Sahel. Le mosse dei golpisti (e della Russia)

Lo scorso 28 gennaio, le televisioni di Mali, Burkina Faso e Niger hanno trasmesso simultaneamente una dichiarazione congiunta con la quale i leader militari dei tre Paesi – saliti al potere tra il 2021 e il 2023 grazie a colpi di stato – hanno annunciato l’intenzione di abbandonare la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/ Ecowas). I tre Paesi hanno giustificato la decisione sostenendo che l’organizzazione fosse ormai uno strumento nelle mani dell’Occidente e avesse tradito gli ideali dei padri fondatori e lo spirito del panafricanismo.

La Cedeao
La Cedeao è stata fondata nel 1975 con l’obiettivo di rafforzare la cooperazione economica tra i quindici Stati membri. Successivamente, di fronte alla diffusa instabilità nella regione a causa di conflitti e tensioni politiche, le sue prerogative sono state ampliate. Tra i suoi obiettivi sono stati inclusi il mantenimento di pace e sicurezza e le è stata attribuita la possibilità di dispiegare forze militari.
Nel 2001, la Cedeao ha adottato il Protocollo supplementare su democrazia e buon governo, un documento che sancisce i principi democratici che i Paesi membri devono rispettare. Su tutti, il non coinvolgimento dei militari nella vita politica e il rispetto dei limiti costituzionali dei mandati presidenziali.
Tuttavia, l’atteggiamento della Cedeao di fronte alle numerose crisi dell’Africa occidentale è stato ambivalente. In alcuni casi, ha mobilitato le sue forze militari, intervenendo militarmente per ripristinare la pace e la sicurezza (come durante le guerre civili in Liberia e Sierra Leone). In altri casi, non si è opposta a evidenti violazioni della democrazia, come nel 2020 in Guinea in occasione della contestata terza rielezione di Alpha Condé.

L’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger
La decisione di Mali, Burkina Faso e Niger di lasciare la Cedeao non giunge inaspettata. Da quando i militari hanno preso il potere accusando i governi civili di essere incapaci di contrastare l’insicurezza causata dalla diffusione del jihadismo, si è assistito a un crescendo di tensioni tra i tre regimi e l’organizzazione.
Di fronte al timore di un’ulteriore diffusione dei colpi di stato in Africa occidentale, la Cedeao ha reagito chiedendo il rispetto dei principi democratici. Se nel caso dei golpe a Bamako e Ouagadougou, l’organizzazione aveva imposto sanzioni e sospeso i Paesi, dopo quello a Niamey (luglio 2023), ha minacciato l’intervento militare. Accusando la Cedeao di essere uno strumento nelle mani dell’Occidente, Mali e Burkina Faso hanno annunciato il loro supporto al Niger e dichiarato che un’azione dell’organizzazione sul suolo nigerino sarebbe stata un attacco anche nei loro confronti.
Dunque, si è acuita la frattura con i tre Paesi golpisti che, a settembre 2023, hanno annunciato la creazione di un loro blocco militare, politico ed economico – l’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes) – prima di dichiarare anche l’intenzione di uscire dalla Cedeao. Una dimostrazione dell’esistenza di profonde fratture all’interno dell’organizzazione e dell’apertura di spazi per lo sviluppo di nuovi schemi di alleanza che guardano ad altri partner come la Russia.

Le debolezze della CedeaoLa nascita dell’Aes e l’annuncio dell’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger dalla Cedeao mostrano la debolezza politica e militare del blocco dell’Africa occidentale, spesso incapace di agire per assicurare la stabilità della regione.
Dal 2012, con la diffusione del jihadismo, si è registrato il fallimento della maggior parte delle missioni occidentali di contrasto al terrorismo e la Cedeao stessa non è riuscita a garantire pace, sicurezza e democrazia nell’area. Ha così contribuito a creare terreno fertile per i colpi di stato in Mali, Burkina Faso e Niger e a spingere questi regimi verso nuovi alleati come i mercenari Wagner.

C’è spesso la percezione che l’organizzazione – che non dispone di strutture finanziarie e militari indipendenti – non abbia una reale strategia unitaria, ma prenda o meno posizione a seconda degli interessi e della volontà di coinvolgimento dei Paesi leader (in particolare, la Nigeria).
Perché l’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger dalla Cedeao diventi effettiva è necessario un anno, ma intanto la loro decisione è un altro duro colpo a un’organizzazione sempre più fragile e dimostra quanto la Cedeao sia in difficoltà.

Aurora Guainazzi




Niger. Uno strano golpe


In Niger un colpo di stato ha rovesciato il presidente eletto. La giunta militare non è stata riconosciuta a livello internazionale e le sanzioni economiche stanno colpendo la popolazione. Le prossime mosse del nuovo potere sono imprevedibili e il Paese vive una grande incertezza. Ma si inizia a capire chi c’è dientro.

È l’alba del 19 ottobre, quando i nigerini iniziano a interrogarsi su quanto stia succedendo nella capitale, mentre sui social media impazzano le storie più diverse. Un commando avrebbe tentato di far fuggire il presidente Mohamed Bazoum, deposto il 26 luglio scorso da un colpo di stato militare e, da allora, agli arresti nella residenza presidenziale. Ma sarebbero stati scoperti, grazie a elementi fedeli al generale golpista, Abderramane Tchiani (o Tiani), e la fuga sventata. Il risultato concreto sarà l’isolamento totale dell’ex presidente, al quale viene confiscato il telefono (pare strano che non lo abbiano fatto prima), e che viene condotto, sempre in detenzione, ma in un luogo sconosciuto. Allo stesso tempo, c’è un gran movimento di mezzi blindati nel quartiere Tchangareye, dove una villa è circondata e alcune persone arrestate. Sarebbe il covo dei militari secessionisti.

Militari poco uniti

Al di là della cronaca, poco chiara, questo episodio è il primo tentativo di destabilizzazione della giunta dopo il colpo di stato, e ci dice che all’interno delle forze armate nigerine, ci siano delle divisioni.

Un’altra lettura che si fa in questi giorni a Niamey è quella della messa in scena, ovvero del falso rapimento, con il solo scopo di aumentare l’isolamento del presidente. Chi conosce il palazzo presidenziale ci dice che per arrivare alla residenza occorre passare tre livelli di sicurezza, per cui è improbabile che un commando riesca nell’impresa di entrare e uscire con il prigioniero da liberare. Altrettanto difficile è che un elicottero possa entrare nel paese indisturbato per portare via il presidente.

I fatti

Facciamo un passo indietro.

Il 26 luglio scorso, la guardia presidenziale del Niger ha deposto il presidente Moahmed Bazoum. Il generale Abderramane Tchiani, a capo del sedicente Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), si è auto proclamato capo di stato (cfr. sito MC, MC notizie, 2 agosto).

Le prime manifestazioni contro il putsch sono state represse, mentre le successive, favorevoli, ampiamente organizzate e promosse dal nuovo potere di Niamey. I manifestanti inneggianti ai golpisti chiedevano a gran voce il ritiro delle truppe francesi presenti nel Paese per la lotta antiterrorista, mentre comparivano le – oramai frequenti nel Sahel – bandiere della Russia.

A livello internazionale, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), la cui presidenza di turno è assicurata dalla Nigeria, ha condannato il golpe, attivato pesanti sanzioni economiche e minacciato pure un intervento militare per ripristinare l’ordine costituzionale. Ma la stessa Cedeao era divisa al suo interno.

La Francia, ex potenza coloniale, non ha riconosciuto i golpisti, e si è innescato un braccio di ferro diplomatico, che ha infine portato il presidente Emmanuel Macron ad annunciare, il 24 settembre scorso, il ritiro del contingente militare francese (1.500 effettivi).

Restano i militari statunitensi (anch’essi circa 1.500), che si sono tutti trasferiti nella base di Agadez a nord, gli italiani (che da 300 unità sono stati ridotti) e i tedeschi. Gli Usa hanno riconosciuto che c’è stato un golpe solo a ottobre, dopo di che hanno interrotto alcuni finanziamenti.

Nel frattempo, le giunte militari golpiste di Mali e Burkina Faso (cfr. MC maggio 2022) si sono alleate con quella nigerina, fino a firmare, il 16 settembre la «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel», un patto di mutuo aiuto militare (cfr. MC notizie, 25 settembre).

E l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Burkina ha dato il via libera per l’invio di un contingente militare in Niger, come se i burkinabè non avessero già abbastanza da fare contro i gruppi armati sul loro territorio.

L’impasse

Nel momento in cui scriviamo, a inizio novembre, il Paese vive un’impasse politica e una profonda crisi economica.

«L’opzione di un intervento militare [della Cedeao] si è allontanata – ci dice un nostro interlocutore a Niamey -, ma le sanzioni restano».

Così i beni di prima necessità hanno visto aumentare notevolmente il loro prezzo (un chilo di zucchero è passato da 600 a 900 franchi). «Il Cnsp ha ridotto i dazi doganali su dieci prodotti di base, per tentare di calmierare i prezzi. Di fatto la frontiera con il Benin è chiusa, e Cotonou sarebbe il porto più vicino a Niamey. Così adesso la capitale si rifornisce attraverso il porto di Lomé, in Togo, che ha accettato il corridoio umanitario, ma i camion devono passare anche in Burkina Faso, prima di arrivare nel Paese. Sono convogli scortati da militari».

Il bilancio dello stato, inoltre, si è contratto del 40% a causa del congelamento di aiuti di paesi esteri. A livello generale, l’aumento dei prezzi e l’estrema incertezza per il futuro, hanno prodotto un drastico rallentamento dell’economia. Ancora il nostro interlocutore: «La gente ha meno mezzi, c’è una contrazione delle spese. I consumi si riducono. Anche la situazione incerta induce le persone a risparmiare. Per cui l’economia ristagna. La preoccupazione principale è trovare cosa da mangiare giorno per giorno. Alcune spese non si fanno più. Si punta all’essenziale.

Così gli affari dei commercianti si riducono, mentre alcuni settori, come l’edilizia, sono in crisi, con i cantieri fermi».

Una conseguenza è la precarietà del lavoro: succede che i datori lascino a casa da un giorno all’altro gli impiegati, perché hanno meno introiti. Un circolo vizioso dunque. Questa è la situazione nelle città, mentre nelle campagne, nei villaggi, la gente continua la propria vita, influenzata piuttosto dai capricci della pioggia e della siccità che influiscono sui raccolti. Quest’anno la stagione è stata buona, i granai sono pieni e vacche e greggi sono in carne.

Anticolonialisti o reazionari?

I golpisti, per mobilitare le folle, soprattutto di giovani, hanno fatto leva sul sentimento antifrancese, oramai dilagante in tutta l’area saheliana.

La Francia ha infatti mantenuto una grande influenza geopolitica ed economica in Africa dell’Ovest come in Africa centrale fino dagli anni delle indipendenze (primi anni Sessanta).

Oggi le cose stanno evolvendo, tuttavia chi vede il golpe in Niger solo come espressione del sentimento popolare antifrancese, per liberarsi dell’influenza neocoloniale, ha una visione miope e superficiale.

Il colpo di stato in Niger è strettamente legato alla politica nazionale, come in ogni altro paese, anche se la tendenza è di vedere come causa un generale movimento anticolonialista.

Il sistema messo in piedi dal precedente presidente, Issoufou Mahamadou, durante dieci anni (2011-2021) era oramai arrivato al termine. Non potendosi ricandidare, Issoufou ha mandato avanti il suo leale compagno di partito Mohamed Bazoum (del Pnds-Tarreya, Partito nigerino per la democrazia e il socialismo). L’idea di Issoufou era quella di continuare a controllare dietro le quinte. Per questo motivo ha imposto a Bazoum di mantenere ai loro posti i due generali da lui nominati: Salifou Modi a capo delle forze armate, e Abderramane Tchiani alla guardia presidenziale.

Era inoltre previsto, ci dicono da Niamey, che il figlio di Issoufou, Sani Issoufou Mahamadou, ministro del petrolio fino al golpe, diventasse presidente dopo Bazoum.

Ma Bazoum aveva le sue idee e il suo concetto d’integrità e, ci dicono, «è stato un presidente moderno». Stava cercando di cambiare il sistema di governance, facendola finita con quello clientelare costruito da Issoufou. In carica dall’aprile 2021, ad aprile di quest’anno aveva rimosso il generale Modi e stava per cambiare anche Tchiani. C’erano inoltre stati dissapori con il figlio di Issoufou, che voleva imporre un suo uomo non gradito a Bazoum, alla testa dell’impresa che controllerà l’oleodotto verso il Benin, costruito dai cinesi.

Sperare nel cambiamento

Scrive l’analista Abdoulahi Attayoub, consulente indipendente a Lione: «I nigerini, nella loro maggioranza, potevano sperare in un cambiamento della governance, dato che il sistema messo in piedi da Issoufou Mahamodou aveva raggiunto i suoi limiti e gli eccessi avevano finito per discreditare i membri più integri del Pnds. Issoufou Mahamadou, avendo concentrato l’essenzialità del potere e avendo neutralizzato le opposizioni, non pareva avere limiti nella volontà di installare una vera impresa famigliare chiamata a perennizzarsi al comando del paese. In dieci anni, Issoufou ha accumulato abbastanza risorse per imporre il suo progetto e zittire gli oppositori. Mohamed Bazoum ha tentato una laboriosa rettificazione di questa governance, ostacolato dal clan Issoufou, i calcoli del quale sarebbero all’origine della crisi di oggi».

Il consulente continua affermando che le attuali autorità rischiano di perdere credibilità nei confronti di chi voleva il cambiamento. Focalizzare la crisi politica sulla questione dei rapporti con la Francia è strumentale alla giunta, perché le serve a nascondere le proprie debolezze e difficoltà a uscire dall’impasse. Al punto che «l’attitudine della giunta verso quest’ultimo [Issoufou], sconcerta molti nigerini che si chiedono se davvero ci sia stato un colpo di stato». Ovvero, se prima Issoufou ha tentato di tirare i fili dietro a Bazoum, adesso li vorrebbe tirare dietro a Tchiani e compagnia. Un nostro interlocutore commenta: «Se è possibile che Issoufou sia dentro al golpe, pare adesso che la situazione gli sia scappata di mano».

La transizione in atto è opaca. Sempre secondo Ayoub: «Il Cnsp non avrà alcuna credibilità fintanto che apparirà come l’alleato dell’ala mafiosa del sistema che dichiarano di volere cambiare […]. Il presidente deposto, Bazoum è stato vittima della sua ingenuità e della lealtà verso Issofou».

Da notare che il Pnds, partito storico, al potere dal 2011, è oggi spaccato in due, se non definitivamente defunto, tanto che le due fazioni arrivano a produrre comunicati ufficiali opposti tra loro. Vecchi e nuovi attori internazionalipotranno acquistare margini di collaborazione. La Cina è presente in Niger da tempo e in modo massiccio, mentre Russia, Turchia, India stanno ora facendo capolino. Sono i Brics che in tutto il continente si stanno sostituendo agli antichi paesi coloniali.

Intanto la gente in Niger vive giorno per giorno in una crisi economica sempre più acuta e tra grandi incertezze per il futuro prossimo.

Marco Bello

Uno sguardo dal punto di vista economico

Uranio e petrolio, ma non basta

Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo. Ma è anche tra i primi produttori di uranio. E da qualche anno ha aumentato la produzione di petrolio. Tutti ingredienti della complessa crisi in atto.

Formalmente la Francia ha lasciato l’Africa occidentale e subsahariana nel 1960, ma un totale sganciamento in realtà non c’è mai stato, a cominciare dal fatto che la moneta utilizzata in questi paesi è frutto di un accordo di cooperazione monetaria che, nonostante gli elementi di novità introdotti nel 2019, permette ancora alla Francia di sedere nei consigli di amministrazione delle Banche centrali dei paesi firmatari, di custodire le riserve monetarie di tali paesi, di stampare le loro divise. Ma nelle sue ex colonie, la Francia ha anche conservato il controllo delle attività economiche che considerava strategiche. Prendiamo il Niger come esempio. Analizzando le sue esportazioni si scopre che nel 2021 quattro prodotti hanno determinato l’82% dei ricavi ottenuti dal Niger dalle vendite verso l’estero. Al primo posto ci sono gli idrocarburi (33%), al secondo posto c’è l’uranio (26%), al terzo posto ci sono le cipolle (13%), al quarto posto l’oro (10%). Dei quattro prodotti quello che alla Francia interessa di più è l’uranio, che assorbe in larga parte. Non a caso la Francia figura come primo partner commerciale del Niger tramite l’acquisizione del 21% delle sue esportazioni, quota costituita per la quasi totalità da uranio.

Per Parigi il combustibile atomico è un prodotto fondamentale perché il 70% della sua energia elettrica proviene da 56 centrali nucleari dislocate in tutto il paese. E pur rifornendosi di uranio da una varietà di paesi, fra cui Canada, Kazakhistan e Uzbékistan, il rapporto con il Niger continua a giocare un ruolo determinante.

La società che garantisce la materia prima a Parigi si chiama Orano (ex Areva), ed è posseduta al 90% dallo stato francese. Con un giro d’affari di 4,3 miliardi di euro, Orano è una multinazionale con 17mila dipendenti dislocati in 14 paesi. Anche in Niger è il principale protagonista dell’estrazione di uranio tramite le filiali Somair e Cominak che gestiscono una miniera ciascuno. Ma mentre la prima continuerà le proprie attività fino al 2040, la seconda è in fase di bonifica perché nel 2021 è stata dichiarata esausta. Intanto sono iniziati i lavori per un’enorme miniera nei pressi di Imouraren, la cui apertura è stata però sospesa dalla Francia già nel 2014. Sarebbe una delle più grandi miniere di uranio del mondo.

Purtroppo non esistono informazioni sulle regole fiscali imposte a Orano, né sul rigore con il quale i funzionari pubblici effettuano i propri controlli, per cui è impossibile stabilire se lo stato del Niger ottenga qualche beneficio economico dall’estrazione di uranio o se sia intascato interamente da Orano. Considerato che, secondo una ricerca condotta dal Fondo monetario internazionale, i paesi africani perdono ogni anno dai 470 ai 730 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale attuata da parte delle multinazionali minerarie, non c’è da stare troppo tranquilli. In ogni caso è certo che le miniere del prezioso combustibile creano gravi problemi ambientali sia per quanto riguarda l’accumulo di detriti radioattivi che per quanto riguarda il consumo e la contaminazione dell’acqua.

Dal 2011 nella regione di Diffa si è cominciato a estrarre petrolio (che viene anche raffinato nei pressi di Zinder, ndr) e se inizialmente sembrava una produzione marginale, nel tempo è cresciuta, fino a superare in valore le esportazioni di uranio.

La società estrattrice la China national petroleum corporation (Cnpc), un’azienda di stato, ha anche avviato la costruzione di un oleodotto per fare arrivare il petrolio nigerino al mare attraversando il Benin.

Il tempo ci dirà se l’unico obiettivo dei militari è la conquista del potere lasciando tutto com’è, o se c’è anche la volontà di sganciarsi da potenze consolidate come Usa, Francia, Europa, per spostarsi verso nuove potenze emergenti. La sola cosa che si può dire, senza rischi di essere smentiti, è che al centro della loro attenzione non ci sono i 10 milioni di poveri che in Niger rappresentano il 48% della popolazione. Non è stato così fino ad ora, in un paese che spende il 20% delle entrate pubbliche per l’esercito, e non lo sarà in futuro. I poveri purtroppo non interessano a nessuno, meno che mai a chi è abituato a ragionare solo secondo logiche di potere.

Francesco Gesualdi




Addio Yacouba Sawadogo, argine al deserto

 

Il 3 dicembre scorso, all’età di 77 anni, è morto Yacouba Sawadogo. Agricoltore burkinabè, Sawadogo è diventato famoso per avere applicato alcuni metodi di lotta contro la desertificazione a partire dagli anni Ottanta.

Nella provincia Yatenga, nel nord del Burkina Faso, gli effetti dell’avanzata del deserto e dell’inaridimento dei suoli costringono, ancora oggi, i contadini a lasciare i campi.

Una grande siccità tra il 1980 e l’83 aveva colpito duro, e fatto migrare molte persone verso sud. Yacouba Sawadogo decise di attaccare il problema. Recuperando tecniche ancestrali, come lo zai e le dighette anti erosive, migliorandole e lavorando duramente, è riuscito, in alcuni decenni, a ricreare una foresta di circa 40 ettari. Quest’area si trova a Gourga, il suo villaggio, non lontano da Ouahigouya, capoluogo della provincia.

Iniziò a intervenire per la preservazione del suolo contro l’erosione, e per produrre cibo (miglio e sorgo sono i cereali coltivati in queste zone). In seguito piantò alberi, e favorì la presenza di uccelli e piccoli animali, creando così un polo di biodiversità del Sahel.

Contadino del Burkina Faso intento a realizzare una coltivazione con la tecnica zai. Foto Marco Bello

Yacouba decise poi di curare le persone, utilizzando essenze ed erbe da lui coltivate, e fu riconosciuto come curatore tradizionale dal ministero della Sanità del Burkina Faso.

Scoperto da una Ong, il suo lavoro è stato presentato negli Usa, e in seguito, nel 2010, Mark Dodd ne ha fatto un documentario: «L’uomo che fermò il deserto».

Yacouba ha vinto il «Right livelihood award», noto come il premio Nobel alternativo, nel 2018, e, poco dopo, l’Onu lo ha insignito del premio «Campioni della terra».

Al di là delle onorificenze , Yacouba si è preoccupato di fare in modo che il suo lavoro non venga perso. Per questo ha formato uno dei suoi figli e ne ha fatto studiare un altro.

Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Yacouba Sawadogo nel 2016, e raccontare la sua storia in questo articolo su MC.

Con Yacouba Sawadogo se ne va un grande uomo, che senza proclami altisonanti, ha reso migliore il pianeta.

Marco Bello




Sahel: golpisti contro tutti, ma amici dei russi

Firmato un accordo di alleanza militare tra Mali, Burkina Faso e Niger. Ad alcuni incontri, presenti anche funzionari  del ministero della Difesa della Russia.

Il 16 settembre scorso i militari golpisti a capo delle giunte in Burkina Faso, Mali e Niger, hanno firmato a Bamako (Mali) un documento chiamato «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel» (dal nome geografico della regione). Il burkinabè Ibrahim Traoré, il maliano Assimi Goita e il nigerino Abdourahmane Tiani hanno così creato una nuova alleanza regionale (Aes, sigla in francese), con «l’obbiettivo di stabilire un’architettura di difesa collettiva e di mutua assistenza a beneficio delle nostre popolazioni», ha scritto in un tweet il presidente di transizione del Mali, ospite dell’evento.

Il giorno precedente, secondo la Radio televisione del Niger (Rtn), a Bamako, si era tenuta una riunione tra i ministri della Difesa di Mali e Niger, alla quale avrebbero partecipato funzionari del ministro della Difesa della Russia, forse come consulenti. Le delegazioni avrebbero poi incontrato il presidente di transizione Assimi Goita. L’Rtn ha mostrato le immagini della riunione, a cui hanno partecipato anche uomini europei in civile e in divisa militare, e non erano certo francesi.

L’accordo Liptako-Gourma tra i tre paesi saheliani era nell’aria ed era stato anticipato dalla firma, a Niamey, Niger, di un documento tripartito, il 24 agosto scorso.

Sulla carta si parla di mutuo aiuto militare nella lotta ai terroristi, ma anche in caso di ribellioni interne (ad esempio in Mali sta rinascendo la ribellione dei popoli dell’Azawad, nel Nord) e di qualsiasi minaccia all’integrità territoriale di uno dei tre paesi. Si pensi, in questo caso, all’ultimatum della Cedeao, la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, nei confronti del Niger, con minaccia di intervento militare se non viene ristabilito l’ordine costituzionale dopo il golpe del 26 luglio.

Di fatto, i golpisti di Mali, Burkina Faso e Niger si uniscono in un’alleanza militare con un patto di ferro.

In Mali è già presente il gruppo Wagner da alcuni anni: ha sostituito i francesi dell’operazione Barkhane, e compiuto massacri di civili. In Burkina Faso sta entrando. In Niger, invece, sono presenti basi militari di Francia (circa 1.500 uomini), Stati Uniti (1.500), Germania e Italia (circa 300 effettivi), ma a questo punto, pare chiaro che anche l’idea della giunta Tiani sia di andare verso la Russia.

Il 19 settembre l’Assemblea legislativa di transizione (71 membri) del Burkina Faso ha ratificato l’invio di un contingente militare in Niger, in appoggio delle forze militari di quel Paese. C’è da chiedersi cosa faranno, visto che in patria non riescono a garantire la sicurezza della popolazione dagli attacchi terroristici.

Si tratta, tuttavia, di un via libera politico, nell’eventualità di un’improbabile attacco di truppe dei paesi vicini sotto l’egida della Cedeao.

Intanto, il 24 settembre, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato il ritiro del contingente francese dal Niger da qui a dicembre, viste le pressioni della giunta. Cosa faranno statunitensi, tedeschi e italiani? I primi hanno ripreso le loro attività da giorni, come nulla fosse.




Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel


Niger. In seguito al golpe dello scorso 26 luglio da parte dei militari della guardia presidenziale, l’organizzazione economica regionale, Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), ha imposto pesanti sanzioni economiche e dato un ultimatum di una settimana per il ritorno all’ordine costituzionale. In caso contrario, anche l’opzione militare è sul tavolo.

Mali e Burkina Faso, altri due paesi del Sahel attualmente governati da giunte militari, che hanno preso il potere con la forza (nel 2021 e 2022), si sono detti alleati dei golpisti del Niger, e pronti a sostenerli in caso di azione di forza della Cedeao (di cui, tra l’altro, fanno parte). La Guinea Conakry, anch’essa retta da una giunta golpista, è pure contraria alle sanzioni.

Si tratta di dichiarazioni, ma è solo un gioco delle parti. Questi eserciti non sono in grado neppure di difendere il proprio territorio dai gruppi armati jihadisti. La lotta al terrorismo è stata la loro scusa per prendere il potere, (anche se avevano già molta libertà su questo fronte), ma il risultato è stato un aggravamento della situazione nei loro paesi.

Dal Niger, arrivano immagini di folla inneggiante al nuovo potere (un sedicente Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria, Cnsp). In realtà la maggior parte della popolazione e la società civile, non appoggia né i golpisti né tanto meno la Russia, come la propaganda vuole farci credere.

«Ci sono state alcune manifestazioni anti golpe a Niamey, ma sono state represse», ci dice una fonte nigerina sul posto. Mentre si è dato largo spazio a quelle in favore, con i cartelli contro la Francia e bandiere russe, distribuite da qualcuno ad hoc.

Il sentimento antifrancese è certo diffuso, in tutta la regione, ma il pretesto anti imperialista, di allearsi con la Russia non regge. Il gruppo Wagner, nei paesi in cui interviene, fa razzia delle risorse minerarie.

«Penso che una parte della popolazione di Niamey sostenga i golpisti. Inoltre, ci sono diverse dichiarazioni di opportunisti in loro favore, ma sono persone sconosciute sia a livello della società civile che dei partiti politici», ci racconta un’altra fonte dalla capitale del Niger. In generale: «Sono contenti del golpe gli oppositori del presidente Mohamed Bazoum, mentre il nigerino comune e i lavoratori non lo sono affatto».

Nei villaggi, invece, questo è il periodo dell’anno di massimo lavoro nei campi, perché siamo nel pieno dell’unica stagione delle piogge (giugno-settembre), quindi «la preoccupazione principale della gente in questo momento è la raccolta, per avere da mangiare nel resto dell’anno».

«Poi c’è il grosso problema delle sanzioni, che rischiano di strangolare la popolazione. È già iniziata a mancare l’elettricità, che arriva dalla Nigeria. Mentre il sistema bancario rischia è bloccato e rischia di andare in tilt», continua la nostra fonte.

Uno degli elementi in questi paesi del Sahel è la crisi dell’istituzione «esercito repubblicano», e le divisioni in seno alla stessa. La realtà ha evidenziato che non esistono dei veri eserciti repubblicani, pronti a difendere il popolo, ma siamo ancora a livello di fazioni militari, pronte a prendere il potere quando l’occasione si presenti.

Il primo agosto, sono stati evacuati alcuni stranieri, tra i quali gli italiani (una trentina), tramite aerei militari (consentita dai golpisti). Mentre un contingente di militari italiani, ci circa 200 unità resta dispiegato nel paese, così come 1.500 francesi, oltre a soldati statunitensi e tedeschi.

Attualmente il Cnsp sta nominando i governatori di regione e alcuni membri del suo governo de facto, mettendo i propri uomini nei posti chiave.

Il due agosto è giunta a Niamey una delegazione della Cedeao per tentare una mediazione. È  condotta dall’ex presidente nigeriano Abdulsalami Abubakar, e ne fa parte l’influente sultano di Sokoto (Nigeria), capo tradizionale molto apprezzato nella regione.

Marco Bello




Ciad. L’ultimo dei saheliani


La sua posizione geografica e un territorio in gran parte desertico ne fanno un paese tra i più poveri del mondo. I gruppi armati e l’instabilità politica degli ultimi anni hanno aggravato la situazione. La crisi climatica fa aumentare la fame e i conflitti intercomunitari. Se la capitale resiste, l’interno del paese è abbandonato a se stesso.

La stagione delle piogge è alle porte. O almeno dovrebbe. In Ciad, come in gran parte dell’Africa, non ci sono più le stagioni di una volta. E non è una banale frase fatta. I cambiamenti climatici, in regioni fragili come quella del Sahel e in paesi aridi come il Ciad, dove ogni goccia d’acqua è preziosissima, hanno stravolto tutto: piove molto meno o piove troppo violentemente; non piove quando dovrebbe o si scatenano diluvi che devastano campi e allagano villaggi. Insomma, non si tratta solo dell’innalzamento delle temperature, dell’avanzata del deserto e della siccità che attanagliano questa regione, ma anche di eventi meteorologici estremi che si accaniscono contro territori e popolazioni già molto poveri ed estremamente vulnerabili. Che lo diventano ancora di più.

Il Ciad è l’emblema di tutto questo: qui i fattori ambientali e climatici – che hanno portato anche alla quasi scomparsa del Lago Ciad, un tempo uno dei bacini idrici più vasti dell’Africa – si intrecciano a situazioni conflittuali dovute alla presenza di gruppi terroristici e ribelli, agli scontri sempre più frequenti tra pastori e agricoltori, a un contesto di instabilità politica e a una grandissima povertà e insicurezza alimentare. Una crisi complessa e prolungata di cui, oggi, ne pagano le conseguenze intere popolazioni. Nel bacino del lago sono più di 24 milioni le persone a rischio fame e quasi tre milioni gli sfollati, secondo quanto emerso dalla terza Conferenza su questa regione, che si è tenuta a fine gennaio a Niamey, in Niger, e che ha delineato un quadro drammatico, che rigurada anche i paesi limitrofi.

La fame si diffonde

Il Ciad, in particolare, sta vivendo una situazione catastrofica in termini di sicurezza alimentare: è uno dei paesi africani in cui la fame è a livelli allarmanti, insieme a Repubblica democratica del Congo, Centrafrica, Madagascar e ai paesi del Corno d’Africa. Per non parlare del Sudan, che lo scorso 15 aprile è sprofondato nuovamente nel conflitto civile, con inevitabili ripercussioni anche al di qua della frontiera ciadiana, dove, dopo un mese di guerra, si erano già riversati oltre 60mila profughi che sono andati ad aggiungersi a quelli fuggiti negli anni scorsi dal conflitto in Darfur.

Anche il Ciad, tuttavia, si regge su un equilibrio molto delicato e instabile. L’uccisione del presidente Idriss Déby, il 20 aprile 2021 – ufficialmente mentre guidava un’offensiva contro i ribelli del Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad (Fact) – ha aperto una nuova fase politica, tanto opaca quanto quella che lo aveva visto protagonista (indiscusso e controverso) per ben trent’anni. Le redini del potere sono state immediatamente trasferite – per «successione dinastica», secondo gli oppositori – al figlio Mahamat Deby Itno, nominato a capo del Consiglio militare di transizione (Cmt), che avrebbe dovuto portare, nel giro di 18 mesi, alle elezioni e a un governo civile. Per farlo, è stata creata una piattaforma di dialogo nazionale che si è tenuta da agosto a ottobre 2022 con risultati piuttosto deludenti e inconcludenti, e con l’unica certezza che la transizione sarebbe stata prolungata di altri 24 mesi, guidata sempre da Déby junior.

Anche la Chiesa cattolica, che era stata associata al dialogo, ha deciso di sospendere la sua partecipazione, nel settembre dello scorso anno, ritenendo che mancasse una reale volontà di ascolto reciproco e di inclusività. Per la Chiesa, «il dialogo, che è al tempo stesso politico e sociale, deve mettere insieme gli attori politici e quelli della società civile, molti dei quali sono stati esclusi». Ovvero, gran parte dell’opposizione, diverse espressioni del tessuto sociale e alcuni gruppi armati.

Proteste popolari

Il senso di frustrazione, soprattutto di molti giovani, è sfociato nell’ottobre del 2022 in numerose manifestazioni e proteste sia nella capitale N’Djamena che in altre città del Paese.

Un movimento popolare brutalmente represso dalle forze di sicurezza, che hanno provocato una cinquantina di morti e più di trecento feriti.

Nel frattempo circa 400 ribelli sono stati condannati, lo scorso marzo, al carcere a vita per l’uccisione di Idris Déby, dopo un processo nella prigione di Klessoum, vicino alla capitale, durato circa un mese e a porte chiuse. L’accusa parla di «atti di terrorismo, arruolamento di bambini e attentato alla vita del capo dello Stato», ma la condanna assomiglia molto a un regolamento di conti specialmente con il Fact, uno dei gruppi più attivi e minacciosi presenti nel nord del Paese, dove è implicato anche nello sfruttamento delle miniere d’oro.

La capitale e l’interno

Oggi la situazione è apparentemente calma. E non è solo il caldo soffocante, con le temperature che si aggirano attorno ai cinquanta gradi, che azzerano ogni tipo di iniziativa, facendo sembrare città e villaggi, nelle ore centrali della giornata, dei luoghi fantasma. La capitale N’Djamena è costantemente «blindata» dalle forze di sicurezza ciadiane.

A scoraggiare possibili attacchi e incursioni è anche la presenza di considerevoli contingenti stranieri, in primis, quello francese che, «cacciato» dal resto del Sahel, ha consolidato in Ciad un’importante presenza militare per controllare – dal cuore dell’Africa e al crocevia tra mondo arabo musulmano e regione subsahariana – anche quello che succede tutt’intorno.

Fuori da N’Djamena, però, il Paese sembra abbandonato a se stesso. Strutture e infrastrutture sono quasi inesistenti o ridotte in uno stato pietoso, comprese le due strade principali, quella che costeggia il fiume Logone al confine con il Camerun e che scende verso sud, e quella che taglia il Paese da ovest a est: due assi viari strategici che, per lunghi tratti, sono impraticabili a causa delle enormi buche che obbligano a percorrere piste sabbiose ai lati.

Per non parlare dei sistemi educativo e sanitario. Nel Paese, solo un quarto della popolazione è scolarizzato e appena il 14% delle donne. Gli unici ospedali degni di questo nome sono nella capitale, mentre nella maggior parte dei dispensari c’è a malapena personale infermieristico. Più del 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
E i prezzi di cibo, carburante, beni di prima necessità continuano a crescere, anche in conseguenza della guerra in Ucraina.

Il Paese è sull’orlo del fallimento a causa del debito estero e si piazza al penultimo posto (seguito solo dal Sud Sudan) nell’indice dello sviluppo umano dell’Undp. Quanto a vulnerabilità climatica – ovvero alla capacità di resistere e di reagire all’impatto del clima – è il peggiore al mondo.

Equilibri precari

Ad aggravare la situazione contribuiscono anche le molte fratture interne e le tante situazioni potenzialmente esplosive. Sono, infatti, presenti – e a volte si intrecciano – diversi livelli di conflitto. Fino dagli anni Novanta, il Nord del Paese è stato interessato da varie ondate di ribellioni da parte di gruppi che spesso mantengono basi logistiche in Libia. A partire dalla 2015, sono stati soprattutto i terroristi nigeriani di Boko Haram a rendersi responsabili di attacchi, violenze, saccheggi e rapimenti in tutto il bacino del Lago Ciad, coinvolgendo anche il sud est del Niger, l’estremo nord del Camerun e, appunto, il nord ovest del Ciad, fino ad arrivare a colpire, a metà del 2015, persino la capitale N’Djamena. Alla fine del 2019, invece, sono state le regioni del Sila e dell’Ouaddai al confine con il Sudan e quella del Tibesti alla frontiera con il Niger a essere interessate da scontri tra gruppi etnici rivali. Ancora oggi la presenza di formazioni terroristiche islamiste rappresenta una sciagura per la popolazione e mette a dura prova l’esercito che è attivamente impegnato anche nella lotta antiterrorismo nell’ambito del G5 Sahel (coalizione regionale di lotta al terrorismo, composto da Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, ndr).

Ma un altro livello di scontro, sempre più diffuso e preoccupante, è quello tra pastori e agricoltori in diverse regioni del Paese, esacerbato dai cambiamenti climatici che rendono sempre più difficile l’accesso all’acqua e ai pascoli. Le violenze intercomunitarie stanno provocando moltissimi morti, feriti e sfollati.

La voce dei vescovi

Una situazione sempre più drammatica, su cui sono intervenuti recentemente anche i vescovi ciadiani che hanno chiesto di non strumentalizzare le rivalità etniche e soprattutto religiose per mettere le comunità una contro l’altra. È un tema estremamente delicato e critico, anche perché in Ciad – come in tutto il Sahel – le popolazioni nomadi dedite alla pastorizia sono generalmente musulmane, mentre gli agricoltori sono cristiani o seguaci delle religioni tradizionali. Secondo molti, tuttavia, compreso il vescovo Martin Waïngué Bani di Doba, nel sud del Paese, non è solo una questione di cambiamenti climatici e di strumentalizzazioni politiche: «C’è stato – dice – un cambiamento nel modo di praticare l’allevamento. Tradizionalmente, le popolazioni vi si dedicavano per la loro sopravvivenza. Ma oggi parliamo di nuovi pastori, a cui facoltosi impiegati statali e ufficiali dell’esercito affidano il loro bestiame». Si tratta di migliaia di vacche e di cammelli che, ancora oggi, non rappresentano solo – o non tanto – una fonte di nutrimento, ma sono simbolo di patrimonio e prestigio, un bene in cui investono uomini di potere e alti quadri dell’esercito. Sono proprio loro a fornire le armi ai pastori, i quali si sentono così «autorizzati» a invadere e devastare impunemente i campi degli agricoltori, che, a loro volta, tendono a farsi giustizia da sé.

Le notizie di scontri sono quotidiane in diverse regioni del Paese, nelle quali le spirali di vendette e ritorsioni provocano spesso più morti dei gruppi jihadisti.

Secondo il vescovo di Doba, questi conflitti intercomunitari vengono presentati come religiosi, ma è solo un modo per non affrontare il problema alla radice. A fine aprile, la questione è stata esaminata anche dal primo ministro Saleh Kebzabo, che ha convocato una riunione interministeriale in seguito alla quale il ministro dell’Amministrazione territoriale è stato incaricato di creare un comitato con lo scopo di organizzare degli incontri «per arginare tali ricorrenti conflitti».

Lo scorso 18 maggio, in seguito all’ennesimo massacro nella provincia del Logone orientale, nel sud del Paese, anche l’Unione dei movimenti e delle associazioni dei laici della Chiesa cattolica (Umalect) ha diffuso un comunicato per chiedere «l’immediata cessazione dei massacri e una migliore sicurezza per le popolazioni in tutto il territorio».

Infine, si combatte anche per il controllo delle risorse, soprattutto oro e uranio nel Nord del Paese, tra diversi gruppi armati che si contendono il controllo della regione, tra cui il Fact. E si combatte per il potere tra vari clan dell’etnia zagahwa, quella a cui appartiene la famiglia Déby, che non manca di profonde divisioni al suo interno. Il tutto avviene in un contesto di diffusa corruzione, scarsa libertà di stampa e scarso ricambio politico, violazione dei diritti umani e un sistema giudiziario precario.

Migrazione disperazione

In una situazione segnata da così tante criticità e spesso da violenze, le popolazioni del Ciad si dibattono tra mille difficoltà con il poco, anzi pochissimo, che hanno. La povertà è talmente diffusa e spesso estrema che si fatica a capire come le famiglie riescano a sopravvivere. Molti giovani non vedono altra alternativa che recarsi nel vicino Camerun, dove vengono sfruttati per i lavori più umili, faticosi e pericolosi. Le donne, costrette esse stesse a lavori pesanti oltre che alla cura dei figli e della casa, percorrono ogni giorno molti chilometri per trovare un po’ d’acqua, magari scavando nell’alveo disseccato di piccoli ruscelli. Tutti mostrano un’incredibile capacità di resistenza e resilienza. E sono straordinariamente aperti all’accoglienza: nonostante le difficoltà e le miserie, l’ospite è sempre sacro, sia che si tratti del viaggiatore di passaggio che dei profughi in fuga dai Paesi limitrofi, in particolare, in queste ultime settimane, quelli provenienti dal Sudan.

Anna Pozzi


Oltre un milione i profughi di altri paesi in Ciad

In arrivo gente in fuga dal Sudan

Il Ciad è un paese di 18,5 milioni di abitanti, tra i più poveri al mondo. Fra le molte sfide che deve affrontare c’è anche quella di una presenza molto significativa di sfollati e profughi. I primi fuggono soprattutto dai conflitti interni o sono costretti a lasciare le loro case e villaggi a causa delle ricorrenti e devastanti inondazioni. Quanto ai profughi, provengono dai Paesi vicini, essi stessi interessati da situazioni di conflitto o instabilità. Secondo l’Alto commissariato Onu per i profughi (Unhcr), già prima della crisi in Sudan, scoppiata lo scorso 15 aprile, erano più di un milione, tra cui 580mila rifugiati provenienti soprattutto dalla Repubblica Centrafricana e dal Camerun, oltre che dalla precedente guerra in Darfur.

Lo scoppio di nuove ostilità nel vicino Sudan tra l’esercito governativo e i paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf), ha provocato un nuovo massiccio spostamento di popolazione dentro e fuori il Paese. Nel giro di poche settimane centinaia di migliaia di persone si sono riversate in Egitto, Repubblica Centrafricana e Ciad. In quest’ultimo, sono oltre 60mila quelle che hanno passato il confine dopo il primo mese di conflitto. Secondo l’Unhcr, «quasi il 90 per cento è composto da minori e donne, tra queste molte di loro sono incinte. Un quinto dei bambini tra i 6 e i 9 mesi sottoposti a screening è risultato gravemente malnutrito».

Anche fratel Fabio Mussi, missionario del Pime in Ciad e responsabile dei progetti sociali del vicariato di Mongo, che si è recato sul posto, testimonia di una situazione disperata: «Le persone sono accampate in campi di fortuna sotto misere tende in attesa degli aiuti umanitari. Aiuti che faticano ad arrivare perché si tratta di zone remote che diventano inaccessibili non appena inizia la stagione delle piogge».

Fratel Mussi si è già attivato insieme alla Caritas di Mongo per far arrivare cibo e beni di prima necessità e ha inviato due camion per realizzare dei pozzi e garantire acqua potabile prima che le piogge rendano le strade impraticabili.

Anna Pozzi

 

Il Ciad in cifre

  • Superficie: 1.284.00 km2 (4,3 volte l’Italia)
  • Popolazione: 18,5 milioni (2022)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 190/191 (2021)
  • Pil procapite annuo [PPP$]: 1.364.
    (PPP$: dollari in parità di potere d’acquisto, tiene conto dei livelli dei prezzi nel paese).

 

 




Riflessione sulla guerra

Sommario

Menzogne, attori e comparse delle «nostre» guerre tutto sarà dimenticato?

Sono passati vent’anni dall’invasione degli alleati in Iraq. Una guerra giustificata con una menzogna, e alla quale si opposero milioni di pacifisti in tutto il mondo. Ma a nulla valse. Meccanismi che si sono ripetuti in molte guerre volute dall’Occidente. Mentre i paesi che cercavano una soluzione negoziale (spesso possibile), venivano messi all’angolo.

Venti anni fa, nel mese della guerra, l’offensiva anglo-statunitense «Iraqi Freedom» contro l’Iraq iniziava con una campagna di bombardamenti aerei. Malgrado tutto. Malgrado l’inedito rifiuto popolare espresso nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo (il New York Times parlò di «seconda superpotenza mondiale», a indicare la prima manifestazione planetaria contro un conflitto). Malgrado l’opposizione di importanti paesi anche in Occidente e nel mondo arabo. Malgrado, infine, l’evidente falsità del pretesto bellico: il possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime iracheno. Eppure, il Paese fu bombardato, invaso, occupato. E nessun capo politico militare fu in seguito punito per questo. Meccanismi molto simili (senza però la presenza di milioni di pacifisti nelle strade) si sono verificati nelle altre guerre mosse dall’Occidente e alleati a partire dal 1991. Per un totale (vedi scheda a pag. 41) di 6 milioni di morti. Più la distruzione dei paesi nel mirino, gli spostamenti di popolazioni, il dilagare del terrorismo.

La storia dovrebbe essere maestra. Quali lezioni trarre da quella vicenda?

Di fronte alla guerra in Ucraina e al dibattito sull’invio di armi, una riflessione sulle guerre condotte dall’Occidente (e alleati) può dare spunti? O tutto è già stato dimenticato?

Ossimori e menzogne nelle guerre di aggressione

Proteggere i civili, evitare genocidi, cancellare i dittatori, sconfiggere il terrorismo, portare la democrazia. E possibilmente avvolgendosi nei panni dell’Onu. Questa narrazione serviva a spacciare per umanitarie e giuste le guerre infinite portate avanti o aiutate dall’Occidente democratico.

Gennaio 1991: contro l’Iraq viene scatenata «Desert Storm» (Tempesta nel deserto), in Italia battezzata «operazione di polizia internazionale» per via dell’articolo 11 della Costituzione. Così, l’Onu sdogana la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti.

Marzo 1999: campagna di attacchi aerei della Nato contro la Jugoslavia, «Allied Force» (Forza alleata); detta anche «operazione umanitaria per fermare la pulizia etnica in Kosovo».

Ottobre 2001: «Enduring Freedom» (Libertà duratura), intervento bellico di Stati Uniti e alleati contro l’Afghanistan.

Marzo 2003: «Iraqi Freedom», «guerra preventiva» degli Usa e alleati (senza autorizzazione Onu) contro l’Iraq.

Marzo 2011: bombardamenti occidentali e petromonarchici sulla Libia, con semiautorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza Onu; per alcuni giorni chiamata «Odissey Dawn» (Alba dell’Odissea), diventa «Unified protector» (Protettore unificato) quando coinvolge altri attori dell’Alleanza. Dal 2011, guerra per procura in Siria, con Occidente, monarchie del Golfo e Turchia uniti nell’appoggiare, in molti modi, gruppi armati jihadisti.

Dal 2015, operazione «Decisive Storm» (Tempesta decisiva), condotta contro lo Yemen dall’Arabia Saudita con una coalizione di nove paesi arabi e armi soprattutto occidentali.

Per legittimare operazioni di aggressione di tale portata e renderle «giuste» e «umanitarie» i belligeranti hanno fatto ricorso a menzogne o a notizie non verificate. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 sottolinea, all’articolo 20.1, che qualsiasi propaganda in favore della guerra dovrebbe essere vietata per legge. Ma questo invito ai paesi è rimasto lettera morta. E in guerra, sembra non operare il rasoio di Hitchens: cioè il principio metodologico secondo il quale «ciò che viene affermato senza prove può essere smentito senza prove».

Le tattiche della propaganda in tempo di guerra – fatta di notizie non verificabili, cause occultate, fonti di parte, omissioni, demonizzazione dell’avversario – non sono appannaggio dei soli governi belligeranti e dei media mainstream che li seguono. Vengono usate, e sempre di più, da diversi altri attori. Il caso del 2003 è peculiare perché ben pochi credono alla famosa provetta mostrata dallo statunitense Colin Powell all’Onu come prova della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Nel libro Guerra all’Iraq, del 2002, William Rivers Pitt intervista l’ispettore dell’Onu Scott Ritter, il quale spiega che «la minaccia dell’Iraq in termini di armi di distruzione di massa è zero». Tutto l’arsenale è stato distrutto sotto il controllo Onu. E il 5 febbraio 2002 il New York Times rivela che la Cia non ha prove che l’Iraq sia impegnato in operazioni terroristiche contro gli Usa ed è convinta che Saddam non abbia fornito armi chimiche o batteriologiche ad al Qaeda.

Fake news mondiali

Per la precedente operazione contro l’Iraq, nel 1991, un’efficace finzione contribuisce a convincere il Congresso Usa.

Novembre 1990, la giovanissima «infermiera volontaria» Nahyrah riferisce in lacrime al Congresso Usa che a Kuwait City i soldati iracheni occupanti strappano i neonati dalle incubatrici e li gettano per terra. Ci credono – con tutte le conseguenze del caso – i congressisti, i media, l’opinione pubblica, ma anche organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International. A guerra fatta, l’ammissione: non era vero niente. La volontaria risulta essere la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano, istruita dall’agenzia di pubbliche relazioni Hill&Knowlton.

Anche nel caso della guerra della Nato contro la Serbia e delle bombe sull’Afghanistan si rivelano determinanti le accuse a senso unico di crimini efferati.

Con le guerre in Libia e Siria, al consolidato corto circuito di attori militari e mediatici (media embedded) si aggiungono, volontariamente o ingenuamente, altri soggetti. Insospettabili e prestigiosi. Organizzazioni umanitarie e per i diritti umani, regionali e internazionali, commissioni e gruppi speciali della stessa Onu, reti sociali, «attivisti» armati e non. E, come ha rilevato Alessandro Marescotti, che nel 1991 fondò Peacelink-Telematica per la pace, lo stesso ruolo di Internet è cambiato: «da attore di controinformazione ad arma di distrazione» (citazione dal documentario Tutto sarà dimenticato?, reperibile su Youtube).

Il fondo viene toccato in Libia, con la rivolta armata del 2011, ben presto appoggiata dalla Nato. L’Italia partecipa a una guerra per il controllo del petrolio e dell’Africa, giustificata con la «responsabilità di proteggere i civili libici dal massacro da parte del dittatore». Piccolo particolare: il massacro («diecimila morti») è inventato sulla base di notizie false, come ben presto accertato. La stessa Onu avalla di fatto un intervento militare senza fare alcuna verifica.

Dopo alcuni mesi, Maximilian Forte, docente di antropologia all’università di Montreal e autore del libro The scourging of Sirte, passa in rassegna le principali fake news della guerra in Libia: bombardamenti aerei contro i manifestanti, Bengasi a rischio genocidio, fosse comuni, mercenari africani, stupri. In realtà, prima delle bombe della Nato, i morti erano stati pochi, e le città ricatturate dal governo non avevano registrato massacri.

La regola della propaganda bellica consistente nel «nascondere le vittime e i crimini fatti dai nostri alleati» opera in pieno anche in Siria, dove dal 2011 il conflitto non è ancora concluso: l’area di Idlib è controllata da forze islamiste derivate da al Qaeda e l’esercito turco e le sue milizie continuano a occupare intere zone. Il coro è così sbilanciato sulle accuse di massacri compiuti dal solo regime di Damasco, che a metterlo in discussione è il sito Syria Truth, gestito da un veemente e storico oppositore di Bashar al-Assad, rifugiato all’estero da decenni, ma sconvolto dalle manipolazioni finalizzate a giustificare l’ingerenza occidentale, turca e delle petromonarchie nel suo paese. Allo stesso tempo, la commissione ad hoc dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, con base a Ginevra (la Coi, Commissione indipendente sulla Siria), compilava rapporti ascoltando al telefono i resoconti dell’opposizione armata e visionando video nei quali l’attribuzione delle responsabilità era lungi dall’essere chiara.

Gli schieramenti di guerra dal 1991

Quel che è certo è che l’Italia non si fa mancare nessuna delle guerre fatte sulle teste altrui, a partire dal 1991.  L’invasione dell’Iraq nel 2003 è una iniziativa anglo-statunitense, senza l’Onu. I paesi arabi non si oppongono in modo deciso, ma non partecipano con proprie truppe come invece avevano fatto nel 1991. Fra i paesi importanti nella Nato, a opporsi decisamente sono Francia e Germania.

Bush e Blair vanno a caccia di alleati raccogliticci fino in Micronesia. Il 18 marzo 2003, il Dipartimento di stato Usa rende pubblico un elenco di 31 paesi che – sulla carta – partecipano all’autonominata «coalizione dei volenterosi» guidata dagli Stati Uniti: Afghanistan, Albania, Australia, Azerbaigian, Bulgaria, Colombia, Repubblica Ceca, Danimarca, El Salvador, Eritrea, Estonia, Etiopia, Georgia, Ungheria, Islanda, Italia, Giappone, Corea del Sud, Lettonia, Lituania, Macedonia, Paesi Bassi, Nicaragua, Filippine, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Uzbekistan.

Il 20 marzo 2003, la Casa Bianca pubblica un elenco con le seguenti aggiunte: Costa Rica, Repubblica Dominicana, Honduras, Kuwait, Isole Marshall, Micronesia, Mongolia, Palau, Portogallo, Ruanda, Singapore, Isole Salomone, Uganda, Panama. Nell’aprile 2003  si aggiungono Angola, Tonga e Ucraina. In tutto 49, Usa compresi.

Nel 1991 – un caso che fa scuola – tutto si è invece giocato, formalmente, all’Onu. «Se avremo successo, le Nazioni Unite ne usciranno rafforzate», disse George Bush nei mesi precedenti l’attacco non chirurgico all’Iraq. Sfacciata la compravendita statunitense del consenso, nei lunghi mesi di preparazione della guerra, per trasformare in una «coalizione dell’intero mondo libero coraggioso» (più la declinante Urss) quella che era invece un’azione bellica necessaria alla continuità di Washington come superpotenza e al controllo Usa sul vitale Medioriente petrolifero.

Nei mesi dell’escalation prima delle bombe, gli Usa si impegnano in un pressing a 360 gradi, in particolare sui membri permanenti e non permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ai quali vengono offerte prebende, soprattutto se poveri come Etiopia, Colombia e Zaire.

In Consiglio di sicurezza, al voto clou sull’ultimatum all’Iraq si registrano solo due «no», decisi ma marginali: quelli di Cuba e Yemen. La Cina si astiene (deve legittimarsi a livello internazionale). L’Urss in via di scioglimento non pone il veto (dipende dagli aiuti occidentali). Fino all’inizio della crisi, la Lega araba, su intensa pressione Usa e delle petromonarchie, si divide (cercano di opporsi all’escalation solo Libia, Algeria, Giordania e Yemen), dimostrandosi incapace di proporre una soluzione nonviolenta.

A cavallo del nuovo millennio, all’operazione bellica della Nato in Serbia partecipano 13 paesi membri (Turchia compresa); la Grecia rifiuta. Dopo due anni, attaccano l’Afghanistan sette paesi occidentali più Nuova Zelanda e Australia.

Nel 2011, l’operazione militare Nato-petromonarchica in Libia viene legittimata a livello Onu dalla risoluzione 1.973 in Consiglio di sicurezza, che passa senza veti e con 5 astensioni: Brasile, Cina, Germania, India, Federazione Russa. I bombardamenti non aspettavano altro, e iniziano subito, a cura di 14 Stati occidentali, più Qatar, Turchia, Giordania ed Emirati arabi. Fra le petromonarchie, il Qatar si era guadagnato credibilità presso l’opinione pubblica araba con la sua tivù al-Jazeera, la quale in Iraq nel 2003 aveva mostrato una certa indipendenza dalla posizione Usa-Uk. Nel caso libico il media dell’emirato è, invece, in prima linea nella propaganda pro-intervento.

Nel caso siriano, gli undici paesi autoproclamatisi «Amici della Siria» (cinque occidentali – Usa, Francia, Germania, Regno Unito, Italia – e sei della macroregione intorno alla Siria – Emirati Arabi uniti, Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Egitto, Giordania) sono per diversi anni in prima linea nell’alimentare il conflitto, finanziando apertamente gruppi jihadisti e ostacolando ogni negoziato in sede Onu.

Paesi non belligeranti e negoziatori boicottati

Le guerre, come la geopolitica, hanno geometrie variabili. Via via, dal 1991, alcuni paesi si sottraggono alle avventure militari avviate dal loro blocco di appartenenza; altri mostrano una vocazione pacifista; altri si espongono in sforzi negoziali. Senza successo, ma onore al merito.

Il 29 novembre 1990, solo Yemen e Cuba in Consiglio di sicurezza (di cui sono membri per caso) votano no alla risoluzione definitiva, la 678 che fissa un ultimatum per il 15 gennaio 1991. Lo Yemen, il paese più povero della regione, ha resistito a ricatti e lusinghe, ma paga la sua indipendenza con la cancellazione di un pacchetto di aiuti occidentali e l’espulsione di centinaia di migliaia di lavoratori dall’Arabia Saudita. L’Urss agonizzante di Mikhail Gorbacev non riesce a porre un risolutivo veto all’ultimatum, ma tenta poi, per mesi, di mediare, inviando come negoziatore Evghenij Primakov, soprattutto nelle capitali arabe e a Baghdad. Era possibile, annoterà poi il negoziatore russo, ottenere un ritiro in dignità dell’Iraq dal Kuwait offrendo a Baghdad un pacchetto di garanzie. Sarebbe stato il modo per affermare il rispetto delle risoluzioni Onu senza la guerra.

Dopo la risoluzione 678 che autorizza l’uso della forza, il Consiglio di sicurezza non si riunisce più. Cercano ancora di negoziare l’Iran, sostenuto dall’Urss, e un gruppo di leader non allineati guidati da India e Nicaragua, insieme a Willy Brandt. Gli Usa rigettano ogni proposta. Il mondo si accoda.

Quanto all’invasione dell’Iraq nel 2003, vede l’opposizione attiva ma inefficace di molti paesi: in Europa Francia, Belgio, Germania. Poi Russia e Cina, Cuba (che mantiene l’ambasciata aperta sotto le bombe), Venezuela, Siria e altri paesi arabi. La Francia di Jacques Chirac si frappone in Consiglio di sicurezza, non accettando alcuna risoluzione contenente un ultimatum.

Invece, nel caso della crisi libica nel 2011, fra i membri eminenti della Nato solo la Germania, membro di turno del Consiglio di sicurezza, non dice sì alla no-fly zone che da lì a poco si trasformerà nella distruzione per via aerea della Libia (la Norvegia, se non altro, si ritira dai bombardamenti su Tripoli dopo pochi mesi). Ma è soprattutto il presidente venezuelano Hugo Chávez, appoggiato da Fidel Castro (che invano chiede alle popolazioni occidentali di sostenerlo), a cercare di coinvolgere diversi Stati in uno sforzo negoziale tempestivo, ben architettato, mai interrotto nelle successive fasi del conflitto. Nell’ambito dell’Alleanza Alba (alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, ndr), il Venezuela propone all’Onu la «costituzione di una Commissione internazionale di buona volontà per la ricerca della pace in Libia, mediante la promozione del dialogo fra le parti». La Commissione potrebbe annoverare rappresentanti di Unione africana, Lega araba, Conferenza islamica, Movimento dei non allineati, Unasur e Alba.

Chávez ripete invano il suo appello ai paesi non belligeranti che non possono «stare inerti» e appoggia senza riserve la proposta dell’Unione africana (ma il Sudafrica, unico paese africano che all’epoca è membro non permanente del Consiglio di sicurezza Onu, vota a favore della no-fly zone). Come scriverà anni dopo su Le Monde diplomatique il suo ex segretario Jean Ping, l’Unione africana elabora una road map, adottata il 10 marzo 2011. Ma paesi Nato e monarchie del Golfo ignorano la mossa iniziando i bombardamenti pochi giorni dopo. Nondimeno il 10 aprile, rappresentanti dell’Ua arrivano a Tripoli per incontrare Gheddafi, che accetta la proposta. Ma non la accettano le milizie armate dell’opposizione appoggiate dalla Nato. E la guerra continua fino alla distruzione di Sirte e al linciaggio di Gheddafi.

I popoli, il pacifismo e quel che non si fece

Che fare, si possono chiedere i popoli, quando i governi avviano guerre che sfasciano paesi, ammazzano centinaia di migliaia di civili e militari, fanno milioni di rifugiati e immani distruzioni e non finiscono mai, si trasformano soltanto?

Obiettori delle industrie d’armi e attivisti contro le basi militari spiegano da sempre che il conflitto armato è il naturale sbocco del complesso militar-industriale, al quale occorre opporsi ogni giorno, e non solo a ridosso delle bombe. E poi, dicono in tanti, contro i conflitti per ragioni geostrategiche e per le materie prime, bisogna puntare a un modello economico equo ed ecologico. Certamente, «ci salverà il pilota che non volerà» e «ci salverà il soldato che non sparerà» (citando Girotondo di Fabrizio De André). Ma con gli eserciti professionisti dispiegati dall’Occidente non ci sono chance di diserzioni di massa.

Diverso è il caso nell’attuale guerra russo-ucraina: non per nulla si moltiplicano gli appelli all’obiezione, alla diserzione e all’accoglienza all’estero dei disertori di entrambe le parti.

E le popolazioni? Nel 2003 il popolo della pace fu dovunque, mondiale, visibilissimo, soprattutto nei paesi che andavano a bombardare l’Iraq.

Anche nelle altre avventure militari internazionali, dalla guerra del Golfo di trentadue anni fa in poi, le attività dei pacifisti in dissenso rispetto ai loro governi (e anche nei paesi non belligeranti e contrari) coinvolsero minoranze rilevanti. Ma con limiti invalidanti. Troppo poche le azioni dirette nonviolente contro le basi militari. Inutili le presenze, sotto le bombe, di cittadini dei paesi occidentali e arabi: non erano numericamente tali da poter fungere da deterrente o forza disarmata di interposizione. Non abbastanza forti le proposte di eventuali tribunali internazionali.

Negli ultimi anni, poi, con la guerra Nato alla Libia, e con la guerra per procura in Siria non si è mosso nessuno o quasi. Perfino rispetto alla guerra saudita in Yemen l’indignazione è stata limitata. Per quale motivo nessuna delle grandi organizzazioni della società civile, né i pacifisti, né gli ecologisti, né i progressisti, né i movimenti per un altro mondo ha fatto nulla?

Forse ha giocato la forza del circolo vizioso di attori menzogneri, o forse la disillusione: nel 2003 la seconda superpotenza mondiale (i pacifisti di tutto il mondo, come citato sopra) non aveva fermato Bush e alleati. Il presidente repubblicano statunitense doveva rispondere solo ai neoconservatori, ai potentati economici e al suo elettorato indifferente.

Dunque, non si può fare nulla di efficace per prevenire e fermare le guerre?

Lezioni per l’attualità

La guerra russo-ucraina poteva essere evitata «ma i piani e le azioni per allargare la Nato fino ai confini russi hanno provocato i timori di Mosca», sottolinea l’appello di 15 statunitensi, ex militari, ex diplomatici, esperti di politica estera e sicurezza, promosso dall’Eisenhower Media Network. Un appello a sostituire l’invio delle armi a Kiev con un vero negoziato senza precondizioni. Di che farne una campagna. Paesi terzi, non schierati, come alcuni paesi africani e il Vaticano, tentano la via del negoziato fra Mosca e Kiev. Ma nel contempo, altri alimentano la guerra.

Manca nel mondo un pool negoziale di paesi neutrali o comunque meno allineati e non fautori di guerre negli ultimi decenni. Un gruppo incaricato stabilmente dall’Onu – indipendentemente dai governi del momento – di disinnescare i conflitti prima che scoppino, o di negoziare a danno fatto. Una forza negoziale con la quale i movimenti pacifisti potrebbero agire. In fondo le Nazioni Unite, lo dice la loro Carta, nacquero proprio per questo scopo: «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra».

Marinella Correggia

My beautiful picture

Baghdad, diario di una pacifista

Anno 2003: il racconto dei primi mesi di guerra

L’autrice è stata nell’«Iraq peace team», un Gruppo internazionale di pacifisti che ha cercato di opporsi all’invasione Usa. È entrata in Iraq il 24 marzo dalla Siria e uscita il 3 maggio 2003 dalla Giordania. In queste pagine, ripercorre quei giorni, non senza delusione, e con una certa autocritica.

«‘Ayn ‘insaanyia?» (Dov’è l’umanità?). Era la retorica domanda che gli iracheni ripetevano, in quelle settimane di bombardamenti aerei, apripista per l’occupazione anglo-statunitense dell’Iraq. Per fortuna non chiedevano «ma cosa siete venuti a fare?» a noi dell’Iraq peace team, alcune decine di pacifisti autogestiti di vari paesi arrivati nella capitale irachena poco prima dell’inizio della guerra o poco dopo, come erano arrivati gli «scudi umani» (andati a presidiare infrastrutture civili) e un gruppo di attivisti spagnoli. Ciascuno di noi con le proprie motivazioni. Il tentativo di testimoniare e comunicare al mondo (reso quasi impossibile dall’immediato bombardamento della rete telefonica e dall’assenza di internet salvo tramite l’utilizzo di telefoni satellitari e l’aiuto dei media). L’impegno a cercare prove sui crimini di guerra. Il desiderio di «stare con loro» dissociandoci anche fisicamente dalle malefatte di Usa e governi alleati.

Pagando pochi euro al giorno, dormivamo (più o meno) e mangiavamo all’albergo familiare al-Fanar, sulle sponde del Tigri. Lì vicino, l’hotel dei giornalisti, il Palestine, costoso e pieno di comfort finché – per via delle bombe – non se ne andò la luce e con quella l’acqua ai piani alti. Così alcuni venivano a mendicare all’al-Fanar, dove il tuttofare Mohamed detto «Karaba» (elettricità) riusciva a gestire un approvvigionamento saltuario idrico ed elettrico grazie al generatore.

Quando il letto nelle nostre stanze si scuoteva troppo, come una culla impazzita, scendevamo chi nel rifugio sottoterra chi nell’atrio a tenere compagnia a forza di tè nero a Mohamed e a Cocco, scimmietta portata lì chissà da dove e amica solo sua. Il personale dell’albergo non andava più a casa per non rischiare troppo. Era diventata una famiglia. Abu Ali, cameriere e cuoco, aveva perso il figlio nella guerra con l’Iran. Quando, ben presto, per la vegetariana della situazione erano rimasti solo pane e marmellata di datteri, lui premuroso mi garantiva di soppiatto qualche ortaggio, qualche frutto.

Paura? No. Come in altre (inutili) delegazioni di pace, prima in Afghanistan e in Serbia, e anni dopo in Libia, si sviluppa la fatalistica sensazione che non ti toccherà. Ma c’era il dolore per chi moriva, veniva ferito, perdeva casa e ogni cosa. Civili e militari. Firos, che era stato soldato, ci diceva: «I militari sono nel mirino. Se si salvano è solo per miracolo». Non posso dimenticare l’immagine, in un ospedale di Hilla raggiunto nella seconda metà di aprile, di un soldato ustionato, avvolto completamente nelle bende. «Non sappiamo come chiamare il centro ustioni a Baghdad, i telefoni non funzionano», dicevano sconsolati i medici. Al ritorno nella capitale mi precipitai a segnalare l’urgenza, molto probabilmente senza speranza. Tutto è così in guerra. Appeso a un filo.

«La guerra non ci sarà»

Nessuno dell’Iraq Peace Team si illudeva di poter fermare nemmeno un missile minore. L’interposizione e la deterrenza civile avrebbero richiesto decine di migliaia di persone dal mondo. Tariq, veterinario improvvisatosi tassista, ci aveva comunicato il suo stupore: «Quando alla tivù ho visto, settimane fa, tutte quelle manifestazioni in giro per il mondo, anche nei vostri paesi, mi sono detto no, la guerra non ci sarà, i governanti potrebbero temere per le prossime elezioni. Invece a quanto pare non vi hanno dato retta». I governi sanno che la maggioranza dei cittadini non nega il proprio voto a chi ha deciso di fare le guerre, finché sono fatte a casa di altri popoli.

Allora, cosa riuscivamo a fare? Andavamo a vedere i feriti negli ospedali e i bambini nell’orfanotrofio, custoditi dal personale che non andava più a casa e nutriti dalle persone del quartiere. Parlavamo con gli iracheni, tanto. Cercavamo di capire se fosse possibile mettere insieme una conta delle vittime (almeno quelle civili) per future denunce internazionali. Ci recavamo, su segnalazione della Mezzaluna rossa, a vedere i crateri delle bombe finite per errore (ma finite comune) sui mercati o sulle case civili. Cercavamo di portare ai media del vicino mega-hotel appelli inutili o segnalazioni che credevamo d’impatto; come questa: «A Hilla sotto le bombe un uomo ha perso moglie e tutti i sei figli». A volte, con un altro gruppo, il Christian peace team, passavamo la notte nella capannetta dell’impianto idrico dell’ospedale al Mansour, dove l’ingegnere Leyla e il suo personale temevano il peggio in caso di bombardamento.

Leggevamo l’Iraq Daily, pochi fogli miracolosi. Un giorno risultò stampato alla rovescia, stile Leonardo da Vinci. Vi si dava conto di notizie tremende, i civili colpiti da una qunbula (bomba), da un sarukh (missile), morti in una anfijor (esplosione). Lo stesso termine usato dagli sminatori afghani. Ma il Daily dava risalto anche a surreali news incoraggianti: un agricoltore che era riuscito ad abbattere un elicottero yankee nel Sud, la tempesta di sabbia rallentava – benedetta – le operazioni aeree dei nemici. Un giorno, era il 5 aprile, accorremmo in strada al suono di clacson e di un carosello di auto della polizia o simili, con le bandiere irachene, a festeggiare una (ipotetica) manovra militare riuscita da parte degli iracheni. Sì, per i pacifisti l’asimmetria di potenza e di colpe fra i contendenti era tale che parteggiare per gli aggrediti era davvero normale. Un conforto, ma di breve durata.

Confortante anche il caffè fatto e servito dal viceambasciatore di Cuba, una delle pochissime ambasciate rimaste aperte sotto le bombe (naturalmente quella italiana era chiusissima, perché rischiare?). Diceva l’ambasciatore Ernesto Gomez Abascal, con il suo berrettino, a me e a Pietro Gigli (fotogiornalista, ma in Iraq in veste di operatore umanitario, autore di alcune delle foto di questo dossier): «Andremo via se e quando arriveranno i carri armati yankee».

E il momento arrivò. L’8 aprile, Talib disse a noi increduli: «Sono qui vicino». Guardandoci negli occhi, capì che doveva ripetere: «Vi dico che sono qui, a due passi». Gli scorpioni del deserto, i carri armati. Li vedemmo, eccoli. Tutto precipitava. Intorno a noi gli iracheni sembravano essere invecchiati in un giorno. I funzionari del governo sparirono per non essere arrestati dai militari invasori. Il viceambasciatore cubano ci offrì l’ultimo caffè, stavano partendo.

A US soldier gives water to an arrested man on the southern outskirts of Baghdad 28 August 2003 just before the soldiers came under fire from unknown assailants. AFP PHOTO/MAXIM MARMUR (Photo by MAXIM MARMUR / AFP)

Messaggio in una bottiglia

Intanto civili e militari, ci veniva riferito, morivano come mosche nelle zone periferiche dove gli scontri di terra erano più intensi; qualcuno era invece riuscito a portare in ospedale la giovane e bella Dina Sahran, senza più una gamba quando la incontrammo nel letto, sguardo vuoto. Pensai allora di lanciare un appello approfittando dell’indignazione causata nei giornalisti internazionali dall’attacco al loro hotel Palestine da parte di un carro armato (prima di sapere dei morti, vedemmo il fuoco che usciva da quella finestra a un piano alto). Scritto a mano (non c’era modo di stampare alcunché), il povero testo recitava più o meno: «Noi pacifisti assistiamo alle distruzioni e alle morti provocate da una guerra immorale. Chiediamo a popoli e governi del mondo di fare ogni pressione su Usa e alleati». Per un disguido nella comunicazione con due scudi umani che avevano contatti precisi con i media, il messaggio non arrivò. Un altro fallimento. Essere là e non riuscire a lanciare nemmeno un messaggio in bottiglia contro la propaganda. La stessa che, davanti al fatto altamente simbolico dell’abbattimento della statua di Saddam, la spacciò per un segno di giubilo da parte della popolazione irachena. Falso: c’eravamo. La piazza Firdaus era vicina al nostro hotel e vedemmo: erano pochi a manovrare intorno alla statua; e determinante fu un marine agilmente arrampicato.

Arrivano i giornalisti embedded

Comunque, lo scambio con i media occidentali, quasi inesistente nelle settimane dei bombardamenti, diventò imbarazzante quando, al seguito dei carri armati, arrivarono i giornalisti embedded. Si impadronirono del piccolo al-Fanar (dove comunque pagavano per la stanza molto più di noi), sapevano fare fotoshop, avevano il satellitare thuraya, andavano in giro a caccia di news d’effetto ma non scomode. «Cos’è successo al manicomio?». Oppure: «Dove possiamo trovare bambini poverissimi, tipo un orfanotrofio?». Alla nostra offerta: «Sì, glielo possiamo indicare, ma lei deve dire che i lavoratori sono rimasti in servizio sempre, che la gente portava aiuti, e che embargo e bombe hanno immiserito questo paese», il fotoreporter canadese rispose che non poteva fare «politica pacifista».

Una volta ci fecero vergognare perché, mentre eravamo andati in un ospedale a donare il sangue (e avremmo dovuto sapere che era inutile, non avrebbero potuto usarlo senza avere la certezza del nostro stato di salute), arrivarono due cineoperatori giapponesi e ci ripresero. Il volto del medico si fece duro; di certo pensò che stavamo tutti prendendo in giro il suo popolo. Gli stessi media diedero molto risalto all’evacuazione in Kuwait del piccolo Ali Ismail, della sua famiglia unico sopravvissuto (ma non le sue braccia, amputate). In precedenza, lo avevo cercato e trovato all’ospedale al Kindi. Lo stesso nel quale un medico barbuto mi diede la prima avvisaglia – che allora mi parve farneticante – della futura rivolta contro gli occupanti statunitensi: «Li saboteremo, renderemo loro la vita impossibile».

La Baghdad a ferro e fuoco sorvolata da rumorosi elicotteri Apache, con il rumore delle ambulanze superstiti, i muri pieni di rettangoli neri di stoffa con le scritte bianche a ricordare i morti, entrò nel caos dei saccheggi. Vedemmo quelli di negozi e magazzini, ci sfuggì quello del museo archeologico, ma perfino gli ospedali venivano depredati, alcuni dati alle fiamme. Tutti raccontavano: «È stato derubato e i marines lì vicino non facevano nulla, dicevano di non avere abbastanza personale, eppure sulla strada verso il Nord c’è la coda di carri armati!» (pensai anche allo spreco immane di combustibili fossili, prima per gli aerei, ora per i mezzi a terra); «Sono i kuwaitiani a vendicarsi portandoci via i nostri tesori antichi»; «Distruzioni e incendi dappertutto»; «Alcuni ospedali sono presidiati da civili per evitare il peggio».

Del resto, anche negli anni dell’embargo, stranieri presenti in Iraq a vario titolo «arrotondavano» vendendo tappeti antichi e vecchi argenti che gli iracheni ormai in miseria quasi regalavano.

Smoke covers the presidential palace compound in Baghdad 21 March 2003 during a massive US-led air raid on the Iraqi capital. Smoke billowed from a number of targeted sites, including one of President Saddam Hussein’s palaces, an AFP correspondent said. AFP PHOTO/Ramzi HAIDAR (Photo by RAMZI HAIDAR / AFP)

«Siamo qui per la democrazia»

Un cavallo che si agitava a terra, non soccorso da nessuno e nemmeno dal tassista che non volle fermarsi, mi ispirò l’idea di andare a capire che cosa accadesse allo zoo. Si era sparsa la voce orrenda che a leoni e altri grandi carnivori erano stati dati in pasto asinelli vivi. Però, impossibile avvicinarsi. I soldati stranieri bloccavano il passo. Allo zoo come altrove. Con loro si cercava di comunicare (seppure in modo secco e ostile), per comprendere motivazioni e informazioni. Limitatissimo il loro repertorio di risposte: «Siamo qui per la democrazia»; «Portiamo la libertà». Qualcuno però a domanda rispondeva che sì, si era arruolato per poter studiare gratis nelle costosissime università degli Usa.

Il 15 aprile, la pacifista statunitense Cinthya Banes era fra i pochi rimasti (gli altri già andati via, arresi, per manifesta inutilità). Prendendo a prestito l’email da un giornalista, si mise a mandare messaggi a diverse personalità nel suo paese denunciando i crimini dell’invasione, saccheggi compresi. Poi, dopo la lettura indignata di uno dei volantini che gli occupanti distribuivano in inglese e arabo per l’edificazione dei cittadini di Baghdad, decidemmo una manifestazione, con cartelli: uno chiedeva l’impossibile (Stop occupation), l’altro evocava le responsabilità disattese della potenza occupante, sulla base della Convenzione di Ginevra. L’idea era di piazzarci davanti a un carro armato e attirare l’attenzione di qualche media. Un flash mob ante litteram. Entrate come clandestine nello spazio esterno dell’hotel Palestine, i marines ci lasciarono stare per un po’, poi, «adesso via, sennò vi cacciamo in malo modo».

A Baghdad resistemmo ancora qualche settimana, volevamo raccogliere prove sulle vittime civili. Una sera di fine aprile Omar, ex operaio in una industria chiusa, un fratello soldato morto poche settimane prima a Bassora, ci raccattò e ci accompagnò all’al-Fanar: «Non è più tempo di girare da sole. È il caos. L’Iraq è come questa polvere. Facciamo solo attenzione quando ci avviciniamo ai reticolati, nel buio se gli americani ci prendono per fedayin ci sparano subito».

Fedayin? Combattente. Ce ne sarebbero stati molti, nei mesi e anni successivi. In una guerra infinita.

Marinella Correggia
tratto da «Si ferma una bomba in volo?»,
Terre di mezzo edizioni, Milano 2003, Premio Pieve «Diario del presente»

Le guerre spostano i popoli

Gli sfollati e profughi a causa dei conflitti

Incontri di donne e uomini scappati dalle guerre. Profughi in fuga, da Iraq, Siria, Libia, Kosovo. Sono milioni, destinati a passare la vita tra un campo di sfollati e un altro. Anche loro vittime, spesso dimenticate, delle guerre causate dall’Occidente. Ecco alcune storie, emblematiche, e quanto mai attuali.

La sera, nel quartiere di Jaramana, gli iracheni si ritrovavano a giocare a scacchi e bere tè sotto una grande tenda. Jaramana è a Damasco, in Siria. Era il maggio 2013. Dopo l’invasione «Iraqi Freedom» guidata da Bush e Blair nel 2003, moltissimi abitanti dell’Iraq avevano lasciato il paese per sfuggire al caos dell’occupazione e al conflitto settario. Oltre un milione di loro aveva trovato ospitalità nella capitale siriana, all’epoca un approdo tranquillo. Permessi di soggiorno rinnovabili anche a chi non aveva uno status di rifugiato vero e proprio. Costo della vita basso (allora). Aiuti pubblici e internazionali (allora). La stessa lingua e in parte le stesse tradizioni. La vicinanza con la terra d’origine.

Ma nel 2011 è iniziata la guerra anche in Siria. Incredulo per la sua sfortuna, Saad, che aveva lasciato anni prima il quartiere Karrada di Baghdad, sotto la tenda degli scacchi ci diceva: «Temiamo un intervento armato esterno anche qui, ad appoggiare i gruppi di terroristi come quelli che ci hanno fatti partire dall’Iraq». Quanto a Majid, arrivato a Damasco nel 2007 con moglie e due figli (altri tre erano stati uccisi, uno durante un rapimento, due gemelle in un’esplosione), ribadiva: «Siamo venuti qua per il pericolo di attentati, le violenze settarie, i rapimenti. Adesso molti iracheni stanno cercando di ripartire. Ma per dove?».

Iracheni erranti

A partire dal 2014, un milione e 800mila persone  hanno lasciato le loro case in Iraq e in Siria di fronte all’avanzata del cosiddetto Stato islamico (Isis, o Daesh in arabo). «Fa un caldo infernale sotto queste tende», diceva a un giornalista una donna sfollata, nell’estate torrida del 2015. A Mosul (Iraq) nel luglio 2014, Abu Bakr al Baghdadi annunciò l’instaurazione del califfato: lo Stato islamico era entrato in città.

E nel 2023, dove sono gli iracheni che erano emigrati in Siria, adesso che la situazione economica difficilissima è peggiorata a causa del terremoto di febbraio scorso, sale sulle ferite di tanti anni di conflitto? «Una parte è tornata a casa, altri sono rimasti qui», risponde Salam, giornalista siriano rimasto a Damasco, un caso quasi raro: la Siria, per una guerra fomentata da paesi Nato, petromonarchie e Turchia, conta dal 2011 oltre 6,8 milioni di sfollati interni su una popolazione di 21 milioni, e oltre cinque milioni all’estero – secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati.

Iracheni erranti, come Elias, yazida, che non vedendo futuro nel suo Iraq, nel 2010 era partito attraverso Turchia e Grecia con il saggio figlio dodicenne, per raggiungere parenti in Germania e poi chiamare il resto della famiglia. Incagliatosi in Italia per questioni burocratiche, alla fine, esasperato, aveva chiesto e ottenuto il rimpatrio. Nel 2013 scriveva, dalle sue terre: «Sono contento, un po’ contento e un po’ triste, forte e debole, ma ho grandi speranze. Auguri di pace al pianeta». Ma ecco che nel 2014 l’Isis, infernale frutto delle guerre, ha spazzato via la regione degli «infedelissimi» yazidi. Un olocausto. Elias si ritrova in un campo di sfollati. Poi abbiamo perso le sue tracce.

Libia 2011: fuga dalle bombe Nato e dagli integralisti

Fino al 2011 lavoravano nel paese petroliero nordafricano oltre due milioni di stranieri, regolari o irregolari, fra nordafricani (in primis egiziani), africani subsahariani e asiatici (70-80mila dal solo Bangladesh).

Con le bombe della Nato e la concomitante «caccia al nero» da parte di gruppi armati integralisti, ai quali l’Alleanza atlantica ha fatto da forza aerea, hanno lasciato la Libia 800mila lavoratori migranti. Altri se ne sono andati dopo la caduta del governo di Tripoli (settembre) facendosi rimpatriare dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Mohamed, del Niger, aveva resistito nella capitale malgrado la chiusura della ditta per la quale lavorava. Nell’agosto 2011, preoccupato, ci diceva: «So che questa guerra è una tragedia. Se non si ferma farà tanti danni anche nel nostro Sahel. Quanti ne ha già fatti, con il rientro in patria di quasi tutti i lavoratori stranieri». È tornato ad Agadez (Niger). Ha provato a coltivare arachidi. Magrissimi introiti. Poi è stato assunto in un hotel a Niamey.

Dove sei andato, insegnante del Darfur che dopo tanti anni a Tripoli, nel maggio 2011 te ne stavi buttato con tutti gli altri sotto il sole al confine tunisino, a Ras Jedir, aspettando non si sa che?

Dove sei finito, Johnson del Ghana, già muratore in Libia, poi ferito durante la guerra, e nel 2012, arrivato da mesi in Italia con un barcone, per poi ritrovarti a vagare con la tua stampella intorno alla stazione Termini a Roma, con continui sfratti dai centri di accoglienza e un asilo umanitario traballante?

E dove sei tu, Abu, che fino a poco prima del crollo di Tripoli facevi il custode e giardiniere in una villa nel quartiere Tajoura? Fuori dal tuo bugigattolo pulito offristi cerimonioso alla pacifista, inutilmente presente da quelle parti, una cena a base di miglio e di un’erba del Niger che compravi al mercato. Ammiravi Thomas Sankara (un mot de passe per tanti saheliani) e anche altri eroi africani. Era stato surreale rievocarli in quel tardo pomeriggio, sotto le bombe.

Mortali effetti collaterali nel Sahel

I lavoratori tornati nei loro paesi dell’Africa subsahariana sono ben presto andati incontro a un’altra guerra, quella dei jihadisti, con il suo strascico di massacri e spostamenti di popolazioni. Questo effetto collaterale, per l’intero Sahel e non solo, della crescita dei gruppi estremisti in Libia a partire dal 2011, veniva sottolineato già nel 2013 da un negletto studio per l’Europarlamento. In esso si faceva notare come molte delle armi fornite dalle petromonarchie ai ribelli in Libia fossero finite nelle mani di gruppi terroristici sotto il deserto.

Stragi di civili e di soldati, spostamenti di centinaia di migliaia di persone. Così è andato avanti, dunque, dagli inizi del 2012 il terrorismo nella fascia del Sahel, a iniziare dal Mali, poi Niger e dal 2016 in Burkina Faso.

Tawergha, deportazione del XXI secolo

Per fuggire dalla guerra e dall’avanzata delle milizie, anche tanti libici nel 2011 si sono riversati in Egitto o in Tunisia, o in altre aree del paese bombardato. Ma i circa 40mila residenti della città di Tawergha, cittadini libici di pelle nera discendenti degli schiavi africani, non sono partiti volontariamente: sono stati cacciati dalle milizie armate della vicina città di Misurata (cfr. MC giugno 2021). Tawergha è stata distrutta e saccheggiata, svuotata dei suoi abitanti accusati di essere sostenitori di Gheddafi. Il razzismo ha avuto un grande peso. Migliaia di famiglie di Tawergha sono state costrette per anni a vivere in accampamenti, ricoveri di fortuna, centri pubblici, o in aree del paese non controllate dalle milizie più estremiste. Nel 2018 gli accordi di riconciliazione conclusi sotto l’egida Onu avrebbero dovuto spianare la strada al ritorno dei tawerghesi, ma la distruzione massiccia e deliberata della città e delle sue infrastrutture e un senso di insicurezza pervasivo hanno a lungo impedito il loro ritorno in massa. Solo negli ultimi tempi il 45% della popolazione è potuta tornare anche grazie ai servizi di base ripristinati.

Migrazioni o addirittura espulsioni di massa hanno modellato anche le altre guerre calde post-guerra fredda, a partire dalla «Tempesta nel Golfo» nel 1991. Intanto, l’Arabia Saudita espulse circa 800mila yemeniti, punizione collettiva perché il loro governo – membro di turno del Consiglio di sicurezza Onu – non aveva votato a favore dell’ultimatum (risoluzione 678), tappa necessaria per timbrare come «guerra giusta dell’Onu» quell’avventura senza ritorno (per usare le parole di Giovanni Paolo II).

E abbandonarono con ogni mezzo l’Iraq, alla vigilia o dopo le bombe, circa un milione di lavoratori stranieri (bengalesi, egiziani, yemeniti, filippini, indiani, pachistani…). Folle enormi accampate in tendopoli alla periferia di Baghdad e poi al confine iracheno-giordano, cercando un modo di fuggire. Eppure, in un libro curato da giornalisti italiani, la foto di una lunga colonna di persone del subcontinente indiano in attesa di partire, veniva spacciata per «curdi in fuga da Saddam».

Inoltre, 300mila lavoratori palestinesi furono espulsi per vendetta dal Kuwait «liberato» e da altre petromonarchie, o lasciarono l’Iraq, dove rimasero ben pochi stranieri. Come Fouad, marocchino di Fez, cameriere del ristorante Shatt el Arab di Bassora, un tempo frequentato dai ricchi del Golfo. Rimasto nella città durante le due guerre, prima quella con l’Iran poi la Tempesta nel deserto del 1991, andò via alla fine degli anni 1990, per la miseria dell’embargo, non vedendo niente all’orizzonte, con uno stipendio diventato da fame.

Le guerre spostano popoli. Spesso solo nei paesi confinanti.

Tornando agli yemeniti: a partire dal 26 marzo 2015, con i bombardamenti sul paese da parte di una coalizione di monarchie arabe guidate dall’Arabia Saudita e con l’appoggio tecnologico degli Usa, oltre un milione di abitanti hanno dovuto spostarsi di area in area.

Surreale poi, che negli stessi anni, dal Corno d’Africa arrivassero ancora in Yemen via mare parecchi profughi: la loro destinazione sperata, nella penisola arabica, erano i ricchi paesi del Golfo. Molto difficile arrivarci, però, in quei viaggi degni della canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni.

Vesna, la casa in mezzo alla strada

Nel 1999, l’«Operation Allied Force», le bombe Nato su Serbia e Kosovo, provocò – invece di prevenire o arrestare – l’esodo di massa di centinaia di migliaia di kosovari. Dopo la vittoria della Nato, furono i serbi a fuggire a decine di migliaia dal Kosovo «liberato». A Belgrado si incontravano in quei mesi storie stralunate. Come quella di Vesna, suo marito Neboish e il loro figlio Stephan di sette anni. Sfollati nella capitale serba anni prima, da Sarajevo (Bosnia). Abitavano da anni in una stanza d’hotel nel quartiere Zemun. Profughi di guerra catapultati sotto le bombe. Vesna rifletteva sulla guerra della Nato: «Già prima vivevamo giorno per giorno. Adesso è ora per ora. Siamo sfortunati. Forse abbiamo costruito la nostra casa in mezzo alla strada, così si dice da noi. Ma quasi sette settimane di bombe sono tante, non lo auguro a nessuno. Il 5 aprile hanno colpito a 100 metri. Il problema era antico, in Kosovo. C’erano conflitti, certo. Ma l’intervento militare porta non solo altri morti, altri senzatetto, porta anche odio».

Asinelli afghani in aiuto ai fuggitivi

Nel 2001, con l’infinita «guerra al terrore» avviata dagli anglo-statunitensi, altre centinaia di migliaia di afghani ammassavano l’indispensabile sui loro asinelli e prendevano i sentieri e le strade verso il Pakistan o l’Iran. Aggiungendosi ai milioni che avevano lasciato il paese nei precedenti decenni bellici: da quando nel 1979 Usa e petromonarchie, con il sostegno determinante dei servizi segreti pachistani, avevano stretto il patto del diavolo con integralisti provenienti da vari paesi, allo scopo di rovesciare il regime afghano dell’epoca.

Marinella Correggia

Hanno firmato il dossier:

  • Marinella Correggia
    È autrice e militante eco-pacifista. Ha scritto saggi e manuali fra i quali: La rivoluzione dei dettagli; Diventare come balsami; Si ferma una bomba in volo?; L’Alba dell’avvenire; El presidente de la paz; Alleanza per il clima; Cambieresti?. Ha sceneggiato documentari fra i quali: Le mani del futuro; Crocevia kirghiso e Tutto sarà dimenticato? . Ha scritto molti dossier nel campo eco-sociale-internazionale. Collabora con diversi media italiani ed esteri. Da decenni è attivista contro le guerre di aggressione. Come volontaria ha partecipato, e partecipa, a campagne e progetti nel campo dell’alternativa ecologica, dei rapporti Nord-Sud, del rispetto attivo dei viventi.
  • a cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale MC.
  • Si ringrazia la Fondazione Lelio e Lisli  Basso Onlus per avere messo a disposizione di MC alcune foto di Pietro Gigli dal suo archivio.

 




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.

 

 




Burkina Faso: Tra jihad e fibra ottica


Il (Burkina Faso) paese che ha vissuto negli ultimi anni un’insurrezione popolare, un tentativo di colpo di stato e tre attentati sanguinari nella capitale, si confronta oggi con un incremento di attacchi terroristici sul suo territorio. Il tema della sicurezza domina il dibattito politico, mentre la società civile si divide e non riesce a giocare il ruolo di guardiana del potere. La vita quotidiana è influenzata dall’incertezza e da un nemico invisibile. E c’è chi dice che nell’ombra trami l’ex presidente-dittatore Blaise Compaoré.


Testo e foto di Marco Bello


Percorriamo la strada che dalla capitale Ouagadougou porta a Ouahigouya, nel Nord. Lungo tutti i suoi 180 km, vediamo di lato un fossato scavato e poi ricoperto. Ogni tanto spuntano dal terreno grossi cavi neri chiusi con un tappo colorato. È una visione che contrasta con la brousse, la campagna saheliana. Quel cavo è la fibra ottica che porta dati e connessione internet anche nei luoghi più remoti dell’Africa. È arrivata anche qui e presto sarà operativa.

Ma nel Burkina Faso di oggi, proprio Ouahigouya, città a 70 km dal confine con il Mali, è anche il limite della cosiddetta «zona rossa». Nella cartografia della sicurezza, la mappa aggiornata dall’ambasciata di Francia (in questo caso), il paese è diviso in zone: giallo, arancio e rosso. Il giallo corrisponde a «vigilanza rafforzata»; l’arancio a «zona sconsigliata, salvo per ragioni imperative»; mentre il rosso è «formalmente sconsigliata». Per il Burkina quest’area «proibita» agli stranieri coincide con tutta la banda di frontiera con il Mali, il Niger e parte del Benin. In queste zone, è più probabile che i jihadisti (terroristi islamisti, come li chiamano qui), i banditi e molti altri gruppi compiano attacchi o rapimenti.

Ebbene sì, il tranquillo Burkina Faso, terra di tolleranza e di convivenza pacifica tra etnie (ben 60) e religioni1, si sta trasformando in un territorio di conflitto, seguendo il contagio dei paesi vicini, Mali e Niger in prima battuta, in un’area, quella dell’Africa dell’Ovest, che è ormai tutta piuttosto instabile.

(Photo by ISSOUF SANOGO / AFP)

Come cambia la vita

A Ouahigouya, frontiera della zona rossa, incontriamo Adama Sougouri, direttore della radio comunitaria «La Voix du Paysan» (la voce del contadino). La radio trasmette in otto lingue locali e porta avanti un lavoro educativo, oltre che informativo, tipico di un media di comunità. «Il problema dell’insicurezza ha cambiato il modo di vivere qui nel Nord – ci racconta il direttore -. Quando è cominciato, ci dicevamo che da noi non sarebbe successo come in Mali, con i rapimenti e gli attentati. L’esercito aveva rinforzato i presidi, ma d’improvviso la nostra regione è stata messa in zona rossa a livello internazionale e questo ha giocato molto sull’organizzazione della vita e in particolare sull’economia». Questa, fino a poco tempo fa, era una zona di passaggio dei turisti per andare a visitare i famosi «Paesi Dogon» in Mali. Hotel, ristoranti e anche molti artigiani, giovani in particolare, e commercianti vivevano di turismo. Oggi il settore è in ginocchio. Anche l’associazionismo che viveva di partenariati con Ong e associazioni europee ha visto una drastica riduzione dei propri progetti, «perché gli stranieri qui non vengono più».

A livello sociale il clima d’insicurezza ha creato la «paura del prossimo», continua Sougouri. «Questa situazione è vissuta come un’incertezza, non si capisce cosa potrebbe succedere da un momento all’altro. Oggi ci sono località nel Nord dove due vicini che si conoscono bene, non hanno più fiducia uno dell’altro. Perché qualcuno è stato scoperto a trattare con questi sedicenti ribelli o jihadisti. Tutti hanno paura di tutti». Ma c’è anche chi approfitta di questa situazione: gruppi di banditi che vivono di saccheggio.

«Alcune scuole sono state chiuse perché gli insegnanti sono stati prima minacciati, accusati di insegnare il francese ai bambini, e poi uccisi a sangue freddo». Stessa sorte è successa ad amministratori e funzionari comunali, sgozzati nelle loro povere sedi comunali.

«Non sappiamo se siano jihadisti o criminali comuni. Per tutto quello che succede usiamo la parola terrorismo. Ma è questa la strategia reale dei jihadisti?». Si interroga il direttore: «Creare una situazione di paura, di psicosi nella popolazione, per poi mettersi di lato e guardare la nostra società disgregarsi».

(Photo by Ahmed OUOBA / AFP)

Il grande Nord

Con un pick-up sfrecciamo sulla pista di laterite che da Ouahigouya conduce a Titao, a Nord Est. Penetriamo ancora di più in «zona rossa», ma vediamo solo il verde del sorgo e del miglio dei campi, che, grazie a un’ottima stagione delle piogge, è cresciuto rigoglioso. Incrociamo, nell’altro senso di marcia, due camionette zeppe di militari della gendarmerie, in assetto da combattimento, con elmetti, kalashnikov e le mitragliatrici sul tettuccio, pronte – sembrerebbe – a sparare. Deve essere, pensiamo, una pattuglia di stanza nel comune di Titao, che ha finito il turno ed è stata rimpiazzata.

Giungiamo nel villaggio di You. Qui un gruppo di donne ci accoglie festanti, perché un progetto della Ong Cisv, finanziato dal Fondo Fiduciario di emergenza dell’Unione europea2 ha consegnato loro delle capre. Potranno farle riprodurre e vendere i piccoli, godendo così di un piccolo reddito per lottare contro la fame. Incontriamo poi degli agricoltori, scelti tra i più poveri del villaggio, ci assicurano quelli di Cisv. Sono in un campo di niebé (fagiolo autoctono). Lo stesso progetto li ha aiutati a strappare questa terra all’erosione, grazie a tecniche locali e ha insegnato loro come coltivare con metodi più naturali, agroecologici.

La gente è serena, contenta della visita. Non si avverte la tensione tipica da «zona rossa».

Alcuni giorni dopo la nostra visita, il 23 settembre, a un’ottantina di chilometri più a Nord, un’auto dell’impresa che sfrutta la miniera d’oro di Inata, la ghanese Balaji Group, verrà fermata da una quarantina di motociclisti armati sull’asse Tongomayel – Djibo. I tre occupanti, un burkinabè, un indiano e un sudafricano verranno rapiti. I gendarmi lanciati all’inseguimento lasceranno tre morti sul terreno. Alcuni giorni dopo interverranno pure i Mirage francesi (aerei da caccia), dell’operazione Barkhane3, a bombardare la zona. Ma è difficile colpire delle motociclette nel deserto. E ormai il gruppo riparerà nel vicino Mali.

(Marco Bello 2018)

Fronte dell’Est

Da agosto sono cominciati attacchi nelle regioni ad Est del Burkina Faso, tanto da far scrivere ad alcuni media che è nata una nuova cellula jihadista in questa zona.

Il culmine si ha il 17 settembre, con il rapimento di padre Pierluigi Maccalli, missionario italiano della Sma di Genova, in una località nigerina, nei pressi della frontiera con il Burkina. Era nella sua parrocchia, dove lavorava dal 2007. L’ipotesi più accreditata è che il padre sia stato rapito dal gruppo che imperversa nell’Est del Burkina, in fuga dalle forze di sicurezza. Può essere stato portato nella foresta della Tapoa (Burkina), oppure verso il Mali lungo un corridoio Sud-Nord sulla frontiera Burkina-Niger.

Ricordiamo che numerosi sono i gruppi integralisti di base nel vicino Mali (cfr. MC ago-set 18 e giugno 17), alcuni legati ad Al Qaeda e altri all’Isis. Il gruppo che più ha influenzato il Burkina è il Fronte di liberazione di Macina, di Amadou Koufa, che ha pure ispirato la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, nato proprio a Djibo, nel Nord. I tre attacchi eclatanti a hotel, ristoranti e, l’ultimo, all’ambasciata francese e allo Stato maggiore dell’esercito (marzo 2018) sono stati compiuti da altri gruppi della galassia maliana, come Al Murabitun. Qualcuno teme anche l’arrivo in Burkina di Boko Haram, il gruppo estremista nato nel Nord della Nigeria e in guerra aperta con Niger, Ciad e Camerun (cfr. MC ottobre 16). Gruppo che però agisce in modo geograficamente circoscritto, la cui presenza qui pare improbabile.

(Marco Bello 2018)

Che fa il governo?

«L’opposizione critica il governo sulla questione della sicurezza, ma in realtà questo non può fare di meglio, per i mezzi che ha. Ha pure organizzato una sezione speciale all’Assemblea Nazionale (parlamento, ndr) per valutare il budget militare che penso sarà aumentato sostanzialmente», commenta Germain Nama, direttore del giornale «L’Evénement» e giornalista impegnato per i diritti umani.

«Ma la questione della sicurezza non è solo una questione militare, perché si tratta di una guerra asimmetrica, con attacchi terroristici. Contano molto i mezzi tecnologici moderni, così come i servizi di sicurezza, per cui lo stato deve investire in questi aspetti».

Da notare che l’intelligence del regime di Compaoré, che era piuttosto forte e radicata, è stata smantellata, e ora costituisce uno degli aspetti deboli delle istituzioni.

Continua Nama: «Simon4 (Compaoré, ndr), è venuto qui in redazione e lo abbiamo intervistato. Quando gli abbiamo chiesto se la natura di questo terrorismo è, secondo lui, la stessa di quella del Nord o se ci sono nigeriani, ha detto che non ci sono elementi per dirlo. È poi stata diffusa quella rivendicazione poco credibile. Occorre essere prudenti». Si riferisce a un video mal fatto, che è circolato sui social in Burkina, nel quale alcuni uomini vestiti da jihaidisti, affermano di appartenere a una sedicente cellula legata ad Al Qaeda e rivendicano gli attacchi nell’Est del paese.

(Marco Bello 2018)

Richieste sociali

Se la questione degli attacchi e della sicurezza occupa molto il dibattito nazionale, un altro aspetto importante sono le rivendicazioni della società civile. Una parte di essa, quella dei lavoratori organizzati, ha visto, negli ultimi tre anniuno, un particolare slancio rivendicativo.

Incontriamo Mamadou Barro, già segretario generale della Federazione dei sindacati nazionali dei lavoratori dell’educazione e della ricerca, il maggiore sindacato degli insegnanti. «Sul piano sociale, le richieste sono molto forti. Nei settori strutturati, come quello dei salariati, sia della funzione pubblica che del privato, molti scioperi si sono susseguiti. Per noi è l’espressione delle frustrazioni, contenute e soffocate o represse durante gli anni del regime autocratico, quasi dittatoriale, di Blaise Compaoré». Mamadou Barro si collega al passato regime, quello di Blaise Compaoré, durato 27 anni e caduto sotto la rivolta popolare dell’ottobre 2014. «L’insurrezione ha indebolito chi detiene il potere, sono stati creati molti sindacati negli ultimi tre anni. Anche in settori che non avevano mai avuto un sindacato».

Continua il sindacalista: «Ma anche i settori non strutturati, come quelli dei contadini, cercatori d’oro artigianali, abitanti dei quartieri, stanno facendo rivendicazioni sulla sistemazione del territorio, la bonifica delle strade e l’accesso ai servizi sociali di base».

«Il fallimento del regime precedente è anche di questo attuale, perché, se prendete gli uomini ai vertici di oggi, hanno tutti avuto ruoli di primo piano ieri. Rifiutando di tenere in conto le richieste della cittadinanza per il miglioramento delle condizioni di vita in termini di lavoro, accesso ad elettricità, acqua, scuola di qualità, cure mediche, i dirigenti di oggi decidono di continuare su una linea fallimentare».

Secondo la lettura di Barro, l’insicurezza viene utilizzata in modo strumentale dal governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré: «In questo contesto si inserisce la separazione che il potere cerca di creare tra le problematiche di sicurezza e le richieste sociali: sapendo di non avere risposte alle questioni sociali, allora agita la questione dell’insicurezza come la via per la quale si deve fare l’unione sacra». Ovvero uniamoci per far fronte all’insicurezza e dimentichiamoci gli altri problemi.

«E diventa quasi un ricatto: se parlate di un problema, se siete contro il governo, significa che non amate la nazione in pericolo, attaccata dagli integralisti».

Secondo Germain Nama, questo governo è comunque riuscito a dare qualche risposta. Almeno nel campo della sanità, con la legge che rende gratuite le cure per le donne incinte e i bimbi sotto i 5 anni (una prima assoluta) e la costruzione di dispensari nelle province. Altro campo è quello dell’educazione, con al costruzione di infrastrutture scolastiche. Anche diverse strade cittadine sono state asfaltate.

(Marco Bello 2018)

Giustizia: a piccoli passi

Per quanto riguarda i dossier pendenti in Giustizia, alcune importanti novità sono state confermate dal processo sul tentato golpe del 16 settembre 2015. In particolare è stato confermato che Blaise Compaoré, in esilio in Costa d’Avorio, era dietro all’operazione.

Altri dossier importanti in fase istruttoria sono quello sull’insurrezione del 2014 e le sue vittime, che vede imputato il regime Compaoré; il dossier sull’assassinio di Thomas Sankara e i suoi compagni (15 ottobre 1987); il dossier sull’uccisione cruenta del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998), per il quale è incriminato François Compaoré, fratello del presidente, e altri.

«Mi sembra che le cose vadano avanti, in qualche caso si aspetta di terminare l’istruttoria, in altri, come per Zongo, si attende l’estradizione di François, arrestato in Francia». Ma la popolazione soffre anche per la crisi economica che morde il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo. «I veri problemi non sono affrontati», denuncia il quadro burkinabè di una Ong internazionale. «La mancanza di lavoro per i giovani, un’economia che sta peggiorando, causando un deterioramento delle condizioni di vita di tutti. Ho l’impressione che la linea di questo governo non sia di rottura con il passato regime».

Nama ricorda che «i commercianti non sono contenti, perché dicono che i soldi non circolano, mentre prima (dell’insurrezione del 2014, nda) c’erano più soldi e più lavoro. Forse prima erano soldi sporchi …».

Anche un falegname della capitale Ouagadougou ci dice che si lavora molto di meno e lui ha dovuto licenziare diversi aiutanti, e rimanere solo con suo figlio. L’economia in effetti ha subito un rallentamento dopo il cambio di regime.

(Marco Bello 2018)

Dov’è finita la società civile?

Che ne è stato del movimento della società civile che ha condotto l’insurrezione e poi si è opposta al colpo di stato del 2015? Le premesse erano che la presa di coscienza cittadina, incanalata attraverso un certo tipo di associazioni, avrebbe esercitato un potere di «controllo» sull’operato del governo.

Ma la società civile, almeno la componente che aveva guidato l’insurrezione, ha perso credibilità. «Molti leader sono caduti per soldi o potere», ci dice il quadro dell’Ong. «I movimenti più a sinistra hanno rimproverato ai gruppi di spicco, in particolare il Balai Citoyen5, di aver accettato i militari al potere. I capi di Balai sono poco critici del potere attuale, proprio perché hanno questo “peccato originale”. Se avessero tenuto le distanze, avrebbero potuto rimanere credibili e denunciare ancora  l’operato di questo governo».

Il sindacalista Mamadou Barro è ancora più netto: «Non è più un segreto oggi: sono i dirigenti di Balai Citoyen che hanno convinto Isaac Zida a prendere il potere». Il 31 ottobre 2014, dopo la fuga di Blaise Compaoré, si era creato un momentaneo vuoto di potere. Il tenente colonnello Zida, che era il numero due della guardia presidenziale, i fedelissimi dello stesso Compaoré, si è imposto presentandosi sulla piazza dell’indipendenza, circondato dai responsabili di Balai Citoyen. «Zida non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi in quella piazza, se non fosse stato circondato dai beniamini della stessa. Il loro obiettivo era quello di mettere in piedi un regime militare, ma penso che neppure le potenze imperialiste (Francia, Stati Uniti, nda) fossero per questa soluzione. C’era gente che lo ha contestato, molti manifestanti erano contro alla sua presa di potere». Le potenze straniere hanno fatto sì che si creasse un governo di transizione con un presidente, Michel Kafando, che non è un militare. Però Zida è riuscito a rientrare dalla finestra, diventando ministro della Difesa. Poi, dopo un anno di transizione, con la scusa di una missione in Canada, è rimasto in quel paese, e da allora non è mai più tornato. La giustizia del Burkina lo cerca perché avrebbe fatto sparire molti fondi dello stato.

Oggi Balai Citoyen cerca di tenere vivo l’interesse organizzando incontri e dibattiti. Come le 72 ore organizzate proprio a Ouahigouya a inizio dello scorso ottobre.

«Hanno una struttura, ma non sono più così popolari – continua Barro -. Inoltre penso che gli Stati Uniti in qualche modo li finanzino, perché realizzano attività che senza fondi esterni non sarebbero possibili». Il sindacalista ci tiene a sottolineare la differenza tra il suo movimento e il Balai: «Cinquantotto anni dopo l’indipendenza, non riusciamo a liberarci, ma la coscienza è aumentata e molti, in particolare tra i giovani, hanno capito che ci vuole la rottura antimperialista. Finché non la facciamo non avremo uno sviluppo. Nel nostro paese c’è un movimento che ha delle forze e propone un altro modo di concepire il nostro destino nazionale, diverso dal medicare gli aiuti. E il Balai Citoyen non fa parte di questo movimento. Non possono neppure, perché ricevono finanziamenti dai paesi imperialisti».

Scopriamo che Balai Citoyen è il principale partner burkinabè del progetto «Justice and Security Dialogues» della statunitense United States Institute of Peace (Usip). Si tratta di un istituto nazionale indipendente fondato dal Congresso (il parlamento statunitense), che lavora in diversi paesi nell’ottica della riduzione dei conflitti come strategia per la sicurezza Usa. Di fatto è l’ente governativo Usa per la promozione della pace.

Salita all’onore delle cronache nei giorni dell’insurrezione, Balai Citoyen è in realtà una organizzazione piuttosto giovane, nata sull’onda delle manifestazioni del 2013. Altre sono le associazioni che hanno portato all’insurrezione di fine ottobre 2014. «Loro erano nei momenti giusti nei posti chiave», dice il sindacalista, che ricorda invece l’Organisation démocratique de la jeunesse (Organizzazione democratica della gioventù) come attore importante. «Quelli di Balai sono arrivati all’ultimo momento, mentre altri gruppi, come Cgtb6 (Confédération générale du travail du Burkina, ndr) e Mbdhp7 (Mouvement burkinabè des droits de l’homme et des peuples), hanno portato avanti la lotta per anni», ci conferma il quadro dell’Ong. Un movimento sociale che ha radici fin dalla fine del 1998, quando, l’indignazione per l’assassinio di Norbert Zongo causò l’inizio di un percorso di lotta per lo stato di diritto nel paese.

(Marco Bello 2018)

Il nemico che non vedi

In Burkina Faso, oggi si ha l’impressione che né la gente né le istituzioni siano abituate a questa situazione e che le misure di sicurezza non facciano parte del loro modo di essere. Anche se i muri si alzano e cingono di filo spinato. Fatto quasi inesistente anche solo pochi anni fa. Si percepisce una certa paura, mentre la gente cerca di condurre la sua vita in modo normale, con tanto di birra alla buvette (bar di strada) dopo il lavoro e il sabato sera. Eppure si capisce che il contesto non è più lo stesso di pochi anni fa nel paese degli uomini integri. C’è un nemico invisibile, che talvolta si materializza e fa parlare di sé. Intanto la fibra ottica è arrivata in zona rossa.

Marco Bello
(fine prima puntata – continua)

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. Copyright Marco Bello 2018


Note

(1) In Burkina Faso si contanto 60 etnie, di cui le maggioritarie sono: mossì, gourmanché, fulbé (peulh), bobo e bissa. Anche a livello religioso c’è sempre stata ottima coabitazione: 60% musulmani, 19% cattolici, 5% protestanti, più culti tradizionali.
(2) Fondi fiduciari di emergenza dell’Ue: si tratta di un pacchetto di aiuti stanziati all’incontro della Valletta (novembre 2015), per alcuni paesi africani. L’obiettivo dichiarato è la stabilità e la migliore gestione delle migrazioni.
(3) Operazione militare francese anti terrorismo attiva in 5 paesi: Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania, dal 1 agosto 2014.
(4) Simon Compaoré, già ministro dell’Interno e della sicurezza, figura di spicco del vecchio e del nuovo regime e oggi ministro alla Presidenza della repubblica.
(5) Balai Citoyen (scopa cittadina), movimento della società civile, nato nel 2013, ha acquisito notevole visibilità durante l’insurrezione popolare, grazie a un’accorta strategia comunicativa.
(6) Cgtb, Confederazione generale del lavoro, è una confederazione sindacale, creata nel 1988, raggruppa 12 sindacati nazionali e 70 sindacati d’impresa.
(7) Mbdhp, Movimento burkinabè per i diritti dell’uomo e dei popoli, fondato nel 1989, è la maggiore associazione per la difesa dei diritti in Burkina Faso.

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. Copyright Marco Bello 2018




Mali: il conflitto nel paese saheliano cambia velocità


In Mali si vive una guerra a «bassa intensità» dal 2012. L’avanzata dei gruppi fondamentalisti islamici è bloccata dall’intervento militare francese. L’Onu registra una delle missioni con maggiori perdite umane della sua storia. Gli accordi di pace firmati nel 2015 sono «parziali» e la loro applicazione è complessa. E da alcuni mesi il conflitto sta assumendo pericolose connotazioni etniche. Mentre il Daesh «apre» ufficialmente nel Sahara.

Bamako. Il traffico della capitale del Mali è simile a quello di molte grandi città saheliane. Le auto
si bloccano in lunghe file ai semafori, mentre le moto passano in ogni possibile breccia. Qui il grande fiume Niger da un lato e la collina di Kouluba dall’altro strozzano il centro città, costringendolo a svilupparsi nel senso della lunghezza. Dall’altra parte del fiume, i quartieri dormitorio. Si passa tramite tre ponti, chiamati comunemente primo, secondo e terzo ponte: i colli di bottiglia naturali di questa città che vede la sua popolazione riversarsi sul lato sinistro al mattino e tornare sul lato destro alla sera. Anche i frequenti controlli della polizia creano rallentamenti. Verificano la circolazione di armi, ma normalmente è sufficiente aprire il vano del cruscotto per soddisfare il frettoloso poliziotto.

Tutto tranquillo, dunque, in una grande città che pulsa con i suoi oltre due milioni di abitanti e temperature che ad aprile raggiungono i 47 gradi.

Ma non c’è più la serenità di un tempo. Gli abitanti di Bamako si ricordano quel 20 novembre 2015 in cui un commando di jihadisti si è materializzato dal nulla e ha preso in ostaggio clienti e lavoratori dell’Hotel Radisson Blu. L’attacco ha lasciato sul terreno 22 vittime innocenti. Quel giorno la città si è ricordata di essere la capitale di un paese in guerra, peggio, un paese diviso.

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Intesa nazionale?

Il 2 aprile scorso si è conclusa, proprio a Bamako, la Conferenza d’intesa nazionale, nome pomposo per un incontro di cinque giorni di alcuni tra i protagonisti del conflitto maliano. «Non è servita a nulla», ci dice un osservatore straniero. In effetti mancavano due leader jihadisti fondamentali: Iyad Ag Ghali, storico capo tuareg fondamentalista del Nord e Amadou Koufa, peulh, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, nel centro del paese. Neppure l’opposizione politica era presente, in quanto ha boicottato la conferenza, mentre molti altri gruppi non sono stati soddisfatti del risultato. La Conferenza fa parte della difficile applicazione degli accordi di pace di Algeri firmati tra maggio e giugno 2015. Intanto nel paese si è registrato un preoccupante salto di qualità del conflitto, già a partire dalla metà dell’anno scorso.

Ma per capire cosa succede in Mali occorre fare un passo indietro.

Da democrazia a caos

Negli anni 2000, il Mali era un esempio di democrazia e alternanza al governo per tutta l’Africa dell’Ovest. Il presidente Amadou Toumani Touré (Att) aveva tuttavia trascurato il Nord, una regione di oltre 800.000 km quadrati (quasi tre volte l’Italia), in gran parte desertica, che si incunea tra Mauritania, Algeria e Niger. Regione tradizionalmente tuareg e araba, chiamata da questi popoli Azawad. Qui i movimenti indipendentisti tuareg esistono da tempo, e storicamente sono sfociati in periodiche ribellioni, l’ultima delle quali si era conclusa nel 2006.

Ma in quegli anni si è assistito ad altri fenomeni, come l’arrivo di predicatori mediorientali, che hanno iniziato a diffondere il wahabismo, l’ideologia islamista promossa dall’Arabia Saudita. Al tempo stesso i gruppi integralisti salafiti algerini, gli ex Gia (Gruppi islamici armati) che avevano insanguinato l’Algeria negli anni ’90, hanno iniziato a stabilirsi sul suolo maliano. Nel deserto le frontiere non esistono e i due paesi confinano per oltre 1.000 km. Il potere centrale di Bamako è lontanissimo da queste terre, sia fisicamente che culturalmente. Così sono cresciuti i movimenti radicali islamisti che a inizio 2012 hanno dichiarato guerra allo stato centrale. Sono molti e diversificati. Ci sono i tuareg laici, i tuareg fondamentalisti, i gruppi jihadisti salafiti di origine algerina (si veda MC settembre 2006, MC dicembre 2010). Nel 2007 i salafiti hano aderito ad Al Qaeda internazionale fondando Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Nel marzo 2012 Att ha subito anche un goffo colpo di stato da parte di una frangia dell’esercito, fatto che ha indebolito ulteriormente lo stato centrale maliano. Dopo un periodo di transizione si sono svolte le elezioni in cui è stato eletto Ibrahim Boubakar Keita (Ibk) nell’agosto del 2013.

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La guerra si estende

La galassia di gruppi armati nel Nord del Mali è in rapido cambiamento. Si alternano coalizioni e scontri tra gli stessi, piattaforme, coordinamenti, in una geometria di alleanze estremamente variabile. Ma quando nel gennaio 2013 l’esercito regolare maliano era allo sbando e il fronte ribelle, islamisti di Aqmi compresi, puntava su Bamako, è intervenuta la Francia, ex potenza coloniale, inviando le sue forze militari d’élite, con l’operazione denominata Serval, respingendo i combattenti. Questi sono tornati nelle loro roccaforti nel deserto del Nord. Una missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali, Minusma, ha preso il via nell’aprile dello stesso anno. Ne fanno parte 13.000 uomini di 26 nazionalità, tra cui quelle dei confinanti Burkina Faso e Niger. È diventata una delle missioni dell’Onu con più morti tra i caschi blu di tutti i tempi. Importante è la partecipazione del contingente tedesco, forte di un migliaio di militari, oltre a otto elicotteri, blindati e droni e due arei per trasporto truppe basati a Niamey, Niger. Anche l’Europa ha in Mali un suo contingente, l’Europen Union trainig force (Eutf), con l’obiettivo di formare e riorganizzare le Forze armate maliane. Ha un effettivo di circa 600 uomini di 20 paesi.

Il primo agosto 2014 l’operazione Barkhane ha sostituito Serval. Barkhane, sempre francese, copre cinque stati (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad), e ha comando a Ndjamena capitale del Ciad.

La pace finta che scontenta

In questo contesto estremamente complesso e frammentato si è arrivati alla firma della pace tra maggio e giugno 2015. Accordo quanto mai parziale, perché coinvolge solo alcune sigle. In particolare la Cma (Coalizione dei movimenti dell’Azawad), di cui fa la parte del leone il Movimento per la liberazione dell’Azawad (Mnla). Ha firmato anche la Plateforme, ribelli detti «filo governativi» attive a Menaka, ad Est . L’accordo prevede la smobilitazione dei combattenti; la creazione del Moc (Meccanismo operativo di coordinamento), ovvero pattuglie miste governo – ex ribelli firmatari conto i jihadisti; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord (gli amministratori sono tutti fuggiti a causa della guerra) con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, con l’obiettivo di una definizione politica dell’Azawad. Ridefinizione che però non è arrivata, scontentando le parti tuareg.

Il conflitto cambia livello

«A partire da metà 2016 abbiamo visto un cambio di velocità nel conflitto», ci dice la nostra fonte che chiede l’anonimato, «undici gruppi sono usciti dalle coalizioni firmatarie, in dissenso con l’accordo, ritornando nella lotta armata». «Un altro elemento fondamentale è l’estensione del conflitto nel centro del paese, la regione di Mopti. Questa zona è sempre stata legata al governo, molto più del Nord, ma adesso lo stato sembra averne perso il controllo». In effetti «si è partiti con la guerra a Nord, ma andando di questo passo non si può escludere che tra qualche tempo il conflitto interesserà anche il Sud, quindi tutto il paese», rivela un’altra fonte locale.

Un osservatore maliano basato a Gao ci conferma: «La crisi sta prendendo un’altra dimensione, molto più preoccupante. Prima si trattava di gruppi armati ribelli che combattevano contro lo stato centrale, adesso sta diventando un conflitto con caratteristiche comunitarie, ovvero comunità etniche diverse che si affrontano».

La nostra fonte si riferisce agli scontri tra diverse comunità che avvengono nel Nord, ad esempio a Gao, tra Tuareg, Arabi e Songo. «A causa dell’applicazione dell’accordo di pace, è frequente che un gruppo si senta leso o emarginato e quindi entri in conflitto con gli altri per far valere i suoi diritti». È il caso di gruppi Songo di Gao, che si sentono discriminati dai gruppi Tuareg che hanno partecipato al negoziato. O ancora, l’applicazione delle pattuglie miste ha visto l’entrata in città di combattenti armati che prima erano considerati nemici e tenuti alla larga, e questo «ha suscitato percezioni diverse nella popolazione e creato tensioni». «Bisogna anche dire che tutti questi gruppi etnici hanno dei movimenti di supporto all’estero che li sobillano soprattutto grazie all’uso dei social network».

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Il contagio si diffonde

Altra questione importante dell’ultimo anno è l’estensione del conflitto alla regione centrale del paese. Qui i gruppi ribelli sono a base etnica peulh, popolazioni di allevatori nomadi che vivono in tutto il Sahel. In questa zona il predicatore radicalizzato Amadou Koufa (o Hamadou Kouffa) ha costituito il gruppo armato jihadista Fronte di Liberazione di Macina (Flm, dal nome di un antico regno di questa zona), ora noto come Ansar Dine in Macina. Koufa è stato a lungo legato al tuareg fondamentalista Iyad Ag Ghali, fondatore di Ansar Dine e di Aqmi e ora basato nell’area di Kidal, nel Nord. Dal Flm si è generato anche il primo gruppo fondamentalista tutto burkinabè, sempre a base etnica peulh, del leader e predicatore Ibrahim Mallam Dicko, che opera nel Nord del Burkina e a cavallo tra i due paesi (provincia del Lorum in Burkina e quella di Douentza in Mali).

Anche nel centro si assiste a un’aggravante a sfondo etnico. I militari dell’esercito regolare, le Fama (Forze armate maliane), mandano a fare i lavori sporchi i Dozo, cacciatori di etnia bambara (maggioritaria nel Sud del paese). Questi, sono tradizionalmente nemici degli allevatori peulh e, coperti dal clima di impunità, hanno cominciato ad ammazzare civili di quell’etnia senza farsi troppe domande. Inoltre è stato osservato che la Fama e la polizia arrestano quasi esclusivamente Peulh e mai Bambara. Il conflitto comunitario sta quindi andando verso uno scontro tra milizie organizzate a base etnica.

«La gente nel centro non è coinvolta nell’accordo di pace, che interessava solo i gruppi del Nord, per cui non beneficia dei dividendi della pace (come le indennità pagate alla smobilitazione, ndr). E si sentono ora abbandonati dal governo di Bamako». Tutti questi elementi stanno dando una deriva etnica al conflitto.

«Assistiamo a un cambiamento nella società maliana. Il tessuto sociale si sta strappando. Si è passati dal multiculturalismo alla contrapposizione etnico-culturale. Ad esempio sono saltati i meccanismi sociali di risoluzione dei conflitti. E questo è gravissimo», commenta la nostra fonte.

«Inoltre l’occupazione di queste zone da parte dei jihadisti è inquietante, ed è aggravata dal fatto che il governo non la riconosce per non dover ammettere un suo fallimento».

Anche l’Isis nel Sahel

Un ulteriore elemento di preoccupazione è la comparsa ufficiale, sempre nell’estate 2016, del Daesh nel Sahel. Si tratta del Mujao che proclama la propria affiliazione e si fa chiamare Stato Islamico nel Grande Sahara. Con a capo Adnane Abou Walid Al-Saharwi, sarebbe per ora ad Est, nella zona di Menaka. «Il Daesh si sta ormai installando nella regione, e questo vuol dire che vedremo dei grossi cambiamenti nei prossimi 12-18 mesi».

Intanto nel Sud e a Bamako si acuisce la crisi sociale, oltre al crescente malcontento verso il governo e la presenza dei militari stranieri della Minusma. Dal 9 marzo scorso tutto il settore sanitario è in sciopero, e questo – per un paese come il Mali – vuole dire un aumento dei decessi tra i pazienti. Ultimamente anche gli operatori del settore educazione hanno iniziato a scioperare. Le rivendicazioni sono di tipo salariale, ma le manifestazioni e l’astensione dal lavoro paralizzano questi settori. Il presidente Ibk si è affrettato a modificare il governo, nominando il quarto primo ministro dall’inizio del suo mandato. Aboulaye Idrissa Maiga ha costituito il suo governo l’11 aprile. Simile al precedente: ha cambiato i ministri di Salute ed Educazione nel tentativo di calmare le piazze. Anche il dicastero della Difesa, occupato proprio da Maiga nel precedente governo è stato cambiato.

Nel 2018 ci saranno le elezioni ed è facile che Ibk siariconfermato. Non ci sono infatti oppositori in grado di vincere e anche il rischio di colpo di stato pare limitato, vista la militarizzazione del paese.

Un tuareg che occupa una posizione importante in una Ong condivide la sua preoccupazione: «I problemi del Mali stanno prendendo dimensioni sempre più serie. L’aggravarsi dei conflitti etnici, i gruppi islamisti che hanno più terreno. La situazione è fuori da ogni controllo ed è difficile essere ottimisti per il futuro del Mali».

Marco Bello


Incontro con l’abbé Timothée Diallo,
responsabile dei media cattolici

Occorre un cambiamento di mentalità

I cattolici in Mali sono una minoranza. Ma sono ben integrati e la collaborazione con gli islamici è grande. A tutti i livelli, a partire dalle scuole. Solo così si può creare una cultura di dialogo e porre un freno all’avanzata del radicalismo.

BAMAKO. L’abbé Timothée Diallo è parroco della Cattedrale di Bamako da 15 anni. Giornalista, ha studiato alla scuola di comunicazione sociale dei salesiani a Roma. È attualmente il responsabile dei media cattolici della Conferenza episcopale del Mali. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio, nel centro di Bamako.

Abbé Timothée, chi sono oggi i cattolici in Mali?

«Come cristiani stimiamo di essere il 5% e noi cattolici siamo distribuiti in sei diocesi. Negli ultimi tempi i battesimi sono aumentati. Le etnie che hanno maggiormente abbracciato il cattolicesimo sono i Bobo, nella diocesi di San. Però quasi tutte le etnie vedono la presenza di cristiani: Bambara, Peulh, Soninka, Sonrai, ecc.

I missionari sono arrivati in Mali nel 1888 dal Senegal, la prima missione è stata Tuba, nella diocesi di Kayes. Erano degli spiritani (i padri dello Spirito Santo, ndr), perché i missionari d’Africa hanno tentato per ben due volte di arrivare in Mali dall’Algeria, ma in entrambi i casi i convogli furono massacrati prima di arrivare a Timbuctu. Gli spiritani lasciarono la missione ai padri Bianchi che portarono avanti l’evangelizzazione in Mali».

Quali sono le maggiori difficoltà che state vivendo come minoranza?

«Siamo una minoranza, ma abbiamo la fortuna di avere molti matrimoni misti, tra cristiani e musulmani. Negli ultimi anni in certi ambienti è diventato difficile esprimere la propria fede cristiana. Conosco delle famiglie che non accettano più di accogliere un cristiano e dargli da bere o da mangiare (accoglienza che nel Sahel e nel deserto è sempre stata sacra verso chiunque, ndr). Ma nella maggioranza dei casi c’è buona coabitazione, si celebrano insieme le feste, musulmane come quelle cristiane. Per esempio io sono sempre invitato da famiglie musulmane per la Tabaski o la fine del Ramadam.

Nel campo dell’educazione abbiamo scuole cristiane dappertutto nel paese. Qu i in cattedrale la nostra scuola ha 800 allievi e solo il 5% sono cattolici, gli altri sono mu sul mani . Ci sono i movimenti di azione cattolica in Mali, come la Gioc, gioventù operaia cattolica, qui la chiamiamo “credente”, Comunità di studenti credenti e poi Gli amici di Kizito, per i bambini fino a 12 anni. In questi movimenti ci sono anche molti musulmani. Questo ci permette di dialogare e comprenderci tra di noi. Preghiamo insieme, ognuno si esprime secondo la sua religione. I genitori musulmani fanno frequentare ai figli la scuola cattolica perché pensano che dia una buona educazione. E poi li mandano anche a i movimenti cattolici.

Non abbiamo per nulla un approccio volto alla conversione, ma piuttosto a dialogo e coabitazione per la pace e il benessere della persona umana. È qu e sto c he fa l a nostra fortuna in Mali . Qu an do certi leader religiosi hanno reclamato che il Mali diventasse uno stato islamico, sono proprio i musulmani che si sono opposti, preservando la laicità».

Ma ci sono dei segni di radicalizzazione nella società?

«Ci sono molte più donne con il velo e sono state costruite molte moschee, tutte uguali, sorte come funghi e finanziate da paesi arabi. Questo per mostrare che il paese è islamico. Ma è un a questi one di facciata perché non sono frequentate. In una zona che conosco, la maggioranza delle persone segue culti tradizionali e ci sono anche molti più cristiani. Soprattutto nelle grandi città sentiamo la presenza dell’islam con molte moschee, m a non è così nelle campagne».

C’è ancora una chi es a missionaria in Mali?

«Ci sono ancor a dei padri bianchi, nella arcidiocesi di Bamako, abbiamo 11 parrocchie di c ui 2 son o tenute dai padri Bianchi, una dai A Salesiani. Ci sono i fratelli del Sacro Cuore, in tre diocesi. Anche i Salesiani. C’è ancora molto lavoro di evangelizzazione da fare in Mali, ci sono molte zone che non sono state toccate, dove i missionari non sono mai andati. Io penso che se si creassero altre parrocchie ci sarebbero molte più conversioni. È il personale che manca, abbiamo ancora bisogno di missionari».

A livello istituzionale come collaborate con le altre confessioni?

«Le chiese protestanti ed evangeliche sono riunite in gruppo che ha un proprio presidente. Quelle che non fanno parte di questo gruppo sono considerate sette. I musulmani hanno l’Alto consiglio islamico, con un suo presidente. Poi ci siamo noi cattolici con l’arcivescovo. Di fronte ai problemi del paese – come ad esempio gli attuali scioperi degli insegnanti e dei lavoratori sanitari – ci riuniamo e riflettiamo, per proporre una via d’uscita alla crisi. Stessa cosa quando ci sono delle elezioni, cerchiamo di promuovere la pace, per esempio incontrando i candidati. Cerchiamo di lavorare anche sulla riconciliazione nazionale. A livello ufficiale la Chiesa cattolica lavora molto per la pace. Quando ci sono le elezioni, vengono diffuse lettere pastorali indirizzate ai cristiani e a tutti i maliani di buona volontà. C’è anche la Caritas che talvolta fa l’osservazione delle elezioni».

Quali sono i problemi attuali del Mali?

«Attualmente ci sono molti problemi nel paese. In particolare lo stato non ha autorità, questo è il problema principale, non arriva a imporsi ormai dal 2012. Come arrivare a uno stato più forte? E a una riconciliazione? Ci sono gli attentati, la guerra e i massacri intercomunitari, sempre di più. Occorre finire con tutto questo. Il tessuto sociale sta andando in rovina. Penso che l’occupazione del Nord abbia giocato molto, poi ogni etnia o comunità vuole imporsi. Assistiamo alla continua formazione di nuovi gruppi ribelli. Anche su base etnica. Tutto questo è causato dalla mancanza di autorità dello stato.

Il Nord è stato abbandonato, ma anche a Bamako si sente la mancanza dello stato, e i politici non riescono a migliorare la situazione. Invece di vedere il bene del paese, ognuno vede i suoi interessi personali. Occorre che i maliani prendano coscienza di questo, altrimenti la situazione non cambierà. I problemi tra Bambara e Peulh, nel centro del paese sono tradizionali, tra allevatori e agricoltori, ma adesso hanno assunto un’altra dimensione, una vera guerra».

Il 7 marzo è stata rapita suor Gloria Cecilia Narvaez Argoti, missionaria colombiana.

«Il rapimento di suor Gloria, a Karangasso nei pressi di Sikasso, nel Sud del paese preoccupa tutte le comunità religiose. Ci chiediamo perché è stata rapita. È perché è una religiosa cattolica o perché chi l’ha rapita cerca soldi? Non ci sono state richieste di riscatto, rivendicazioni. Suor Gloria, delle francescane di Maria Immacolata, era in Mali già da una decina di anni».

Abbé Timothée, come vede la soluzione della crisi in Mali?

«Occorre cambiare mentalità. Prendere coscienza. È la menzogna che ci ha messi in questi problemi, il fatto che la gente non dica la verità. Non c’è la coscienza che occorre proteggere il bene comune. Solo con questo il Mali potrà cambiare. La chiesa lavora per questo ma c’è molto da fare e occorre molto tempo. I politici, i lavoratori, a tutti i livelli, tutti gli strati sociali, dalla testa ai piedi».

Marco Bello