Atti degli Apostoli:

il nostro libro

Tempo di novità

Spesso si dice che viviamo in tempi di trasformazione, di cambiamento.
Probabilmente non esiste nessun tempo che non sia di cambiamento, ma è vero che
certi passaggi storici sembrano stravolgere tutto ciò che trovano, e il nostro
è uno di quelli. È comprensibile lo sconcerto dei credenti in Cristo che si
chiedono come continuare a nutrirsi della fede quando tanto sembra contestarla
e spingerla a rinnovarsi. La paura del cambiamento, ovviamente, è quella di
perdere qualcosa di fondamentale. Nello stesso tempo è certo che, restando come
ci si era abituati a essere, si rischia di morire, ossia che il rapporto con
Gesù diventi insignificante innanzitutto per noi, il che sarebbe una grave
perdita per la nostra vita.

Come fare a mantenere equilibrio tra conservazione dell’essenziale e
rinnovamento vitale?

Può confortare che il primo libro nel quale si parla della Chiesa, gli
Atti degli Apostoli, sia situato su uno sfondo simile al nostro. Anche nel I
secolo d.C., infatti, c’era un «grande mondo» che affascinava perché ricco,
luccicante, abbagliante: il potere politico romano, con i suoi commerci e la
facilità dei viaggi, che grazie alla cultura greca metteva a disposizione una
lingua con cui farsi capire ovunque (come oggi l’inglese) e un modello
culturale attento all’essere umano, alla sua intelligenza, alla sua autonomia,
al suo farsi da solo con la forza del cervello e della propria forma fisica. Il
divino sembrava più formale e trascurabile. Accanto, c’era un «mondo antico»
ebraico fatto di regole minuziose che però rimandavano a una saggezza
interiore, di fedeltà al rapporto con un Dio unico, senza statue né quadri, un
mondo che in fondo affascinava gli stessi romani. Gesù non era quasi mai uscito
da questo mondo ebraico, ma i cristiani si troveranno presto sfidati a
entrarvi: come farlo senza perdere la propria anima?

In queste pagine, cercheremo di percorrere il libro degli Atti tenendo
sempre sullo sfondo la nostra situazione e la nostra vita, per provare a
cogliere che cosa quella vicenda di duemila anni fa insegna a noi. Proveremo a
lasciarci guidare dall’ordine del libro biblico, senza essere noi a imporgli
temi o questioni: sia lui a portarci dove ritiene opportuno.

La copertina

Un libro non si dovrebbe giudicare dalla sua copertina, anche se già
questa ci dice qualcosa sul suo contenuto: non solo il titolo o l’immagine sul
frontespizio, ma anche quanto è spesso, quanto è scritto fitto, quante immagini
ha al suo interno, sono elementi che già ci fanno capire se il libro potrà
interessarci o no.

Gli Atti degli Apostoli sono la seconda parte di un’opera che
comprende il Vangelo secondo Luca: questo vuol dire che l’autore pensava al
Vangelo, che pure è autonomo, come un testo in qualche modo da completare con
gli Atti, i quali a loro volta sono autonomi ma non possono essere capiti
appieno senza il Vangelo. Anche se negli Atti non si cita esplicitamente il
Vangelo di Luca, la vicenda di Gesù resta assolutamente il contesto nel quale
comprenderli: pur avendo la vita della Chiesa delle logiche e dei tempi suoi, è
Gesù a renderla sensata.

Nel leggere in greco gli Atti, si resta colpiti dalla trasformazione
della lingua che avviene nel corso dei capitoli: i primi sembrano essere
redatti da qualcuno che, pur scrivendo in greco, continua a pensare con una
testa ebraica (come succede a chi vuole scrivere un bell’inglese pur
continuando a pensare in italiano). Qualcosa del genere succedeva in effetti
anche nel Vangelo, benché nei primi due capitoli di Atti questo avvenga in modo
più marcato. Poi, poco per volta, nel corso della narrazione, la lingua si
purifica, si fa più elegante, più «greca». Dalla metà circa del libro in poi,
siamo davanti a un discorso puro, sciolto, affascinante. È come se anche il
modo di scrivere progressivamente si facesse più internazionale. Non a caso i
primi capitoli si svolgono tutti a Gerusalemme, ma poi un po’ per volta la
geografia si allarga, e nelle ultime righe la storia si sviluppa a Roma, la
grande capitale, il centro del mondo.

L’introduzione (At 1,1-2)

Luca è uno storico che conosce bene il suo mestiere. Gli storici del
nostro tempo dimostrano di fare un buon lavoro quando usano bene le fonti,
fanno vedere di aver consultato gli archivi e danno prova di aver letto le
opere degli altri storici. Al tempo di Luca, un bravo storico mostrava di
essere tale innanzitutto con due strumenti: i discorsi, che non dovevano
necessariamente essere fedeli parola per parola a come erano stati pronunciati,
ma che servivano a spiegare il senso del momento raccontato, a chiarire che
cosa c’era in ballo, e poi l’introduzione, dove lo storico faceva sfoggio della
propria lingua. Il sottinteso era che chi scriveva bene doveva aver studiato
tanto, e quindi essere anche capace di applicare lo studio nella ricerca e
nell’interpretazione dei fatti. E Luca mostra eccome di saper scrivere.

In pochissime parole, nei primi due versetti, dice tantissimo. Intanto
indirizza la sua opera a Teofilo. Chi sia questa persona, non lo sappiamo.
Anzi, potrebbe non essere una persona reale, dal momento che il nome significa
«amico di Dio»: può darsi che Luca intenda dire che qualunque amico di Dio è il
destinatario del suo lavoro. Era indirizzato alla stessa persona anche il
Vangelo (basta guardare Lc 1,3). Per rendere chiaro, fin dall’inizio, che i due
libri vanno letti insieme.

Luca dice poi che nel Vangelo ha
esposto quello che Gesù «iniziò a fare ed insegnare»: con queste parole vuole
dirci che la vicenda storica di Gesù non è finita con la sua ascensione. Il
Signore si identifica con la sua Chiesa, come farà intuire anche a Saulo di
Tarso quando lo incontrerà sulla strada di Damasco: «Io sono Gesù, che tu
perseguiti» (At 9,5), gli dirà, anche se, a essere pignoli, Saulo era convinto
di perseguitare non Gesù ma i cristiani. Nel prologo degli Atti, quindi, Luca
dice che quello che Gesù ha fatto nella sua vita non è finito, ma prosegue
nell’opera dei cristiani. E come Gesù non ha soltanto insegnato, ma ha agito,
così anche il cristianesimo non è questione di conoscenza sola, né solo di
azione, ma di agire consapevole, di intuizione che si fa vita vissuta.

Quindi Luca fa notare che l’opera di Gesù nel mondo è finita (ascende
al cielo) ma non per caso o incidente: egli dà disposizioni ai suoi, organizza
la sua partenza, e infine non è più fisicamente presente ma solo dopo aver
lasciato lo Spirito. Insomma, Gesù continua a esserci ma in una modalità nuova,
che aumenta la responsabilità dei suoi discepoli.

Gesù in cielo (At 1,3-11)

Gesù risorto non resta nel mondo. Lo sappiamo. Anche perché Luca lo
aveva già detto alla fine del Vangelo (Lc 24,51). Là, però, sembra che tutto
sia successo in un giorno solo, qui si parla di un tempo di quaranta giorni tra
la risurrezione e l’ascensione al cielo. Possibile che Luca si sia contraddetto
da solo? A partire da ciò che abbiamo già intuito sulla sua precisione, è
improbabile. Piuttosto, la contraddizione è uno dei trucchi degli scrittori,
soprattutto nell’antichità, per suggerire al lettore quali sono gli aspetti più
importanti cui fare attenzione. Se nel Vangelo ci dice che Gesù è asceso dopo
un giorno e poi, negli Atti, dopo quaranta, significa che la durata non è
importante. E che quindi il dato temporale vuole indicare altro, è un dato
simbolico. Gesù nel Vangelo ascende al cielo il giorno della risurrezione
perché il suo essere il Vivente e il suo essere alla destra del Padre
coincidono. Gesù negli Atti ascende al cielo quaranta giorni dopo la
resurrezione, perché comunque c’è un distacco tra i due elementi, la
risurrezione di Gesù non è soltanto un modo per dire che in qualche modo lui
vive ancora, spiritualmente o nel ricordo: no, lui è davvero il Vivente,
davvero il suo corpo ha lasciato il sepolcro. Ma non è più fisicamente tra noi.

La tentazione di aggrapparci alla nostalgia è umana e Dio la capisce
bene, infatti due angeli, dice Luca in At 1,10, arrivano a scuotere i
discepoli: «Perché state a guardare il cielo?». Andate, agite. Gesù tornerà, ma
adesso non è qui; c’è lo Spirito Santo che vi accompagnerà, ma dovrete metterci
del vostro.

Di nuovo in dodici (At 1,15-26)

Cosa fanno i discepoli appena rispediti nel mondo? Può stupirci, ma
iniziano prima di tutto a recuperare le proprie radici. Innanzitutto, si
trovano nel cenacolo, ossia là dove avevano celebrato l’ultima cena con Gesù.
Con loro ci sono la madre e i fratelli di lui (At 1,13-14): è chiaro che tutto
rimanda a colui che sembra assente. E poi ricostituiscono il numero dei dodici.
Dodici rimandava al numero dei patriarchi, alle dodici tribù d’Israele. Giuda
non c’è più, ma il numero non va perso. È un rimando importante alla storia che
c’è alle loro spalle, a quello che noi chiamiamo tempo dell’Antico Testamento.
Tutto è nuovo, ma non dimentica le proprie radici.

È poi curioso come procedano a scegliere il dodicesimo: selezionano
chi è stato testimone della vicenda di Gesù (At 1,21-22), e ne trovano due. Uno
dei due ha una bella presentazione, più ampia («Giuseppe, detto Barsabba,
soprannominato Giusto»), l’altro ha solo il nome, Mattia. Tra questi si tira a
sorte. Era il modo con cui in Israele si affidava la scelta a Dio. Ancora una
volta si ricorre a modalità «antiche», tradizionali, che stanno alle spalle,
per impostare il nuovo che va costruito. E Dio, stranamente (ma come ha già
fatto tante volte nell’Antico Testamento), sceglie colui che potevamo ritenere
svantaggiato. Fin dall’inizio, si tratta di collaborare noi con Dio per
costruire il nuovo che abbiamo davanti senza dimenticare ciò da cui veniamo.

Angelo Fracchia
(1 – continua)

Iniziamo in queste pagine la collaborazione con Angelo Fracchia che ci accompagnerà alla scoperta del libro degli Atti degli Apostoli, il libro della missione.

Ecco come lui stesso si presenta:

«Ci vuole coraggio per subentrare a un maestro come don Paolo Farinella nel tentativo di far conoscere e affascinare ai testi biblici. Coraggio, o incoscienza. Più probabilmente la seconda. Forse la stessa incoscienza che si mette in campo nel far crescere un figlio, avventura per la quale, a pensarci, non possiamo che dirci incapaci (nel mio caso, poi, quell’incoscienza si è ripetuta quattro volte). O l’incoscienza che ci vuole nel pronunciare un per sempre, quale che esso sia. Potrebbe essere l’incoscienza di chi ama. Che quindi si apre semplicemente in un grazie, nel mio caso a don Paolo, a padre Gigi che – incosciente anche lui – mi ha chiamato a questa bella avventura. Che lo Spirito mi aiuti a dire di lui cose rette, come Giobbe (Gb 42,7), rimproverato per la sua incoscienza ma lodato per come di Dio si era fidato, anche quando se ne lamentava».

Chi è Angelo Fracchia?

Padre di quattro figli, amante della musica, ha studiato all’Istituto biblico di Roma e collaborato come traduttore con l’editrice Paideia. Guadagna il pane quotidiano per sé e la sua numerosa famiglia facendo l’insegnante di religione in due scuole superiori a Saluzzo e Dronero nella provincia di Cuneo. Ma la sua vera passione e missione è far conoscere e amare la Parola di Dio.

Perché gli Atti degli Apostoli?

Uno degli inviti pressanti di papa Francesco a tutta la Chiesa è quello di essere «una Chiesa in uscita». Il libro degli Atti, continuazione del cammino di Gesù nella storia dell’umanità attraverso la sua Chiesa, non è certo un semplice libro di storia, ma è piuttosto una fonte di ispirazione, un paradigma di vita. Il mandato degli Apostoli diventa allora il nostro mandato. Il loro stile di dare la bella testimonianza di Gesù è ispirazione e modello per noi. Non per ripetere quello che gli apostoli hanno fatto, ma per acquisire il loro stesso spirito e imparare e riconoscere l’azione dello Spirito nel nostro oggi.




2019 all’insegna della missione

Buon anno! I nostri auguri ai missionari e missionarie della Consolata, ai
laici che ci seguono e ci vogliono bene, ai tanti amici che, conoscendo il
nostro beato fondatore, seguono il suo esempio e continuano ad invocarlo con
fiducia.

Abbiamo da poco iniziato il cammino di questo 2019 e ci
siamo augurati vicendevolmente che sia «buono» (anzi, migliore dell’anno appena
passato). Certamente ci riserva una bella sorpresa: un intero «mese missionario
straordinario», il prossimo ottobre, dentro il quale si incastonerà il «Sinodo
per l’Amazzonia».

Inutile dire che il Sinodo 2019 ci tocca da vicino, perché
parecchi nostri missionari lavorano in quell’immenso territorio che si allarga
in vari paesi latinoamericani e dove «una profonda crisi è stata scatenata da
un prolungato intervento umano, caratterizzato da una “cultura dello scarto” e
da una “mentalità estrattiva”».

Papa Francesco, prima dell’indizione del Sinodo
amazzonico, così scriveva al cardinale prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli: «Indìco un mese missionario straordinario
nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio
ad gentes
e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria
della vita e della pastorale. Ci si potrà ben disporre ad esso, anche
attraverso il mese missionario di ottobre del prossimo anno, affinché tutti i
fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle
loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca
l’amore per la missione, che “è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è
una passione per il suo popolo”».

A questi due eventi, vorremmo aggiungere la memoria di un
centenario che ci è caro e che celebra la nostra presenza missionaria in
Tanzania, dove i primi quattro «arditi della Consolata» sbarcarono nell’aprile
del 1919; avevano il permesso e la benedizione dello stesso fondatore, che
aveva acconsentito a quella terza apertura missionaria del suo giovane
Istituto, nonostante «la scarsità di personale» e in obbedienza al papa…
soggiungendo: «Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è
e più se ne fa; ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del
missionario».

Sia ancora lui, allora, a ispirarci e accompagnarci nel
nuovo anno perché, nella preghiera, nella riflessione e in gesti concreti di
apertura e solidarietà, ci prepariamo al prossimo «straordinario ottobre» che
colora di intensa gioia missionaria i giorni della nostra attesa.

P. Giacomo
Mazzotti

L’Allamano nella vita di ogni giorno

Questa rubrica che propone diversi aspetti della ricca personalità del
beato Giuseppe Allamano, durante l’anno 2019 conterrà due pagine con la pretesa
di una certa novità: un Allamano «a tu per tu».

Non si può dire che l’Allamano non sia conosciuto,
soprattutto nei territori dove vivono e operano i suoi missionari e
missionarie, sia in Italia che in tante altre nazioni. Sono state pubblicate
tutte le sue conferenze come pure tutta la sua corrispondenza scritta e
ricevuta. Le pubblicazioni che trattano di lui sono numerosissime e in diverse
lingue.

Non è facile offrire ancora qualcosa di nuovo
sull’Allamano. A ben pensarci, però, c’è ancora una strada da percorrere. Si
tratta di aprire gli archivi e ascoltare certe sue parole che abitualmente
rimangono nascoste. L’Istituto possiede un archivio molto ricco, nel quale, tra
il resto, è conservata una grande quantità di testimonianze sull’Allamano.

Subito dopo la sua morte, molti sacerdoti, religiosi,
suore e laici, che lo avevano conosciuto da vicino, hanno sentito il desiderio
di riferire i propri ricordi personali. Non volevano che la memoria di un tale
personaggio finisse per scomparire. Quando poi è stata iniziata la causa per la
beatificazione, molte di queste testimonianze sono state garantite dal
giuramento.

È interessante riprendere in mano questi documenti, per
lo più manoscritti, e rileggerli con attenzione. Spesso i testimoni non si
accontentano di parlare di lui, ma riportano addirittura sue parole che
ritengono di ricordare, scrivendo: «l’Allamano diceva…» e, tra virgolette,
riportano le sue espressioni in forma diretta.

Riguardo queste testimonianze, si deve tenere presente
che il testimone ridice le parole dell’Allamano come le ricorda, affidandosi
cioè alla propria memoria. Non è quindi sempre possibile pretendere l’esattezza
assoluta della terminologia, ma solo quella del concetto.

La novità di queste pagine consiste nel fatto che
contengono le parole e le reazioni dell’Allamano «nella vita di ogni giorno».
Non l’Allamano delle conferenze o delle lettere, ma nei suoi interventi in
situazioni concrete della vita, diverse l’una dall’altra e quindi spontanee. In
definitiva un Allamano immediato  proprio
come era nella vita ordinaria.

Proporrò queste parole, riferite dai testimoni e poco
conosciute, attraverso dei fatterelli e facendo notare come l’Allamano li seppe
vivere e interpretare. Le sue parole collegate a questi episodi sono quelle che
i testimoni riferirono avendole udite direttamente da lui.

Al Paese

Il primo tema che propongo riguarda Castelnuovo, suo paese natale, oggi
detto il paese dei santi (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Giuseppe Allamano).
Sono quattro fatterelli che dimostrano la sua semplicità umana e la sua
ricchezza interiore.

Il primo fatto
tocca la sua vocazione al sacerdozio a proposito della quale l’Allamano seppe
dare la giusta importanza ad un dettaglio della sua infanzia. Un giorno, il
parroco e il sindaco del paese capitarono a casa sua a visitare la mamma.
Avendolo visto lì in cucina, piuttosto timido, domandarono alla mamma: «Che
cosa facciamo di questo ragazzo?». La risposta di quella saggia donna dimostra
che conosceva di quale stoffa era fatto il figlio: «Gli lascio fare quello che
vorrà», rispose. Il parroco, che stimava il ragazzo, non si accontentò: «Non lo
sprechi; lo faccia studiare».

Un fatto così
semplice poteva passare inosservato, ma non per l’Allamano, che fin da ragazzo
sapeva rendersi conto della presenza di Dio nella propria vita.

Ecco il suo
commento, confidato anni dopo ad un suo missionario: «Se non fossero passati da
casa mia il sindaco e il parroco, forse non avrei seguito la vocazione». Sembra
che abbia voluto dire: «È stata la Provvidenza a mandarli a casa mia proprio
quel giorno, quando io ero in cucina con la mamma, che così fu convinta e mi
mandò a studiare a Valdocco da Don Bosco».

Un secondo
fatterello riguarda il suo rapporto proprio con la mamma, quella «santa donna»,
come lui la chiamava, alla quale era molto legato, particolarmente durante gli
anni di una lunga malattia che la portò alla cecità e alla totale sordità. La
mamma era la sorella di Giuseppe Cafasso, morto in concetto di santità. Per
ottenere la guarigione, sicuramente il figlio, affezionato, l’avrà raccomandata
all’intercessione dello zio. Riferendosi poi al fatto che non era stata
guarita, pur essendo sorella, si accontentò di questo bonario commento
confidato ad una suora missionaria: «I Santi non fanno le grazie ai parenti». Né
perse la sua fiducia nel Cafasso, del quale curò la causa presso la Santa Sede
fino alla beatificazione.

Il terzo fatto riguarda la sua
presenza a Castelnuovo. Dopo l’ordinazione, si recò al paese sempre più
raramente. Quando il cognato Giovanni Marchisio si ammalò, andò a trovarlo, ma
senza dilungarsi troppo. Lo raccontò così: «Sono stato a trovare mio cognato;
mi fermai poche ore; alle due ero ancora a Torino, alle sette avevo già finito
il viaggio. Da ben quindici anni non ero più stato a Castelnuovo».

Un ultimo
episodio piuttosto curioso. Al sacerdote don Pagliotti, suo penitente, saputo
che dedicava la nuova chiesa parrocchiale in Torino a S. Agnese, espresse la
sua soddisfazione aggiungendo questa confidenza: «I miei genitori avevano già
deciso, prima della mia nascita, di pormi il nome di Agnese… se fosse nata una
bambina. E poiché nacqui proprio il giorno di S. Agnese [21 gennaio 1851], mia
madre mi instillava gran devozione a questa cara martire, e alla sua protezione
ho pure riposto l’esito del gran passo dell’istituzione delle Missioni della
Consolata».

P. Francesco Pavese




Comunità simpatiche … secondo l’Allamano


Il mese di novembre si apre con la solennità di «Tutti i Santi» e, quest’anno, si apre subito dopo il Sinodo dei giovani che ha avuto tra le sue parole chiave «santità», non certo politically correct (parlando di giovani). Tra i vari documenti del Sinodo, appare anche questa annotazione: «Convinti che la santità “è il volto più bello della chiesa”, prima di proporla ai giovani, siamo chiamati tutti a viverla da testimoni, divenendo così una comunità “simpatica”. Solo a partire da questa coerenza, diventa importante accompagnare i giovani sulla via della santità. Se sant’Ambrogio affermava che “ogni età è matura per la santità”, senza dubbio lo è anche la giovinezza».

Tutti noi adulti, dunque, siamo invitati a diventare «simpatici», ossia attraenti e capaci di accompagnare i nostri giovani sulle strade della santità. In questo, per noi missionari della Consolata, è stato maestro e testimone esemplare il beato Allamano che, con autorevolezza e sapienza, ha saputo esercitare con i giovani aspiranti missionari una vera «pedagogia della santità»; come appare, ad esempio, nelle poche lettere da lui scritte a fratel Benedetto Falda, missionario poco più che ventenne e appena arrivato in Africa.

Ricordandolo con nostalgia e trepidando un poco per lui, l’Allamano gli scrive: «Ciò che ti raccomando particolarmente è di non mai scoraggiarti dei tuoi difetti, sia di umiltà, di ubbidienza, di carità o d’altro. Non sei ancora santo e di questa roba ne avrai sempre, finché vivrai, frutto in gran parte del tuo carattere vivace. Basta che abbia davanti a Dio il desiderio di emendarti… e poi, allegro come prima!». E ancora: «Comprenderai come il mio cuore paterno abbia esultato nel sapere della tua professione perpetua. Il caro p. Morino me ne scrisse una minuta relazione, riferendomi i punti principali del bel discorso del p. Cagliero. Metti in pratica tale predica e sarai il modello di quanti fratelli verranno dopo di te… Felice te! Sarai capo di una grande schiera di santi fratelli in cielo e dovrai lassù anche ringraziare me, che non ti risparmiai le correzioni».

Questi cenni brevissimi, ma luminosi, ci aiutano a scoprire, una volta di più, la volontà del Signore «che ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (Gaudete et exsultate, 1). Non solo, ma che questa «meta alta» a cui tutti siamo chiamati deve essere proposta ai giovani con l’accompagnamento, l’affetto e la guida sapiente… proprio come il beato Giuseppe Allamano ci ha mostrato e insegnato.

Giacomo Mazzotti

 

Suore per la Missione

I primi missionari della Consolata intravidero subito che il loro apostolato sarebbe rimasto penalizzato senza l’apporto delle suore. Il contatto con l’ambiente femminile e con i bambini, tutto l’apparato infermieristico e, parzialmente, anche quello scolastico, la cura degli ambienti delle missioni, erano situazioni nelle quali le suore si sarebbero mosse molto meglio.

Padre Filippo Perlo, procuratore del primo gruppo, appena quattro mesi dopo l’arrivo in Kenya, inviò un messaggio allo zio, il canonico Giacomo Camisassa, da trasmettere all’Allamano: «Per ora dica al Sig. Rettore che se vuole mandare 100-200 missionari, non vi è che l’imbarazzo della scelta del posto. Ad ogni passo si presentano splendide popolazioni. Se vi sono pochi preti mandi suore. Convertiremo il Kenya con le suore».

Sia l’Allamano che il Camisassa, conoscendo l’esperienza di altri istituti missionari, erano più che convinti della necessità di personale femminile in missione. Così, ben presto, l’Allamano si accordò con il canonico Giuseppe Ferrero, padre della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il Cottolengo, ed ottenne che alcune suore Vincenzine partissero per collaborare con i suoi missionari in Kenya.

1903 le prime suore Vincenzine in Kenya

Le missionarie Vincenzine del Cottolengo

Le suore del Cottolengo rimasero in Kenya dal 1903 al 1925, e subito pagarono un alto prezzo in vite umane. La loro santa avventura missionaria si aprì con la morte di sr. Editta e di sr. Giordana già nel 1903, e si concluse con la morte di sr. Maria Carola nel 1925, mentre stava rientrando a Torino in nave. Per lei il mare divenne il suo sepolcro.

In occasione della beatificazione del Cottolengo, nel 1917, prima che tutte le missionarie Vincenzine lasciassero il Kenya, l’Allamano espresse pubblicamente la riconoscenza sua e dei missionari scrivendo: «Mirabile fu la fortezza con cui queste cooperatrici dei miei missionari li coadiuvarono nelle difficoltà degli inizi straordinariamente ardui e duri. Alcune di esse ne meritarono già il premio, volate in Cielo; ma altre ne presero il posto; e anche oggidì, in numero di 36, compatte e sempre molto agguerrite contro il clima, istruite da lunga pratica, compiono un’opera apostolica di cui la loro modestia vieta di dire il valore e il merito, precedendo, come anziane, le già numerose missionarie della Consolata, divenute loro compagne di apostolato».

Le missionarie della Consolata

Quando i responsabili del Cottolengo non furono più in grado di rispondere alle esigenze delle missioni che chiedevano suore sempre più numerose, l’Allamano si vide costretto a prendere in esame l’eventualità di iniziare un istituto femminile per conto suo. A spingerlo in questa direzione erano pure le insistenze dei missionari.

Per iniziare l’istituto delle missionarie, l’Allamano seguì il suo metodo di discernimento che usava per ogni attività importante e consisteva in questo trinomio: pregare, consigliarsi e ubbidire.

Certo pregò molto. Non disse mai quanto, ma in occasione della memoria liturgica del beato Cottolengo si lasciò sfuggire questa confidenza con le suore: «Oggi è la festa del beato Cottolengo. Prima d’incominciare il vostro istituto io sono andato a pregare sulla sua tomba. Naturalmente ho dovuto pregare e poi consigliarmi e ciò ho fatto non solo coi galantuomini di questo mondo, ma anche coi Santi. Gli ho detto: “Ho da fare questo istituto o no? Veramente avrei più caro di non farlo; la mia pigrizia vorrebbe quello. Anche voi avreste fatto tanto volentieri il canonico, eppure avete realizzato questo complesso di carità. Dunque, devo farlo o non farlo?“». Poi quasi scherzando: «Quel che mi abbia detto non lo dico a voi. Però, se non si faceva l‘istituto per i missionari, non si faceva per voi sicuro». E le suore capirono.

La prima foto della Suore della Consolata in Kenya

Si consigliò, come disse, anche con i «galantuomini di questo mondo». Sicuramente con il suo arcivescovo, il card. Richelmy, e con il prefetto di Propaganda Fide, il card. Girolamo Gotti. Tutti lo spingevano per quella direzione, incoraggiandolo ad iniziare presto. Chi, però, diede la spinta decisiva fu il papa san Pio X. L’Allamano stesso raccontò come si svolsero le cose durante un’udienza privata con il papa. Mentre ricordava alle suore la fondazione dei missionari, fece questa precisazione: «Poi, ma molto più tardi, siete venute voi, ma voi siete del papa Pio X. Una volta che gli parlavo di questa nuova fondazione, mi disse: “Bisogna farla”. E avendo io aggiunto che credevo di non avere la vocazione per questo, egli mi rispose: “Se non l’hai te la do io”. Ed ecco le suore».

Su questo particolare l’Allamano ritornò altre volte, perché per lui non era solo un dettaglio insignificante, ma la più esplicita espressione della volontà di Dio. Alle missionarie disse ancora: «L’idea della fondazione venne dal papa Pio X, che è il rappresentante di Gesù Cristo in terra, quindi non c’è stato neppure un momento che questa istituzione non sia stata di Nostro Signore». E in altra occasione: «È il papa Pio X che vi ha volute; è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie». L’obbedienza al papa fu il fondamento della sua serenità di fondatore e di educatore delle missionarie.

C’è una testimonianza che aggiunge un aspetto originale e forse determinante. Secondo quanto scrisse padre Giuseppe Gallea, sembra che sia stato addirittura Pio X a suggerire la vera motivazione della fondazione: «Le opere in missione – avrebbe detto il pontefice all’Allamano -, procederanno meglio se le suore saranno formate con lo stesso spirito che avete dato ai missionari».

Missionarie della Consolata in Etiopia si adattano ai mezzi di trasporto locale.

Molte suore, poche missionarie

Raccomandando alle loro preghiere il card. G. Gotti morente, l’Allamano così si espresse con le missionarie: «Era un uomo di fede; fu anche lui che mi incoraggiò a fondare le suore; egli stesso mi disse: è volontà di Dio che ci siano le suore. “Ma, risposi io, suore ce ne sono già tante”. E lui: “Molte suore, poche missionarie”».

Ben presto si passò alla realizzazione pratica, dando vita alla prima comunità delle missionarie della Consolata, ufficialmente il 29 gennaio 1910. L’annuncio al pubblico fu senza rumore. Sul periodico «La Consolata» del mese di febbraio 1910, figurano poche righe, che non accennano ad una “fondazione” ma la lasciano supporre: «La Direzione del periodico riceve spesso domande di informazioni da persone che vorrebbero prendere parte come suore nelle missioni della Consolata. Avvertiamo che per questo si rivolgano alla “Direzione Istituto Missionarie”, corso Duca di Genova, 49 – Torino». Tutto qui, secondo lo stile dell’Allamano: operare con ardore, ma senza apparire!

Francesco Pavese

 


Il valore dell’interculturalità

Crescere vivendo nell’interculturalità

L’interculturalità non è semplicemente un modello nuovo e più efficiente, magari per impostare la nostra attuale internazionalità o almeno mantenerla il più possibile libera da conflitti. Interculturalità, nella spiritualità del nostro Istituto, significa molto di più, cioè è invito a una visione più profonda dell’attuale mondo plurale e in continua evoluzione, e delle persone che lo abitano, indipendentemente da lingua, cultura e religione.

Una visione che è in sintonia con la «contemplazione cristiana a occhi aperti» e che  va considerata anche nelle relazioni interpersonali all’interno delle nostre comunità formative.

Voi, cari giovani, siete privilegiati su questo punto, perché le vostre comunità sono di fatto internazionali e, conseguentemente, interculturali. Voi potete formarvi e crescere nell’esperienza vissuta dell’interculturalità.

La vostra generazione, fatta adulta, non potrà non essere interculturale. Nei nostri noviziati e case di formazione i segni dell’interculturalità sono già numerosi ed evidenti. Vi invito a continuare a percorrere il cammino intrapreso dando il meglio di voi. In un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale, è compito profetico della Chiesa e nostro, come Istituto, offrire al mondo nuovi modelli esemplari della vita comunitaria.

Ci potrebbe essere il rischio che, impegnandosi ad aderire alle varie culture, gradatamente si sottovaluti o si trascurino l’origine e la tradizione. Ricordiamoci che tutto possiede il suo valore. L’albero si mantiene vivo e produce frutto, se conserva le sue radici vive e sane. I futuri missionari della Consolata saranno necessariamente una famiglia interculturale, ma con tutti i valori e con lo spirito immutato proprio dell’Allamano. Questo ideale è stimolante e merita perseguirlo.

Il beato Allamano

Cari giovani, vi propongo un esercizio interessante, che consiste nel confrontare  voi stessi con il fondatore vivo e perenne. Perché sia efficace, questo confronto deve essere realizzato spesso, non una volta sola, e in modo concreto, vitale e adatto al particolare momento che uno sta vivendo.

«Confrontarsi» con il fondatore significa compiere un gesto formativo di prim’ordine, purché sappiate porvi di fronte a lui, così come siete, lasciandovi conoscere e interrogandolo, magari discutendo, per poi rispondergli. Le risposte, però, non ve le dovete dare per conto vostro, con l’ausilio della vostra fantasia. Esse devono essere oggettive, cioè contenere la verità dello spirito del fondatore. Dire: «Oggi, il fondatore mi direbbe o farebbe così…», può essere comodo. Perché sia anche vero, si richiedono genuine disposizioni interiori, che impediscano di «barare».

Oltre alla conoscenza, è indispensabile la «Sapienza», e questa virtù ce la dona lo Spirito. Per cui, prima di confrontarvi con il fondatore, oltre alla coscienza di conoscere lui, la sua storicità, il suo pensiero, dovete «pregare», per avere luce e forza: luce per non sbagliarvi, forza per non voltarvi da un’altra parte e fingere di non aver capito. Il fondatore, anche oggi, non chiede l’impossibile, ma la coerenza, nel clima di fervore che ha sempre proposto ai suoi missionari.

Quando l’Allamano era con noi su questa terra, assicurava personalmente questo confronto con la comunità e con i singoli, mediante la sua opera formativa. Conosceva ognuno personalmente. Ora, continua a garantire questo confronto con l’ispirazione.

Come allora, anche oggi, a quanti sono suoi discepoli, è richiesto di essere attivi, accogliendo il suo insegnamento, seguendo le sue proposte, confrontando con lui la propria vita e la propria attività. Chi non realizza questo contatto esistenziale di conoscenza, sequela e confronto perché è negligente o perché non gli interessa, si pone al di fuori del suo influsso. Lo possiamo paragonare a quanti, durante la sua vita terrena, erano svogliati, distratti o freddi e non lo seguivano. Senza dubbio, nessuno di loro è diventato missionario della Consolata o, se lo è diventato, lo era solo giuridicamente, ma non nell’identità vocazionale.

Perché il contatto con colui che sentite «padre» della vostra vocazione si realizzi pienamente per tutti voi, vi assicuro la mia preghiera presso la Consolata e il fondatore, ai quali chiedo una speciale benedizione sui nostri noviziati e case di formazione, che sono il futuro della nostra famiglia missionaria.

Signore, ti ringraziamo per il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Padre e maestro, ci ha insegnato ad essere missionari in spirito di famiglia e santità di vita. Aiutaci a vivere con fedeltà e ardore la nostra consacrazione missionaria nella condivisione dello stesso carisma, nell’amore fraterno e nello zelo apostolico. Insegnaci ad annunciare a tutti che Tu sei Padre e chiami ogni persona, popolo e cultura a fare parte del tuo progetto universale di salvezza. Amen.

Aquiléo Fiorentini

Padre Aquiléo Fiorentini, brasiliano di nascita, è stato il primo superiore generale non italiano dell’Istituto missioni Consolata. Era pertanto logico che sentisse particolarmente importante il tema dell’interculturalità, verso cui l’Istituto sta camminando a passi veloci. Cogliamo da una sua lettera, del 20 maggio 2010, rivolta ai missionari giovani, una riflessione sul tema dell’interculturalità e della fedeltà al fondatore.

 

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Giovane: riconosci, comprendi, scegli…


Sei fuggito da un conflitto che ti pareva insanabile, e ti vedeva colpevole. Sei fuggito per salvare la tua vita da chi ti cercava e da te. E nella fuga hai ricevuto il sigillo della tua identità: uomo solo al quale il Dio di Abramo e di Isacco promette discendenza, terra e protezione. Uomo ferito per il quale si ritroveranno benedette tutte le nazioni della terra. Uomo colpevole, visitato in sogno da Dio, ai piedi di una scala che unisce terra e cielo.

Perché fosse la fiducia in Lui a generare la certezza di Lui, e non il contrario, ti ha incontrato nel sonno: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). E ti ha fatto rabbrividire il pensiero di quanto Dio fosse vicino, proprio a te e alla tua vita ingannata.

Sei di ritorno ora, dopo anni di fuga. Sei vicino alla terra che ti ha visto ladro e fuggiasco, e hai timore per la tua vita e per quella di chi ti è caro. Dio, che nel sogno ti aveva detto: «Io sono con te e ti accompagnerò dovunque tu andrai», ha mantenuto la promessa. E, certo, ti accompagna anche adesso, all’incontro con le conseguenze dell’antico inganno. Ti manca solo una cosa: la sua benedizione.

Sei di nuovo solo, è notte e il Signore si fa avanti. Non in sogno questa volta, ma in un corpo di uomo che lotta contro di te (Gen 32,25). Ti ferisce all’articolazione del femore, fa emergere la tua ferita profonda dalle gambe che hanno sorretto la tua fuga. Ma tu non cedi. Sai che quella lotta non prevede sconfitti, sai che incontrare l’altro e rimanere vivo è possibile. La ferita non estingue il desiderio di essere benedetto. Essa, anzi, è parte di quel desiderio, ne è conseguenza, e causa. E, alla fine, vinci. Non ti sei fatto sconfiggere dalla tua ferita, l’hai riconosciuta, lasciandola riconoscere da Dio, lasciandoti riconoscere da Dio con essa. Torni integro, finalmente. E il Signore ti benedice per ciò che sei, benedicendo per te tutte le nazioni della terra. Ora la promessa è compiuta e spunta l’alba. Rivelato a te stesso da Dio, puoi finalmente pronunciare il tuo nome, Giacobbe, e ricevere un nome nuovo, Israele, «colui che lotta con Dio» (e vive).

In questo ottobre missionario, mese del sinodo dei giovani, amico ti augura di riconoscerti, con la tua storia irripetibile, di comprendere la tua vita alla luce di una promessa che ti riguarda, di scegliere di essere, già oggi, tramite di benedizione per tutte le nazioni della terra.

Luca Lorusso

foto in CC da BostonCatholic / flickr.com