano un ostacolo alla trasmissione lineare (in teoria le piante non dovrebbero superare i 4 m di altezza, quindi potranno verificarsi generose potature, se non addirittura eliminazioni). Quando la tecnologia 5G sarà potenziata, ogni operatore dovrà installare stazioni base ogni 100 m in ogni area urbana del mondo e ricorrerà anche a satelliti in orbita, che emetteranno onde millimetriche a fasci focalizzati e orientabili, con una potenza effettiva irradiata di 5 milioni di watt. Secondo i meteorologi, tutto ciò potrebbe interferire pesantemente sulle previsioni dei gravi eventi atmosferici, con grande rischio per le popolazioni delle aree interessate.

Siamo sicuri che valga la pena di correre tutti questi rischi per avere case, auto, industrie, oggetti «intelligenti», che probabilmente renderanno noi sempre più stupidi? Ma soprattutto, tutto questo ci rende felici o schiavi della tecnologia imperante e di chi la controlla?

Rosanna Novara Topino




Stati Uniti versus Cina: la lotta per la supremazia


Testo di Francesco Gesualdi


Trump accusa la Cina di pratiche commerciali sleali. Per questo ha adottato dazi sui prodotti cinesi, innescando una guerra commerciale che ha conseguenze mondiali. Quella tra Stati Uniti e Cina è una lotta tra giganti, a cui nulla importa delle persone e del Creato. Nel frattempo, l’Italia…

Uno degli elementi di complicazione del capitalismo è che le imprese non sono un corpo omogeneo. Unite dal medesimo obiettivo di fare profitto, si dividono in mille rivoli quando veniamo alle strategie. Grandi contro piccole, finanziarie contro produttive, locali contro globali, sono solo alcune delle contrapposizioni in campo. Ogni gruppo tenta di far prevalere il proprio interesse e, a seconda di quale si impone, il capitalismo cambia forma. Senza mai arrivare a un assetto definitivo perché la lotta è continua. Talvolta il cambiamento è così repentino che non facciamo in tempo a capire cosa è successo che già è in corso un nuovo mutamento. E, a rendere le cose ancora più complicate, ci sono i calcoli della politica che oltre a voler soddisfare le esigenze dei potentati economici hanno interesse a sopire le frustrazioni popolari per garantirsi un largo consenso. Ed ecco il riemergere di nazionalismi e posizioni di indiscussa fede mercantilista che, attribuendo la responsabilità di tutti i mali agli stranieri, pretendono di risolvere i problemi nazionali semplicemente spuntando rapporti più favorevoli nei confronti del resto del mondo. Magari cominciando a erigere muri contro chiunque pretenda di entrare in casa sua senza essere stato espressamente invitato.

I rappresentanti di questo nuovo corso sono Le Pen, Salvini, Orban, ma soprattutto Donald Trump che è stato anche il più audace in campo economico.

Produzione e posti di lavoro

Il paese contro il quale il presidente americano si è scagliato di più è stato la Cina accusandolo di avere fatto perdere agli Stati Uniti oltre tre milioni di posti di lavoro. In effetti, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono passate da 2 miliardi di dollari nel 1979 a 636 miliardi nel 2017. E se, nel 2000, gli Stati Uniti registravano un deficit commerciale verso la Cina (differenza fra importazioni ed esportazioni) pari a 84 miliardi di dollari, nel 2017 lo troviamo a 375 miliardi di dollari.

Ciò che Trump ha sempre omesso di dire è che gran parte della crescita delle esportazioni cinesi è pilotato dalle stesse imprese statunitensi che hanno eletto la Cina a principale paese in cui spostare la produzione. Valga come esempio la Nike che, in Cina, dispone di 116 terzisti su un totale di 527 imprese appaltate a livello mondiale. Oppure Apple, che in Cina annovera 380 terzisti sul migliaio che registra a livello planetario.

Sia come sia, già in campagna elettorale Trump aveva promesso battaglia alla Cina con un’accusa durissima lanciata in un comizio del 2 maggio 2016: «Non possiamo continuare a permettere alla Cina di saccheggiare la nostra nazione, perché questo è ciò che sta facendo. Stiamo assistendo alla più grande rapina della storia mondiale». E una volta vinte le elezioni, appellandosi alla Sezione 301, la legge Usa che consente agli Stati Uniti di porre limitazioni alle importazioni provenienti dai paesi che adottano pratiche sleali, Trump ha decretato aumenti doganali sui prodotti provenienti dalla Cina.

Al primo provvedimento, adottato nell’aprile 2018, ne sono seguiti altri, per cui si è messa in moto un’escalation della quale al momento è difficile prevedere gli esiti, perché ad ogni iniziativa statunitense la Cina reagisce con contromosse uguali e contrarie. Al di là di questa contrapposizione, è importante sottolineare che la questione commerciale è usata come pretesto per mettere i puntini sulle «i» su una serie di altre questioni, anch’esse di importanza strategica per le imprese statunitensi.

Le accuse e i dazi punitivi

Tre le questioni di fondo: la proprietà intellettuale, gli aiuti pubblici, l’accesso al mercato cinese.

La proprietà intellettuale è un tema che sta molto a cuore alle imprese americane basate sull’innovazione. In particolare quelle delle telecomunicazioni, dell’elettronica, della chimica, della farmaceutica, dei macchinari. La loro espansione si basa sulla capacità di elaborare prodotti nuovi, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, per cui è di vitale importanza che nessuno possa utilizzare le loro scoperte o le loro invenzioni senza licenza, che poi significa autorizzazione a pagamento. Per capire quanto sia potente la lobby dell’innovazione tecnologica, basti dire che uno dei 15 trattati istitutivi dell’Organizzazione mondiale del commercio è dedicato proprio alla proprietà intellettuale con lo scopo di definire i principi a cui ogni stato deve uniformarsi quando legifera in materia. Naturalmente la regola d’oro è che nessuna impresa può usare l’invenzione messa a punto da un’altra impresa senza contratto di licenza. E i risultati si vedono: la proprietà intellettuale smuove ogni anno svariate centinaia di miliardi di dollari a livello mondiale, con gli Stati Uniti in cima alla lista dei beneficiari. Nel 2017, le licenze sui brevetti hanno generato a favore delle imprese statunitensi incassi per 128 miliardi di dollari, di cui  8,8 miliardi da imprese cinesi. Il governo statunitense, tuttavia, ritiene che la cifra copra solo una piccola parte dei benefici realmente goduti dalle imprese cinesi, perché gran parte delle innovazioni sarebbero copiate in maniera abusiva procurando alle imprese americane un danno per 50 miliardi di dollari. Di qui i dazi punitivi contro la Cina.

La seconda accusa rivolta alla Cina è che sostiene in maniera eccessiva con aiuti statali le proprie imprese. La prova sarebbe contenuta nel documento di programmazione economica adottato dal governo cinese nel 2015, noto come Made in China 2025. Il piano, che si pone l’obiettivo di trasformare la Cina in un leader mondiale in alcuni settori chiave come i semiconduttori, la robotica, l’intelligenza artificiale, l’energia rinnovabile, l’auto elettrica, il materiale biomedico, prevede di farlo attraverso una serie di misure che le autorità americane bollano come concorrenza sleale. Non solo perché le imprese cinesi possono godere di sovvenzioni pubbliche nell’ambito della ricerca, ma anche perché sarebbero previste delle procedure di acquisto che privilegiano le imprese nazionali a detrimento di quelle estere.

La terza accusa, infine, è che la Cina continua ad imporre troppi limiti e vincoli alle imprese estere che vogliono entrare nel capitale delle imprese cinesi. Uno degli obblighi più odiosi, a detta delle autorità americane, è quello di dover condividere i segreti industriali. Dunque, la questione tecnologica torna e ritorna, facendoci capire che è il vero nodo attorno al quale ruota l’intero contenzioso fra Cina e Stati Uniti, come del resto è confermato anche dal caso Huawei.

Il caso Huawei

Fra le più grandi multinazionali del mondo attive nel campo delle telecomunicazioni, delle reti e dei dispositivi informatici, c’è la Huawei, un’impresa cinese a proprietà collettiva, addirittura posseduta dai lavoratori stessi. Ma il condizionale è d’obbligo visto la cortina di segretezza che avvolge la Cina. Nata come impresa privata nel 1987, Huawei ha avuto uno sviluppo rapidissimo, con filiali sparse in tutti i continenti. Si narra, ad esempio, che sia di Huawei la tecnologia usata nei 16 mila uffici postali distribuiti in Italia. Uno degli ambiti in cui Huawei sta avanzando di più è quello del 5G anche detto «internet delle cose», la tecnologia dell’avvenire che permetterà di controllare a distanza elettrodomestici e macchinari nelle nostre case, uffici, stabilimenti.

Huawei è nel mirino del governo americano già dal 2012, con l’accusa di spionaggio e pirateria industriale. Ma recentemente è stata anche accusata di mantenere relazioni economiche con l’Iran contravvenendo alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Per questo il 1° dicembre 2018, Meng Wanzhou, alto dirigente di Huawei, è stata arrestata mentre era di passaggio in Canada e successivamente estradata negli Usa, dove dovrà rispondere di 13 capi d’accusa che vanno dallo spionaggio alla truffa finanziaria. Non contento, Trump ha anche chiesto ai paesi occidentali in rapporti commerciali con Huawei di sospendere qualsiasi relazione economica con questa impresa.

Dunque i rapporti fra Cina e Usa sono al calor bianco e non per qualche manciata di miliardi di import export, ma per il dominio dell’economia mondiale che si gioca su due piani: la supremazia tecnologica e la capacità di dominare le rotte commerciali.

L’Italia sulla «Via della seta»

Il tema delle rotte commerciali ci porta al progetto cinese inizialmente chiamato «Via della seta» e poi ribattezzato Road and Belt Initiative (in sigla Rbi) che potremmo tradurre come «Progetto di cintura stradale». Un progetto faraonico che ha il duplice scopo di rafforzare la rete stradale che collega la Cina all’Europa e quindi all’Asia Occidentale e di rafforzare le infrastrutture marittime dei paesi asiatici, africani ed europei. Il tutto per permettere alla Cina di espandere i suoi rapporti commerciali (come nella mappa sotto lo sguardo del presidente Xi Jinping).

Il costo totale del progetto, spalmato in più anni, è stimato in 8.000 miliardi di dollari e sarà sostenuto in parte dai governi che aderiscono all’iniziativa, in parte dal governo cinese. Più in particolare il governo cinese partecipa sia con investimenti diretti che con prestiti. Al 2017 si stima che il governo cinese abbia investito nel progetto 350 miliardi di dollari di cui 70 sotto forma di investimenti diretti e 280 sotto forma di prestiti. Su proposta del governo cinese, nel 2015 è stata istituita anche l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) come ulteriore strumento di finanziamento delle opere progettate nell’ambito della Road and Belt Initiative. A essa partecipa anche l’Italia per il tramite di «Cassa depositi e prestiti», che detiene il 2,58% del capitale sociale della banca pari a 2,5 miliardi di euro. Ed è stato proprio per rafforzare questo rapporto di collaborazione che, a marzo a Roma (e poi ad aprile a Pechino), il governo italiano ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping un Memorandum d’intesa. «Le parti – è scritto nel documento – esploreranno modelli di cooperazione di reciproco beneficio per sostenere la realizzazione del maggior numero di programmi inseriti nella Rbi». Beneficio che, nel caso della Cina, si traduce nell’interesse a rafforzare la propria presenza nelle società che gestiscono  porti e autostrade d’Italia, senza dimenticare che già detiene il 5% di Società autostrade e il 49% della società che gestisce il porto di Vado presso Savona. Quanto all’Italia il suo interesse è sia industriale che finanziario. Da un punto di vista industriale l’interesse è quello di fare realizzare ai cinesi opere che altrimenti non potrebbero decollare per mancanza di fondi italiani. Un esempio è l’ampliamento del porto di Trieste. Da un punto di vista finanziario è quello di aprire nuove opportunità di affari per il sistema bancario italiano. E poi, chissà, se la Cina diventasse amica potrebbe anche comprarsi un po’ di debito pubblico italiano, considerato che già possiede il 5,6% del debito pubblico americano (circa 1.100 miliardi di dollari).

Lotta tra giganti

In conclusione, ha ragione l’America o la Cina? In una logica di espansione hanno ragione entrambi. L’America, che rappresenta chi è già gigante, vuole mantenere il primato imponendo al mondo intero le regole del gioco che vanno bene ai giganti. La Cina, che sta cercando di diventare gigante, vuole raggiungere il primato con metodiche di concorrenza protetta. Tutt’intorno i paesi minori come l’Italia che, non sapendo come finirà, cercano di essere amici dell’uno e dell’altro, godendo intanto di ciò che la situazione può dare. Il problema è che ciò che conta, ossia la dignità delle persone e la tutela del Creato, non è al centro dell’attenzione né di una parte, né dell’altra.

Come paesi minori, forse è proprio questo che dovremmo fare: sperimentare nuove formule economiche non orientate alla conquista, ma alla tutela delle persone e della sostenibilità in spirito di cooperazione e solidarietà. Ma, per riuscirci, dobbiamo uscire dalla logica delle bandiere e dell’accumulazione ed entrare in quella del rispetto.

Francesco Gesualdi

 




Uomo, donna e robot

di Gigi Anataloni |


Siamo alla fine degli anni Sessanta a Tuuru, sulle colline vulcaniche che dal Monte Kenya scendono verso l’Oceano Indiano. Si sta costruendo un acquedotto per un centro di bambini poliomielitici. L’acqua è a 25 km di distanza, nella foresta dello Njambene. Arrivano fondi da donatori. Il progetto prevede l’acquisto di un grosso scavatore per accelerare i tempi. Ma l’uomo che è la mente e il cuore del progetto non è convinto. Si siede e fa due conti. Uno scavatore, una decina di operai, tre mesi di lavoro da una parte. Zappe e carriole, cento operai, tre anni di
lavoro dall’altra. Costo: invariato. Sceglie le zappe. Cento operai sono cento famiglie. E poi lo scavo fatto da un uomo con la zappa attraverso un campicello di mais è certo meno distruttivo di quello fatto con uno scavatore. Risultato? Dopo quasi cinquant’anni quell’acquedotto è ancora là e disseta quasi mezzo milione di persone e animali. Altri progetti coevi, fatti con «lo scavatore»,
sono da tempo spariti nel nulla, ingoiati dalla foresta.

La storia che vi ho raccontato non è nuova. Tante volte su questa rivista vi abbiamo parlato dell’acquedotto di Mukululu e di fratel Mukiri, Giuseppe Argese, il silenzioso.

Ho pensato a lui leggendo i numerosi articoli di giornali e riviste che di questi tempi informano entusiasti o, al contrario, suscitano paure a proposito dei robot e dell’intelligenza artificiale destinati a soppiantare il lavoro degli uomini. Come se a «rubarci il lavoro» non bastassero i «disperati» che provengono «da zone in cui il valore della vita umana è pressoché uguale a nulla» (come ha scritto un esimio professore). Ci si mettono pure i robot.

Davvero i robot? Non sono certo loro che decidono dove e come lavorare, in quali fabbriche, in quali settori, in quali aree. Il robot che gestisce in automatico gli acquisti e le vendite di azioni in borsa, non si attiva da solo, ma qualcuno ha scelto di usarlo così per guadagno, anche se rovina tantissimi altri. Il drone che sgancia la bomba su una festa di nozze in Afghanistan, è programmato e mandato da un uomo, non agisce autonomamente. Anche il fantastico robot che esegue operazioni chirurgiche di alta precisione, non agisce di sua iniziativa. L’algoritmo (oggi con «l’algoritmo» si spiega tutto!) che nei social controlla tutto e tutti alla faccia della privacy non si è creato da solo, ma è perfezionato da uomini controllati da altri uomini che in testa non hanno certo il bene-essere dell’umanità ma il denaro. È un caso che un gruppo ridottissimo di individui diventi sempre più ricco proprio mentre la maggioranza impoverisce? E non solo impoverisce, ma diventa sempre più litigiosa e spende sempre di più in muri e barriere e armamenti (che non portano maggiore pace e sicurezza, ma certo arricchiscono chi li produce e vende).

Non sono contro i robot e il progresso. Tutt’altro. Ma mi preoccupa l’erosione della libertà e il sempre maggior controllo che dobbiamo subire attraverso robot e programmi usati per condizionare la nostra vita. Vorrei poter usare la tecnologia, non essere usato attraverso di essa.

Come qualcuno ben più importante di me insegna, se al centro delle nostre scelte politiche, economiche e sociali non c’è l’uomo, la sua dignità e il suo bene-essere, rischiamo davvero di costruirci un mondo invivibile, sempre più diviso, ingiusto e meno umano.

Uomo al centro, come «adam», uomo e donna uniti.
In occasione dell’8 marzo si scrive e parla molto di «donna». Ed è bello e giusto che lo si faccia. Mi piacerebbe però che non si parlasse solo di quelle donne che hanno il coraggio del «Metoo!». Oltre alle tante, troppe vittime della violenza di chi dice di amarle, non dimentichiamo le donne Rohingya, le Yazide, le madri siriane, le donne sudanesi, somale, nigeriane, congolesi, centrafricane e di tanti altri paesi. Non si chiudano gli occhi sulle donne, sempre più giovani, costrette a contendersi i nostri marciapiedi, a esibirsi sulle nostre spiagge, a illuminare le nostre strade; donne trafficate, vendute, sfruttate da mafie nostrane e internazionali. Donne oggetto, usate da gente perbene, da italianissimi padri di famiglia, lavoratori, impiegati e professionisti. Gli stessi italianissimi che con la bandiera tricolore sulle spalle sparano (o applaudono a chi spara) su presunti pushers e magnaccia di colore, i quali, quelli che lo sono davvero, esistono e prosperano perché italianissimi giovani e meno giovani cercano e consumano quanto essi vendono sfacciatamente.

Nel mondo si è fatto e si fa tanto per difendere, aiutare e promuovere le donne. Tanto rimane ancora da fare. Ma non basta pensare solo a loro. Gli uomini, i maschi intendo, che spesso sono la causa prima di violenze e abusi, hanno anche loro bisogno d’aiuto per ritrovare se stessi, la propria dignità, il proprio ruolo nella società, non separati o sopra le donne, ma insieme, come ci ha sognati il nostro Creatore che ha fatto dei due, insieme e inseparabili, la sua immagine.

Gigi Anataloni




Rwanda: Imprenditore sì, ma sociale


Testo di Marco Bello, foto di ARED |


Henri nasce e cresce da rifugiato. Poi ha la possibilità di studiare all’estero. Ma presto nota che la «sua» Africa sta crescendo. E torna in patria con un’idea. Vuole realizzare un business che sia pure utile per i meno fortunati. E crei posti di lavoro. Il cammino non è facile. Lui è tenace e dopo anni di lavoro la sua idea si concretizza. E adesso vuole espanderla sul continente.

Henri Nyakarundi, 40 anni, è nato in Kenya da genitori ruandesi rifugiati dapprima in Burundi. È cresciuto nel piccolo paese centrafricano fino all’età di 18 anni, quando i suoi genitori sono riusciti a mandare lui e sua sorella a studiare negli Stati Uniti, ospiti di parenti. Lì Henri ha vissuto 16 anni e ha studiato informatica.

Durante quel periodo ha iniziato a fare viaggi in Africa, per andare a trovare i genitori e parenti.

Incontriamo Henri in Italia dove è venuto a ritirare il premio «ICT for social goods» per imprese sociali nel campo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, organizzato da Ong2.0 (www.ong2zero.org).

«Nel 1996 sono stato un paio di mesi in Rwanda – ci racconta -. Non c’era nulla, mancava l’acqua, l’elettricità. Poi vi sono tornato nel 2001 e ho iniziato a vedere dei cambiamenti. Quando ci sono andato nel 2008 era tutto in rapida evoluzione, ed è allora che ho preso la decisione che sarei tornato nel continente dove sono nato».

Nel 2008, negli Usa inizia la crisi, ed Henri vede che invece l’Africa è in forte crescita. Henri decide di rientrare nel suo paese di origine, ma non a mani vuote: vuole portare un progetto.

 

Batterie scariche?

«Mi interessavano in particolare due settori: agricoltura ed energia. Ma il primo mi appassionava di meno. Sulle questioni energetiche ho pensato a diverse possibilità, ma non volevo fare un progetto tradizionale».

Henri ha uno spiccato senso pratico ed è capace di pensare in grande a partire da piccoli esempi concreti. «Uno dei problemi che ho sperimentato personalmente in Africa, è stato la difficoltà di caricare il telefono cellulare. Dovevo sempre andare in giro con una batteria portatile. Tutti avevano lo stesso problema, ma sul mercato avevo trovato solo quella soluzione».

Di passaggio all’aeroporto di Amsterdam Henri vede i punti fissi di ricarica per i telefoni. «Mi sono detto che sarebbe stato interessante avere quelle prese in un contesto all’aperto e magari in versione mobile, per andare ovunque, e dotati di pannelli solari per essere autonomo energeticamente, onde evitare che le infrastrutture non funzionino con regolarità come sesso succede nei paesi africani».

Henri Nyakarundi inizia così a maturare la sua idea di una centralina per la ricarica di cellulari mobile a pannelli solari: «Pensavo occorressero due o tre mesi di studio e prove, invece ci ho messo tre anni per avere il primo prototipo. Ed è stato molto più costoso di quanto avevo preventivato. Ma tutto quello che inizio lo devo finire».

Così a settembre 2009 comincia la fase di sviluppo negli Stati Uniti. Un designer e un ingegnere trasformano la sua prima idea in un trabiccolo su ruote di bicicletta. Riesce pure a reperire finanziamenti da alcune fondazioni e dal governo tedesco.

«Nel dicembre 2012 il primo prototipo era finito. Un mese dopo ho venduto tutto quello che avevo negli Usa e sono “rientrato” in Rwanda con la mia invenzione».

Un business «sociale»

L’idea iniziale è molto semplice, ma evolve rapidamente. Henri non vuole solo ricaricare cellulari dei passanti o guadagnarsi da vivere con il suo business, vede nel chiosco solare ambulante un’importante valenza sociale: la possibilità di dare lavoro a chi altrimenti non lo troverebbe.

«Uno dei maggiori problemi in Burundi, Rwanda e altrove in Africa, è la mancanza di lavoro. Soprattutto tra le donne e le persone portatrici di handicap, che vedono un tasso di disoccupazione due o tre volte più alto di quello degli uomini».

Sono tre gli elementi che mette insieme Henri: «Guardavo all’utilità sociale, volevo risolvere un problema tecnico e allo stesso tempo guadagnarci. L’idea era condividere i ricavi della ricarica tra l’agente che gestisce il chiosco e la micro impresa che lo fornisce». Dopo aver testato il prototipo, per due mesi, sul più grande mercato di Kigali, Henri capisce che non funzionerà, perché il ricavo economico è troppo basso. Occorre qualcos’altro per avere un rendimento sostenibile.

Da qui la domanda: quali altri servizi possiamo offrire che abbiano valore aggiunto per i consumatori?

«Ho osservato che molti servizi diventavano digitali, come il mobile money (cfr. MC novembre 2014), che si è diffuso rapidamente in Africa, o le ricariche dei telefoni. Sono sempre venduti con pagamento anticipato: prima paghi una ricarica, poi te la forniscono. Tutto si può vendere a partire da un telefono». In Rwanda, inoltre, molti servizi dello stato sono digitalizzati (ad esempio la richiesta di certificati di nascita, documenti vari, pagamento tasse, ecc.), e le opzioni di richiesta e pagamento di un documento si possono realizzare in chiosco di questo tipo. Così Henri produce un secondo prototipo che integra alla ricarica dei cellulari, molti servizi aggiuntivi, grazie a un computer di bordo, collegato a un server centrale.

«I nostri clienti sono quelli alla base della piramide, gli abitanti delle zone rurali e semi urbane. C’era un problema di distribuzione di servizi per questa gente, ed è questo che volevamo risolvere».

Informazione gratuita

Ma anche l’aggiunta di questi servizi digitali non basta per la sostenibilità economica. «La gente ci chiedeva se non si poteva avere il wifi, ovvero collegarsi a internet. Abbiamo passato altri due anni di sviluppo, e finalmente è nato il nuovo chiosco, che ha il wifi, permette la connessione, ma prevede anche una connessione intranet, ovvero offline, che rende accessibili contenuti digitali precaricati sul computer del chiosco».

In Africa connettersi a internet comporta ancora un costo abbastanza elevato. Non esistono i collegamenti a tempo illimitato, così tramite il chiosco, e uno smarthphone, i clienti possono connettersi oppure accedere alle informazioni disponibili.

«Informazioni sulla salute, sull’educazione e altro. La gente non consuma infoormazioni digitali perché non ha i soldi per connettersi. Invece in questo modo può avere accesso gratuitamente. Alcune informazioni vengono anche diffuse in semplice modalità audio, ovvero tramite altoparlanti, piuttosto che con connessione wifi».

Alcuni enti e Ong, come la Croce Rossa, lo stesso stato ruandese, nei suoi i ministeri della Salute e dell’Educazione, e privati, pagano la società fondata da Henri, l’Ared (Africa renewable energy distributor) per diffondere contenuti da loro forniti. L’Ared è costituita da quattro persone, di cui tre in Rwanda e una in Uganda. «In effetti è su questo aspetto che l’Ared fa i suoi introiti e rende sostenibile e redditizia l’operazione, mentre gli agenti che gestiscono i chioschi guadagnano sulle ricariche e sulla fornitura dei servizi. La nostra idea, inoltre, è non far pagare il consumatore per l’accesso all’informazione, ma far pagare le compagnie che vogliono diffondere quell’informazione». A questo punto un dubbio può venire sulla pluralità e neutralità dei contenuti diffusi: di fatto qualcuno paga per diffonderli, saranno in qualche modo promozionali o comunque con un certo orientamento.

Soluzione: microimpresa

Oltre ai prodotti «servizi», «informazioni» e «internet», il chiosco genera il prodotto «lavoro». «Crediamo nella micro imprenditoria che pensiamo sia il futuro, e i nostri agenti di chiosco sono dei microimprenditori. È chiaro che la microimpresa non risolverà tutti i problemi, ma dobbiamo considerare che la creazione di lavoro sta diminuendo a causa della tecnologia. Abbiamo pensato di minimizzare il rischio assistendo la persona che vuole intraprendere questo percorso. Per questo motivo selezioniamo gli agenti, li formiamo per tre giorni, e poi diamo loro un chiosco in gestione e li supportiamo in modo continuativo.

Per il chiosco l’agente paga un forfait iniziale di 40 dollari se uomo, 20 se donna e 10 se portatore di handicap. Dopo di che solo un affitto di 1,50 dollari al mese. Inoltre forniamo loro delle uniformi e un’applicazione per il loro cellulare.

È un partenariato tra Ared e la persona che lavora al chiosco. L’operatore riesce a guadagnarsi la vita grazie a questo lavoro. È un modello di business che facilita l’ingresso in impresa a persone che non hanno i fondi per iniziare un’attività propria. Si tratta di un franchising. Qualcuno mi ha detto di esser riuscito a mandare i figli a scuola grazie a questo lavoro. Qualcun altro è riuscito a sposarsi».

Un’esperienza interessante Ared la fa con la Croce Rossa nei campi profughi dei burundesi, rifugiati in Rwanda a causa della crisi nel loro paese. «Ci hanno trovati su internet, avevano bisogno di una soluzione far caricare i telefoni nei campi. Così abbiamo iniziato un partenariato e offerto tutti i nostri servizi. Abbiamo scoperto che nei campi profughi c’è un’altissima densità di telefoni cellulari».

Il capitale umano

Chiediamo a Henri come scelgono le persone alle quali affidare i chioschi. «Abbiamo fatto esperienza sulla selezione degli agenti. Intanto prediligiamo le donne e le persone con handicap. Poi devono avere dai 25 anni in su, sapere leggere e scrivere e passare un test attitudinale per capire se hanno le caratteristiche imprenditoriali. Chi è selezionato deve procurarsi il permesso di lavorare nella zona prescelta, poi gli si affida il chiosco».

Il chiosco, che ha oggi un valore di circa 1.200 dollari resta di proprietà dell’Ared. «Il valore aggiunto non è il chiosco in sè, bensì i servizi che forniamo. Venderlo sarebbe troppo caro per i nostri agenti, e inoltre dovrebbero fare manutenzione, che invece resta a nostro carico. Vendiamo il modello di business: il franchising. Per questo motivo abbiamo creato molti servizi con l’obiettivo di produrre abbastanza reddito per noi e per gli agenti».

Next step (prossimo passo)

Il passo successivo è la raccolta di informazioni e dati a partire da questi clienti. Le informazioni raccolte saranno memorizzate nel chiosco e inviate al computer centrale.

«Una cosa che vogliamo integrare è l’Iot, (l’internet delle cose o internet of things, è un sistema di sensori e di elaborazione dei dati forniti dagli stessi, di cui si parla molto, ndr). Attualmente uno degli ostacoli è come fare il monitoraggio dei chioschi quando sono sul terreno. L’operatore lavora bene? Fornisce tutti i servizi al cliente? Stiamo incorporando l’Iot sul chiosco per ottenere molte informazioni e sapere cosa succede esattamente, in ogni momento. Stiamo integrando anche il Gps, altri sensori ambientali, che ci dicono quante persone ci sono intorno al punto vendita. Riusciremo a fare il monitoraggio dell’attività da remoto oltre che ad accumulare informazioni».

Espansione territoriale

Henri Nyakarundi vede un grande futuro per il suo chiosco. Si spinge a valutare una potenzialità di 50-100.000 chioschi in 20 paesi africani. E ha già in testa una ben precisa strategia di espansione.

«Attualmente abbiamo 30 chioschi in Rwanda e 5 in Uganda, dove abbiamo appena cominciato. Per quattro anni abbiamo testato i modelli e la tecnologia. Ora tutto è pronto e vogliamo espanderci. La strategia che seguiremo per i nuovi paesi è quella di lavorare con partner locali. Vogliamo realizzare una licenza della tecnologia che venderemo nei paesi. Questo ci fa guadagnare meno ma ci permette di espanderci più rapidamente. Il Rwanda è il solo paese in cui controlliamo tutta la catena di valore. In Uganda, ad esempio, abbiamo diviso il territorio in 5 aree geografiche, ognuna seguita da un responsabile. È lui che fa selezione, formazione e monitoraggio degli agenti. Noi ci occupiamo della tecnologia, e dell’adattamento al contesto. Dividiamo i guadagni tra noi, il responsabile di area e l’agente che gestisce il chiosco. È un modello di espansione attraverso il partenariato».

Il prossimo mercato che attrae Henri è la Nigeria. «Grande e difficile. C’è una grande corruzione. Se riesci lì, riesci ovunque».

Marco Bello

 




Kenya: Stampa 3D per «piedi felici»


In Kenya è nata una piccola compagnia che si occupa di stampa tridimensionale. L’African Born 3D printing (Ab3D) è la prima start up africana che stampa oggetti in materiali plastici, produce stampanti 3D e fa formazione al loro uso. La società progetta, disegna e costruisce i suoi prodotti usando materiale elettronico riciclato, parti meccaniche reperibili localmente e software open source. La sua mission è quella di usare la tecnologia per migliorare la vita.

All’origine della Ab3D c’è la fantasia e l’ingegno di Roy Ombatti. Roy, un giovane keniano di 27 anni, proviene da una famiglia cattolica della classe media che però fa fatica a pagargli gli studi fino a completare l’università a causa della severa crisi economica che in Kenya, nei primi anni del 2000, colpisce in particolare il ceto medio. Conscio di questo, Roy fa tesoro dei suoi studi anche più di molti suoi coetanei e si impegna a fondo per realizzare il sogno coltivato fin da bambino di diventare un ingegnere meccanico e creare oggetti meravigliosi, usando e sfidando le leggi della fisica e della matematica, e di portare cambiamenti positivi nella società attraverso il suo lavoro.

Dopo aver fatto la scuola primaria nella Consolata School di Nairobi, ha frequentato la secondaria alla Strathmore School e ottiene l’ammissione nell’Università di Nairobi, la più antica del paese, fondata nel 1956, ben prima dell’indipendenza del Kenya. Nell’attesa di cominciare il corso di Ingegneria meccanica cui si è iscritto, Roy coglie l’occasione offertagli da un suo zio, volontario di una Ong, e va in Malawi a condividerne l’esperienza con bambini orfani a causa dell’Aids o Hiv positivi. Un’esperienza traumatica per lui, come ricorderà in seguito, perché «oggi sono lì a giocare con uno di loro, e domani mi dicono che è morto».

Vedendo di persona lo stato pietoso del sistema sanitario del Malawi, non diverso dallo stato in cui versano quelli di molte altre nazioni nel continente, Roy sente che deve fare qualcosa e non solo stare a guardare. Ritorna in Kenya per iniziare l’università e comincia a tenere gli occhi aperti sulla sua stessa comunità per individuarne i bisogni e capire cosa lui possa fare per cambiare la situazione. Scopre presto che molti bambini delle famiglie più povere – quelli che vivono negli slum, le periferie degradate di Nairobi dove manca acqua, non ci sono fogne e nelle case non ci sono reti antizanzara – soffrono a causa di molte malattie che potrebbero essere facilmente curabili, anzi, anche evitate con un’adeguata prevenzione. Purtroppo la gente degli slum non ha le risorse per uscire da quella situazione.

Il salto nella stampa 3D

All’università ha un’occasione unica: partecipare ad una competizione internazionale di stampa 3D, la 3D4D (3D for Development) organizzata dalla Techfor Trade, una onlus inglese impegnata a «cercare, promuovere e sostenere un’innovazione tecnologica rispettosa dell’ambiente che aiuti gli scambi commerciali e allevi la povertà». Roy vi partecipa con un progetto che gli è caro: stampare delle scarpe su misura per piedi resi deformi dalle pulci penetranti, quegli stessi piedi che aveva visto in troppi bambini degli slum. Chiama il suo progetto «Happy Feet», Piedi felici.

Le pulci penetranti sono terribili, perché si infilano sotto la pelle dei piedi e lì si installano facendovi il nido che diventa sempre più grosso. Di solito è facile toglierle se sono in superficie, ma se trascurate (come può succedere ai bambini non curati attentamente dai loro genitori o da famigliari) possono causare infiammazioni dolorose fino a impedire una deambulazione corretta o a lasciare piedi deformi. Per rimuovere le pulci si usano spine, lame, spilli o aghi che, non disinfettati o usati su diverse persone, aumentano il pericolo di trasmettere e/o ricevere l’Hiv. Il fatto di camminare a piedi nudi espone poi al rischio di essere infestati di nuovo dalle pulci.

Il progetto è bello e fa sognare, ma per realizzarlo Roy ha bisogno di poter usare stampanti 3D che siano alla portata delle sue tasche di studente universitario. Questo in Kenya non è facile, visto che sono tutte importate dall’estero e costano molto.

Roy capisce allora che se vuole realizzare il suo sogno di «Piedi felici» deve risolvere il problema fondamentale: l’accesso facile alle stampanti 3D e alla relativa tecnologia. Convinto della potenzialità del mezzo per migliorare la vita della gente comune, si concentra allora sulla nuova sfida, riesce a ottenere dei finanziamenti e così fonda la sua start up per la produzione e uso di stampanti 3D.

Nasce così la Ab3D per costruire stampanti 3D usando materiale elettronico riciclato, software open source e parti meccaniche reperibili sul mercato locale. Questo abbatte i costi e facilita manutenzione e riparazioni. Una stampante 3D usa meno energia di un frigorifero e come materia prima per stampare oggetti può riutilizzare plastica dai rifiuti. «L’uso della plastica riciclata non costituisce un rischio, anzi risolve un problema, e i filamenti ottenuti permettono di stampare gli oggetti utili alla comunità», dice oggi Roy spiegando che fino a quando useremo derivati dal petrolio avremo sempre a che fare con la plastica. Tanto vale allora usarla in modo positivo. Le statistiche provano che la plastica è uno dei maggiori elementi inquinanti nel mondo. Oltre otto milioni di tonnellate ne sono riversate negli oceani ogni anno. Di questo passo entro il 2050 sarà un disastro, nel mare ci sarà più plastica che pesci, questo è l’allarme lanciato al World Economic Forum del 2016.

Promuovere una coltura 3D

A questi primi passi Roy ne aggiunge un altro: promuovere la stampa 3D nelle scuole di modo che le future generazioni di giovani lavoratori possano imparare a pensare la tecnologia a servizio di uno sviluppo che non aumenti i problemi, ma li risolva. Tale formazione aumenterebbe la possibilità dei ragazzi di trovare impiego e le loro capacità imprenditoriali.

Secondo Roy è importante applicare il 3D all’apprendimento pratico nelle scuole. «Avessimo meno teoria e più pratica sia nelle scuole che nelle nostre università, avremmo studenti che finirebbero i loro studi con capacità reali, più gente capace di soluzioni nuove per risolvere i problemi globali». Secondo lui troppi giovani finiscono l’università con la testa piena di teorie ma incapaci di tradurle in pratica nel mondo vero del lavoro.

Tre prestigiose scuole private in Kenya hanno già comperato le stampanti dell’Ab3d: Makini School, Banda School e Nova Academia, seguite a ruota anche da tre scuole di informatica. Tra le università, quella di Gondar in Etiopia e quella di Bristol in Inghilterra. L’obiettivo è quello di diffondere le stampanti nel maggior numero di scuole possibile, anche se sembrano più apprezzate all’estero che in patria. Mentre i giovani studenti sono aperti alle novità e al futuro, i dirigenti scolastici sono ancora della vecchia generazione e, purtroppo, sono loro che tengono i cordoni della borsa.

La stampa 3D può essere applicata in molti campi diversi, le sue possibilità sono ancora tutte da scoprire. L’Ab3D sta stampando ora microscopi per laboratori nel settore della sanità e per le scuole, protesi per chi ne ha bisogno, siringhe speciali per uso medico e ovviamente le scarpe «Happy Feet». «Sono tutte iniziative orientate al bene della comunità», sottolinea Roy, «ma stiamo cercando nuove strade per aiutare in modo più diretto ed efficace». Per questo Roy e il gruppo dei suoi collaboratori stanno cercando di essere sempre più propositivi e attenti ai bisogni di ogni giorno. Un dialogo più serrato tra «i tecnici» e la comunità con le sue necessità concrete è importante per tutti. La gente si apre ai benefici del progresso tecnologico e i tecnici imparano dalla gente ad affrontare e risolvere problemi reali.

Katya Nyangi Mwita*

*Giovane russo-keniana che dopo aver insegnato inglese a Mosca e lavorato come giornalista della stessa lingua in un’agenzia di informazione russa, ora, in Kenya, lavora in un centro specializzato in educazione e comunicazione.

Vedi su Youtube (in inglese) African Born 3D Printing
e Intermission with 3D Printing Innovators Carl & Roy




La guerra facile dei droni

Si comandano da molto lontano. Utilissimi per cercare informazioni sul nemico in battaglia. Ma anche per sparare su convogli e bunker sospetti senza rischi. Tutti gli eserciti li vogliono. E ora sono anche diventati tascabili e ambiti giochi per appassionati e ragazzi.

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

Nei cieli africani si combatte una guerra nuova e silenziosa, ma non per questo meno micidiale di quelle tradizionali. È la guerra dei droni. Sempre più presenti sui campi di battaglia del continente, i velivoli senza pilota rappresentano un sostegno alle truppe impegnate sul terreno, ma anche un’arma efficacissima per l’eliminazione mirata di capi politici o comandanti militari di movimenti ribelli.

Osservazione e omicidi mirati

A dispiegarli per primi sono state le forze armate statunitensi. Washington, stretta tra la preoccupazione per l’impatto mediatico che può avere la morte di soldati americani in Africa (ricordiamo la grande eco che ebbe nel 1993 la morte di 19 ranger nella battaglia di Mogadiscio che convinse Clinton al ritiro delle truppe Usa dalla Somalia) e la necessità di contrastare il fondamentalismo islamico jihadista, ha deciso di scommettere su quest’arma, sia a livello tattico che strategico. È così che nel 2001 gli Stati Uniti prendono in affitto dal governo di Gibuti la base di Camp Lemonnier, nella cittadina di Ambouli, sul lato meridionale dell’aeroporto internazionale di Gibuti. Oltre alle truppe delle forze speciali, Washington vi trasferisce alcuni droni. La posizione è strategica. Partendo da Gibuti si possono tenere sotto controllo sia la Somalia, dove dagli anni Duemila si è assistito a una progressiva radicalizzazione dei movimenti ribelli jihadisti, sia lo Yemen, per anni base delle milizie qaediste.

Dall’alto, i droni sono un alleato silenzioso che osserva gli spostamenti delle truppe nemiche, ne individua le basi, i rifugi dei comandanti. Inizialmente i vertici militari Usa li utilizzano prevalentemente con funzioni di osservazione e controllo. Un surrogato degli agenti dei servizi segreti. Qualsiasi operazione dei servizi speciali è preparata e accompagnata dai voli dei droni. Ma poi capiscono che essi possono diventare un’arma potentissima per le eliminazioni mirate, quelle che, in gergo militare, vengono chiamate «targeting killings». Sui velivoli senza pilota vengono montati missili aria-terra Hellfire che sono poi sparati sui rifugi o sulle vetture che trasportano i comandanti delle milizie.

«Non esistono, ovviamente, statistiche ufficiali – spiega Giulia Tilenni, junior analist di Caffè Geopolitico -, però, alcuni documenti riservati di cui sono venuta in possesso parlano di una ventina di attacchi offensivi in cui sono perite 108 persone. Le uccisioni mirate sono avvenute negli ultimi anni nel Coo d’Africa e hanno preso di mira i capi del movimento Al Shabaab».

Se su Camp Lemmonier ci sono notizie certe, poco si sa invece delle altre basi statunitensi sul continente. Anche in questo caso, di ufficiale non esiste nulla. Da alcuni leaks diffusi dalla stampa internazionale però si è venuto a sapere che Washington ne avrebbe diverse: Camerun, Ciad, Etiopia, Niger e Seychelles.

Quelle in Ciad (stanziati in una vecchia base francese) e in Niger (una ad Agadez e l’altra a Niamey) avrebbero l’obiettivo di tenere sotto controllo gli spostamenti dei miliziani jihadisti in Africa dell’Ovest.

Da questi aeroporti, oltre ai droni, decollerebbero anche piccoli aerei bianchi e senza alcuna insegna e con sofisticate apparecchiature elettroniche per l’osservazione a bordo. I velivoli verrebbero tenuti lontani dalle zone di combattimento per evitare che un eventuale abbattimento possa mettere a rischio i piloti. Questi ultimi sono agenti dei servizi segreti, ma anche contractors assunti ad hoc.

Dal Camerun i droni svolgerebbero funzioni di intelligence e sorveglianza sulla vicina Nigeria, offrendo informazioni alle truppe camerunensi, nigeriane e nigerine in azione contro le milizie di Boko Haram. Probabilmente verranno impiegati anche a sostegno del piccolo contingente Usa schierato al confine tra Camerun e Nigeria. In Etiopia, ad Arba Minch, e nelle isole Seychelles invece i droni vengono utilizzati prevalentemente per la sorveglianza delle rotte che dall’Oceano Indiano si spingono, attraverso lo Stretto di Aden, verso il Mar Rosso.

«Le forze statunitensi – sottolinea Luca Mainoldi, giornalista, esperto di Africa – utilizzano, anche a livello tattico, piccoli droni, molto simili a modelli radiocomandati, che volano nel raggio di pochi chilometri per osservare eventuali pericoli o minacce. Di questi velivoli sono dotate, per esempio, le truppe speciali Usa che danno la caccia al ribelle ugandese Joseph Kony» (cfr. MC luglio 2012).

Droni transalpini

Gli Stati Uniti non sono gli unici a utilizzare gli «aeromobili a pilotaggio remoto» in Africa. Anche Parigi ha iniziato a impiegare i droni a supporto delle proprie truppe. L’Aeronautica militare francese ha attualmente in dotazione quattro Harfang, velivoli derivati dagli Heron israeliani. Questi droni sono costati alle casse di Parigi 440 milioni di euro contro i 100 preventivati. L’aumento del costo è legato alla necessità di adeguarlo alle specifiche pretese dai comandi dell’Armée de l’air.

Nonostante l’alto costo, i generali transalpini non sono soddisfatti di questo apparecchio. Ha, infatti, impianti di videoripresa con risoluzioni basse, costi di volo alti e necessita di una manutenzione continua. Per questo motivo, Parigi ha deciso di acquistare dagli Stati Uniti tre Reaper (altri due sarebbero in arrivo) che hanno prestazioni decisamente migliori rispetto agli Harfang. Per il momento le truppe transalpine non hanno armato i velivoli. Ma, con l’omologazione per i droni dei missili prodotti da Mdba, un’azienda di proprietà di Airbus, Bae Systems e Finmeccanica, i comandi starebbero progettando di impiegarli anche sui Reaper.

Finora la Francia ha impiegato i suoi droni in Africa occidentale. A partire dal 2013, Parigi ha dislocato a Niamey (Niger) due droni a sostegno delle truppe dell’Operation Barkhane, la missione transalpina nel Nord del Mali. Le truppe francesi sul terreno impiegherebbero anche piccoli droni portatili che li aiuterebbero nelle operazioni contro le milizie ribelli, come già fanno le forze speciali statunitensi.

Stati Uniti e Francia non condividono solo le tattiche di combattimento, ma anche le basi. A Niamey infatti i velivoli a stelle e strisce e quelli transalpini partono dallo stesso aeroporto.

«In Africa – continua Luca Mainoldi – corre voce che Parigi e Washington abbiano aperto una base comune e segreta anche in Libia. Da lì farebbero partire i droni per tenere sotto controllo il Sud della Libia e l’Algeria. Difficile dire se si tratti di una diceria o se ci sia un fondamento. Così come è difficile confermare la notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero una base di droni proprio in Algeria. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, Washington avrebbe riaperto una lunga pista che le era stata data in concessione da Algeri a Tamanrasset, in pieno Sahara, per gli atterraggi di emergenza dello Space Shuttle. Ma nessuna conferma ufficiale è mai arrivata dal Segretario alla Difesa Usa o dal Pentagono».

E anche i paesi africani…

Nei cieli del continente volano anche droni africani. I primi a svilupparli sono stati i sudafricani. Ai tempi del regime dell’apartheid (1945-1993), Pretoria aveva ottime relazioni con Tel Aviv e le industrie belliche dei due paesi collaboravano in diversi ambiti. Tra questi lo sviluppo dei droni. Negli anni Sessanta e Settanta si trattava soprattutto di modelli non dissimili dai normali aeroplani telecomandati, poi, col tempo, sono andati tecnologicamente evolvendo. La fine dell’apartheid non ha portato alla chiusura del progetto. Anche dopo il 1993 l’industria bellica ha continuato a sviluppare aerei senza pilota. Probabilmente la collaborazione con Israele è terminata, certamente c’è un rapporto con gli Emirati arabi uniti che, a loro volta, stanno sviluppando un progetto insieme all’Italia.

«In Africa – conclude Giulia Tilenni – possiedono droni anche la Nigeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola. Ma non li usano per scopi militari quanto per tenere sotto controllo gli impianti petroliferi e gli oleodotti e difenderli da eventuali attacchi o minacce. Anche l’Algeria ha propri droni, acquistati dal Sudafrica, così come l’Egitto, che invece li ha comperati da Stati Uniti e Russia. Eh sì, perché anche Russia e Cina hanno propri velivoli senza piloti, anche se, per il momento, non volano sui cieli africani».

Enrico Casale