Egitto. La storia sfrattata
Il Cairo è una megalopoli. Racchiude in sé quartieri storici molto particolari. Le autorità vogliono renderla moderna, nello stile delle città del Golfo. Molti antichi luoghi andranno presto perduti.
Il Cairo, megalopoli tra le più grandi del mondo, con una stima, difficile da verificare, di oltre dieci milioni di abitanti, è crocevia di terra e acqua, grazie al poderoso Nilo che la attraversa.
Fondata da Jawhar al Siqilli, di origine siciliana, verso la fine del primo millennio, nemmeno Il Cairo poteva resistere ai grandi cambiamenti urbanistici in atto in molte città in tutto il mondo. Nel nome della globalizzazione urbanistica, che favorisce cemento e speculazione, vengono sacrificate identità strutturali e architettoniche che hanno reso unici alcuni luoghi.
E così il Nilo viene ingabbiato in sponde di cemento unite da passerelle a pagamento, e le sue rive, spesso ormai invisibili, sono invase da locali alla moda e alti palazzi, in vetro e cemento. Alla vista di chi passeggia spariranno le sue belle acque cangianti e il loro lento fluire, così come gli orti e i giardini rigogliosi sulle sue rive, mentre sono già scomparse, quasi totalmente, le sue eleganti case sull’acqua: le «awamat».
Queste sono antiche houseboats, costruite nell’Ottocento, e narrano parte della storia cairota. Erano usate dai pascià per incontri clandestini, e negli anni Venti per riunioni governative. Erano abitate da personaggi illustri come la diva del cinema egiziano Munira al Mahdiyya.
Anche la letteratura le ricorda nelle pagine di Nagib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura nel 1988. Erano duecento, colorate, con ricami architettonici come pizzi. Adesso ne sono rimaste solo venti, ma perderanno il loro uso come abitazioni, perché diventeranno bar e ristoranti. Nonostante le proteste degli anziani abitanti, ormai sradicati, e dei comitati cittadini.
La città dei morti
Il Cairo è anche tante altre città. Passiamo attraverso el Mosky, infinito e caotico mercato amatissimo dai cairoti. Visitiamo poi la moschea di al Azhar, dove ha sede l’università islamica punto di riferimento dottrinale per l’islam sunnita. Attraversiamo Khan al Khalili, il più antico bazar del mondo, che assomiglia a quello delle «Mille e una notte». Arriviamo all’immensa «città dei morti»: al Qarafah.
Qui, alla fine del XIV secolo, i ricchi sultani mamelucchi cercarono l’eternità, fuori dalle mura della città di allora, costruendo mausolei con cupole e minareti scolpiti che sfiorano il cielo. La morte e la vita in questo luogo sembrano non avere confini. C’è un movimento continuo di uomini, cose e animali. Tra le antichissime costruzioni funerarie, dove la sabbia del deserto si mischia con la polvere di chi non c’è più, troviamo incroci, piccoli negozi, meccanici, artigiani e animate caffetterie nelle quali si fuma il narghilè, la pipa ad acqua. Quasi ogni tomba, specie quelle più maestose, ha i suoi inquilini che vivono, senza timori, accanto ai loro morti o custodiscono quelli di altri. E così, alla storia dei defunti si somma quella dei vivi che abitano le sepolture.
Uomini e lapidi
Donne rimaste sole con i figli, o famiglie in condizioni disagiate, curano questi luoghi come fossero le loro case e conservano la memoria dei trapassati. Questi custodi assicurano ai morti una sorta di eternità, narrando la loro vita a chi passa. Nessuno qui scompare nel silenzio. Lapidi e uomini raccontano storie: come il custode della tomba del calzolaio del re Farouk. La sua famiglia la custodisce da generazioni e poi la passerà al figlio.
Una donna ancora giovane ci apre le porte della sua tomba-casa. È un tripudio di colori: pareti arcobaleno, mobili semplici nella cucina. La cameretta della figlia adolescente, Aisha, con pupazzi e fiori affrescati sui muri. Lei ha la mano d’artista e da grande vorrebbe fare la pittrice. Forse questo ambiente le dà la possibilità di inseguire il suo sogno.
Non lontano, un’altra famiglia custode ci mostra un salotto tra urne e damascato, dove ci si incontra per il tè, a chiacchierare e guardare la televisione.
Poi, cosa più unica che rara negli spazi ristretti di questa grande città ad alta densità abitativa, la tomba si apre su un immenso giardino sacro. Ricco di vecchi gelsi, che donano ombra a chi non c’è più, e che riecheggiano dei ricordi degli attuali custodi, qui da generazioni, quando erano bambini.
Questa visione dell’aldilà non sembra intimorire il Governo egiziano che, sotto un’altra ottica, sembra deciso a far scomparire anche questo luogo ricco di arte funeraria e di spiritualità a favore di cemento e nuove architetture. Via i morti, che verranno spostati lontano nel deserto, e via chi li veglia, persone che non conoscono il loro destino. Anche per loro sarà un po’ come morire. Guardando la bellezza di questo luogo così ricco di fascino è impossibile pensare di ritornarvi in futuro e non trovarlo più.
Garbage city
Altri luoghi, che fanno la storia di questa città, e contribuiscono all’economia della nazione, sono fortemente in pericolo e a rischio delocalizzazione. Ad esempio, la «Città della spazzatura» (Garbage city), detta anche «città degli zabaleen».
Questo grande insediamento nacque nei primi del Novecento sotto il monte Moqattam a opera di minoranze cristiane copte, provenienti dalle zone desertiche occidentali e, successivamente, dalle regioni rurali del medio Egitto. Qui si raccolgono e si riciclano ogni giorno tonnellate di spazzatura che circa 30mila tra uomini, donne e bambini, chiamati zabaleen (ovvero netturbini, ndr), raccolgono incessantemente.
Strutturata come una piccola città ai margini del Cairo, è dotata di strade, negozi, scuole, chiese e abitazioni. Tutto circondato, riempito e soffocato da tonnellate di spazzatura ordinata, suddivisa, imballata, innalzata e trasportata. Oppure lavorata direttamente sul posto.
È un luogo che appare caotico, sporco, maleodorante, ma che ha la precisione di un formicaio. Ovunque vediamo immagini di santi e Madonne e svettano croci luminose, a indicare l’appartenenza religiosa. Fieri di essere cristiani, anche se sepolti dalla spazzatura. Pure qui si è avvolti dalla polvere del deserto e da quella dei rifiuti che nessuno sembra volere, se non gli zabaleen.
Quel vento ammorbato da un odore a tratti insopportabile e il caos umano e frenetico che confonde la vista, sono il motore di un’economia che crea un indotto importante: il business dell’immondizia. Si valuta che vengano recuperate tremila tonnellate di rifiuti al giorno, portate ad aziende che impiegano molti dipendenti per il loro trattamento.
Salute a rischio
Una ragazza con guanti di gomma, con un elegante abito in velluto rosso, immersa nella spazzatura al pianterreno di casa sua, ci racconta che quella è la sua vita e che i rifiuti le servono per mantenere la famiglia. Non le dispiace questo lavoro, collabora con il marito, pure lui raccoglitore d’immondizia.
Ci mostra la casa, orgogliosa ci fa notare che i rifiuti sono chiusi fuori. Dentro tutto è a posto ma all’esterno si è prigionieri di quello che il resto del mondo butta via. Sorride e continua a dividere la plastica dalla stoffa, i fili dal ferro.
Un problema importante è che qui si mette a rischio la salute, perché molti dei materiali trattati sono fortemente nocivi e le condizioni precarie di questi lavoratori li espongono a infezioni anche gravi. «È la storia che si ripete, per vivere dobbiamo adattarci a condizioni che non tutelano diritti e non danno protezioni», confessano alcuni giovani. «E allora non resta che sperare e pregare».
Infatti, alla fine della giornata, molti di loro salgono al monastero di Saint Simon, chiesa scavata nella roccia a due passi dalla spazzatura. Fondata da padre Saman, immortalato in ogni dove a Garbage city. È un luogo di grande devozione ma anche di respiro.
Cosa resterà di queste realtà, anche difficili, se si deciderà di farle scomparire? Rimarranno i ricordi delle identità perdute degli zabaleen, della città dei morti, delle hoseboats. Poi i ricordi sfumeranno, e non si riconoscerà più la peculiarità di luoghi che oggi sono unici. Tutto sembra doversi trasformare in grattacieli, luoghi esclusivi, città smart, facendo sparire il lento incedere del Nilo e dei suoi abitanti.
Diceva Nagib Mahfuz: «In realtà, l’unica patria possibile è quella dei ricordi. Belli o brutti, sono come noi li vogliamo».
Donatella Murè