Rimettiamo i loro debiti
In apertura del 27° Giubileo indetto dalla Chiesa cattolica, papa Francesco è tornato su un tema già oggetto di una campagna internazionale in occasione del precedente Giubileo dell’anno 2000.
Il tema è quello del «debito del Sud del mondo» o – meglio – delle somme che le nazioni a reddito medio basso (Cina inclusa) devono ad altre nazioni.
In tutto, si tratta di 135 paesi, genericamente definiti «Sud globale». Nel 2023, questi paesi avevano un debito complessivo verso l’estero pari a 8.800 miliardi di dollari, per il 57% a carico dei governi e il 43% a carico di soggetti privati, principalmente imprese. Due entità giuridicamente ben distinte fra loro, ma economicamente connesse perché entrambe attingono alla stessa fonte per pagare i propri debiti esteri. Il bacino comune si chiama introiti da esportazione, il principale canale di ingresso di dollari, euro e altre valute forti che i creditori esteri pretendono come forma di pagamento. Se il sistema paese non dovesse avere abbastanza valuta estera per tutti i pagamenti, toccherebbe al governo trovarne aprendo nuovo debito.
I numeri del debito
Nel primo scorcio di questo secolo il debito estero del Sud ha conosciuto un andamento a singhiozzo. Mentre dal 2000 al 2007 è rimasto abbastanza stabile passando da 2.000 a 3.100 miliardi di dollari, nei 15 anni successivi è praticamente triplicato, sfiorando, nel 2023, i 9.000 miliardi di dollari.
Secondo i dati forniti dall’Unctad, agenzia delle Nazioni Unite, se nel 2010 il debito este-ro rappresentava mediamente il 19% del prodotto lordo dei paesi del Sud, nel 2022 era salito al 28%. Debito che, messo a confronto con gli introiti da esportazioni, nel 2010 rappresentava il 71%, nel 2022 il 92% dell’importo incassato. Situazione ancora peggiore per il gruppo dei 45 paesi più poveri del mondo (per la maggior parte africani) il cui debito estero rappresenta il 54% del Pil e il 250% delle loro esportazioni.
Borse e speculatori
L’ultimo evento che ha fatto crescere il debito dei 45 paesi più poveri, quelli che l’Unctad definisce «paesi meno sviluppati», è stato l’aumento del prezzo dei cereali.
Spiegato ufficialmente come un effetto della guerra in Ucraina, in realtà la variazione è stata il prodotto della speculazione finanziaria sempre pronta a trasformare le sciagure in occasioni di arricchimento. In effetti non c’è stata proporzionalità fra la quantità di grano che la guerra aveva fatto mancare e l’aumento dei prezzi che, in poche settimane, erano cresciuti del 50%.
Il fatto è che il prezzo delle risorse commercializzate a livello mondiale si forma nelle borse merci, luoghi popolati più da soggetti che usano i prezzi come strumenti di scommessa che da imprese interessate a comprare realmente le materie prime trattate. Peccato, però, che le puntate degli scommettitori si ripercuotano sui prezzi reali produ-
cendo sconquassi a tutti i livelli, ivi compresa la fame, la recessione e l’indebitamento dei governi.
Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, il mondo stava appena uscendo da un altro periodo difficile, questa volta prodotto da un virus, il Covid-19 che, oltre ad avere provocato ovunque una battuta d’arresto delle attività produttive, aveva costretto tutti i governi del mondo ad accrescere le proprie spese sanitarie. Le due emergenze messe assieme avevano fatto crescere il debito pubblico che, a livello mondiale, è passato da 75mila miliardi di dollari, nel 2019, a 97mila nel 2023. E benché più dell’80% del nuovo debito pubblico sia stato generato dai governi dei paesi ricchi, i problemi più seri li stanno incontrando quelli poveri.
Nel 2023 il debito pubblico complessivo del Sud del mondo ammontava a 29mila miliardi di dollari, con conseguenze poco gravi per paesi con economie in crescita come Cina, Indonesia o India, ma un vero flagello per quelli stagnanti come sono la maggior parte dei paesi collocati nell’Africa subsahariana.
Anche perché i paesi con minori capacità finanziarie finiscono per pagare di più.
La spesa per interessi
È la legge del mercato. L’argomentazione è che il prestito comporta un rischio per il creditore. Questo rischio va compensato, e poiché il povero ha più probabilità del ricco di non riuscire a restituire le somme ricevute, deve accettare di pagare interessi più alti. Teoria confermata dai fatti.
Secondo i dati riferiti dall’Unctad, il tasso medio pagato sui titoli del debito pubblico fra il 2020 e il 2024, è stato dello 0,85% per la Germania, del 2,5% per gli Stati Uniti, del 5,35% per i paesi asiatici e del 9,8% per quelli africani.
Il risultato è che nel 2023 la spesa per interessi dell’insieme dei paesi del Sud ha raggiunto gli 847 miliardi di dollari, il 26% in più rispetto al 2021. Con ricadute pesanti sulle popolazioni di molti paesi dove la spesa sanitaria o per istruzione è inferiore a quella per ripagare gli interessi del debito. Ad esempio, in Asia (Cina esclusa), nel periodo 2020-2022, la spesa per interessi è stata mediamente di 84 dollari pro capite, quella per la sanità di 62 dollari. Quanto all’Africa, è stata di 70 dollari la spesa per interessi, di 39 dollari quella per la sanità.
La conclusione è che 3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per interessi sul debito che per sanità o istruzione, mentre nei paesi ricchi la situazione è all’inverso.
Valga, come confronto, l’Italia che, pur avendo un debito pubblico di 3mila miliardi di euro, nel 2023 ha registrato una spesa pubblica pro capite per la sanità pari a 3.400 euro contro 1.300 per interessi.
La raccolta fiscale
Il punto è che i paesi del Sud hanno una scarsa capacità di raccolta fiscale, per cui basta un minimo aumento di spesa imposta dall’esterno per peggiorare i già fragili bilanci. Basti dire che, mentre nell’Unione europea la raccolta fiscale rappresenta mediamente il 40% del Pil, nei paesi del Sud si attesta su una media del 29%. Percentuale che scende addirittura al 12% nei 45 paesi più poveri.
Un fenomeno dovuto a una varietà di fattori fra cui una pubblica amministrazione debole e male organizzata, un’alta percentuale di economia informale, una massiccia evasione fiscale (anche da parte di grandi complessi multinazionali).
Purtroppo, quella per interessi non è l’unica voce di spesa del debito. Agli interessi vanno aggiunte le quote di capitale da restituire annualmente. Queste ultime più gli interessi sono definite «servizio del debito». Nel caso del Sud del mondo una parte importante del servizio del debito è verso l’estero. Nel 2022 è stato di circa 1.400 miliardi di dollari, dei quali 406 per interessi.
Messo a confronto con le entrate governative, si scopre che nel 2023 il servizio del debito estero nel Sud del mondo ha assorbito mediamente il 17% delle entrate pubbliche con punte che hanno raggiunto il 65% in Angola, il 52% in Laos, il 43% in Pakistan ed Egitto.
Il tutto mentre povertà e cambiamenti climatici pongono sfide finanziarie enormi.
Rinunciare a 353 miliardi
Secondo lo studio condotto nel 2023 da un gruppo di esperti per conto del G20, da qui al 2030, al Sud del mondo (Cina esclusa) servirebbero ogni anno 5.400 miliardi di dollari, di cui 2.400 per affrontare la crisi climatica e 3.000 per combattere la miseria. Ciò nonostante nel 2023 i governi del Sud hanno speso per il servizio del debito 12 volte e mezzo in più di quanto non abbiano speso per difendersi dai cambiamenti climatici.
Lo sostiene un rapporto della Misereor tedesca secondo il quale mediamente i governi del Sud destinano al totale del servizio del debito il 33% delle risorse pubbliche mentre ai cambiamenti climatici solo il 2,5%.
Considerato che una quota rilevante del servizio del debito del Sud è verso creditori esteri, la parte più sensibile della nostra società insiste affinché vengano annullati almeno i crediti vantati verso i paesi più poveri. In tutto 45 nazioni che ospitano il 13% della popolazione mondiale con un reddito pro capite inferiore ai mille dollari all’anno e bassissimi livelli di sviluppo umano.
Basti dire che, nell’insieme di questi paesi (33 dei quali africani), vive la metà dei poveri assoluti del mondo, persone che campando con meno di due dollari al giorno, non si nutrono abbastanza, non hanno una casa degna di questo nome, muoiono di malattie banali come una bronchite o una dissenteria. Il 22% dei bambini di questi paesi non va a scuola, mentre il 44% della popolazione non dispone di corrente elettrica e il 63% non ha l’acqua corrente né adeguati servizi igienici.
L’Unctad ci informa che, complessivamente, i governi di questi 45 paesi detengono un debito verso l’estero di 353 miliardi di dollari, una cifra irrisoria per i nostri livelli economici, ma una vera e propria condanna a morte per loro che, messi tutti assieme, hanno introiti governativi di appena 160 miliardi di dollari.
Nel 2023 ne hanno dovuti accantonare una trentina per ripagare il loro debito verso le ricche istituzioni estere. Ne sono rimasti all’incirca 130 per soddisfare i bisogni sociali e sanitari di oltre un miliardo di persone, sen-
za contare tutte le altre spese che ogni governo del mondo normalmente sostiene.
«Chi deve a chi?»
Come termine di paragone il governo italiano utilizza più di 800 miliardi di euro all’anno per una popolazione che non raggiunge i 60 milioni. Insomma, 353 miliardi di dollari per paesi così malandati sono un’enormità, ma non altrettanto per i loro creditori.
Certo, spacchettando la somma, si scopre che uno dei principali creditori è la Cina che vanta all’incirca 50 miliardi di crediti, il 14% del debito totale dei 45 paesi più poveri. Il resto, però, fa capo ad altri governi per lo più del Nord (21%), alla Banca mondiale e ad altre istituzioni finanziarie multilaterali (42%), a banche commerciali e ad altri soggetti privati (23%). Anche l’Italia compare fra i creditori con 1,2 miliardi di dollari. Paesi che non andrebbero falliti se depennassero i crediti vantati verso i «dannati della terra».
Invece, succede che sei dei 45 paesi più poveri hanno già conosciuto momenti di bancarotta, mentre altri quindici ne sono sull’orlo.
La richiesta di annullamento del debito è sostenuta anche dal fatto che, analizzando bene le cose, si scopre che non è il Sud povero, bensì il Nord ricco, a essere in debito. Un debito formato nel corso dei secoli da politiche di oppressione e mal sviluppo che hanno provocato danni sociali e ambientali così alti al Sud del mondo, da gettarlo nello stato di fragilità economica che oggi lo costringe ad indebitarsi.
Un rapporto pubblicato recentemente da Action Aid, dal titolo emblematico Who owes who? (Chi deve a chi?), sostiene che fra danni ambientali, danni da colonialismo, danni da scambio ineguale e danni da esportazione illecita di capitali, il Sud dovrebbe ricevere un indennizzo pari a un milione di miliardi di dollari, cifra che corrisponde a dieci volte il prodotto lordo mondiale.
L’appello di Francesco
Un quadro ben chiaro a papa Francesco che, nel suo discorso tenuto il 1° gennaio 2025, in occasione della 58a giornata dedicata alla pace, ha dichiarato: «Debito estero e debito ecologico sono due facce della stessa medaglia, figli della stessa logica di sfruttamento che ha portato alla crisi del debito. Nello spirito di questo Anno giubilare, sollecito la comunità internazionale a lavorare per l’annullamento del debito estero come riconoscimento del debito ecologico esistente fra Nord e Sud del mondo. Un appello di solidarietà che è prima di tutto un’esigenza di giustizia».
Appello accolto dalla Caritas internazionale che, in apertura dell’Anno giubilare, ha lanciato la campagna «Trasformare il debito in speranza», ricordando che, negli ultimi dodici anni, le nazioni ricche hanno speso per sovvenzioni ai combustibili fossili sei volte di più di quanto non abbiano versato ai paesi vulnerabili per aiutarli ad arginare le conseguenze prodotte dai cambiamenti climatici.
Quei soldi avrebbero potuto fornire quasi metà del denaro di cui i paesi più vulnerabili hanno bisogno per iniziare a proteggersi.
La campagna è presente anche in Italia con cinque richieste fondamentali: ridimensionare o annullare la spesa per interessi dei paesi più poveri, convertire il loro debito in spese a favore delle popolazioni, aiutare i paesi del Sud a lottare contro l’evasione fiscale specie quella attuata da parte delle multinazio-
nali, portare la cooperazione dei paesi del Nord almeno allo 0,7% del Pil come richiedono le Nazioni Unite, riformare l’assetto finanziario internazionale in un’ottica non predatoria. Obiettivi raggiungibili che contribuirebbero a ottenere un mondo più giusto e quindi la pace.
Francesco Gesualdi