Anche Puno è in Perù


Nel paese andino è uscito di scena un altro presidente: il maestro Pedro Castillo è passato dal palazzo presidenziale al carcere. Dallo scorso dicembre, il Perù è guidato, per la prima volta nella sua storia, da una donna, Dina Boluarte. La situazione è però esplosiva. Le proteste continuano. Anche a causa di un Congresso che (per ora) rifiuta l’anticipo delle elezioni al 2023.

In piedi davanti alla lavagna, la scolara scrive e riscrive più volte la stessa frase: «Puno è Perù» (Puno si es el Perù). La scolara ha le fattezze di Dina Boluarte, dallo scorso 7 dicembre nuova presidente in sostituzione di Pedro Castillo, passato dal palazzo al carcere. La vignetta – semplice e drammatica – ricorda quanto in troppi hanno dimenticato: la rivolta che in questi mesi ha sconvolto il paese andino ha profonde ragioni culturali e storiche. Il Perù da sempre dimenticato – quello delle popolazioni quechua e aymara della sierra – dice basta alle umiliazioni e alle ingiustizie.

È vero: la situazione è sfuggita di mano, ma non si possono liquidare i manifestanti semplicemente qualificandoli come «vandali, terroristi, comunisti».

Anche in base a un banale conto: la quasi totalità delle vittime (oltre 60, a inizio febbraio) si contano tra di loro. Proviamo allora a riavvolgere il nastro degli eventi per capire come si è arrivati a questo punto.

Uomini della polizia schierati a difesa del commissariato di Puno, un epicentro della protesta (19 gennaio 2023). Foto Juan Carlos Cisneros – AFP.

Pedro Castillo

Nell’aprile del 2021 era arrivato al seggio elettorale a cavallo e indossando un sombrero (vistoso, ma tipico di quella zona rurale). Vinte le elezioni, il 28 luglio era entrato in carica come presidente. Raggiunto il culmine, la sua parabola discendente era però iniziata quasi subito. Si è chiusa lo scorso 7 dicembre, quando Pedro Castillo Terrones è passato direttamente dal palazzo presidenziale di Lima al carcere di Barbadillo (distretto di Ate), dopo un fallito tentativo di autogolpe (con dissoluzione del congresso [parlamento, ndr] e governo d’emergenza).

La sua avventura alla guida del paese andino è durata meno di 17 mesi ma con ben cinque governi e settanta ministri. Un periodo contrassegnato da troppi errori, sia per l’incompetenza (incapacità e ingenuità) del presidente che per la forza della destra (spesso definita derecha bruta y achorada), padrona del Congresso e del potere economico.

Con 33 milioni di abitanti, il Perù è un paese ricco ma – identicamente a tutti gli altri stati latinoamericani – con enormi disparità economiche. Secondo dati ufficiali, nel paese ci sono 8,6 milioni di poveri, pari al
25,9 % della popolazione (Inei, maggio 2022). Pedro Castillo Terrones, maestro di scuola primaria e sindacalista, aveva vinto le elezioni presidenziali soprattutto con i voti delle regioni rurali più povere, battendo (per un soffio) l’eterna esponente della destra, Keiko Fujimori, figlia prediletta di Alberto Fujimori, il dittatore incarcerato dal 2007 per scontare una condanna a 25 anni.

L’errore decisivo

Difficile trovare successi nell’anno e mezzo di presidenza Castillo. Ad aprile 2022, proteste di piazza contro il rialzo dei prezzi del carburante portano a scontri con le forze dell’ordine e paralizzano il paese. Nello stesso mese il presidente si fa notare per una proposta di legge sulla castrazione chimica dei violentatori. A maggio, il suo progetto di riforma della Costituzione del 1993 (risalente, dunque, all’epoca fujimorista) attraverso un’assemblea costituente viene bocciato dal Congresso. Il 6 dicembre, poche ore prime di una nuova (la terza) mozione di messa in stato d’accusa («moción de vacancia», «impeachment») da parte del Congresso, Castillo si rivolge ai peruviani con un messaggio televisivo: «Fratelli e sorelle del Perù […]. Stasera confermo che non ho mai rubato un solo sol al mio paese. Non ieri, non oggi, né mai. Sono onesto. Un uomo di campagna che sta pagando gli errori per la sua inesperienza ma che non ha mai commesso alcun reato. […] Voglio ribadire, dalla casa di tutti i peruviani, il palazzo del governo, che sono un democratico che rispetta la Costituzione, le istituzioni, il giusto processo, lo stato di diritto e l’equilibrio dei poteri. Continuerò a lavorare instancabilmente, per promuovere la riattivazione e la crescita economica per raggiungere ogni angolo del paese con opere e sviluppo che generino l’eguaglianza che tanto desideriamo».

Parole del tutto condivisibili, ma clamorosamente disattese poche ore dopo con il suicidio politico dell’autogolpe.

Per il Perù, tuttavia, quella dell’ex presidente Castillo non è una storia particolarmente originale viste le disavventure giudiziarie dei predecessori (Alejandro Toledo, Ollanta Humala, Alan García, Pedro Pablo Kuczynski, Martín Alberto Vizcarra). Eppure, il male oscuro del paese non pare trovare genesi nei suoi presidenti. Stando a un’inchiesta di Ipsos Perù (del 22 settembre), è il Congresso a essere considerato come la più corrotta tra le istituzioni peruviane e quella che meno agisce per combattere la corruzione. Molto netto è anche il giudizio del Centro Bartolomé de las Casas secondo il quale «il sistema politico nel suo complesso sta attraversando un processo di disprezzo, disaffezione e diffidenza che mina la fattibilità della democrazia in Perù».

Dina Boluarte

La presidente Dina Boluarte, della quale i manifestanti chiedono le dimissioni. Foto Andina.

Alla massima carica dello stato è subentrata la vicepresidente Dina Boluarte, avvocata di 60 anni con un percorso politico tortuoso alle spalle (era alleata di Castillo). Nella storia del paese, è la prima donna ad assumere la carica di presidente, il 131° in 201 anni di vita repubblicana. Dovrebbe rimanere nel ruolo fino alle prossime elezioni anticipate, ma su quando esse avverranno, al momento (6 febbraio) non c’è accordo: il Congresso ha bocciato più volte l’anticipo a ottobre 2023, tanto da spingere la stessa presidente a presentare un progetto di legge per stabilire la data. Fin dall’inizio, la sua presidenza è stata segnata, soprattutto nel Sud del paese (Puno e Cusco, in particolare), dalle proteste di piazza (blocchi stradali, invasioni di strutture pubbliche, incendi di commissariati e tribunali, saccheggi di negozi e supermercati) di chi rifiuta l’imposizione del nuovo corso politico. Proteste che hanno lasciato sul terreno almeno una sessantina di morti, una ventina nella sola giornata del 9 gennaio (dati Defensoria del pueblo). I manifestanti hanno sempre respinto le accuse di aver fatto ricorso, per primi, alla violenza incolpando gruppi d’infiltrati che avrebbero agito per screditarli. Difficile appurare la verità, anche se varie fonti confermano che «los Ternas» (poliziotti del «Grupo Terna» che agiscono in borghese) siano stati particolarmente attivi durante le manifestazioni. Quello che è certo è che le forze dell’ordine hanno risposto con una violenza ingiustificata. Come denunciato anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e dalla (pur timida) Organizzazione degli stati americani.

«Basta», è stato costretto a titolare El Comercio, il quotidiano dell’élite peruviana dopo la citata giornata del 9 gennaio. Il giornale ha scritto che molti manifestanti (non – si noti bene – la gran parte o la maggioranza di essi) sono scesi in strada in maniera pacifica e che «la risposta dello stato non è stata la più adeguata». «È necessario – ha scritto il quotidiano la República in un suo editoriale («Paren la matanza») – che si fermi il massacro, nel quale sono coinvolti un governo che si disinteressa, usa la violenza in maniera indiscriminata e agisce come se nulla stesse accadendo, e un Congresso incapace e che volta le spalle alla realtà» (10 gennaio).

Più netto César Hildebrandt, uno dei più noti giornalisti peruviani, secondo il quale non c’è nulla di eroico nella resistenza di una presidenta rifiutata dal 70% dei cittadini (secondo inchieste Iep e Ipsos). Sul settimanale da lui diretto, si legge (3 febbraio): «Ogni giorno c’è più tensione tra la presidente della repubblica e il capo del consiglio dei ministri (Luis Alberto Otárola). Questo rende ancora più debole un governo che deve affrontare un Congresso inamovibile e l’indignazione della strada. Il paese sembra un tunnel senza uscita».

Andare alle elezioni quanto prima è una soluzione suggerita (3 febbraio) anche da The Economist, il noto settimanale internazionale (che certamente non è una voce vicina alla sinistra).

Centinaia di manifestanti radunati davanti alla cattedrale (barocca) di San Carlos Borromeo, nella piazza principale di Puno, il 9 gennaio 2023. Foto Juan Carlos Cisneros – AFP.

Lima e gli altri

Gianni Vaccaro, cooperante italiano di area cattolica che abita con la famiglia peruviana alla periferia di Lima, ci dice: «Capisco i manifestanti. La popolazione che ha votato per Castillo – quella del mondo rurale, del Sud andino e della sierra in generale – sostiene che il suo voto non è stato rispettato e per questo chiede che presidenta e Congresso se ne vadano».

«Questa – sostiene il nostro interlocutore – è una manifestazione storica, perché è il mondo rurale che protesta, proprio contro i privilegi di Lima, che ovviamente è indifferente. Per Lima intendiamo la sede rappresentativa dell’élite di sempre, quella che, dal 1821 (anno dell’indipendenza, ndr), ha ereditato il colonialismo spagnolo per esercitare un colonialismo interno». Si è parlato – obiettiamo – anche d’interferenze esterne (dei paesi vicini e dell’ex presidente boliviano Evo Morales): «Un’altra volta l’idea coloniale, classista e razzista che, se il mondo rurale protesta, è perché qualcuno lo sta manipolando».

«Non può essere – conclude – che il Congresso, simbolo della Lima escludente e razzista, abbia sempre la partita vinta». D’altra parte, se quasi il 60% dei cittadini considera giustificate le proteste della piazza significa che anche Puno, Cusco e la sierra fanno parte del Perù.

Paolo Moiola


IL PERÙ SU MC
Paolo Moiola, Wilfredo Ardito Vega, Gianni Vaccaro, Perù, 1821-2021. Duecento anni sono pochi, dossier, agosto-settembre 2021,.


La Chiesa peruviana davanti alla crisi

Mons. Carlos Castillo celebra la messa nella cattedrale di Lima avendo sull’altare le fotografie delle 49 persone morte durante le manifestazioni (15 gennaio 2023). Foto Ernesto Benavides – AFP.

«il popolo sovrano ha diritto di decidere»

Una società al limite della guerra civile non poteva non trovare riflessi all’interno della Chiesa cattolica del paese. Proviamo a ripercorrere le tappe di questa escalation di eventi drammatici.

In dicembre, poche ore dopo il tentativo di golpe, la Conferenza episcopale della Chiesa cattolica (Cep) – istituzione ancora forte nel paese andino – emette un comunicato per stigmatizzare «la incostituzionale e illegale decisione del signor Castillo» ed esprimere fiducia nelle istituzioni democratiche.

La novità più interessante è, però, il comunicato interreligioso del 22 dicembre. «Interreligioso» nel senso pieno del termine visto che è sottoscritto da tutti i rappresentanti delle confessioni religiose presenti nel Perù: dai cattolici agli evangelici (di varie denominazioni), dagli islamici agli ebrei, dagli ortodossi ai mormoni.

«Riconosciamo la dura crisi sociale e politica, che non è di oggi, ma ha radici profonde in una storia di disparità e disuguaglianze», si legge nelle prime righe. La richiesta dei firmatari è precisa: «La grave situazione richiede uno sguardo che non si riduca solo all’immediato, ma si estenda alle politiche di lungo e medio periodo, dove l’istruzione e il lavoro siano l’elemento centrale, per il bene di tutti i peruviani». Il documento si conclude con queste parole: «Chiediamo pace, tranquillità, unità e riconciliazione sulla base di un ampio processo di ascolto e dialogo nazionale».

Meno legata alla situazione politica peruviana, ma sicuramente significativa, è invece la lettera di auguri natalizi firmata da mons. Héctor Miguel Cabrejos Vidarte, presidente sia della Cep che del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano). In essa, il prelato sottolinea, infatti, la necessità di far fronte ai bisogni di «coloro che non hanno le tre T assicurate “Techo, Trabajo, Tierra” (tetto, lavoro, terra)».

Successivamente, davanti alle decine di morti di Juliaca (Puno, 9 gennaio 2023), la Conferenza dei vescovi peruviani denuncia gli eventi «come conseguenza della distorsione del diritto alla protesta, facendo ricorso all’illegalità; e, per altro lato, per l’uso eccessivo della forza (da parte di forze armate e polizia, ndr). Entrambe le situazioni sono da condannare e per entrambe occorre, prontamente, individuare i responsabili. È necessario distinguere le giuste proteste dal resto […]. Camminiamo uniti per costruire la pace nel nostro amato Perù».

Ancora più significativa è la celebrazione nella cattedrale di Lima di domenica 15 gennaio. Per l’occasione, sui gradini che portano all’altare principale vengono collocati sei pannelli con le foto delle vittime degli scontri. Mons. Carlos Castillo, arcivescovo della capitale e primate del paese, legge i nomi di tutti i 49 morti (le vittime fino a quel momento, ndr) e tiene un’omelia che, pur incentrata sul dolore per le morti e la violenza, non risparmia nessuno.

«Oggi mediteremo su cosa significhi tutto ciò che sta accadendo. Alla Chiesa compete una riflessione fondamentale di natura spirituale. Le indagini, le interpretazioni politiche, economiche e sociali, corrispondono ad altri ambiti. Noi non andiamo né a destra né a sinistra, né al centro, noi andiamo in fondo».

«Ci sono modi pacifici di organizzarci per risolvere le grandi necessità di ogni regione povera del Perù – dice ancora l’arcivescovo -. Non abbiamo bisogno di liquidare lo Stato che tanto è costato per costruirlo e che oggi  viene osteggiato per interessi meschini ed egoistici».

Tre giorni dopo, in occasione del 488.mo anniversario della fondazione di Lima, lo stesso arcivescovo officia una messa e un Te Deum con la presenza della presidenta Dina Boluarte, del sindaco Rafael Lopez Aliaga e del presidente del Congresso José Williams. A dimostrazione che la Chiesa peruviana, in questo drammatico momento storico, ha scelto di ricoprire una posizione super partes. Così, nel comunicato del 20 gennaio, i vescovi del Perù offrono la propria disponibilità «per mediare e per costruire ponti d’incontro».

Pochi giorni dopo, davanti alla presidenta è molto esplicito mons. Paolo Rocco Gualtieri, da pochi mesi nunzio apostolico nel paese andino: «Quando una parte della società cerca di godere di tutto ciò che il mondo offre come se i poveri non esistessero, questo, a un certo punto, ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza dei diritti degli altri, prima o poi, provoca qualche forma di violenza inaspettata, come stiamo assistendo in questi giorni» (25 gennaio).

Se le gerarchie cattoliche – a parte qualche eccezione – sono legate a una sorta di diplomazia dell’equidistanza, meno lo sono alcuni sacerdoti. Come padre Luis Zambrano, prete diocesano e parroco della parrocchia Pueblo de Dios a Juliaca, diocesi di Puno, luogo del massacro del 9 gennaio: «Sono d’accordo che la via d’uscita più urgente sia che [Dina Boluarte] si dimetta dalla presidenza e faccia qualcosa affinché anche il Congresso si sciolga e si tengano le elezioni generali nel 2023. Si tratta di darle un consiglio affinché faccia quel gesto di distacco, quella rottura necessaria, pensando al futuro del Perù. […] Sarà un primo passo che calmerà un po’ l’attuale sconvolgimento sociale. Il tempo delle parole è passato. Ora solo un gesto può alleggerire questa situazione estrema».

In una situazione che non trova vie d’uscita condivise, il 3 febbraio anche la Chiesa ufficiale rompe però gli indugi attraverso un nuovo comunicato della Cep: «Il popolo sovrano ha diritto di decidere sui destini della nostra patria attraverso elezioni trasparenti e giuste per rinnovare i poderi esecutivo e legislativo».

Paolo Moiola

Mons. Cabrejos, presidente della Cep e del Celam. Foto Conferencia episcopal peruana – Cep.




Velo, pallone e turbante


Tutto è iniziato con la rivolta delle donne contro l’obbligo del velo. Poi, sono arrivati i mondiali di calcio con le proteste (più caute) dei calciatori. Il clero sciita al potere ha risposto con la repressione e la violenza. Basterà per fermare un popolo stanco della dittatura teocratica?

Nella prima partita dei mondiali di calcio in Qatar, quando la nazionale iraniana e la nazionale britannica sono entrate in campo, il primo pensiero è andato a come si sarebbero comportati i giocatori dell’Iran.

A cantare subito l’inno, lunedì 21 novembre, sono stati gli inglesi. Per la prima volta, hanno intonato a un mondiale «God save the king». Quando lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato l’inno iraniano, sono partite le note. Ma, in solidarietà con le proteste, nessuno degli undici calciatori ha cantato i suoi versi:

«Verso l’alto, all’orizzonte, sorge il sole orientale / La luce negli occhi dei credenti nella giustizia / Bahman è lo zenith della nostra fede / Il tuo messaggio, oh Imam, d’indipendenza, libertà / Oh martiri, i vostri clamori risuonano nelle orecchie del tempo / Duratura, continua ed eterna / La Repubblica islamica dell’Iran!»

Di fronte alle bocche cucite dei calciatori, i tifosi iraniani hanno reagito in modo diverso tra loro. Ci sono state donne – con il velo – che non hanno trattenuto la commozione per il gesto dei giocatori, ritenuto coraggioso. Dalla tribuna c’è stato invece chi ha contestato fortemente la scelta della squadra, rivolgendo il dito medio o il pollice in direzione del campo. In realtà, le contestazioni ai calciatori non sarebbero state fatte solo perché essi si sono astenuti dal cantare l’inno, ma anche perché due giorni prima erano stati convocati dal presidente della Repubblica islamica Ebrahim Raisi (in carica dal 3 agosto 2021, ndr) e davanti a lui si erano inchinati. L’impressione è stata, quindi, che i giocatori abbiano voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte, compiacendo sia le autorità iraniane sia i loro connazionali che rischiano la vita protestando in strada. Per questo motivo, in quella partita, sui social, tanti iraniani e iraniane hanno fatto il tifo per la squadra avversaria. Hanno vinto loro, gli inglesi, e già questo è stato uno smacco perché, da sempre, il Regno Unito interferisce nelle questioni interne all’Iran.

Elnaz Rekabi, campionessa iraniana di arrampicata, ha gareggiato senza velo in segno di protesta contro il regime e di solidarietà con le donne. Foto dal web.

Inglesi e americani

Nel 1953, furono i servizi segreti inglesi, il cosiddetto MI6, a rovesciare il premier Mohammad Mossadeq che stava trasformando l’Iran in una monarchia costituzionale, percorrendo un cammino democratico. Due anni prima il politico iraniano, esponente del Fronte nazionale, aveva osato nazionalizzare il petrolio, fino a quel momento ampiamente sfruttato dagli inglesi, che agli iraniani lasciavano le briciole. Dopo due anni di embargo, con l’industria petrolifera allo stremo, Mossadeq fu rovesciato da un colpo di stato. La Cia si prese il merito di quella operazione, passata alla storia con il nome «Ajax». Come, però, ben racconta il documentario «Coup53» del regista Taghi Amirani, fu in realtà la spia inglese Norman Derbyshire (1924-1993) a fare in modo che lo scià Muhammad Reza Pahlavi potesse tornare sul trono del pavone.

Rimesso al potere dagli occidentali, per contenere il dissenso, lo scià creò la polizia segreta Savak che mise in atto una durissima repressione nei confronti degli oppositori. Seguirono decenni segnati da gravi violazioni dei diritti umani, tollerati dall’Occidente perché lo scià era un loro alleato.

A Doha, Al Thani (a destra), emiro del Qatar, presenta la maglia della sua nazionale di calcio a Ebrahim Raisi, presidente iraniano (21 febbraio 2022). Foto Iranian Presidency – AFP.

Il velo di Masha Amini

Oggi come allora gli iraniani reclamano diritti e libertà. Le proteste di questi mesi sono state innescate dalla morte di Mahsa Amini. Il 13 settembre 2022 la ragazza viene fermata all’uscita della metropolitana a Teheran, dove si trova in vacanza con i genitori prima dell’inizio dell’anno accademico. «Studiava microbiologia, voleva diventare dottore», racconterà il padre alla Bbc. Forse le spunta una ciocca di capelli dal velo. Forse indossa pantaloni troppo stretti, oppure si intravede un pezzo di caviglia. Fatto sta che trasgredisce il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica, imposto con maggiore severità – rispetto al passato – dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento inclemente anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte.

Mahsa ha ventidue anni e vive a Saghez, un’area rurale nel Kurdistan iraniano (zona occidentale del paese), dove l’abbigliamento tradizionale non risponde a codici rigorosi. È, quindi, poco avvezza alle retate della Gasht-e Ershad, la «buoncostume» che si sposta con le camionette bianche contraddistinte da una fascia verde orizzontale. Quel 13 settembre è una giornata soleggiata. Quando Mahsa viene presa di mira dalle poliziotte, il fratello minore (di diciassette anni) cerca di proteggerla. Invano. Malmenato, si ritrova con gli abiti stracciati. Le poliziotte caricano Mahsa sulla camionetta e la portano nel centro di riabilitazione, dove le chadorì (in questo caso le filogovernative con il chador nero dalla testa ai piedi) insegnano alle bad-hejabì (le «mal velate») come vestirsi. La ragazza viene picchiata e il giorno stesso entra in coma. Dopo tre giorni, il 16 settembre, muore nell’ospedale Kasra di Teheran. Il decesso viene dapprima imputato a un «arresto cardiaco» e poi definito un «incidente», dovuto a «malattie pregresse» e in particolare alle «conseguenze di un tumore al cervello di cui aveva sofferto quand’era bambina», una patologia che i genitori negheranno. Nel frattempo, la notizia si diffonde sui social media. La televisione di stato manda in onda due brevi video per dimostrare che non ci sarebbe stato contatto fisico tra gli agenti e la ragazza. Nel primo, in quello che, verosimilmente, è un commissariato di polizia, si vedono numerose donne. Una di loro, presentata come Mahsa Amini, si alza per discutere con una poliziotta in merito al proprio abbigliamento, dopodiché sviene. In un altro video, il corpo della giovane viene trasportato verso l’ambulanza.

Intanto, visto che la morte della ragazza suscita indignazione tra gli iraniani in patria e all’estero, il presidente Ebrahim Raisi incarica il ministro dell’Interno di aprire un’inchiesta. Il capo dei medici legali di Teheran dichiara alla televisione di stato che le indagini sono in corso e che ci vorranno tre settimane. Le autorità intimano alla famiglia di seppellire Mahsa la notte, per evitare assembramenti. Ma i genitori decidono altrimenti e sabato 17 il funerale nella città natale di Saghez si trasforma in una manifestazione di protesta. I manifestanti si riuniscono davanti agli uffici governativi.

Saeed Piramoon, noto giocatore iraniano di beach soccer, fa il gesto di tagliarsi i capelli in segno di protesta e solidarietà con le donne del suo paese. Foto dal web.

Un potere repressivo e corrotto

Quelle scatenate dalla morte di Mahsa Amini sono le manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.

La causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è solo l’obbligo del velo di per sé, ma anche la grave crisi economica e – soprattutto – l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente. La violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che l’allontana sempre di più dai suoi giovani e dal suo popolo.

Tra gli slogan di questi mesi, i dimostranti hanno scandito Zan, zendeghì, azadì («Donna, vita, libertà») e Na be hejab-e ejbari («No al velo obbligatorio», imposto dal 1979), Na be ‘amame («No al turbante», portato dai religiosi del clero sciita).

Un gruppo di donne iraniane pro-regime protestano davanti all’ambasciata tedesca a Tehran (1 novembre 2022).
Foto Atta Kenare – AFP.

Nika e Sarina

Nonostante fin dall’inizo le forze di sicurezza disperdano i manifestanti usando i lacrimogeni, le proteste si diffondono rapidamente in tutto l’Iran. Nel giro di qualche giorno coinvolgono tantissime città e cittadine. Mahsa era una ragazza di provincia, non abitava nei quartieri chic di Teheran Nord; quindi, è facile identificarsi in lei e nel dolore della sua famiglia. A morire, e a diventare un simbolo delle proteste, sono anche le adolescenti Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh. Nel caso di Nika, nel certificato di morte ottenuto dai reporter di Bbc Persian si legge che il decesso sarebbe dovuto a «ferite multiple causate da percosse con un oggetto duro». La versione ufficiale della magistratura di Teheran è, invece, che sia morta «dopo essere caduta da un edificio». In un altro caso, nelle proteste a Karaj, a Est della capitale, le forze di sicurezza uccidono la sedicenne Sarina Esmailzadeh.

Per la prima volta nella storia dell’Iran, nelle manifestazioni di piazza gli uomini sono accanto alle loro donne. In ogni caso, le iraniane si stanno dimostrando decisamente più coraggiose degli uomini. Anche nello sport. Pensiamo a Elnaz Rekabi, la campionessa di arrampicata che, nei campionati di Seoul, gareggia senza velo in segno di solidarietà. A distanza di qualche settimana si viene a sapere che la casa della sua famiglia, assai benestante, è a rischio esproprio e per questo è obbligata a tacere. Inutilmente: la casa viene demolita.

Non si tratta di una novità del governo dell’ultraconservatore Raisi: le stesse misure intimidatorie erano state prese negli scorsi anni nei confronti del filosofo Ramin Jahanbegloo, rilasciato su cauzione, e di tanti altri intellettuali che avevano criticato il sistema politico iraniano e avanzato l’ipotesi di una qualche riforma. Ma intanto Elnaz Rekabi si è tolta il velo in pubblico e il suo gesto, pagato a caro prezzo, ha lasciato il segno.

A Los Angeles, uno striscione si augura che le proteste iraniane si trasformino in una rivoluzione. Foto Craig Melville – Unsplash.

Le donne del cinema si schierano

Nelle proteste del 2022 le iraniane si stanno dimostrando più coraggiose degli uomini anche nel mondo della cultura. Pensiamo alla regista Rakhshan Bani-Etemad che in un video ha dichiarato: «Se fino ad oggi sono stata zitta e non ho detto una parola, è stato solo per affetto materno e amore incondizionato. Non mi sono concessa di parlare perché non volevo che il mio sostegno alle legittime proteste dei giovani cagionasse anche solo un morto in più. Ma la vostra violenza non conosce fine e non conosce confini. In ogni angolo di questo paese, ovunque, scorre il sangue di giovani e bambini abbattuti come passerotti in volo. Quanto ancora dovremo pazientare? Fin dove potremo sopportare? Governare un popolo straziato, inconsolabile, ferito, disarmato e ignorato… Quale merito o valore può mai avere? Io mi auguro solo una cosa: se il sangue versato da tutti questi giovani nel corso di tutti questi anni ancora non vi ha fatto rinsavire, che la morte di Kian [Pirfalak], bambino innocente di appena nove anni, vi tolga il sonno per il resto della vostra vita».

A causa di questo video, a causa di queste parole, la figlia della regista è stata convocata dalla magistratura di Teheran: il regime se la prende spesso anche con i familiari di coloro che osano esprimere il dissenso. Rakhshan Bani-Etemad ha sessantotto anni e vive nella capitale iraniana. Tra i registi della sua generazione, è la donna di maggior spicco.

È andata peggio a Mitra Hajjar, una delle attrici iraniane più conosciute, arrestata lo scorso 3 dicembre. E, mentre scriviamo, pare correre rischi anche un’altra nota attrice iraniana, Shaghayegh Dehghan.

Con i pasdaran alla finestra

Le difficoltà economiche sono al centro delle proteste. In Iran un litro di latte costa l’equivalente di 90 centesimi di euro, una pagnotta 30 centesimi, un chilo di pollo tre euro. Ma un maestro porta a casa uno stipendio equivalente a soli 250 euro. Con l’inflazione al 41 per cento, tirare a campare è complicato.

È difficile prevedere quale esito possano avere le proteste in corso. La macchina repressiva funziona molto bene, purtroppo. La variabile è rappresentata dai pasdaran, ovvero dalle Guardie rivoluzionarie istituite dall’ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979. Fedeli alla sua ideologia, sono loro a controllare l’economia e a reprimere il dissenso. Tenuto conto che in questi quarantatré anni il clero sciita non è stato in grado (o forse non ha voluto) di far crescere una nuova generazione di teologi a cui passare il testimone, potrebbero essere loro – i pasdaran – a prendere il potere nel caso in cui i manifestanti riuscissero a scalfire la repubblica degli ayatollah. Si passerebbe così da una repubblica islamica a una repubblica non più a carattere religioso, ma dominata dai militari. Dalla padella alla brace.

Farian Sabahi

L’autrice

  • Farian Sabahi è iranista, islamologa, professore universitario e giornalista professionista. È autrice di numerosi articoli scientifici e saggi pubblicati da editori italiani e internazionali. Questa è la sua prima collaborazione con MC. Sito: www.fariansabahi.com

La guida suprema Ali Khamenei interviene sulle proteste di piazza (12 ottobre 2022). Foto Iranian leader Press office – AFP.


Repressione, esecuzioni, resistenza

La teocrazia impicca (ma barcolla)

Mohsen Shekari è stato impiccato l’8 dicembre, accusato di moharebeh («avversione verso Dio»). Aveva attaccato un basij (miliziano volontario) in una manifestazione del 25 settembre. Il 12 dicembre è toccato a Majidreza Rahnavard, giustiziato dopo soli 23 giorni dal suo arresto. Risulta difficile scegliere gli aggettivi più adatti per definire il comportamento dei teocrati islamisti che tengono in ostaggio l’Iran e il suo popolo. Mentre scriviamo, i morti di queste proteste che vorrebbero diventare rivoluzione sono 458 (compresi 60 bambini e 29 donne, al 12 dicembre, secondo il sito di Iran human rights), con migliaia di persone arrestate in un crescendo di tensioni.

Durante i mondiali di calcio del Qatar, la protesta dei calciatori della squadra iraniana è durata lo spazio della prima partita. Nelle due successive, anch’essi si sono dovuti adeguare alle pressioni e minacce del regime, cantando (sussurrando) l’inno nazionale, anche su spinta dell’allenatore, il portoghese Carlos Queiroz, accusato di essere al servizio del regime dal sito Iran wire.

A inizio dicembre, poco dopo la demolizione della casa di Elnaz Rekabi (la climber che, in Corea del Sud, aveva osato gareggiare senza hijab), è stata fatta circolare la notizia della soppressione del corpo della «polizia morale», prima responsabile della morte di Masha Amini. Negli stessi giorni, nonostante repressione, vendette e condanne a morte per impiccagione, è stato proclamato uno sciopero generale che, nelle città, ha avuto adesioni altissime. Il governo islamista è in difficoltà internamente e isolato a livello internazionale.

Lo scorso 19 luglio, il leader supremo, l’ayatollah Ali Kamenei, aveva incontrato a Teheran Vladimir Putin per esprimere il proprio appoggio alla Russia contro «l’aggressione della Nato». Peraltro, nonostante le smentite, è assodato che l’Iran fornisca a Mosca droni da combattimento per sostenere la sua guerra contro l’Ucraina.

A dispetto di tutto questo e delle sanzioni imposte al paese, con l’Iran la diplomazia internazionale rimane cauta per due ragioni di banale real politik: le immense risorse petrolifere del paese e l’incertezza rispetto al suo arsenale nucleare. Nel frattempo, tocca soprattutto alle donne iraniane combattere a volto scoperto e mani nude contro gli uomini del regime teocratico.

Paolo Moiola

Una camionetta della famigerata polizia morale (Gasht-e Ershad), che ha arrestato anche la giovane Masha Amini. Foto dal web.




Inferno, purgatorio, paradiso

testo di Paolo Moiola |


Come non bastassero le devastanti conseguenze dell’embargo Usa, sull’isola si è abbattuta la pandemia e la penuria di beni primari. Molti cubani sono scesi in piazza per protestare contro il governo, trovando l’appoggio (interessato) del presidente Biden.

Tra Miami, cuore scintillante della Florida, e l’Avana, capitale di Cuba, ci sono meno di 400 chilometri. E oltre 60 anni di percorsi politici e culturali diversi, anzi opposti: capitalismo versus socialismo. Messa così, è facile arrivare a conclusioni tanto perentorie quanto parziali: ricchezza contro sopravvivenza, libertà contro autoritarismo.

In questi ultimi mesi, sulla piccola isola caraibica ci sono state manifestazioni antigovernative. Con immediate reazioni di giubilo tra la vasta comunità cubana di Miami e sulla maggior parte dei media (compresi quelli italiani). Per capire meglio la situazione, proviamo a ricordare qualche elemento dimenticato o – forse volutamente – trascurato.

Scolare di Trinidad con in mano «Granma», il quotidiano ufficiale dell’isola. Foto Jaume Escofet.

243 nuove misure

Iniziamo con l’embargo degli Stati Uniti, conosciuto come «el bloqueo» e vigente (con modalità variabili e crescenti) dal 1960.

Le conseguenze più disumane sono quelle derivanti dall’applicazione del Cuban democracy act del 1992 (Cda, conosciuto anche come legge Torricelli, dal nome del suo proponente).

È da questa norma che derivano le restrizioni più dure sui rifornimenti di medicine e di attrezzature medicali per Cuba. Se prima erano vietate le esportazioni dirette dagli Usa di quei beni, con la nuova legge vengono vietate anche le vendite dalle sussidiarie estere delle aziende statunitensi. Inoltre, in base al Cda, le navi che abbiano fatto scalo a Cuba non possono attraccare nei porti Usa per sei mesi. Una norma scandalosa e ingiustificabile, senza se e senza ma.

Eppure, a tanti l’argomento del bloqueo risulta indigesto: «È una scusa da sempre utilizzata dal regime per giustificarsi», affermano.

Tutto può essere, ma che l’embargo (economico, commerciale, finanziario) contro l’isola non produca effetti nefasti sulla quotidianità dei cubani è negare l’innegabile. Purtroppo, se Barack Obama aveva iniziato ad allentare le sanzioni, Donald Trump le ha rese ancora più dure introducendo altre 243 (leggasi «duecentoquarantatre») misure (e – negli ultimi giorni del suo mandato – ha addirittura inserito il paese tra gli stati sponsor del terrorismo).

Per comprendere meglio cosa possa comportare l’embargo degli Stati Uniti, prendiamo alcuni dei provvedimenti introdotti da Trump nell’ultimo anno della sua presidenza (non per amore della libertà e della democrazia, ma nel prosaico intento di guadagnare i voti della folta comunità cubana della Florida, circa 1,5 milioni di persone su un totale di 2,3 milioni presenti in Usa). Essi colpiscono le due principali entrate in dollari dell’isola: le rimesse e il turismo.

Il 26 ottobre 2020, il Tesoro Usa ha emendato il Cuban assets control regulations allungando la lista (Cuba restricted list) delle entità cubane (società, ministeri, uffici) con cui le compagnie statunitensi non possono avere rapporti. Tra queste anche Fincimex, sussidiaria di Gaesa, il conglomerato d’imprese che farebbe capo alle Forze armate rivoluzionarie di Cuba. La Fincimex è la controparte finanziaria della Western Union, l’azienda statunitense di trasferimenti di denaro.

Cubani davanti a un ufficio di Etecsa, la compagnia telefonica statale. Foto Ian Southwell.

A causa del divieto governativo, lo scorso 27 novembre la compagnia Usa si è vista costretta a chiudere i suoi 407 uffici distribuiti sull’isola, colpendo migliaia di cubani che sulle rimesse fanno affidamento.

Per quanto concerne il turismo, dopo aver proibito le crociere nel giugno 2019, il 28 settembre 2020 il Dipartimento di stato degli Usa ha reso nota una lista di 433 hotel cubani, legati o controllati dal governo de l’Avana, in cui ai cittadini statunitensi è stato fatto divieto di soggiornare. Agli statunitensi è stato inoltre proibita l’importazione di rum e sigari, i prodotti cubani più famosi.

Come sappiamo, Trump è poi uscito di scena essendo stato sconfitto da Joe Biden. Il neo presidente non ha però cambiato registro (smentendo, almeno fino a ora, le promesse fatte a settembre 2020, durante la sua campagna elettorale).

Il giorno seguente alle proteste dell’11 luglio, in una prima nota (White House statements and releases) Biden ha espresso vicinanza al popolo cubano («We stand with the Cuban people»).

Pochi giorni dopo, durante una conferenza stampa con Angela Merkel, è stato più esplicito affermando che Cuba è uno stato fallito («failed state») che reprime i suoi cittadini (fonte: Cnn).

Nella nota del 22 luglio, ha affermato che «gli Stati Uniti stanno con i coraggiosi cubani che sono scesi in piazza per opporsi a 62 anni di repressione sotto un regime comunista». Insomma, un crescendo inarrestabile di accuse da parte del nuovo presidente Usa.

Un cartellone del governo cubano contro l’embargo (el bloqueo), definito strumento di genocidio. Foto Diego Battistessa.

La battaglia del web

Consueto campo di battaglia è la narrativa: a chi credere? Al racconto fatto dagli Usa o a quella del governo de l’Avana? La connessione internet non è
risolutiva come spesso si crede. Nei giorni precedenti alle manifestazioni, molti gruppi anti castristi degli Stati Uniti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram, Telegram e WhatsApp) per incitare alla protesta antigovernativa. Quando questa è scoppiata, gli stessi social media l’hanno amplificata. Per questo il governo de l’Avana ha oscurato internet per 72 ore, salvo poi ripristinarla.

Introdotta soltanto nel 2018 e rafforzata nel luglio 2019, la connessione web è oggi presente sui cellulari di cinque milioni di cubani (fonte: Bbc).

A Cuba, opera una sola compagnia telefonica, la statale Etecsa. Lo scorso 17 agosto il governo ha pubblicato il decreto legge n. 35 e la risoluzione 105 sulle comunicazioni e la cibersicurezza per regolamentare internet. Gli avversari sostengono che le nuove norme servono per limitare la libertà d’espressione.

L’amministrazione Biden sta cercando soluzioni tecniche per sottrarre internet al controllo governativo. D’altra parte, non va dimenticato che lo strumento del web può aprire le porte all’informazione, ma molto spesso anche alla disinformazione e alle fake news.

Per dirla in altri termini, internet è uno strumento a geometria variabile: quando fa comodo, è la panacea di ogni male; quando gli interessi sono diversi, è il diavolo.

184 voti a favore

Davanti all’offensiva di Biden, il presidente cubano Miguel Díaz-Canel, l’ingegnere (nato nel 1960) che è succeduto ai fratelli Castro, ha risposto chiedendo al presidente Usa di eliminare le misure dell’embargo statunitense nei confronti dell’isola.

Una dose di «Abdala», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

Che esso costituisca una causa fondamentale dell’emergenza e non una «scusa» del governo de l’Avana ne è convinta anche la comunità internazionale. Lo scorso 23 giugno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha, infatti, chiesto la fine del blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti verso Cuba. La risoluzione si aggiunge alle 28 adottate dal 1992, quando l’organo dell’Onu ha iniziato a votare annualmente sulla questione. La condanna dell’embargo ha ottenuto questa volta 184 voti a favore, due contrari (Stati Uniti e Israele) e tre astenuti (Colombia, Brasile e Ucraina).

Nel corso del dibattito, il ministro degli esteri di Cuba, Bruno Rodríguez Parrilla, ha affermato che l’embargo è una violazione massiccia, flagrante e sistematica dei diritti umani del popolo cubano e ha aggiunto che, secondo la Convenzione di Ginevra del 1948, «esso costituisce un atto di genocidio». Si tratta, ha detto, di «una guerra economica di portata extraterritoriale contro un piccolo paese già colpito nel recente periodo dalla recessione e dalla crisi economica mondiale causata dalla pandemia, che ci ha privato di entrate essenziali come quelle derivanti dal turismo». «La pretesa di Cuba è di vivere senza l’embargo e che venga cessata la persecuzione dei nostri legami commerciali e finanziari con il resto del mondo», ha sottolineato il ministro (fonte: sito Nazioni Unite).

Una dose di «Soberana 2», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

A parte lo storico embargo statunitense, da un anno e mezzo su Cuba si è abbattuto anche il Covid-19 e le sue conseguenze economiche. Senza valute forti a causa del crollo del turismo internazionale, l’isola ha dovuto affrontare da sola la pandemia. È riuscita a contenerla per merito del suo sistema sanitario pubblico, povero di mezzi (scarseggiano anche le siringhe), ma dotato di un vasto e preparato capitale umano (medici, infermieri, tecnici, ricercatori). Dei cinque vaccini cubani, il «Soberana 2», il «Soberana plus» e l’«Abdala» hanno evidenziato di essere efficaci. A inizio settembre il governo de l’Avana e l’Oms hanno iniziato a discutere sull’autorizzazione internazionale degli stessi.

Vale la pena di rammentare che, nel corso del 2020, in piena pandemia, due brigate mediche di Cuba vennero a portare aiuto anche in Italia.

Yoani Sánchez e Frei Betto

Yoani Sánchez, la dissidente cubana più nota e più ricercata dai media internazionali, racconta la situazione sull’isola sul proprio sito web, tenuto con il marito Reinaldo Escobar: 14ymedio.com, assieme a cubalex.org, il più serio (e sovvenzionato) tra i siti antigovernativi.

Nei suoi articoli pubblicati sul New York Times e su la Repubblica (22 luglio), la giornalista ha commentato i fatti dell’11 luglio senza un solo cenno all’embargo, come non esistesse e non sortisse effetto alcuno. A lei noi preferiamo di gran lunga il brasiliano Frei Betto, frate domenicano, teologo (della liberazione) e scrittore, da 40 anni frequentatore dell’isola.

In una sua lunga e appassionata lettera, il religioso ha scritto: «Se in Brasile sei ricco e vai a vivere a Cuba, conoscerai l’inferno. Non potrai cambiare auto ogni anno, acquistare abiti firmati, viaggiare spesso all’estero per le vacanze. […] Se appartieni alla classe media, preparati a vivere il purgatorio. Nonostante Cuba non sia più una società nazionalizzata, la burocrazia persiste, bisogna pazientare nelle code ai mercati, molti prodotti disponibili questo mese potrebbero non essere trovati nel prossimo a causa dell’instabilità delle importazioni».

«Se, invece, sei uno stipendiato, un povero, un senzatetto o un senzaterra, preparati a conoscere il paradiso. La Rivoluzione ti garantirà i tre diritti umani fondamentali: cibo, salute e istruzione, ma anche alloggio e lavoro. Potresti rimanere con l’appetito per non riuscire a mangiare ciò che più ti piace, ma non avrai mai fame. La tua famiglia avrà istruzione e assistenza sanitaria – compresi gli interventi chirurgici complessi – totalmente gratuiti, in quanto questi servizi sono un dovere dello stato e un diritto di ogni cittadino».

Il cardinale Jaime Ortega Alamino, morto nel 2019, è stato per oltre tre decenni una figura chiave a Cuba. Foto Diario de Cuba.

Il ruolo della Chiesa

La Chiesa cattolica di Cuba ha sempre rivestito e riveste un ruolo fondamentale sull’isola, come unico interlocutore credibile con il potere centrale.

«Non possiamo chiudere gli occhi o girare lo sguardo». Così iniziava il comunicato dei vescovi cubani del 12 luglio, il giorno seguente alle manifestazioni di protesta sull’isola. In esso i vescovi hanno criticato immobilismo e imposizioni, reclamando invece un ascolto reciproco. Nel corso della sua esistenza, l’ex leader cubano Fidel Castro (1926-2016) ha incontrato tre pontefici: Giovanni Paolo II nel gennaio 1998, Benedetto XVI nel marzo 2012 e Francesco nel settembre 2015. In queste visite, l’affermazione più emblematica è stata, forse, quella pronunciata da Giovanni Paolo II, il 25 gennaio 1998: «Che Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba».

Tutti i viaggi papali sono stati organizzati dal cardinale Jaime Ortega, arcivescovo di l’Avana per quasi 36 anni (1981-2016), poi sostituito dal cardinale Juan de la Caridad García Rodríguez. Ortega, scomparso nel luglio 2019, è stato un protagonista assoluto della storia dell’isola, ma le sue posizioni concilianti non sono mai piaciute ai cubani espatriati, in particolare a quelli residenti in Florida. Costoro sono arrivati al punto di accusare il prelato di «ripulire la faccia al regime» (lavar la cara al régimen).

Dall’altra parte, mons. Ortega trovava un interlocutore preparato. Fidel conosceva infatti la dottrina cattolica e la Chiesa. In gioventù, aveva studiato per anni negli istituti dei gesuiti: prima al collegio Dolores a Santiago, poi a quello di Belén all’Avana.

La sua posizione religiosa è stata oggetto di varie interpretazioni. Una delle più originali è, senza dubbio, quella dello storico Loris Zanatta, che lo ha definito «l’ultimo Re cattolico», come recita anche il titolo di un suo libro (Salerno editrice, Roma 2020). «Fidel – vi si legge tra l’altro – è innanzitutto gesuita, poi rivoluzionario, infine marxista». «Non è strano – scrive ancora – che il monarca comunista del XX secolo sia erede ideale dei monarchi cattolici del passato: crebbe su un’isola che fu Spagna per secoli, in un ambiente familiare e sociale ispanico e cattolico».

Oggi a Cuba ci sono governanti diversi, sicuramente meno carismatici dei precedenti. Anche le circostanze storiche sono radicalmente mutate. Per tutto questo, mai come oggi, il futuro dell’isola non è pronosticabile. L’unica certezza è che non sarà facile.

 Paolo Moiola

Papa Giovanni Paolo II con Fidel Castro nella visita a Cuba del gennaio 1998.

Papa Francesco con Fidel Castro nella visita a Cuba del settembre 2015. Foto Alex Castro.

Papa Benedetto XVI con Fidel Castro nella visita a Cuba del marzo 2012. Foto L’Osservatore Romano.