Cabo Delgado. Curare ferite invisibili


Gli scontri nel nord del Mozambico, iniziati nel 2017, hanno causato una fuga di massa della popolazione. Oggi la situazione si è un po’ stabilizzata e la gente ha ripreso a tornare a casa. Ma i traumi rimangono a lungo e i servizi di recupero psicologico sono pochi. Alcuni testimoni raccontano la loro esperienza.

«Possiamo ballare, possiamo cantare, ma non possiamo dormire, perché restiamo sempre con un occhio aperto», intonano le donne a Incularino, distretto di Palma, teatro dell’attacco di marzo 2021, uno dei più sanguinosi del conflitto scoppiato nel 2017 a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Una guerra che vede coinvolti gruppi armati nazionali e internazionali, tra cui quello islamista, noto come Al-Shabaab, e le forze di sicurezza mozambicane, e che si è intensificata nel tempo causando gravi sofferenze umane e movimenti di popolazione di massa. Si stimano un milione di sfollati su circa due milioni di abitanti della provincia.

Gli scontri sono alimentati da un intreccio di motivazioni politiche, sia interne che esterne, religiose ed economiche. I gruppi armati jihadisti cercano di stabilire il loro controllo in una regione ricca di risorse naturali, tra cui gas, carbone e rubini. La situazione ha attirato l’attenzione internazionale, con l’invio di una forza multinazionale della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc, organizzazione economica regionale, ndr) a partire dal luglio del 2021. La Sadc mission in Mozambico (Samim) ha il compito di sostenere il governo nel ripristino dell’ordine e della stabilità.

Dopo la veloce riconquista di alcune città e territori che erano sotto il controllo dei ribelli (gruppi composti da mozambicani radicalizzati e da islamisti di altri paesi africani, vedi MC aprile 2022), il conflitto continua tra imboscate lungo le strade, incendi nei villaggi e attacchi mirati.

Crisi umanitaria

Le continue violenze hanno innescato una crisi umanitaria che si protrae oramai da sei anni.

Oltre ai danni fisici e materiali, il conflitto ha avuto un profondo impatto sulla stabilità delle comunità, sugli equilibri naturali che prima favorivano una condivisione delle risorse.

A tutto ciò si sommano gli effetti del cambiamento climatico sulla regione: alcune aree soffrono tempi di siccità prolungata, altre sono soggette a cicloni tropicali, le coste a erosione.

La popolazione, dunque, affronta una doppia sfida: il conflitto armato che minaccia la sicurezza, e il cambiamento climatico che colpisce le risorse vitali come l’agricoltura e la pesca.

Questi fattori, insieme all’impatto del movimento di popolazione (secondo dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a fine 2022 erano stati registrati 1.028.743 sfollati, di cui il 90% nella provincia di Cabo Delgado), hanno indebolito l’accesso al cibo, ridotto le risorse economiche e aumentato la tensione tra le comunità.

L’incertezza costante, la sensazione di perdita e la sfiducia nelle istituzioni rendono difficile per le persone cercare aiuto e affrontare il proprio dolore.

«Non so dove sia mio fratello, so solo che non abbiamo ancora potuto fargli il funerale», racconta una ragazzina sfollata a Mueda.

Durante gli attacchi sulla costa sono scappati insieme con la madre verso l’interno e, durante il viaggio, a causa della confusione e dello shock, hanno perso di vista il fratello maggiore. Pensano sia stato rapito da uno dei gruppi armati.

La vita ricomincia

Dopo l’intervento della forza internazionale, la vita è lentamente ricominciata: le scuole hanno riaperto, gli ospedali provinciali hanno il personale minimo sufficiente, le banche sono di nuovo attive.

L’attenzione si sposta su questioni di sicurezza, sulla ripresa economica, sulle elezioni politiche, ma ogni individuo deve fare i conti con i propri traumi interiori.

«Ci chiamano “retornados” perché siamo tornati nel luogo da cui venivamo, ma le cose sono cambiate», racconta Maria (nome di fantasia) di Palma, mamma di tre bambini, rientrata nella sua città dopo un anno di sfollamento vissuto nelle tende dei campi di risposta umanitaria. «Da un lato avevo parte della mia famiglia con me, inoltre quelle erano le nostre zone di origine, quindi tornare è stato facile, ma dall’altro viviamo in case vuote, senza cibo».

Molte persone hanno problemi a fare riconoscere la propria identità legale, soprattutto nelle località di rientro degli sfollati. Infatti, durante la fuga, molti hanno smarrito i loro documenti e non riescono a rinnovarli, perché spesso i servizi di anagrafe nelle località di ritorno non sono ancora pienamente operativi. Questo può comportare diversi rischi: tratta di persone, difficoltà di accesso a servizi legali, essere soggetti a multe e detenzioni da parte della polizia.

Nonostante alcune zone siano nuovamente sotto controllo governativo, gli spostamenti sono ancora difficili e pericolosi. «Non c’erano mezzi di trasporto e vivevamo in una zona isolata a ore di cammino da acqua e campi coltivabili», prosegue Maria.

I pochi collegamenti, condizioni accidentate delle strade e pericolo degli assalti rendono ancora più precaria la fruizione di alcuni servizi pubblici. «L’ospedale funziona, ma sappiamo di persone che sono morte per poterci arrivare perché non ci sono trasporti… quindi preferiamo non andarci», raccontano alcune donne di Mueda.

«La cosa più difficile è stata la mancanza di cibo durante lo sfollamento, ma anche, talvolta, non potersi muovere», racconta Aisha (nome di fantasia), 35 anni, di Palma. E non solo fisicamente: la vita è rimasta «immobile» per mesi, per alcuni anche per anni.

In un ambiente di conflitto, dove il pericolo sembra essere onnipresente, le ferite che non si vedono sono difficili da curare e il ciclo del trauma si autoalimenta. Il risultato è una condizione soggettiva di iper vigilanza, nella quale ogni momento di tensione, ogni rumore improvviso, un locale buio, può risvegliare il trauma rendendo difficile la vita quotidiana e tendendo a bloccare la persona.

Servizi sanitari

A Cabo Delgado, la mancanza di accesso ai servizi sanitari, compresi quelli psicologici, ha ostacolato il processo di recupero psicosociale della popolazione.

La perdita di reti di supporto a causa della distruzione delle comunità e degli spostamenti ha lasciato molte persone isolate e prive di un sostegno emotivo adeguato.

Il recupero dal trauma in un contesto di conflitto è un processo complesso e sfidante: ci sono molteplici approcci che possono aiutare gli individui a superare la situazione e riprendersi. I servizi di salute mentale, inclusi la terapia individuale e di gruppo, possono fornire uno spazio sicuro per esplorare ed elaborare le emozioni legate al trauma. La resilienza delle comunità locali può essere rafforzata attraverso programmi di sostegno psicosociale, consentendo alle persone di condividere esperienze comuni e costruire legami di solidarietà, per ridurre lo stigma della richiesta di aiuto e aumentare l’accesso alle cure.

Quando si lavora con i bambini, si usano spesso metafore per spiegare concetti più complessi. Immaginiamo la nostra mente come un fiore che cresce in un giardino esposto alle intemperie. Queste sono eventi stressanti, traumi, perdite o altre difficoltà che mettono alla prova la nostra resilienza mentale. Mentre il fiore può piegarsi sotto la forza delle tempeste, ha radici profonde che gli consentono di restare ancorato al terreno. In modo analogo la resilienza umana ci aiuta ad affrontare le avversità, mantenendo una certa stabilità anche quando siamo esposti alle intemperie della vita. Tuttavia, anche le piante più forti possono subire danni durante le tempeste più violente, così come noi possiamo lottare con le difficoltà emotive quando le pressioni diventano troppo intense. In questi casi dobbiamo renderci consapevoli che qualcosa si è rotto, per cominciare a ricostruirlo.

Riconoscere i traumi

Il conflitto ha generato ferite invisibili ma profonde nella popolazione locale. Tuttavia, è possibile avviare processi di recupero e mitigarne gli impatti negativi. Tutto questo a condizione che i traumi vengano riconosciuti e si rendano prioritari. Nonostante tutte le difficoltà del contesto, le persone ci dicono: «Siamo tornate a casa e questo era l’importante. Ora, piano piano, si può ricominciare a ricostruire». Per resistere e per «ricostruire», però, bisogna imparare a farlo. Qualcuno avrà bisogno di essere accompagnato o sostenuto all’inizio, qualcun altro avrà bisogno di sentirsi ripetere che non esiste un modo «giusto» di sentire, che «va bene», che «possiamo ricominciare da lì», e ci si può aiutare a creare un luogo dove poter, insieme, prendersi cura delle radici e del futuro.

Josefina, 40 anni e tre figlie, non usciva più di casa dopo aver vissuto quasi un anno prigioniera dalle milizie ribelli ed essere stata trattata come oggetto tra stupri e lavori forzati. Il mercato era uno dei luoghi ai quali aveva più difficoltà ad avvicinarsi. La presenza dei militari, la visione delle armi, i rumori forti e la folla, le creavano disorientamento, paura, disagio.

Sua figlia, adolescente, che l’aveva accompagnata nel periodo di reclusione, aveva vissuto la stessa sorte, ma era riuscita a tornare a scuola ogni giorno quasi con normalità, dopo aver ricevuto le necessarie cure. «Non attraverso la strada e non apro la porta», diceva Josefina. Sentiva crescere dentro di lei un sentimento di inutilità, non riusciva ad affrontare le cose, come invece le altre persone della sua città stavano facendo, e non voleva comportarsi come se avesse dimenticato.

«Uno dei momenti più significativi di questi mesi è stato quando ho deciso di affrontare la mia paura gradualmente – ci racconta Josefina -. Ho iniziato uscendo di casa per brevi periodi di tempo, accompagnata dalla persona che mi stava aiutando. Man mano sentivo più fiducia e facevo qualche passo in più. Ogni piccolo successo è stata una vittoria personale. Anche quando ho avuto delle ricadute e ho sperimentato momenti di panico, ho continuato a lavorarci. Con il tempo, la paura ha iniziato a perdere il suo potere su di me».

Quando riconosciamo le paure e i traumi, quando siamo accompagnati in un processo di guarigione, ogni passo diventa sempre più facile. La parola chiave è «consapevolezza globale», necessaria per superare queste sfide straordinarie e per costruire un futuro più sostenibile per le generazioni future.

Giulia Moro e Paolo Ghisu




La guerra civile in Sudan

 

C’è un’altra guerra, ma è lontana dai media mondiali. È in Africa e, in questo momento, è la più cruenta e con gli effetti più devastanti per il numero degli sfollati e la condizione dell’infanzia.

Scoppiata il 15 aprile scorso vede opporsi l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah Al Burhane, e la fazione ribelle, le Forze di supporto rapido (Fsr) comandate dal suo ex vice, Mohamed Hmadane Daglo (detto Hemedti).

Le Fsr controllano attualmente i tre quarti della capitale, mentre il generale Al Burhane è stato costretto a trasferire il suo quartier generale a Port Sudan, a est, sul Mar Rosso.

Secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), il conflitto in corso ha causato il più alto numero di sfollati interni al mondo tra la popolazione civile. Sarebbero 7,1 milioni di persone, di cui 3 milioni solo dalla capitale Khartum. La direttrice generale dell’Oim, Amy Pope, ha dichiarato: «La situazione umanitaria in Sudan è catastrofica, senza uscita in vista, e sono i civili che ne pagano il prezzo».

Si contano anche 1,2 milioni di sudanesi che sono scappati oltre confine nei paesi vicini, in particolare nel già povero Ciad.

Un altro campanello d’allarme è quello dell’incaricata speciale dell’Onu per il traffico delle persone, Siobhan Mullaly, che il 16 ottobre scorso, a Ginevra, ha denunciato che bambini sudanesi sono sequestrati e poi reclutati forzatamente dai diversi gruppi armati in conflitto.

Il Paese è diviso in due: le forze armate sudanesi controllano il nord, l’est e il sud, mentre i ribelli sono all’ovest in particolare nelle provincie Darfur, dove si sono concentrati i principali combattimenti al di fuori della capitale.

Nelle ultime settimane si sono aperti nuovi fronti, nelle province del Sud Kordofan e Nord Kordofan, anche in aree dove sono già presenti numerosi sfollati. Le Fsr hanno recentemente conquistato la strategica stazione di pompaggio di greggio nella regione di al-Aylafun, ad alcune decine di chilometri da Khartoum.

Il rischio, rivelano alcuni analisti, è che il paese permanga diviso per molto tempo e che nascano due governi contrapposti, in una situazione tipo quella libica. In alternativa, le Fir potrebbero conquistare l’intera capitale e puntare così a controllare il Paese. Rimarrebbero, comunque, delle sacche di resistenza della compagine governativa.

Marco Bello




Nord Kivu senza pace


Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Nell’est della Repubblica democratica del Congo, da circa un anno la milizia M23, sostenuta dal Rwanda, sta causando grandi spostamenti di popolazione. Secondo il sito umanitario Reliefweb, al 31 gennaio 2023, gli attori umanitari e statali hanno stimato in almeno 602mila unità il numero di persone sfollate a causa della guerra nei territori di Rutshuru, Nyiragongo, Masisi, Walikale, Lubero e nella città di Goma (capitale del Nord Kivu). Nel marzo 2023, il numero di sfollati solo intorno alla città di Goma è stimato in circa 200mila.

Julienne, residente a Goma nel quartiere di Ndosho, descrive la loro situazione: «Abbiamo sofferto nella Rdc orientale per molto tempo. Ho visitato alcuni campi di sfollati. Non hanno riparo dalla pioggia, né servizi igienici, né bidoni della spazzatura, né cibo o vestiti. Alcuni hanno preso il colera. Una volta arrivati a Goma, alcuni vengono accolti in famiglie allargate, ma non hanno mezzi per sopravvivere sul lungo termine. Sperano di tornare nel loro territorio dove hanno lasciato tutto. A Goma sono aumentati i prezzi dei prodotti alimentari al mercato. Le strade sono chiuse, la guerra ha bloccato tutte le aree da cui proviene il cibo. I negozi non hanno più nulla da vendere».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

M23 alla ribalta

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, i ribelli dell’M23 hanno paralizzato le strade principali che collegano Goma al resto della provincia.

In quella zona, a una trentina di chilometri dalla città, sono stati dispiegati i soldati burundesi presenti nella Rdc come membri della forza militare della Comunità dell’Africa orientale (Eac). Con base a Mubambiro, le truppe burundesi si sono unite a un contingente dell’esercito keniano, di circa mille uomini, schierati a Goma e dintorni dal novembre 2022.

Sempre a marzo, molto più a nord, nel territorio di Beni, anch’esso nella provincia del Nord Kivu, più di quaranta persone sono morte in un nuovo attacco attribuito ai ribelli dell’Adf (Allied democratic forces), affiliati al gruppo Stato islamico. L’Adf ha origine da ribelli ugandesi, in prevalenza musulmani, che sono arrivati nell’est della Rdc a metà degli anni ‘90 e sono accusati del massacro di migliaia di civili.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni Don Bosco. Pascal Martin 2023.

La voce dei diritti

Abbiamo intervistato Christophe Mutaka, attivista per i diritti umani e direttore del gruppo Martin Luther King a Goma.

Signor Mutaka, può riassumere il lavoro del gruppo Martin Luther King?

«Organizziamo le nostre attività con pochi mezzi. Realizziamo un lavoro di monitoraggio, che ci aiuta a sapere cosa avviene sul campo in modo che, in futuro, coloro che compiono gravi e massicce violazioni dei diritti umani, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e persino atti di genocidio, non sfuggano alla giustizia internazionale.

Negli ultimi mesi, il gruppo Martin Luther King, al fine di evitare che la situazione degenerasse in atti di violenza etnica, ha fatto sensibilizzazione affinché le persone distinguano chiaramente e non confondano coloro che sono al fronte o sul campo di battaglia con le popolazioni civili che non sono responsabili di ciò che accade, indipendentemente dalla loro origine etnica.

Ma continuiamo anche a monitorare ciò che avviene in prima linea affinché gli autori di crimini di guerra, massacri e atti di genocidio siano identificati.

Sono un esempio i massacri di Kishishe e Bambu nel territorio di Rutshuru. Atti che non potranno rimanere impuniti perché i loro autori sono noti e identificati. La documentazione raccolta consentirà alle generazioni future di chiederne conto. Nella parte settentrionale della provincia del Kivu, le persone sono state massacrate per più di un decennio. Molte di esse appartengono alla comunità nande nel territorio di Beni.

Per quanto riguarda gli sfollati, ovvero persone che hanno lasciato i loro villaggi d’origine temendo per la propria vita e che si sono trovate in pericolo a causa dei disordini, anche nel loro caso gli autori delle violazioni dei diritti umani che hanno subito potrebbero essere perseguiti».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

Perché e quando l’M23 ha ripreso i suoi attacchi nella parte orientale della Rdc?

«La ripresa degli attacchi, in particolare quelli dell’M23, risale al marzo 2022. Affermano di averli ripresi perché la comunità tutsi (etnia presente in Congo, Rwanda e Burundi, ndr) è minacciata. Ma non è vero: essi si trovano nel governo a livello nazionale, sono presenti nell’Assemblea nazionale, nel Senato, nelle aziende statali e parastatali, nelle aziende private strategiche, nell’esercito e nei servizi di sicurezza. È quindi inaccettabile che si descrivano come una minoranza minacciata o schiacciata del paese. I tutsi hanno tra i membri della loro comunità ministri, generali, alti ufficiali dell’esercito.

L’argomento della minaccia non regge. Come prova, i banyamulenge (tutsi congolesi, ndr) che l’M23 dovrebbe difendere, hanno dichiarato che preferiscono risolvere le loro questioni da soli, con gli altri congolesi.

Il secondo argomento è il rientro nelle loro terre dei rifugiati tutsi che sono ancora nei campi in Rwanda e Congo. Qui nessuno è contrario al loro ritorno, ma sarebbe necessario identificarli in anticipo, conoscere il loro luogo di origine e sapere da quale villaggio provengono. La contraddizione è che quando l’M23 attacca il Congo, crea insicurezza nelle loro zone di origine. Inoltre, c’è il timore che, nella confusione, approfittino del ritorno dei rifugiati per fare arrivare ruandesi non di origine congolese, che quindi non possono indicare il loro villaggio di provenienza.

Infine, questi gruppi richiedono di essere integrati nell’esercito. Anche questo non sta in piedi. Molti ufficiali tutsi, maggiori, colonnelli e caporali sono già nell’esercito, mentre la legge congolese proibisce il reclutamento collettivo di ribelli. Ognuno si fa arruolare individualmente.

Queste argomentazioni ci sembrano quindi infondate e noi pensiamo che le ragioni della ripresa delle ostilità siano altre.

In Rdc vivono circa 450 gruppi etnici che sono ciascuno una minoranza rispetto al resto. La minoranza tutsi non è la più piccola comunità del Paese. Ci sono gruppi etnici più piccoli dei tutsi che non usano questi argomenti di discriminazione. La tutela delle minoranze è garantita dalla Costituzione. Inoltre, non è corretto usare le armi per rivendicare diritti.

Occorre dunque operare una netta distinzione tra coloro che hanno preso le armi contro la Repubblica democratica del Congo (ad esempio l’M23) e i civili che non hanno nulla a che fare con il conflitto armato».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

La Rdc fa parte della Comunità dell’Africa dell’Est (sigla inglese, Eac), come il Rwanda che però sostiene l’M23. Questa posizione non è contraddittoria?

«Rispetto all’impegno dell’Eac, ci sono cose che non si comprendono. Ad esempio, come sia possibile che la Rdc rimanga suo membro mentre un altro la attacca, e come mai gli altri membri non prendano posizione. Come società civile, avremmo trovato normale che la Rdc si ritirasse dall’Eac, perché non possiamo rimanere membri di una unione che mantiene un silenzio colpevole di fronte all’aggressione di uno dei suoi membri. Anche l’impegno delle truppe Eac a fianco delle Fardc (Forze armate della Rdc) è difficile da capire. Come le truppe burundesi abbiano attraversato il Rwanda per venire a combattere l’M23 in Congo è qualcosa che non possiamo comprendere. Tuttavia, il Rwanda è membro dell’Eac.

Quindi c’è un gioco di menzogne in questa alleanza, e questo spiega perché ci sono state manifestazioni qui a Goma per chiedere alla Rdc di lasciare l’Eac. Una volta fatto questo, il nostro Paese sarà in grado di cercare sostegno militare o di altro tipo da qualsiasi altro paese del mondo».

Alcuni capi di stato hanno recentemente visitato la Rdc. Possiamo ricordare la visita del sovrano belga, re Filippo, del presidente francese, Emmanuel Macron e del presidente dell’Angola, João Lourenço. Ma anche la visita di papa Francesco. Questo balletto diplomatico ha cambiato qualcosa sul terreno?

«A parte il Papa, le altre autorità che ha citato hanno un’agenda nascosta, che include interessi sulla guerra che si svolge nella Rdc. È quindi normale che il loro passaggio non possa cambiare molto sul terreno.

La Francia, ad esempio, in quanto membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dovrebbe essere in grado di influenzare i suoi membri per fermare la guerra in Congo. Ma, poiché ci sono altri interessi, le visite non hanno cambiato la situazione.

Neppure la popolazione congolese ha capito il significato di queste visite.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

La visita del Papa, invece, è ben diversa. È stata un campanello d’allarme per la popolazione congolese in generale. Nel suo messaggio, Francesco ha detto ad alta voce ciò che tutti stanno sussurrando: ha parlato del coinvolgimento occidentale nella crisi che ha lacerato la Rdc per più di due decenni. Quando il Papa chiede di “togliere le mani dalla Rdc e dall’Africa”, denuncia queste ingerenze esterne.

Come in Burkina Faso, che non ha avuto una guerra prima che i suoi minerali fossero scoperti, o il Nord del Mali, dove sono state scoperte risorse naturali. Tutte risorse di interesse per l’Occidente, e quindi portatrici di guerre. Il commercio di armi è anch’esso un grande business.

Nessuno combatterà per la Rdc, a parte noi congolesi. Le autorità devono capire che gli unici amici del Congo sono i congolesi stessi. Tutte queste missioni esterne vengono nel Paese per interessi personali e non per quelli della Rdc e del suo popolo.

Ad esempio, la missione delle Nazioni Unite è qui da più di 20 anni, la più grande missione di pace delle Nazioni Unite nel mondo. Ma la pace è arrivata? C’è la guerra con scontri continui a soli 30 km da Goma. E i caschi blu dell’Onu sono sul posto.

Capiamo quindi, che tutte queste missioni, che si tratti dell’Eac o delle Nazioni Unite, non sono venute per il Congo, ma per qualcos’altro.

Dobbiamo identificare chi, nel nostro Paese, sostiene la guerra e chi la sostiene al di fuori del Paese. Sarà quindi necessario attaccare gli interessi di coloro che fomentano la guerra, in modo che capiscano che non vale la pena avere le risorse della Rdc passando dalla finestra, ma devono passare dalla porta. Ovvero ottenere le risorse dai congolesi stessi.

Se i paesi occidentali, le multinazionali vogliono sfruttare le risorse naturali del nostro territorio, stabiliscano una partnership alla pari con il Congo, invece di massacrare l’intera popolazione solo perché abbiamo minerali».

In questo anno elettorale, quali sono le correnti di opposizione che possono presentare un’alternativa e canalizzare le aspirazioni del popolo?

«In quest’anno elettorale la posta in gioco è alta. Non dimentichiamo che alcuni politici a caccia di poltrone vogliono approfittare di questa situazione di guerra per posizionarsi e ottenere il sostegno di alcuni Stati occidentali.

Abbiamo anche le nostre responsabilità come congolesi. Siamo in parte responsabili delle nostre disgrazie perché siamo noi che votiamo per le persone che governano il paese. Accettiamo cose inaccettabili e quindi dobbiamo anche lavorare molto sulla governance. Il buon governo consentirà di evitare ingiustizie e di organizzare un’equa redistribuzione delle risorse a livello della popolazione. Se le risorse andranno a beneficio del paese e saranno ben gestite, le persone vivranno in condizioni soddisfacenti.

L’anno elettorale viene osservato con molto interesse anche fuori del paese».

Quali leader democratici emergono per proporre alternative alla popolazione?

«Ci sono leader che hanno una visione diversa della Rdc e un’idea affinché la popolazione possa beneficiare delle risorse del Paese. Ma chi li sostiene? Dovremo sostenere questi leader in modo che possano cambiare qualcosa nel Paese. Sfortunatamente non hanno ancora mobilitato la massa. I congolesi si stanno mobilitando e combattendo per la loro patria, attraverso marce pacifiche, scioperi, giorni di blocco delle città, nonostante tutti i rischi che corrono durante questi eventi.

La popolazione congolese non si lascia abbattere. Resiste in maniera nonviolenta.

Chi sogna la balcanizzazione del Congo si sbaglia: se noi siamo umiliati oggi, domani non umilieranno i nostri figli e nipoti. Perché sono essi che stanno vivendo le disgrazie del popolo congolese: rimanere senza acqua, cibo, elettricità in un paese così ricco è una contraddizione. Un giorno tireremo fuori questo paese da questa vergogna a livello globale».

Quale segno di speranza vede in tutto ciò che il Congo sta attraversando oggi?

«I congolesi stanno combattendo contro diversi paesi contemporaneamente: Rwanda, Uganda e diversi paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e altri).

C’è un barlume di speranza se a livello di società civile continuiamo a sensibilizzare la popolazione affinché tutti capiscano che il futuro del Congo è nelle mani dei congolesi e soprattutto dei giovani. Il futuro dell’Africa è nelle mani degli africani. Non possiamo svendere la nostra dignità e la nostra sovranità. È una consapevolezza che deve aumentare.

Inoltre, è necessario esercitare pressioni sui nostri leader per una sana gestione degli affari pubblici. La liberazione del popolo passa anche attraverso questo. Altrimenti, continueremo a cadere nella miseria e a essere considerati come subumani usati da coloro che ne hanno bisogno. Dobbiamo anche lavorare sull’educazione civica degli elettori, in modo che le autorità che gestiranno questo paese possano essere degne di questo compito. Che lavorino per il benessere della popolazione.

C’è anche l’advocacy. Non lavoreremo da soli. Ci sono persone che vogliono sostenere il Congo, che si chiedono perché il popolo congolese sia schiacciato. Dobbiamo andare da queste persone per spiegare cosa sta succedendo e attivare una diplomazia che possa far capire la causa congolese al mondo.

Perché abbiamo visto paesi mobilitarsi per i terremoti mentre poco o per nulla è stato fatto a favore del nostro Paese? La causa congolese deve essere resa nota all’estero. Il popolo congolese non ha solo bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto di porre fine alle ostilità. In modo che tutti possano tornare a casa, nel loro territorio, e riprendere le loro attività».

Pascal Martin*

*Nato e cresciuto a Goma in una famiglia di volontari, ha poi lavorato per oltre 20 anni come cooperante in Africa, tra Congo Rd, Burundi, Madagascar e altri paesi. Ha già scritto per MC.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Rusayo. Pascal Martin 2023.