Tanzania streghe e stregoni


La stregoneria continua a esistere e a fare danni. Sia quando viene praticata, sia quando viene combattuta. Per questo i missionari si muovono con cautela. Facendo anche attenzione a non sbagliare bersaglio, come in passato a volte accadeva. Ad esempio, i «medici tradizionali» non sono stregoni. Anzi, essi hanno un ruolo e una funzione positivi.

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Le morti si susseguirono una dopo l’altra, con ritmo impressionante, nella casa di Makene, un facoltoso anziano della tribù dei Wasukuma in Tanzania.

Dopo la celebrazione dell’ultimo lutto rituale, il figlio maggiore di Makene interrogò il genitore: «Padre, un tempo i nostri capi come punivano gli stregoni?». Seguì un lungo e inquietante silenzio. Poi l’anziano Makene indugiò su alcune considerazioni. Infine il figlio maggiore e i suoi fratelli se ne andarono senza proferire parola. Ma in cuor loro avevano deciso: bisognava sopprimere subito quel losco stregone, responsabile di tutti gli oscuri mali che avevano funestato la loro casa. Il giorno successivo i figli di Makene fecero irruzione nello «studio dello stregone» proprio mentre stava trattando una paziente. Lo stregone venne immobilizzato in un lampo, portato fuori e impiccato ad un albero sotto lo sguardo compiaciuto di tutti.

Quello era uno stregone davvero singolare. Anni prima era un sacerdote cattolico: padre Joni. Invaghitosi di una giovane donna, stava per abusae. Ma lei resistette. Non solo, con un sasso colpì sul volto l’aggressore. La notizia fece il giro del villaggio, e il prete divenne il bersaglio della derisione generale. Ebbro di rabbia e di vergogna, si disse: «Io sono figlio di uno stregone pagano. Perché dovrei seguire la religione straniera dei bianchi? Ne abbraccerò un’altra: l’islam, ad esempio». Detto, fatto. Il prete gettò la tonaca alle ortiche e divenne un seguace di Muhammad. Partì per il Senegal, dove sposò una ricca musulmana, dalla quale ebbe cinque figli. Però non si accontentava solo della propria moglie. «Passeggiava» pure con altre donne. Troppo.

Un pomeriggio la consorte, con l’aiuto di alcune amiche, aggredì il marito, lo denudò da capo a piedi e lo minacciò: «Amore mio, sta’ bene attento! Se continui a disonorarmi, ti sgozzo come un maiale». E gli puntò al collo un coltello affilato.

Il libertino ebbe paura e fuggì ritornando in Tanzania, non prima però di aver sottratto alla famiglia un’ingente somma di denaro.

In Tanzania l’ex padre Joni si dedicò alla stregoneria, facendo soldi a palate. La sua prima impresa fu l’assassinio di quella donna che, un tempo, non solo aveva resistito alle sue voglie, ma lo aveva svergognato come nessun altro. «Scovate quella strega – ordinò ai suoi manutengoli – e portatemi qui su un piatto il suo basso ventre». Così fu.

Medicine e sacrifici

Questa vicenda è narrata dallo scrittore tanzaniano, Gabriel Ruhumbika, nel suo libro del 2001 «La piaga endemica degli indigeni»1. Qual era a quel tempo la «piaga endemica» del Tanzania? La stregoneria, appunto, piaga diffusa ovunque. La popolazione la temeva più degli artigli delle bestie feroci, più della lebbra, più dell’aids. Pertanto gli stregoni, se individuati, potevano anche essere linciati coram populo, come era toccato allo spregiudicato personaggio ex padre Joni.

Tali esecuzioni erano pure un sacrificio espiatorio e propiziatorio per i benestanti che continuavano a frequentare gli stregoni, che promettevano di accrescere la loro fortuna.

D’altro canto, i ricchi (uomini di affari, generali dell’esercito e della polizia, papaveri del governo ecc.) erano i primi a bussare dallo stregone per ottenere, a pagamento, «la medicina» che avrebbe garantito loro potere e prestigio. Talora la medicina consisteva in «arti umani», tra cui dita e organi sessuali di persone albine.

Il traffico della stregoneria prosperava clandestino, indisturbato e criminale. A volte i clienti dello stregone dovevano pagare le sue prestazioni persino con il «sacrificio cruento» di un loro figlio.

Il sospetto uccide

Questo e altro viene illustrato dal libro di Gabriel Ruhumbika. Ma oggi, dopo quindici anni, qual è il panorama della stregoneria in Tanzania?

Il governo si è impegnato a sanare questo morbo contagioso, con l’intento soprattutto di fermare gli omicidi, perché a fae le spese sono spesso persone innocenti ed innocue, vittime di pregiudizi: donne con gli occhi rossi, portatori di handicap, albini ecc.

La legge sanziona con pene la pratica della stregoneria. Tuttavia il fenomeno, invece di diminuire, cresce. È sintomatico che nel 2010 le uccisioni legate alla stregoneria fossero 579, mentre nel 2012 erano salite a 630.

Ecco i nomi di alcune persone giustiziate, perché ritenute stregoni: Lorenza, anni 70, di Geita: uccisa e bruciata dagli abitanti del suo villaggio; William, 68 anni, di Mbeya: soppresso dai suoi stessi figli; Gaetano, 60 anni, di Iringa: squartato e fatto a pezzi da ignoti2.

Sovente è lo stesso stregone ad accusare altri di stregoneria, decretandone la fine. La vicenda segue questa trafila: un individuo, afflitto da malore, ricorre allo stregone per trovarvi rimedio; se l’interessato peggiora e addirittura muore, lo stregone può ravvisare in un «nemico» la causa del male; allora il «nemico» può essere eliminato con qualsiasi mezzo.

Oggigiorno la stampa del Tanzania si sofferma su diversi casi di stregoneria. Ad esempio: il quotidiano Mwananchi (Il cittadino) ha scritto che il mercato all’aperto di Mbeya è stato più volte bruciato per ragioni di stregoneria. Ma c’è di più nella regione di Mbeya: il sospetto di stregoneria fa sì che si siano seppellite persino persone ancora vive e vegete3.

Bussare a due porte

Circa la stregoneria, la Chiesa cattolica si appella alla Bibbia. Plagiare persone, evocare spiriti o «battere assicelle» (kupiga bao), erano atti che si compivano pure nella terra di Israele, «nazione eletta» di Dio. Ma erano severamente proibiti dall’Onnipotente.

Il libro dell’Esodo 22,18 recita: «Non lascerai vivere colei che pratica la stregoneria». Il Deuteronomio 18,10-12 precisa: «Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il figlio o la figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore».

Nel catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2117 si legge: «Tutte le pratiche di magia e stregoneria… sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancor più da condannare quando si accompagnano all’intenzione di nuocere agli altri o quando si ricorre all’intervento di demoni. Anche portare amuleti è biasimevole…».

Né si scordi il Secondo Sinodo dei vescovi dell’Africa, svoltosi a Roma nel 2009, secondo il quale la stregoneria esercita una forte attrazione. L’incertezza di fronte all’ambiente, alla salute, al futuro dei figli, nonché il timore di spiriti malvagi, inducono la gente a ricorrere a pratiche contrarie all’insegnamento di Cristo. L’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte (paganesimo e cristianesimo) è una grossa sfida4.

Più esplicitamente, la sfida investe il cristiano tanzaniano che, alla domenica mattina va a messa in chiesa, e nel pomeriggio bussa alla porta dello stregone. Ecco «l’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte».

Stregoni, medici tradizionali e missionari

Da sempre i missionari hanno combattuto la stregoneria (scontrandosi con gli antropologi), perché hanno ritenuto e ritengono che il fenomeno sia causa di divisioni all’interno della comunità, fomentando odi e vendette a non finire. Tuttavia, il missionario, specie nel passato, di fronte alla stregoneria ha fatto spesso di ogni erba un fascio. Non sempre ha saputo distinguere tra «stregone» (sorcerer in inglese e mchawi in swahili) e «medico tradizionale» (medicine-man e mganga wa kienyeji). Il primo era ed è una figura essenzialmente negativa, mentre il secondo può effettivamente guarire da varie malattie.

Detto questo, i missionari della Consolata sanno come comportarsi. E recentemente si sono sentiti gratificare anche da Tarcisio Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa e presidente della Conferenza episcopale del Tanzania. Ai cristiani della parrocchia di Sadani il vescovo ha infatti raccomandato: «Fratelli, rifuggite con coraggio dalla vendetta e dalla stregoneria. Queste sono piaghe che incretiniscono, impoveriscono e trasformano in figli delle tenebre»5.

Anche il citato Ruhumbika sostiene che la stregoneria sia «il grande inizio della povertà». A parere dello scrittore, in Tanzania è in atto una guerra contro la stregoneria e «alla fine si conseguirà la vittoria»6. Tuttavia non basta reprimere. Bisogna proporre un’alternativa alla stregoneria.

Per i missionari l’alternativa è l’istruzione e la formazione. Senza scordare che un certo Gesù ha sconfitto il mondo, compresa la sua stregoneria. Egli sarà con i suoi fratelli tutti i giorni sino alla fine della storia7.

Francesco Beardi
(missionario in Tanzania)

Note

1 – Autore e titolo originale del romanzo in lingua swahili: Gabriel Ruhumbika, Janga sugu la wazawa, Dar Es Salaam 2001.
2 – Cfr. Taarifa ya haki za binadamu, 2012, LHRC & ZLSC 2013, pp. 34, 192.
3 – Cfr. Mwananchi, 13 novembre 2013.
4 – Cfr. Africarne Munus, 93.
5 – Cfr. la rivista Enendeni, machi-aprili 2014.
6 – G. Ruhumbika, op. cit., pp. 187, 193.
7 – Cfr. Giovanni 16,33 e Matteo 28,20.




Pelle (s)fortunata


La loro condizione è estremamente allarmante: gli albini, donne e uomini, bambine e bambini, sequestrati e fatti a pezzi per fare amuleti con la loro pelle e altri organi; crimini causati da credenze tribali ed enormi interessi economici. Ma qualcosa sta cambiando: un albino è stato eletto membro del parlamento tanzaniano nel partito di opposizione.

1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)
1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)

Fatti a pezzi, ammazzati, mutilati, scuoiati… solo per fae dei portafortuna. Questo è quello che accade quotidianamente da anni agli albini in Tanzania.
Le foto del mio reportage «I AM ALBINO» (che ha vinto il terzo premio al 38° Portfolio Internazionale Ateum) mostrano la vita degli albini nella loro cruda realtà, dalla paura di essere ammazzati ai tumori che li colpiscono; ma sono anche un inno alla forza e al coraggio che essi hanno nell’affrontare la vita. Lavorano, amano, si sposano, fanno figli che curano amorevolmente. In Tanzania c’è addirittura una squadra di calcio formata da albini; hanno un’associazione nazionale che si occupa di sensibilizzare la popolazione sulle loro condizioni, ma soprattutto sul fatto che essi sono africani, tanzaniani e vogliono vivere la loro vita liberamente come tutti i loro fratelli.
Ma non fanno notizia
Mentre l’informazione nazionale, europea, internazionale è impegnata a sgomitare per proporci ogni giorno un nuovo scornop, in Tanzania degli esseri umani sono ammazzati brutalmente per riti magici. Come può l’informazione mondiale chiudere gli occhi davanti a situazioni del genere, e turarsi le orecchie di fronte a chi chiede aiuto e a quei giornalisti locali che denunciano tale mattanza? Come giornalista, non posso che provare vergogna quando i grandi direttori dei nostri giornali, davanti alla denuncia di una situazione aberrante e allo sforzo di sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che accade ancora nel 2011 in una parte del mondo, mi rispondono che il mio reportage è ben fatto fotograficamente, ma non fa notizia!
L’Africa, come da anni viene ribadito, non fa notizia. I massacri di albini, grandi e piccoli, la pelle dei quali e altre parti del corpo vengono utilizzate per realizzare amuleti, gli enormi introiti economici dietro tali delitti, per non parlare di casi limitati a riti magici-tribali, non fanno notizia!
Mi vergogno di svegliarmi in un paese dove il giornalismo sociale è ormai così marginale.
Non dimenticherò mai le parole di Enzo Biagi: qualche mese prima che morisse, ebbi la fortuna di incontrarlo per la mia tesi di laurea; prima ancora di rivolgergli una domanda, mi chiese cosa volessi fare da grande. Orgogliosa e decisa, risposi: «La foto-giornalista! Voglio raccontare cosa accade nel mondo dalla prospettiva di chi non ha voce». E lui, dopo aver osservato la mia convinzione, mi disse: «Sarà difficile. Sarà il mestiere più duro del mondo. Non potrai mai farlo per guadagnare, ma solo per passione! Deve essere una passione! Io ho sempre detto che questo lavoro lo farei anche gratis».

Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany - AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA
Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany – AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA

Primo albino in parlamento

Era il 2007 quando sentii parlare per la prima volta che due albini in un villaggio erano stati trovati ammazzati, dopo essere stati scuoiati vivi. Mi sembrava così assurdo. In Tanzania?!
Si tratta di un’antica credenza tribale ancora persistente, anzi in forte aumento. Negli ultimi due anni, albini uomini e donne, bambini e bambine sono stati sequestrati, massacrati, fatti a pezzi, scuoiati per fare amuleti con la loro pelle bianca e altre parti del corpo.
Il fenomeno è esploso nella parte più povera e arretrata del Tanzania, nelle regioni di Singida, Mwanza, Shinyanga, al confine con il lago Vittoria, dove vivono minatori e pescatori convinti dagli stregoni locali che avere un amuleto fatto di pelle o parti di albino porti fortuna nel lavoro e nella vita.
Di fronte ai continui servizi giornalistici e alle pressioni di attivisti dei diritti umani, nel 2008 il governo ha dichiarato illegali tutte le licenze degli stregoni del nord e vietato qualsiasi loro attività. «Sotto la nostra spinta il governo ha iniziato anche azioni di tutela degli albini» mi dice la presidente dell’Associazione albini del Tanzania, signora Shymaa Kway-Geer; per la sua determinazione nella lotta alle discriminazioni contro gli albini, il presidente Jakaya Kikwestern l’ha chiamata in Parlamento, primo membro albino in tale istituzione.
Non esiste una stima precisa, ma sembra che in Tanzania gli albini siano più di 300 mila. La malattia che li colpisce più frequentemente è il cancro alla pelle. Per essere curati devono recarsi a Dar es Salaam, presso l’Ocean Road, l’unico ospedale per la cura del cancro in tutto il Paese. Per chi vive al nord questo significa affrontare un viaggio di due, tre giorni.
«Noi siamo terrorizzati. Il governo ha predisposto schiere di poliziotti che scortano gli albini durante questi lunghi viaggi. Abbiamo paura di girare da soli, di essere aggrediti. Quando non vediamo tornare a casa i nostri bambini la preoccupazione aumenta. Io vivo con mio marito e i miei quattro figli. Di notte, se qualcuno bussa alla porta, io inizio già ad agitarmi; e i miei figli mi dicono: mamma, andiamo noi, tu non andare».
La presidente con il resto del consiglio direttivo e alcuni membri dell’Associazione mi ricevono nel loro ufficio: una stanza che l’Ocean Road ha messo a loro disposizione, anche per la massiccia presenza di albini in cura all’ospedale. Il mio sguardo fotografa articoli di giornali che arredano la stanza. Enormi raccoglitori traboccano di carte, documentazione e casi di aggressione ad albini.
Shymaa è seduta al tavolo di fronte a me, scrive il suo numero di telefono piegata e incollata su un foglio di carta. È molto miope, come la maggioranza degli albini. Vede pochissimo e, nonostante le grosse lenti montate sugli occhiali, ha bisogno di avvicinarsi al foglio quasi fino a toccarlo con il naso. Una delle tante conseguenze dell’albinismo, insieme ai tumori alla pelle, è proprio la miopia, che si sviluppa fin da bambini, causando loro enormi difficoltà a scuola: non tutti possono permettersi il lusso di un paio di occhiali.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

A casa di Victor

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Arrivo nella scuola del villaggio mentre il muezzin chiama alla preghiera. Victor è sulla porta della scuola, accecato dalla luce abbagliante di mezzogiorno. Ha gli occhi socchiusi, arriccia il naso e cerca di farsi ombra con la mano come per voler mettere a fuoco. Non mi conosce, ma sa di dover aspettare una mzungu (bianca) che vuole conoscere lui e la sua famiglia.
Mi avvicino e mi sorride solo quando sono a pochi centimetri da lui. Non sapendo cosa dire mi prende per mano. La sua mano è porosa, sembra di carta vetrata, mi graffia. È talmente ustionata dal sole da essere coperta da bolle indurite e fastidiose.
È un bel bambino. I lineamenti sono delicati; la pelle del viso e del collo è bianchissima, morbida, sembra curata o ancora troppo giovane.
Prendiamo una strada sterrata; si toglie le scarpe, ne lega i lacci tra loro e le appende al collo. I quadei e i libri li mette sulla testa e cammina spedito, ma si sente osservato. Timidamente inizia a farmi qualche domanda in inglese. Gli piace studiare. E mi dice che l’inglese è la sua materia preferita.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Passiamo in mezzo a bambini che giocano a pallone, accanto a donne che attizzano il fuoco per cucinare l’ugali (polenta). Tutti ci guardano e lui sorride e saluta, contento di essere importante agli occhi del villaggio perché ha con sé la mzungu.
Arriviamo finalmente a casa sua. La mamma è fuori che lava i panni e lui le si avvicina, gli sorride e subito si mette ad aiutarla. La casa di fango è immersa nel villaggio di Kibiti, accerchiata da alberi di mango che ne delimitano il perimetro.
Alla spicciolata arriva una squadra di ragazzine e bambini: sono i fratelli e le sorelle di Victor. La mamma mi dice di avere sette figli, due dei quali albini: Victor, che mi accompagna, e Oliver, il primo figlio, che lavora a Dar es Salaam.
Suo marito, molto malato, non è albino. «Lo era suo nonno – mi anticipa quasi a voler spiegare come due figli siano nati albini e gli altri cinque no -. Non ho mai pensato, nemmeno per un secondo, che Victor o Oliver potessero essere una disgrazia. Amo tutti i miei figli allo stesso modo. Mio marito e io li abbiamo allevati senza pregiudizi; anzi, gli altri cinque sono istintivamente diventati più protettivi nei confronti di Victor, soprattutto in questi anni. Se ne sentono tante. Meno male che noi viviamo in un piccolo villaggio e la gente vuole bene a Victor, lo aiuta e lo protegge. Non credono a queste superstizioni. Victor è un bimbo buono, generoso, molto dolce ed è ben voluto da tutti. Lui va a scuola con gli altri bimbi del villaggio, li aiuta a fare i compiti, gioca con loro, va al catechismo ed è stato anche scelto dal parroco come chierichetto. Gli piace studiare e dice che da grande vuol fare il medico per guarire tutti i bambini. Io sono orgogliosa di Victor e di Oliver come di ognuno dei miei sette figli. Quello che sta accadendo in Tanzania è vergognoso; ognuno di noi tanzaniani deve reagire e aiutare le famiglie dove ci sono albini, affinché finisca questa tragedia assurda. I nostri albini sono figli del Tanzania come gli altri. Sono africani bianchi e il governo deve impegnarsi nel far capire alla gente che sono esseri umani e che è assurdo pensare che possiamo vincere la nostra povertà con un amuleto fatto con le parti di una persona, un loro fratello per giunta».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Vita da fantasma

Too a Dar es Salaam e incontro il segretario generale dell’Associazione albini del Tanzania, Samuel Mugo, che mi mostra la bozza di una proposta di ricerca che l’associazione ha elaborato, per stabilire le cause che sono all’origine delle uccisioni e ha fatto appello al governo perché questo dichiari la situazione come emergenza nazionale. Stanno facendo pressione su leaders religiosi, giornalisti e attivisti dei diritti umani affinché facciano sentire la loro voce e convincano i membri del governo che la strage degli albini è socialmente e moralmente ingiustificata.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

«Inoltre un’altra sfida che gli albini devono affrontare – continua Samuel – è la discriminazione sul posto di lavoro, poiché sono disprezzate le loro qualifiche e competenze. Meno male che all’Ocean Road ci sono albini che lavorano come infermieri e negli uffici. Ma nei villaggi dell’interno i bambini albini non vengono mandati a scuola; sono emarginati e condannati a un futuro di lavori manuali spesso sotto il loro peggior nemico: il sole bollente che cuoce la loro pelle».
Gli domando come, secondo lui, si possano uccidere e scuoiare delle persone come fossero animali, per fae degli amuleti magici. «Forse per istinto o per nostra cultura: quando una persona si trova davanti a privazioni,  per prima cosa cerca spiegazioni e consigli dai guaritori tradizionali con la speranza di scoprire la causa dei problemi e delle sfortune e i relativi rimedi. Il più delle volte la soluzione consiste nel cercare scorciatornie che possano risolvere i mali, causando però maggiori problemi alla società. Di recente nel Paese sono venuti a galla 2 mila casi di commercio di organi umani. E in Africa, l’albinismo suscita da sempre pregiudizio. Un africano bianco è considerato e definito uno zeru zeru, fantasma o spettro. E si è trasmessa la convinzione che un albino sia dotato di poteri soprannaturali».
«Ero in giro per le strade di Dar es Salaam, mi hanno bloccato in tre e hanno provato a tagliarmi un dito del piede; per fortuna è arrivata una donna che si è messa a gridare» mi racconta Musa mentre mi mostra i segni dell’aggressione.
superstizioni e crudeltà
All’Ocean Road incontro Veronica mentre sta allattando il suo bellissimo Fredy, subito dopo il trattamento di chemioterapia: un tumore alla pelle la sta disintegrando fisicamente; ma Fredy, di cinque mesi, è bene in salute. Le dico che è pericoloso allattarlo a causa della sua chemioterapia. Mi risponde che tra il farlo morire di fame o per danni dovuti alla sua chemio, non sa cosa sia peggio. Come tante altre donne, è stata abbandonata dal marito quando aveva iniziato a stare male e l’unica eredità lasciatagli è questo bimbo che ama. Ma lei sta morendo. E non è la sola.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Le sue amiche vogliono fermamente essere fotografate per far vedere al mondo come è ridotto un albino aggredito dagli uomini o dal tumore alla pelle. Sono letteralmente sfigurate, eppure si mettono in posa con i loro bimbi in braccio. «Voi giornalisti dovete dirlo, dovete raccontarlo al mondo – mi grida Greta -. Ci sono antiche credenze ancora diffuse come quella che si possa guarire dall’aids avendo rapporti sessuali con ragazze albine, non facendo altro che aumentare gli stupri e il contagio. I bambini, che sono la maggioranza poiché la vita media di un albino è 40 anni, rischiano continuamente di essere uccisi e mutilati dei genitali, che i sicari rivendono a prezzi altissimi per riti tribali».
Di fronte alle loro storie, non posso fare a meno di domandarmi se sia giusto che questi sfortunati, che passano tutta la vita a difendersi dal sole, oltre alle sofferenze provocate da piaghe, scottature, tumori della pelle, dopo l’emarginazione e le difficoltà sempre maggiori, siano costretti a vivere la loro quotidianità nel terrore di essere mutilati e scuoiati vivi!
Greta, prima di finire il suo sermone, avvicina i suoi occhi ai miei, raccontandomi quanto devono soffrire soprattutto negli attimi prima di morire; leggenda vuole che le parti dei loro corpi utilizzate nei riti magici, siano tanto più efficaci quanto più forti siano state le urla durante la mattanza.

(Photo Romina Remigio)
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Affari e riscatto

Si calcola che in Africa ci sia un albino ogni 5 mila abitanti (in Europa uno ogni 60 mila). In alcuni paesi, come Congo, Uganda, Malawi, Kenya, Mozambico la percentuale degli albini è maggiore che in Tanzania e le credenze e pratiche magiche nei loro riguardi non sono meno drammatiche.
Dietro i crimini contro gli albini, non ci sono solo pregiudizi e superstizione. Sembra che gli introiti derivanti da tale mattanza siano troppo grandi per essere fermati. Secondo fonti della polizia tanzaniana un cadavere di albino può essere venduto per una somma che va dai 75 ai 400 mila dollari.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Proprio in Tanzania, nel mese di agosto 2010, un cittadino keniano è stato catturato e condannato per direttissima a 17 anni di carcere per aver cercato di sequestrare un giovane albino (subito messo sotto scorta) allo scopo di rivenderlo per 220 mila euro.
Una giornalista tanzaniana, Vicky Ntetema, corrispondente della Bbc, è costretta a vivere sotto scorta perché minacciata di morte per aver denunciato il coinvolgimento di stregoni e poliziotti nelle uccisioni di albini.
Le denunce sono giunte anche al Parlamento europeo che, con una risoluzione del 4 settembre 2008, ha sollecitato le autorità tanzaniane ad avviare un’indagine su tali crimini e ha invitato il governo a «tutelare i diritti degli albini tanzaniani attraverso politiche d’inclusione, parità di accesso a istruzione e assistenza medica di qualità, a offrire loro una protezione sociale e giuridica adeguata; promuovere una migliore formazione degli operatori sanitari e seminari per insegnanti e genitori per far capire come sia importante che i bambini albini siano protetti dal sole».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Il presidente tanzaniano Kikwestern, come presidente anche dell’Unione africana e quindi maggiormente sollecitato dalle associazioni di diritti umani, è stato «costretto» ad adottare forti misure di sicurezza a favore degli albini.
Ma il riscatto maggiore per l’Associazione nazionale degli albini e di tutti gli albini del Tanzania è arrivato il 3 novembre 2010: per la prima volta nella storia, per volontà popolare, alle elezioni presidenziali è stato eletto in Parlamento un albino 52enne, Salum Khalfani Bar’wani, candidato del partito di opposizione Fronte civico unito (Cuf). Nonostante i tanti brogli elettorali denunciati, ha battuto alle ue l’avversario della maggioranza che da 15 anni ricopriva il seggio. «Questa è stata decisamente una vittoria rivoluzionaria per tutti gli albini di questo Paese» ha commentato Bar’wani.

Romina Remigio