Il mondo secondo Trump


Dallo scorso 20 gennaio, Donald Trump siede di nuovo alla Casa Bianca. Prima del suo insediamento, il neo presidente statunitense ha tenuto una conferenza stampa dalla quale non sono arrivati segnali confortanti per il mondo e per l’economia.

Il 7 gennaio 2025, tredici giorni prima del suo insediamento ufficiale come 47° presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha tenuto una lunga conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida.

Trump ha illustrato gli aspetti strategici del programma che intende realizzare nei prossimi quattro anni. Ebbene, in vari passaggi del suo discorso, i giornalisti presenti hanno stentato a credere alle proprie orecchie. Ad esempio, quando Trump ha dichiarato di volersi riprendere il canale di Panama e impadronirsi della Groenlandia.

Un mondo di nazioni in lotta

L’essenza della politica di Trump era già stata anticipata in campagna elettorale sotto l’acronimo «Maga», ovvero Make America great again, che tradotto significa «Facciamo di nuovo grande l’America».

Un credo politico che si iscrive fra le dottrine cosiddette «nazionaliste». Concependo il mondo come nazioni in lotta fra loro per l’egemonia, queste si pongono come obiettivo primario quello di garantire forza, prestigio e ricchezza al proprio paese contro tutti gli altri. Quanto alle divisioni sociali interne a ogni nazione, i nazionalisti fingono che non esistano e, giurando fedeltà al modello capitalista, pretendono che ricchi e poveri, lavoratori e imprenditori formino un corpo unico accomunato dal fatto di appartenere alla stessa nazione.

Al contrario, gli stranieri sono guardati tutti con sospetto, anche se, alla fine, sono divisi in due categorie: quella dei nemici, con politiche contrarie ai propri interessi, e quella degli amici, con comportamenti favorevoli al proprio arricchimento.

Non a caso la succitata conferenza stampa di Donald Trump si è aperta cantando le lodi di tale Hussain Sajwani, imprenditore miliardario degli Emirati arabi uniti che ha promesso di investire negli Stati Uniti 20 miliardi di dollari per l’apertura di centri informatici dedicati alla gestione dati.

In cima alla lista dei paesi nemici compilata da Trump, compare senz’altro la Cina, alla quale già nel precedente periodo di presidenza (dal 2016 al 2020), erano stati applicati numerosi dazi doganali come tentativo di limitare le sue esportazioni verso gli Stati Uniti e, quindi, la sua espansione economica.

Un agricoltore Usa con la bandiera trumpiana. Foto Laura Seaman – Unsplash.

Panama e il canale

Durante la conferenza stampa di Mar-a-Lago, il primo paese verso il quale Trump si è scagliato è stato Panama, accusato di danneggiare gli Stati Uniti in combutta con la Cina.

Oggetto del contendere è il canale che collega l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico. Un canale da sempre di importanza strategica per gli Stati Uniti, tant’è che nel 1902, prima ancora che esso venisse costruito, l’esercito Usa occupò militarmente l’area da scavare per assicurarsi la possibilità di controllare l’opera. Il canale entrò in funzione nel 1914 e rimase sotto gestione statunitense fino al 1999, allorché diventò di proprietà del governo panamense in virtù di accordi di cessione firmati nel 1977 dall’allora presidente Jimmy Carter (recentemente scomparso).

Per una ventina di anni l’amministrazione del canale da parte del governo panamense è proceduta senza particolari attriti con gli Stati Uniti, con grande vantaggio per Panama sia in termini economici che occupazionali. In effetti le attività del canale contribuiscono al 7% del Pil e al 23% delle entrate governative del paese centroamericano. Da un paio di anni, però, un problema di carattere ambientale sta mettendo in crisi la via di comunicazione.

Il problema si chiama siccità da cambiamenti climatici che riduce l’apporto di acqua al canale fino a imporre la limitazione del traffico di navi che possono attraversarlo. Tant’è che oggi, ai due imbocchi del canale, ci sono lunghe file di portacontainer in attesa di poterlo attraversare.

Le conseguenze sono negative soprattutto per gli Stati Uniti, che sono i principali destinatari delle merci che attraversano il canale. Le imprese statunitensi lamentano che i ritardi nelle consegne stanno facendo aumentare i prezzi e rallentano i loro processi produttivi. E, quasi fosse una congiura internazionale, Trump se la prende con la Cina: «Il canale di Panama è gestito dai cinesi, ma noi abbiamo regalato il canale a Panama e non alla Cina che ne sta abusando: quel regalo non si sarebbe mai dovuto fare».

Incalzato dai giornalisti che chiedevano cosa pensasse di fare, Trump non ha escluso l’uso della forza militare per fare tornare il canale di Panama sotto il controllo degli Stati Uniti affinché possa essere gestito a loro uso e consumo.

Una loro presenza militare nel mezzo dell’America Centrale permetterebbe agli Usa di combattere anche un altro fenomeno, quello delle migrazioni, tema posto anch’esso ai primi posti dell’agenda di Trump. Considerato che Panama è un passaggio obbligato per tutte le rotte migratorie provenienti dall’America Meridionale, uno sbarramento militare in quel territorio ridurrebbe di molto gli arrivi al confine tra Stati Uniti e Messico.

La Groenlandia

L’aspetto sorprendente è che Trump ha ipotizzato l’uso della forza militare per annettere anche la Groenlandia. Giuridicamente una regione autonoma facente parte del Regno di Danimarca, la Groenlandia è un’immensa isola, la più grande non continente, situata in zona artica. Vi abitano soltanto 56mila persone concentrate soprattutto nella parte sud, essendo la restante parte del paese coperta da una calotta glaciale che si estende sull’80% della superficie.

Gli Stati Uniti sono già presenti in Groenlandia fin dalla seconda guerra mondiale con una base aeronautica, la Pituffik Space Base, che si trova a 1.500 chilometri dal Polo Nord. Ma oltre che per motivi militari, la Groenlandia sta diventando appetibile anche per ragioni economiche da quando la tempera-

tura terrestre ha cominciato a salire.

Nel suo sottosuolo, infatti, si trovano non solo gas e petrolio, ma anche numerosi minerali molto ricercati dalle moderne tecnologie come litio, grafite e anche uranio. Fino a ora era impensabile cercare di estrarli a causa dell’enorme strato di ghiaccio che ricopre i giacimenti, ma con l’innalzamento delle temperature questo scoglio si va riducendo.

Per la stessa ragione sta assumendo importanza strategica anche il Mar Artico, il mare del Polo Nord, su cui la Groenlandia si affaccia assieme alla Russia, al Canada e all’Alaska. Se il mare si libera dal ghiaccio, può diventare navigabile per gran parte dell’anno, accorciando le distanze fra America del Nord, Asia ed Europa.

Per la verità già durante il precedente mandato presidenziale Trump aveva avanzato l’offerta di comprare la Groenlandia in linea con quanto aveva già tentato di fare Truman nel 1946.

La Danimarca, però, ha sempre opposto un fermo rifiuto e ora Trump minaccia non solo l’occupazione militare, ma anche potenti ritorsioni doganali pur di piegare la volontà del piccolo stato europeo.

Donald Trump. Foto TheDigitalArtist – Pixabay.

Il Canada

Nel suo discorso di Mar-a-Lago Trump ha scagliato la propria ira nazionalcapitalista anche contro Canada e Messico, paesi con i quali fino al 2020 aveva un accordo di libero scambio (il Nafta), poi trasformato, proprio durante la sua prima presidenza, in accordo di collaborazione (noto come Usmca) su punti specifici come agricoltura, flusso di lavoratori e brevetti. Temi tutti rigorosamente normati a principale vantaggio degli Stati Uniti.

Ciò non di meno, Trump rimprovera al Canada di continuare a vendere troppi prodotti agli Stati Uniti, contribuendo a rafforzare il debito commerciale che il paese a stelle e strisce ha verso il resto del mondo. Nel 2023, le merci canadesi hanno rappresentato circa un settimo del disavanzo commerciale statunitense, che complessivamente ammonta a 773 miliardi di dollari (dati Bea-U.S.Department of commerce).

«Ci mandano centinaia di migliaia di auto facendo un sacco di soldi. Ci mandano un sacco di altre cose di cui non abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno delle loro auto, né di altri prodotti. Non abbiamo bisogno del loro latte», ha detto Trump ai giornalisti riferendosi al vicino nordamericano.

Quindi, invece di chiedersi perché gli statunitensi comprano le merci canadesi, Trump ha partorito l’idea di risolvere il problema contabile facendo diventare il Canada un territorio statunitense.

Non a caso il giorno dopo la conferenza stampa di Mar-a-Lago, Trump ha pubblicato su una sua pagina social la cartina degli Usa comprendente anche il Canada ormai definito come 51° stato degli Stati Uniti d’America. Bontà sua, Trump ha escluso di voler piegare il Canada con l’esercito, dichiarando di volersi limitare all’impiego delle armi economiche.

Il Messico

Passando al Messico, Trump ha detto: «Abbiamo un grande deficit commerciale con il Messico, motivo per cui lo aiutiamo tantissimo».

«Il paese – ha spiegato il neo presidente – è gestito essenzialmente da cartelli criminali e noi non possiamo permetterlo. Il Messico è davvero nei guai, un sacco di guai». Poi si è buttato su una rivincita di tipo lessicale: «Cambieremo il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America».

Lanciando – infine – la stoccata finale: «Il Messico deve smetterla di permettere a milioni di migranti di penetrare nel nostro paese».

La Nato e le spese militari

Durante la conferenza stampa Trump ne ha avuto anche per gli alleati Nato, essenzialmente i paesi europei. Dichiarandosi di nuovo stufo di farsi carico della loro difesa, Trump è tornato a dire che gli alleati devono innalzare le loro spese militari. E se durante il suo primo mandato aveva chiesto che fossero portate al 2% del Pil, nel discorso di Mar-a-Lago ha spostato l’asticella ancora più in alto: «Io penso che la Nato si meriti il 5%. Non ce la può fare se rimane al 2%. […] Tutti i paesi Nato […] devono attestarsi al 5%».

Al momento, tuttavia, neppure gli Stati Uniti dedicano agli armamenti una quota di Pil tanto alta, arrivando al 3,4%. Fra i paesi Nato, solo la Polonia va più su con il 4,1%, seguita dall’Estonia con il 3,43%. Allora sorge il dubbio che la vera intenzione di Trump sia quella di annunciare al mondo l’intendimento di voler alzare ulteriormente la spesa militare degli Stati Uniti incurante del fatto che già oggi rappresenta il 38% dell’intera spesa mondiale (dati Sipri).

Dove sta andando

la democrazia? Nel complesso a Mar-a-Lago molti hanno visto un Trump ancora nelle vesti del candidato sguaiato che voleva aumentare il proprio consenso tra un popolo becero, piuttosto che un uomo di Stato che dal 20 gennaio governa il Paese più potente del mondo. Certi discorsi, tuttavia, non andrebbero fatti sotto nessun tipo di veste e il fatto che tanta gente vada dietro a chi le spara più grosse lascia molti dubbi su cosa, al giorno d’oggi, sia diventata la democrazia.

Francesco Gesualdi

 




Spese militari nel mondo. Mai così alte


Gli eserciti e l’industria delle armi festeggiano il 2023 come l’anno più positivo di sempre.
Nel mondo, infatti, la spesa militare non era mai stata tanto alta: 2.443 miliardi di dollari secondo un recente rapporto del Sipri, l’autorevole Istituto di ricerca internazionale per la Pace di Stoccolma.

Per provare a dare una misura alla cifra, basti pensare che secondo l’Unesco, in un mondo abitato da moltissimi analfabeti, nel 2020 si erano spesi 2.200 miliardi per l’istruzione; secondo l’Oms nel 2019 si erano spesi 8.600 miliardi per la salute; secondo Banca Mondiale nel 2022 il debito estero dei paesi a basso e medio reddito (una delle palle al piede di centinaia di milioni di persone) era stimato in circa 9mila miliardi.

L’aumento del 6,8% in un solo anno della spesa militare globale trova le sue ragioni nello scenario di forte instabilità internazionale.

Sembra che i governi delle grandi e piccole potenze, per affrontare le crisi e i conflitti in atto, non riescano a credere ad altro che all’aumento della propria capacità di minaccia nei confronti degli avversari.

È così che nel 2023 l’Ucraina ha aumentato la sua spesa militare del 51% rispetto all’anno precedente, dedicandole il 37% del suo Prodotto interno lordo, 64,8 miliardi di dollari, e che la Russia ha aumentato la sua spesa militare del 24% consumando 109 miliardi di dollari, il 5,9% del suo Pil.

Tra i paesi europei spicca la Polonia, che ha incrementato la sua spesa militare in un solo anno del 75%; ma anche la Finlandia (54%) e la Danimarca (39%).

Altri aumenti notevoli sono stati quelli dell’Algeria, 76%, della Turchia, 37%, di Israele, 24%.

In dieci anni, dal 2014 al 2023, la spesa militare globale è aumentata di quasi un terzo, il 27%.

Bastano i primi due Paesi nella classifica per mettere insieme la metà dell’intera spesa globale: gli Usa con 916 miliardi e la Cina con 296.

Dopo Usa e Cina, troviamo la Russia (109), l’India (83,6), l’Arabia saudita (75,8).

I successivi cinque paesi sono Regno Unito (74,9), Germania (66,8), Ucraina (64,8), Francia (61,3) e Giappone (50,2). L’Italia, con i suoi 35,5 miliardi, è al dodicesimo posto.

Il Sipri, in una nota, sottolinea che con la formula «spese militari» non s’intende la sola spesa in armamenti, ma «tutta la spesa pubblica per le forze e attività militari, compresi stipendi e benefici, spese operative, acquisto di armi e attrezzature, costruzioni, ricerca e sviluppo, amministrazione centrale, comando e supporto».

I dati raccolti dal centro di ricerca svedese mostrano un mondo diviso da profondi conflitti e pronto a esplodere. L’unico elemento di unità sembra essere la fede cieca nell’idolo della forza, quella che genera il circolo vizioso a cui stiamo assistendo: io mi armo perché tu ti armi, tu ti armi perché io mi armo, e così via.

Se fosse possibile misurare in dollari anche le vite spezzate, le sofferenze, gli sfollamenti, le distruzioni, sia materiali che culturali e spirituali, le libertà negate, la visione fosca del futuro, il conto, già esorbitante, sarebbe completamente fuori dalla capacità di calcolo delle persone comuni.

Luca Lorusso




La guerra è una pazzia


«Cari fratelli e sorelle,
in Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria. Le vittime sono sempre più numerose, così come le persone in fuga, specialmente mamme e bambini. In quel paese martoriato cresce drammaticamente di ora in ora la necessità di assistenza umanitaria. Rivolgo il mio accorato appello perché si assicurino davvero i corridoi umanitari, e sia garantito e facilitato l’accesso degli aiuti alle zone assediate, per offrire il vitale soccorso ai nostri fratelli e sorelle oppressi dalle bombe e dalla paura. […] La Santa Sede è disposta a fare di tutto, a mettersi al servizio per questa pace. […] La guerra è una pazzia! Fermatevi, per favore! Guardate questa crudeltà!» (papa Francesco, Angelus, 6/3/2022).

«La guerra è una pazzia». Non poteva essere più esplicito papa Francesco. Eppure tutto è stato pianificato da tempo con una gelida lucidità: dall’aumento del costo del gas per coprire le spese della guerra alle esercitazioni militari per giustificare il colossale dispiegamento di truppe, dalla campagna di fake news al corteggiamento di nuovi alleati tra politici e imprenditori, dal controllo societario di banche all’acquisizione di grandi fette di società dell’energia. E noi siamo stati a guardare, ignari e increduli, assopiti nel nostro benessere, sicuri che non ci avrebbe toccato e, soprattutto, dimentichi di quello che è davvero la guerra.

Quelli vecchi come me, i figli del ‘68, hanno in qualche angolo della memoria le parole dei nonni o dei genitori che invitavano a non sprecare perché «durante la guerra» si grattava anche il fondo della pentola, e «grazie averne». Dalla Seconda guerra mondiale in poi, in Europa abbiamo vissuto l’avventura della pace con un progresso apparentemente inarrestabile, con un benessere, fluttuante sì, ma così diffuso da permetterci di sprecare: cibo, vestiti, energia, ambiente. Sì, ci sono state guerre in questi anni, ma in paesi lontani, a parte quella degli anni ‘90 nell’ex Jugoslavia, alcune totalmente ignorate, altre esorcizzate nelle nostre canzoni.

Nel 2003 questa rivista ha pubblicato un memorabile numero speciale, poi diventato un libro Emi, intitolato «La guerra, le guerre». La lista dei paesi in conflitto era impressionante. Quel lungo elenco è ancora tristemente attuale, anzi si è allungato: Yemen, Siria, Libano, Libia, Niger, Mali, Mozambico, Burkina Faso, Haiti, Myanmar solo per citarne alcuni.

Nel frattempo, le spese militari sono cresciute in tutto il mondo, anche nei paesi ufficialmente in pace. Il club atomico si è allargato, si sono costruiti missili sempre più sofisticati, potenti e ipersonici, i mercenari sono diventati anche più forti degli eserciti regolari e comodi, perché rispondono al potente di turno piuttosto che a governi e a leggi internazionali.

Trentuno anni fa, era il 21 febbraio 1991, 36° giorno dall’inizio della prima guerra del Golfo, monsignor Tonino Bello, allora presidente di Pax Christi, diceva alla trasmissione Samarcanda: «Il mio desiderio è quello del cessate il fuoco, perché non è possibile, non è accettabile, non è pensabile che ancora oggi, con tutto il progresso che abbiamo fatto, con tutta la cultura che abbiamo alle spalle, della gente debba essere massacrata in questo modo. È osceno. Io credo che ci vergogneremo domani per la nostra mancanza di insurrezione di coscienza». E aggiungeva: «La guerra tutto può partorire, fuorché la pace e la giustizia». «La pace non arriverà finché non si fa giustizia».

Queste parole sono attualissime. In Iraq non c’è ancora pace, neppure nella vicina Siria dove i Russi hanno testato la loro arte della guerra, e tantomeno in Afghanistan, invaso e poi abbandonato a se stesso. In nessuno di quei paesi la guerra ha portato pace, perché non ha costruito giustizia, non ha ridato dignità ai poveri, prospettive ai giovani, lavoro, educazione e sicurezza a tutti.

Don Tonino Bello chiamava a una «insurrezione di coscienza». Per noi missionari significa stare con chi le guerre le paga sulla propria pelle, così come fanno i nostri in questi giorni nelle due comunità in Polonia aperte all’accoglienza dei profughi. Ma anche i missionari nel Nord del Kenya, in Etiopia, in Mozambico, nel Nord del Congo, in Venezuela, in Colombia, in Messico, in Costa d’Avorio, a Roraima in Brasile, dove ci sono guerre di fatto, non dichiarate, e che non fanno certo notizia.