Brasile. Il tè del padre


Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.

San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.

Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.

Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».

Tra le tende, si scorgono anche persone che sono arrivate lì da poco, hanno portato con sé un comodino, o una pentola, ricordo di una vita di piccole comodità che hanno perso da poco. Ci sono anziani, migranti venezuelani, persone transessuali. Praça da Sé è il ritrovo di coloro che sono scivolati sotto la linea della povertà in una città che è il motore economico del Brasile, la più ricca d’America Latina. Una ricchezza che però lascia senza nemmeno un pasto al giorno quasi sette milioni di persone solo nello stato di San Paolo, 33 milioni in tutto il paese.

Celebrazione della messa all’interno della chiesa dei francescani. Foto Mauricio Zina.

Centinaia in fila per un pasto

A duecento metri dall’accampamento di Praça da Sé, si creano lunghe file di senzatetto. Si mettono in coda per ricevere i tre pasti al giorno che distribuisce il convento francescano di Largo São Francisco.

«Ma non è solo un pasto caldo. Offriamo assistenza sociale, giuridica e psicologica. E anche attività culturali, laboratori di musica e pittura. Questo è il “Tè del padre” (Chá do padre), un’attività che esiste dal 1640», spiega Frei Gabriel, 25 anni, frate del convento di Largo São Francisco, «un sostegno integrale, parte del progetto Sefras – Ação social franciscana, alle persone che vivono in strada, a tutti coloro che chiedono aiuto». Vengono distribuiti circa duemila pasti al giorno, spiega Frei Grabriel. Molti di coloro che vanno al Tè del padre, sono persone con dipendenze da sostanze chimiche, soprattutto crack.

«Il nostro lavoro non è solo allontanarle dalla droga, ma capire perché la cercano. Quasi sempre c’è un dolore, un divorzio, un figlio che abbandona il padre. Nel momento del pasto, parliamo. Una persona mi ha fatto un ritratto, un’altra mi ha dedicato una poesia. Certo, è un lavoro difficile perché è un accompagnamento personale. Sono tanti e non riusciamo a seguire tutti. Quando vado in giro per la città senza il saio, qualcuno di loro mi riconosce, “pace e bene” mi gridano e mi salutano con la mano. San Francesco diceva: “Prega sempre il Vangelo. E, se necessario, usa le parole”. Vuol dire che si può pregare ascoltando l’altro, è quello che cerchiamo di fare», racconta Frei Gabriel.

Conciliare studio e vocazione

Primo piano di frei Gabriel del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio ZIna.

Statura piuttosto bassa, i capelli ricci neri, la barba e un paio d’occhiali con la montatura rotonda, Frei Gabriel ha uno sguardo sereno e curioso. È il più giovane del convento, parla con molta calma, sceglie con attenzione le sue parole per spiegare perché un ragazzo della periferia di San Paolo ha deciso di essere frate francescano nel Brasile del 2022.

«Da bambino sognavo di fare l’insegnante, non immaginavo di diventare un frate. Sono sempre stato curioso verso i libri. A casa mia c’erano quelli che usava mio padre per studiare, ha completato la scuola da adulto, quando io ero già nato. E mi ricordo un suo libro di geografia, lui studiava le mappe e io già conoscevo tutte le capitali. A scuola ero il secchione. Alle superiori, ho fatto un istituto tecnico, una specializzazione in chimica, pensavo di studiare ingegneria chimica, o qualcosa di simile. Finché un giorno, la mia insegnante di portoghese mi disse “ma sei matto? Tu devi studiare materie umanistiche”. Così decisi di studiare psicologia, ma non mi vedevo a fare terapia, volevo fare ricerca. Poi ho conosciuto i frati francescani. Per circa un anno ho partecipato ai loro incontri qui a San Paolo e ho capito che potevo conciliare il desiderio di studiare con la vocazione religiosa».

«Sono entrato nel seminario di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, ho girato alcune case francescane e da aprile 2021 vivo qui nella casa di Largo São Francisco. A fine 2022 andrò in un’altra casa, a Petropolis, a Rio de Janeiro, per studiare teologia. Ma ho deciso: non voglio essere prete. Voglio seguire il cammino religioso, ma desidero studiare anche altre cose, psicologia, scienze sociali e filosofia. Ho anche una tesi in mente», si entusiasma Frei Gabriel.

Momento di raccoglimento e preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.

Meglio evitare le «letture binarie»

«Voglio studiare l’opera di un critico letterario francese in relazione con gli studi di Focault sulla follia, sulla saggezza dei matti. Nel medioevo i matti erano coloro che rivelavano il divino, mentre con l’uomo moderno si abbandona questa visione. I miei studi filosofici, le letture di Nietzsche, mi hanno insegnato che bisogna superare le letture binarie “male-bene, nero-bianco”, così si può avere una visione più positiva dell’uomo, come un essere complesso».

«Come si relaziona lo studio con la tua vita religiosa?», gli chiedo. «I miei studi mi hanno generato crisi esistenziali, non crisi vocazionali. Anzi, spesso mi chiedevo cosa ci stessi a fare al mondo, quale fosse la mia missione. Alcuni pensano che la filosofia vada contromano rispetto alla religione, ma per me è stato il contrario: lo studio della filosofia abbraccia il mio io religioso:
il Gabriel con il saio è lo stesso Gabriel che è nato nella periferia di San Paolo. In quella periferia, ho perso molti amici, quelli della scuola sono morti o sono in carcere. È triste, ma è quello che sarebbe potuto succedere anche a me se avessi preso un altro cammino. Siamo cresciuti nello stesso posto, frequentavamo le stesse persone. Ringrazio Dio e i miei genitori che mi hanno aiutato a scegliere, anche se forse in modo non cosciente».

Cosa significa essere francescano

Chiedo a Frei Gabriel perché abbia scelto l’ordine dei Francescani. «Innanzitutto, per la fratellanza. La vita fraterna significa che tutto è comune: il cibo, la cassa, il lavoro. Se io lavoro come insegnante, metto il salario nella cassa comune. Il ciabattino, che guadagna anche solo un centesimo, lo mette nella cassa comune. Tutti contribuiscono e tutti prendono solo quello di cui hanno bisogno».

«E poi, perché i Francescani sono l’ordine dei minimi: non sono il detentore della verità, non faccio qualcosa per gli altri, ma insieme agli altri. Per esempio, noi non abbiamo capi. Siamo tutti fratelli. Al massimo, c’è il primo tra i fratelli, il più anziano, il più istruito, ma non abbiamo leader. Qui, in questa casa, non c’è un superiore, c’è un fratello che coordina, che decide di ridipingere la parete», dice indicando la parete bianca del refettorio dove ci troviamo per l’intervista. «Le decisioni le prendiamo in assemblea, nel capitolo della casa, e quel che decide il capitolo è ciò che conta».

«Sono i valori che abbiamo ereditato dalla tradizione di San Francesco, che era un cavaliere medievale. La nostra cultura della semplicità viene dal cameratismo dei cavalieri, dall’uno per tutti, tutti per uno. E oggi riproduciamo e attualizziamo quei valori», afferma Frei Gabriel.

Chiedo se, a parte la crisi dei fedeli, ci sia anche una crisi vocazionale nel clero in Brasile. «Sì – risponde -, e per tanti motivi. Uno è storico: anticamente i religiosi erano gli unici che potevano accedere allo studio, avere opportunità di vita indipendentemente dal contesto sociale di nascita. Oggi non è così, ci sono più opzioni. Ma ci sono anche altri cambiamenti, nel modo di intendere la vita religiosa».

L’entrata del convento di San Francesco, a San Paolo. Foto Mauricio Zina.

«Ma questo Non è peccato»

«Per noi francescani, è cambiato anche il concetto di Chiesa. Con il Concilio Vaticano II, gli ordini sono tornati al carisma originale dei padri fondatori. Abbiamo ripreso a leggere i testi di San Francesco e di coloro che l’hanno conosciuto».

«Ti faccio un esempio – continua Frei Gabriel -. Il nostro convento è un punto di riferimento per le confessioni, le persone vengono qui da quartieri lontani. Ma perché vengono fin qui, se hanno una chiesa più vicina a casa? Perché, credo, noi francescani siamo “carne e ossa”, siamo comprensivi. A volte, ti capita un tipo molto rigido, puritano, che vuole confessarsi: “Perché non ho pregato la quaresima di San Michele all’alba”, dice, “ma se lavori tutto il giorno, non è peccato”, lo rincuoriamo noi. Mentre, magari, un altro confessore gli direbbe di fare qualche preghiera per recuperare, rafforzando così l’idea del peccato. Quando qualcuno ci dice che è posseduto dal diavolo, noi ci concentriamo innanzitutto sui problemi psicologici, prima che su quelli spirituali», conclude Frei Gabriel.

Federico Nastasi

Gli autori

  • Federico Nastasi, ricercatore e giornalista freelance, vive in America Latina, collaborando con media e centri studi, in italiano
    (Il Manifesto, Espresso) e spagnolo (El País, Brecha semanario). È coautore di Macondo, un podcast sull’America Latina prodotto da Treccani.
  • Mauricio Zina (Montevideo, 1987), fotogiornalista, lavora per vari media uruguayani e internazionali su temi di carattere politico e sociale. Il suo sito: www.mauriciozina.com

Un francescano benedice una fedele. Foto Mauricio Zina.


Chiesa cattolica e le nuove Chiese evangeliche

La sfida

In Brasile, il paese con più cattolici al mondo, da decenni vive un cambio religioso importante. Negli anni Settanta, i cattolici erano il 92%, oggi sono il 45%. Nello stesso periodo di tempo, gli evangelici sono passati dal 5% al 30%. Nel prossimo decennio, dicono le statistiche, saranno il primo gruppo religioso del paese. Il cambio avviene soprattutto attraverso le conversioni: si nasce cattolici, ci si converte al culto evangelico.

«In Brasile, come in tutta l’America Latina, chi crede diversamente, l’altro religioso, è uno di noi», scrive Gustavo Morelo, sociologo delle religioni. «Non è uno straniero che viene da un altro paese e che trasforma la nostra identità religiosa, come magari avviene in Europa. È un nostro prossimo, è mia sorella, mio fratello, un mio parente che si converte».

E generalmente, le conversioni avvengono in giovane età, prima dei 25 anni.

Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 54% dei protestanti in Brasile afferma di essere stato battezzato cattolico. Ma perché si convertono? Secondo il sondaggio, la spiegazione più comune è che cercano una connessione più intima con Dio, un culto diverso, una chiesa più utile ai suoi membri.

«Quello pentecostale è un successo sociologico, non teologico», scrive Clara Mafra, antropologa, che ha studiato l’ascesa dei pentecostali in Brasile. La trasformazione religiosa del paese è conseguenza della trasformazione urbanistica: la crescita delle città e il contemporaneo abbandono delle campagne. A San Paolo vivono venti milioni di persone, sette a Rio de Janeiro. Le metropoli sono diventate immense, attorniate da gigantesche zone periferiche, dimenticate dallo stato e, a volte, anche dalla Chiesa cattolica. La segregazione sociale e urbana, non la povertà, è una chiave del successo pentecostale. E le chiese evangeliche hanno trasformato queste periferie da «terre di nessuno, in un luogo almeno abitabile», scrive Mafra.

Le persone che aderiscono alle chiese entrano in una comunità e si sentono valorizzate. A Vila Misionaria, periferia Sud di San Paolo, ho chiesto a una fedele neopentecostale cosa le piacesse del culto evangelico: «Mi piacciono le feste, i canti, gli incontri che altrove non potrei fare. Se non ci fosse la Chiesa, resterei da sola a casa a guardare la tv», mi ha detto. Il pastore che apre la chiesa in un garage o anche nel suo salotto di casa viene dal quartiere, ha dei figli che frequentano la (pessima) scuola pubblica della zona e nessun parco dove andare a giocare, una moglie che ha avuto a che fare con la sanità pubblica, e ogni giorno fa tre ore di viaggio su mezzi pubblici.

In Brasile, come nel resto dell’America Latina, quella evangelica è un’importante trasformazione religiosa e sociale. E una grande sfida per la Chiesa cattolica.

Fe.Na.

Momento di preghiera di una fedele. Foto Mauricio Zina.




Quei bravi «ragazzi»

testo e foto di Valentina Tamborra e Angelo Anzalone |


Sono donne e uomini tra i 18 e i 28 anni. Percorrono le strade di notte, portano aiuto e sollievo a senza tetto e persone in difficoltà. A chi vive in isolamento, ma già era ai margini prima della pandemia. Siamo stati con loro dal Sud al Nord Italia.

In collaborazione con Croce Rossa italiana (Cri) abbiamo dato vita al progetto «Quei bravi ragazzi, l’Italia che aiuta». Volevamo raccontare l’esperienza e la dedizione dei giovani volontari di Croce Rossa italiana nella loro quotidianità a supporto dei cittadini, in particolare dei più fragili, durante l’emergenza Covid-19.

Abbiamo voluto verificare se è vero che «i ragazzi» sono indifferenti alle sorti del mondo. Abbiamo incontrato uomini e donne fra i 18 e i 28 anni impegnati in attività, come la consegna della spesa, il supporto ai senzatetto e l’assistenza sanitaria in ambulanza in alcune delle aree più colpite della Lombardia, come Legnano, Parabiago, la stessa Milano, e Acireale e Catania in Sicilia.

C’è un elemento che ci ha colpiti in maniera ancora più profonda: l’aggravarsi dell’isolamento di quanti già nella vita quotidiana pre covid vivevano isolati.

Abbiamo lavorato sul campo a Catania e a Milano seguendo i volontari nell’assistenza ai senzatetto, e abbiamo scoperto un mondo parallelo, ignorato, che con l’emergenza pandemia è rimasto ancor di più lontano dai riflettori e in qualche modo abbandonato a se stesso.

Solidarietà milanese

Milano, alle spalle del Duomo, sotto i portici di Galleria Vittorio Emanuele, ma anche tra le vie che costeggiano corso Europa, si consuma una vita parallela: è in questi luoghi che trovano riparo fra portici e androni centinaia di senzatetto. Sono le 20 circa quando da una delle sedi di Croce Rossa italiana, partiamo insieme ai volontari per seguire il loro abituale giro che ci porterà a distribuire cibo e conforto a moltissime persone.

Di notte, quando tutto tace e la città si svuota, sorgono piccoli ricoveri come tende, cartoni e vecchie coperte. Fungono da casa per chi una casa non ce l’ha. È uno scenario che certo abbiamo visto centinaia di volte abituandoci, in qualche modo, a una coesistenza che non dovrebbe esserci. Ma molte delle strutture che normalmente distribuiscono cibo ai più bisognosi sono state costrette a chiudere i battenti a causa della pandemia. E così, in una città ormai svuotata, i soli a incrociare mani e sguardi, a curare i bisogni di chi è rimasto per strada in attesa che l’incubo finisca, sono i «ragazzi» di Croce Rossa italiana e di pochi altri enti.

Prima di recarci per strada passiamo da un ristorante solidale che, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, ha deciso di aiutare come può chi si trova in difficoltà. Si chiama «Rob de Matt»: un luogo di incontro e scambio situato fra Dergano e Bovisa, zone periferiche della città di Milano.

Un locale che sorge al centro di un delizioso giardino che è anche orto e luogo di ritrovo per famiglie, bimbi, universitari e anziani. Il titolare, Edoardo (Chef e presidente di questa realtà), insieme alla sua squadra, ha preparato durante tutto il periodo della prima ondata di pandemia, circa 150 pasti caldi al giorno.

Pasti consegnati ai volontari di Croce Rossa perché venissero distribuiti nell’abituale giro notturno.

Un rapporto d’amicizia

Recuperato il cibo, è il momento di riunire tutti i volontari e i dipendenti che copriranno il turno della notte.

«Allora, vi ricordate dove sta Francesco? Proprio dietro al Duomo, vicino alla fermata della metro», e inoltre: «E Marina? Marina sta ancora con Alessio? O si sono separati? Dobbiamo trovarli entrambi, sapete che è una situazione delicata».

I nomi, le identità. Il ritorno all’umanità. Qui per strada, mentre nel mondo si parla di etichette, non ci si è mai dimenticati che dietro numeri e statistiche ci sono persone. Il giro fatto dai volontari è sempre il medesimo. Ogni sede di Croce Rossa ha il proprio itinerario così da non lasciare scoperta nessuna zona della città. E ogni volontario è assegnato al medesimo giro perché è importante creare fiducia con le persone che si incontrano. Il cibo, infatti, è solo un pretesto per avvicinarsi, o almeno lo era prima della pandemia, quando c’erano altri enti a distribuire i pasti. I giovani volontari stringono rapporti forti, di reale conoscenza con queste persone che vivono ai margini della società. Prima della pandemia, infatti, non era insolito per i ragazzi fermarsi anche un’ora con una persona. Me lo racconta Tobia Invernizzi, 26 anni, volontario da tre.Gli manca, dice, passare del tempo insieme a quelli che sono diventati in qualche modo vecchi amici. Di cosa si parla di notte, per strada? Quali sono le paure di chi vive in una città che va di corsa, come Milano, e che scavalca spesso con indifferenza coperte e cartoni che per qualcuno sono casa?

Si parla di cose quotidiane. Di amore, di un giornale letto, una notizia di attualità, del pasto consumato il giorno prima, o della diatriba nata per un posto occupato per dormire, posto che era di un altro senzatetto. Si parla di cose umane, e ora, con il Covid, anche questo momento di scambio è a rischio.

Bisogna consegnare il pasto, scambiare due parole e andarsene: niente contatto fisico, nessun abbraccio. Non ci si può sedere vicini, volontario e senzatetto, essere umano ed essere umano, per scambiare due parole, una risata, fumare insieme una sigaretta.

Un cane di nome Stella

«Ma ti ricordi quando ho preso Stella? Era piccola così. Aveva un anno e ora ne ha dodici!»

Stella è una cagnolina nera, somiglia a un bracco. Se ne sta quieta, seduta accanto alle gambe del padrone.

Vivono insieme, in strada, da almeno undici anni.

È uno dei primi scambi di battute cui abbiamo assistito durante la notte per il servizio ai senza dimora.

Un pasto caldo (merluzzo in umido), e un sorriso che raggiunge gli occhi, tanto da cancellare per un attimo quella barriera imposta per nostra e altrui sicurezza: la mascherina. Ci si conosce tutti, in strada. Tra persone che dormono accampate fra tende e giornali, coperte e cartoni, e fra volontari che ogni notte vanno a trovarli per portare cibo, si, ma soprattutto conforto, ascolto, aiuto.

Undici anni di un rapporto che si consuma nella «Milano bene» che, a quest’ora della notte, è ormai svuotata.

Presto arriverà il mattino, farà luce, e allora bisognerà raccogliere le proprie cose e spostarsi in attesa di consumare il giorno e arrivare, nuovamente, all’ora nascosta dal buio.

Paolo prende il suo sacchetto con il cibo, restiamo a parlare ancora un po’, cinque minuti, non di più, perché il Covid ha ridotto questo tempo dello scambio. È una questione di sicurezza, certo, e bisogna rispettarla. Anche qui in strada si distribuiscono mascherine e gel disinfettante. Vengono richiesti, al pari di una coperta, di un panino, di un tè caldo.

Perché l’ansia, la paura, serpeggia anche qui, fra chi al grido «restate a casa» ha potuto rispondere solo rimanendo esattamente dov’era: per strada. Più abbandonato di prima. Più solo di prima.

Fra piazza del Duomo e la periferia, chi vive la strada è rimasto li. Invisibile più che mai.

Il tempo di un abbraccio

Finito il turno, si torna in sede. Che si sia fatto il servizio notturno ai senzatetto o il servizio ambulanza, svolto alla sede di Parabiago (hinterland milanese), ciò che si percepisce ora è stanchezza, sicuramente, ma anche una grande tenerezza e la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si poteva. Ma se lavorando per strada bisogna evitare il contatto a tutti i costi per tutelarsi dal virus, c’è un momento, alla fine del turno in ambulanza, nel quale le barriere, per qualche secondo, possono venire meno.

Con indosso ancora la tuta bianca, i guanti e la mascherina, i ragazzi si lasciano andare a un abbraccio sicuro: il contatto umano, un corpo che si avvicina a un altro, il conforto. Nahomi cerca il suo collega, restano cosi per qualche secondo.

Questa ragazza che studia giurisprudenza e sogna di fare del proprio lavoro una missione, anche nel tempo libero si dona agli altri. Oggi il servizio ambulanza è stato particolarmente duro: un codice rosso, non Covid, ma comunque finito nel peggiore dei modi. Eppure, lei e gli altri ragazzi non desistono: ne vale la pena, sempre. Anche nei momenti più duri, anzi soprattutto in quei momenti.

Guardando questi ragazzi, quel gesto semplice eppure oggi negato, ci si rende ancora più conto di quanto il Covid sia prima di tutto «una malattia dell’amore». Separa, per sicurezza, isola, per necessità. Ma l’essere umano è tale proprio perché animale sociale, proprio perché «l’altro» sia conforto e non timore, non pericolo.

La riflessione più urgente da fare, insieme a quelle su tutte le problematiche connesse a economia e salute, è quella legata al contatto fra persone. Abbiamo necessità di tornare a non temerci, abbiamo necessità di tornare alla vicinanza e alla condivisione. In attesa di poterlo fare, è già molto sapere che, in alcuni luoghi in Italia, sono state istituite «stanze degli abbracci» in alcune Rsa (Residenza socioassistenziale), come a Bollate, nel milanese.

A questo proposito restano impresse le parole di un amico medico: «la medicina deve adattarsi all’essere umano». Non dimentichiamoci, alla fine, che sotto guanti, mascherine, indumenti protettivi, siamo e restiamo, prima di tutto, soprattutto, persone.

La realtà siciliana

Daniela Carbone, consigliere eletta per il comune di Acireale (Catania), è la prima ad accompagnarci.

È lei la responsabile del servizio «pronto spesa e pronto farmaco», iniziativa nata allo scopo di approvvigionare le famiglie svantaggiate e gli anziani in difficoltà.

Il nostro viaggio si snoda tra i magazzini alimentari, scelti tra strutture pubbliche ed edifici sequestrati alla mafia e consegnati a Cri, nei comuni di Aci Catena, Aci Sant’Antonio e Aci Bonaccorsi: è da questi luoghi, sorti a nuova vita, che partono le operazioni di smistamento e consegna cibo alle categorie più fragili.

È proprio Daniela a rivelarci alcuni effetti collaterali e forse meno facili da prevedere di questa emergenza: «Nonostante i numeri dei contagiati, inferiori rispetto alle altre regioni d’Italia, in special modo alla Lombardia, il numero dei richiedenti aiuti alimentari è progressivamente aumentato con l’avanzare delle restrizioni. Il dato non è imputabile al virus in sé ma alle conseguenze dovute alle necessarie limitazioni. In Sicilia il lavoro nero è uno dei principali problemi che da sempre l’attanagliano. Il virus non ha fatto altro che esacerbare un malessere che già preesisteva. Impedendo alle persone di potersi recare al proprio posto di lavoro si è impedito loro di potersi sostenere. Tutte quelle fasce sociali che riuscivano alla meno peggio a “portare a casa la giornata” adesso sono regrediti ad uno stato di semi povertà».

L’elenco degli aiuti è fitto e, tra una casa e l’altra, un vicolo e l’altro, persone di diverso livello sociale e genere attendono il loro cofanetto di alimenti e beni di prima necessità con rigoroso e immobile pudore.

A fine turno una coppia di anziani ultraottantenni attende l’arrivo dei volontari. Uno di questi ultimi ci racconta che i due erano persone molto conosciute in paese perché per anni avevano gestito una piccola bottega di generi alimentari. Al suono del ricordo, però, la coppia scoppia in un pianto amaro rivelando che mai si sarebbero aspettati di finire senza certezze e senza protezione, abbandonati e impauriti, in attesa di finire l’ultimo tempo della loro vita.

Contro emergenza

È una calda domenica di maggio e, dalla sede di Catania, Alberto Leotta ci attende a inizio turno, insieme al suo team, per raccontarci la sua giornata. Non sono previsti interventi oggi, ma una esercitazione, una delle tante da fare necessariamente per mantenere alta la preparazione per una risposta al pronto intervento.

Alberto ci tiene a precisare che, la sede in cui Cri opera, è una importante e lussuosa villa sequestrata nel 1998 a una famiglia mafiosa locale.

Ci mostra tutta la lunga procedura di vestizione che anticipa ogni uscita in ambulanza. «A causa dei tempi lunghi di preparazione e vestizione, il tempo di risposta tra un intervento e un altro si è dilatato».

Il ricordo dei soccorsi è vivo negli occhi di Alberto che fa fatica, ci svela, dimenticherà questo particolare momento storico.

«Quando si ritorna a casa le sera e si sente un po’ di freddo alle ossa, o un po’ di mal di gola, il pensiero inevitabilmente rimanda alla possibilità di aver contratto il virus, di essere diventato un potenziale problema per le persone più care».

Catania, senza dimora

Sono circa 80 i senza fissa dimora che, nei vicoli di Catania, dividono la notte tra gelo e solitudine.

Durante la fase 1 e 2 del lockdown le strutture di accoglienza, mense e ambulatori di assistenza, hanno dovuto barricarsi per evitare il contagio.

L’unità di strada dei giovani volontari di Croce Rossa italiana ha svolto numerose attività di sostegno a favore delle fasce più deboli. Durante la fase 1 del lockdown, Croce Rossa si è posta da tramite tra le varie associazioni per provvedere al fabbisogno di beni di prima necessità: pasti caldi, acqua, indumenti e kit di pulizia. Con l’inizio della fase 2, il 4 maggio, le mense hanno potuto riaprire i battenti così, il servizio di assistenza di Croce Rossa, attraverso ronde settimanali, vigila sulle condizioni sanitarie e psicologiche di tutti gli utenti presenti sul territorio catanese.

«Il cibo è una scusa per monitorare il bisogno dei senza dimora – ci dice Danilo Di Mauro responsabile dell’unità di strada – un legame, il nostro, instaurato nel tempo. Conosciamo le loro storie personali, le loro paure e i loro drammi. Una sorta di famiglia allargata in cui prendersi cura vicendevolmente gli uni degli altri».

Valentina Tamborra e Angelo Anzalone