I Perdenti 59. Il «cura gaucho», san José Gabriel Brochero

testo di Don Mario Bandera |


José Gabriel del Rosario Brochero nacque a Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) probabilmente il 16 marzo 1840, sebbene sia stato registrato all’anagrafe un giorno dopo, quando ricevette il battesimo. I genitori, Ignacio Brochero e Petrona Dávila, erano poveri ed ebbero dieci figli. José, il quarto nato, si fece prete e tre delle sue sorelle seguirono la vita consacrata, entrando tra le Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli.

Morì contagiato dalla lebbra il 26 gennaio del 1914. È stato beatificato da papa Francesco (suo conterraneo) il 14 settembre 2013, e successivamente canonizzato, sempre da papa Francesco, il 16 ottobre 2016.

Il discernimento vocazionale di Brochero, iniziato nell’infanzia, fu lungo e travagliato. Un suo amico, Ramón José Cárcano, testimoniò di averlo spesso udito esprimere dubbi e incertezze sul suo diventare sacerdote. Alla fine, José Gabriel entrò nel collegio seminario «Nuestra Señora de Loreto» a Cordoba il 5 marzo 1856, a sedici anni. Il 4 novembre 1866, fu ordinato sacerdote dal vescovo José Vicente Ramírez de Arellano.

Da novello sacerdote, José Gabriel fu impegnato su tre fronti:

  • fu collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba;
  • fu instancabilmente attivo nel soccorso agli ammalati e nell’assistenza ai moribondi quando nel 1867 scoppiò nella provincia di Córdoba, come nella capitale Buenos Aires, un’epidemia di colera;
  • servì come prefetto agli studi del seminario maggiore avendo ottenuto nel 1869 il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba.

Nel novembre 1869, fu destinato alla parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Qui si dedicò anima e corpo all’evangelizzazione della popolazione della vasta zona, alla cura degli infermi e anche all’organizzazione della società civile, promuovendo la costruzione di strade, ponti in pietra e persino una linea ferroviaria, tutto per ottenere dei collegamenti più rapidi con la città capoluogo di Córdoba e non lasciare nell’isolamento la popolazione di cui si prendeva cura.

Dicono che la tua morte fu causata dalla lebbra presa visitando i lebbrosi, ma il tuo servizio di sacerdote era già iniziato mentre era in corso un’altra grave epidemia.

Proprio così. Nel 1867, l’epidemia di colera aveva devastato la città di Córdoba colpendo oltre 4mila persone. Pensai che fosse naturale per me, come sacerdote, andare di casa in casa consolando e sostenendo le famiglie, assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati, e dando una sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia.

Due anni dopo, era il 18 novembre 1869, fosti incaricato della cura d’anime in una parrocchia nel cuore della pampa.

Era la parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Vi giunsi da Córdoba dopo tre giorni di viaggio in sella alla mia mula malacara (faccia brutta). San Alberto era una parrocchia di poco più di diecimila anime, che si estendeva su un’area di oltre 4mila chilometri quadrati, popolata da gauchos, ovvero i cow boy dell’America del Sud, che erano addetti alle grandi mandrie di bovini e ovini loro affidati, sia nella pampa che sulle montagne, da semplici contadini attaccati alla loro terra e anche infestata da bande di briganti. Le comunicazioni erano molto difficili, soprattutto a causa della mancanza di strade percorribili tutto l’anno e alla presenza di ostacoli naturali come le catene montuose delle Sierras Grandes.

Un anno dopo il tuo arrivo, accompagnavi già uomini e donne a Córdoba per far compiere loro gli Esercizi spirituali secondo il metodo di Sant’Ignazio.

Una volta arrivato, la prima cosa che feci fu di dedicarmi anima e corpo alla gente, vivendo come loro e stando vicino a loro in ogni modo. Anche il mio modo di vestire si adattava all’ambiente. Mi vestivo come un gaucho con un poncho sulle spalle che copriva la talare, stretta in vita da una cintura di cuoio. In testa avevo un cappello dalle ampie falde; in mano il libro di preghiere e il messale, tenuti insieme con un nastro rosso per non perderli durante i viaggi.

Sigaretta in bocca, usavo un linguaggio semplice e diretto, molto colloquiale, e a volte forte, per farmi comprendere da gente analfabeta che parlava solo il dialetto. Mi chiamavano il cura gaucho perché sapevo cavalcare e domare muli e cavalli come loro. Così visitai tutte le famiglie e davo una mano a tutti, sia dal punto di vista materiale che spirituale. Passavo ore a confessare, e i miei preferiti erano i poveri, perché «Dio è dappertutto, però è più vicino ai poveri che ai ricchi. È come i pidocchi». I prediletti dei pidocchi sono proprio i più miseri, gli indigenti, quelli che non si lavano, né si vestono bene e non hanno cibo a sufficienza.

Oltre alla povertà materiale c’era ovviamente tanta povertà spirituale.

Per questo mi impegnavo molto nella predicazione attraverso visite nelle case, anche quelle più lontane. Mi fermavo anche due giorni in una famiglia, radunando amici e vicini, per avere tempo per confessioni, catechesi e messa. Cercavo di farmi invitare nella casa della «persona più condannata, più ubriacona e ladrona della zona, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente sarebbe venuta ad ascoltarmi. Se fossi invece andato da una buona famiglia, quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi spirituali».

Esercizi spirituali? Ma non sono cose da preti, frati e suore?

Gli Esercizi, ispirati a sant’Ignazio di Loyola, «sono una via e un metodo particolarmente prezioso per cercare e trovare Dio, in noi, attorno a noi e in ogni cosa, per conoscere la sua volontà e metterla in pratica», mettendo ordine nella propria vita. Per chi accettava la proposta, organizzavo carovane per raggiungere Córdoba. Tali carovane superavano a volte le cinquanta persone, e d’inverno erano spesso sorprese da tormente di neve. Dopo le asperità del viaggio e grazie al clima di amicizia che si creava fra loro in quei giorni di ritiro, molti decidevano di cambiar vita.

Dato che il viaggio era lungo e difficile, pensasti di fondare una casa per Esercizi spirituali a Villa del Tránsito, la cui costruzione, avvenuta con la collaborazione attiva dei tuoi parrocchiani, durò dal 1875 al 1877.

Vero, e a quella casa fece seguito, nel 1880, una scuola per le bambine, perché non sopportavo l’idea che il mondo delle ragazze adolescenti fosse tagliato fuori dal progresso che stava arrivando anche nel cuore profondo dell’Argentina.

Spronasti la gente anche a costruire nuove strade, ponti in muratura, uffici postali e persino una ferrovia, ma lo sforzo maggiore lo dedicasti alle scuole rurali. Migliorando le possibilità di comunicazione e accrescendo la loro cultura aumentavi il benessere comune.

Bisogna dire che lungo tutta la mia vita ho profuso instancabilmente il mio impegno civile e religioso per spingere i miei parrocchiani alla costruzione di infrastrutture per migliorare le comunicazioni e uscire dall’isolamento. Nelle località più isolate, soprattutto, stimolavo anche a far sorgere case di accoglienza per i poveri e gli infermi oltre a scuole rurali per i bambini e i ragazzi più bisognosi.

Nemmeno il freddo o la pioggia ti facevano desistere dal promuovere incontri di catechesi per la formazione del tuo popolo e portare I sacramenti agli ammalati.

«Altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», ripetevo alla mia gente.

Un giorno però il vescovo ti volle con sé nella città di Córdoba e ti nominò canonico della cattedrale.

Nell’aprile del 1898 accettai di essere nominato canonico della cattedrale di Córdoba e lasciai quindi la parrocchia il 30 maggio. Lo feci solo per obbedienza e perché la mia salute non era molto buona, sperando di potermi curare meglio in città. Ma la città non era per me e il 25 agosto 1902 fui nuovamente nominato parroco a Villa del Tránsito, dove rientrai il 3 ottobre, rinunciando al canonicato.

Per quanto gratificante fosse il ruolo di canonico della cattedrale, sentivo sempre più impellente la necessità di stare vicino alla gente per alimentare in essa la speranza di un futuro migliore e vivere con dignità la sua esistenza, specialmente quella dei più poveri.

Rientrato a Villa, hai continuato a scegliere quelli che erano in condizioni più difficili, senza guardare a rischi personali.

La vita dei più poveri era più importante della mia. E i più poveri erano i lebbrosi. Sì, nella mia parrocchia c’erano anche lebbrosi che erano abbandonati da tutti, ma Dio non li aveva dimenticati. Per questo li visitavo regolarmente. Tra di loro c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Riuscii ad avvicinarlo e lo visitavo regolarmente: gli portavo da mangiare, lo pulivo e bevevo il mate con lui. Era il mio modo per dimostrargli quanto valesse agli occhi di Dio.

Bevendo il mate con lui ti sei preso la lebbra.

Sì, visitando i lebbrosi sono diventato anch’io lebbroso. Ho dovuto lasciare la parrocchia e ritirarmi presso una mia nipote, perché ero diventato molto debole e quasi cieco. Io che una volta ero come un cavallo di razza, pieno di energia, dovevo farmi aiutare per le mie necessità e anche per celebrare la messa. «Ma è un grandissimo favore che mi ha fatto Dio Nostro Signore liberandomi completamente dalla vita attiva e lasciandomi solo con la vita passiva, voglio dire che Dio mi ha dato come occupazione… di pregare per gli uomini passati, per quelli presenti e per quelli che verranno fino alla fine del mondo».

Il «cura gaucho» morì, o meglio visse la sua Pasqua, a Villa del Tránsito il 26 gennaio 1914, tre mesi dopo aver scritto una lettera al suo vescovo, in cui diceva: «Ora ho tutto pronto per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

È certo, fosse anche solo per la complicità della comune origine argentina, che papa Francesco ha sempre stimato molto «el cura gaucho». Anzi, c’è da scommettere che quando nella messa crismale del 2013 (la prima nella sua nuova veste di «vescovo di Roma») ha chiesto ai preti di essere pastori zelanti con «l’odore delle pecore», pensava a lui. Come del resto ha lasciato trasparire alla sua canonizzazione, quando lo ha definito: «Pastore che odorava di pecora, che si fece povero tra i poveri, che lottò sempre per stare vicino a Dio e alla gente, che fece e continua a fare tanto bene come carezza di Dio al nostro popolo sofferente».

Nel 1916, in suo onore, la cittadina argentina di Villa del Tránsito dove morì, assunse il nome di Villa Cura Brochero.

Dichiarato venerabile da papa Giovanni Paolo II nel 2004, beatificato da papa Francesco il 14 settembre 2013 dopo il riconoscimento di un miracolo a lui attribuito, è stato canonizzato il 16 ottobre 2016. I suoi resti mortali sono venerati nel santuario della Madonna del Transito, a Villa Cura Brochero, mentre la sua festa liturgica è stata fissata il 16 marzo.

Come ultima sottolineatura segnaliamo che cresce sempre più in Argentina, come in altre parti dell’America Latina una richiesta abbastanza originale: che il santo sacerdote José Gabriel del Rosario Brochero, sia proclamato «protettore per il turismo equestre e per i cavalieri e le amazzoni che lo praticano».

I missionari e missionarie della Consolata lo hanno scelto come loro protettore e modello per questo anno 2021.

Don Mario Bandera




Perdenti 18 don Minzoni martire del fascismo


La sera del 23 agosto 1923 don Giovanni Minzoni, mentre faceva ritorno a casa, fu attaccato da squadristi fascisti e ucciso a bastonate. Aveva trentotto anni. Nato a Ravenna il 29 giugno 1885, cresciuto in una famiglia medio borghese, studiò in seminario e nel 1909 fu ordinato sacerdote. L’anno seguente fu nominato cappellano ad Argenta (provincia di Ferrara ma diocesi di Ravenna), da cui partì nel 1912 per studiare alla Scuola sociale di Bergamo, dove si diplomò. Animato da un profondo amore per la Chiesa e dotato di acuta sensibilità per i problemi sociali, si interessò subito alla vita politica e civile del paese avviando numerose iniziative per i parrocchiani più bisognosi. Le sue opere di carità, unite a un’intensa attività pastorale e sociale, avrebbero fatto di lui un coraggioso leader dell’organizzazione della gioventù cattolica della sua zona. Chiamato alle armi nell’agosto 1916, inizialmente prestò servizio nella Sanità in un ospedale militare di Ancona. Successivamente chiese di essere inviato al fronte dove giunse come tenente cappellano del 255° Reggimento di fanteria. Durante la battaglia del Piave, dimostrò un coraggio tale da essere decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare. Al termine della Grande guerra toò ad Argenta. Aderì al Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, ma ciò non gli impedì di essere amico del sindacalista socialista Natale Gaiba, prima vittima nel 1921 della violenza delle camicie nere fasciste. Questo fatto e altri episodi lo portarono a rifiutare con convinzione l’ideologia fascista e di conseguenza avviare fra i giovani una robusta formazione civica e morale per lo sviluppo della democrazia; una prassi pastorale che in seguito pagò a caro prezzo.

Caro don Giovanni a leggere la tua succinta biografia si capisce subito che per te, il messaggio evangelico non doveva essere solo proclamato, ma bensì calato nella realtà anche in situazioni non tanto propense ad accogliere la Parola di Cristo.

La zona dove sono nato e cresciuto, da secoli aveva fama di essere piuttosto indifferente all’azione della Chiesa. Durante il Risorgimento era un’area franca per i «mazziniani repubblicani», il che è tutto dire! Se a questo aggiungi il carattere «sanguigno» dei romagnoli avrai modo di capire che il nostro universo era (ed è) molto particolare.

Oltre a questo, la tua spiccata sensibilità umana e sacerdotale ti precludeva di percepire il fascismo sotto una luce positiva.

I metodi violenti con cui il fascismo si era impadronito del potere mi impedivano di accettarlo come soluzione dei problemi sociali d’Italia. Nell’ottobre del ’22, per esempio, fui tra i pochi sacerdoti che si rifiutarono di esporre la bandiera tricolore davanti alla canonica per celebrare la marcia su Roma.

Tutto sommato, però, questo era un gesto, per quanto grave agli occhi dei fascisti, abbastanza scontato.

Sì, ma devi tener conto che poco prima avevo rifiutato di esser nominato cappellano della milizia fascista, creando non poco disappunto fra le loro file.

E non solo.

Avevo il «maledetto vizio» di prendere sistematicamente le difese dei braccianti agricoli nelle loro rivendicazioni salariali contro i proprietari terrieri quasi sempre privi di scrupoli, complici, finanziatori e spesso mandanti dello squadrismo fascista.

In Romagna le squadracce fasciste facevano capo a Italo Balbo e proprio ad Argenta avevano ucciso Natale Gaiba, sindacalista socialista.

Con Natale, pur essendo lui un socialista, eravamo in ottimi rapporti. Nella circostanza della sua morte condannai apertamente con parole di fuoco il barbaro assassinio e ignorai le ripetute minacce e gli avvertimenti anonimi che mi arrivarono a raffica.

Si vede che eri proprio immerso nella vita del tuo popolo, ne condividevi fino in fondo le preoccupazioni e desideravi un futuro diverso, in modo particolare per i contadini.

In una lettera a un amico avevo scritto: «Quando un partito (quello fascista, nda), quando un governo, quando uomini in grande o in piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano un’idea, un programma, un’istituzione quale quella del Partito Popolare e dei Circoli Cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre».

Parole forti, non c’è che dire…

Gli avversari mi davano la colpa per l’influenza non solo spirituale ma soprattutto morale che io avevo sui giovani del paese e della zona, ma sono ben lieto che loro seguissero i miei insegnamenti, tutta la mia azione pedagogica era ispirata al Vangelo e non al vanto di appartenere a una razza superiore o a un movimento politico che per imporsi adottava metodi violenti.

Certo è che il coraggio non ti mancava.

Anni prima per la salvezza della Patria, offersi la mia vita condividendo la trincea come cappellano militare insieme a migliaia di altri giovani italiani. Con l’arrivo del fascismo mi accorsi che una battaglia ben più aspra era in atto.

Puoi spiegarti meglio?

Di fronte al Movimento fascista che andava sempre più crescendo, invitai i miei giovani a prepararsi ad una lotta tenace utilizzando un’arma per noi cattolici democratici sacra e divina, ovvero quella dei primi martiri cristiani: preghiera e bontà. Tirarsi indietro equivaleva a rinunciare a una missione fondamentale per la nostra Italia.

Ma per i fascisti queste tue idee erano davvero pericolose.

Per questo il massimo esponente dello squadrismo locale invitava apertamente i suoi sgherri a impartirmi una sonora «lezione di stile», in quanto il mio impegno pastorale era visto come un ostacolo alla piena fascistizzazione della zona.

E così fu…

Infatti a due sicari, qualcuno dice al servizio di Italo Balbo e su mandato della Federazione fascista di Ferrara, venne comandato di prepararmi un agguato e di riempirmi di botte.

funerale-don-minzoni

In un’afosa serata estiva, don Giovanni Minzoni viene aggredito e ucciso a colpi di spranga sulla soglia della sua canonica. Tanto gli esecutori materiali quanto i mandanti del delitto verranno assolti in un processo farsa condotto in un clima intimidatorio e conclusosi a Ferrara nell’estate del 1925. Il «Corriere Padano», giornale fascista di Italo Balbo nell’edizione del 1° agosto 1925, esalta la mirabile e travolgente arringa dell’onorevole De Marsico che porta all’assoluzione di tutti gli imputati.

Bisognerà aspettare il 1947 perché il processo venga rifatto e i responsabili condannati, però ormai il reato è caduto in prescrizione.

Quanto alla Santa Sede, le proteste ufficiali si fanno sentire lungo tutto il ventennio fascista, ma riguardano propriamente gli episodi di aggressione ai singoli o alle organizzazioni e non mostrano alcuna critica di principio all’azione e ai metodi del governo fascista. Del resto Mussolini impone di riappendere il Crocifisso negli uffici pubblici con grande sollievo di gran parte della popolazione. L’Osservatore Romano sorvola sull’assassinio di don Giovanni Minzoni per mantenere gli equilibri che faticosamente si stanno costruendo tra il governo fascista e la Santa Sede.

La salma di don Minzoni riposa oggi nella Chiesa di Argenta, ove è stata trasferita da Ravenna nel 1983. Per quella cerimonia Giovanni Paolo II inviando un messaggio ricordò: «L’eccezionale significato assunto dal sacerdote martire del fascismo per l’intera nazione italiana», additando in don Minzoni un punto di incontro tra i credenti e coloro che, pur privi del dono della fede, ne riconoscono i valori.

Don Mario Bandera

Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso
Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso