Incontro con i Kukama nella capitale amazzonica peruviana


Non è più tempo di nascondersi o di subire passivamente. Come tanti altri popoli, anche i Kukama hanno scelto di uscire allo scoperto per difendere con orgoglio il loro essere indigeni con le proprie consuetudini di vita e credenze. Come testimonia la storia di Rusbell Casternoque, apu (cacique) di una piccola comunità kukama nei pressi di Iquitos che ha lottato lungamente per ottenere il riconoscimento giuridico da parte dello stato peruviano.

Iquitos. Nell’angusto ufficio del Caaap – Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica – non ci sono finestre e fa un caldo soffocante. Dobbiamo accendere il ventilatore anche se il rumore delle pale disturba la conversazione.

L’interlocutore è l’apu (cacique) di Tarapacá, piccola comunità kukama sul fiume Amazonas, vicino a Iquitos. Si chiama Rusbell Casternoque Torres e ha un volto segnato dal sole, folti capelli neri, baffetti appena accennati e un bel sorriso.

Si presenta: «Appartengo a un popolo che risiede in tutta l’Amazzonia di Loreto. Un popolo al quale piace vivere in tranquillità. Avere cibo tutti i giorni. Cerchiamo di essere in armonia con gli esseri spirituali che vivono vicino a noi, nell’acqua e nel bosco. Parliamo con loro attraverso i nostri sabios e curanderos ogni volta che ce ne sia la necessità. Per esempio, quando si tratta di curare una persona».
Rusbell non parla esplicitamente di sumak kawasy, il «buon vivere» indigeno, ma il concetto è quello.

I Kukama sono tra i popoli indigeni più numerosi della regione di Loreto. Si parla di almeno 20mila persone. Abitano principalmente lungo il fiume Marañón. A parte qualche eccezione come quella rappresentata dalla comunità guidata da Rusbell.

La lotta per il riconoscimento

La storia di quest’uomo di 61 anni è a suo modo esemplare. Rusbell e gli abitanti di Tarapacá – 60 in tutto – hanno lottato a lungo perché volevano essere riconosciuti come indigeni e come kukama, un popolo cacciato – alla pari di tantissimi altri – dalle proprie terre ancestrali, per fare spazio alle compagnie petrolifere, del legno o turistiche. Dopo secoli di sottomissione o anonimato, da alcuni decenni i Kukama hanno riscoperto la propria identità e l’orgoglio dell’appartenza.

Oggi Tarapacá è riconosciuta dalla legge peruviana come Comunidad nativa kukama-kukamiria, ma è stato un processo lungo e pieno di ostacoli. «Ci dicevano che siamo troppo vicini a Iquitos, che non parliamo la lingua indigena, che siamo meticci».

La Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata anche dal Perù, nel secondo comma dell’articolo 1 prevede che un criterio fondamentale per essere riconosciuti come indigeni sia il «sentimento di appartenenza», vale a dire l’autoriconoscimento. Nonostante questo fondamento giuridico, Rusbell e la sua comunità – affiancati dagli esperti del Caap – hanno dovuto affrontare vari gradi di giudizio prima di vedere accolta la propria istanza.

Il riconoscimento legale – che spetta al ministero peruviano dell’Agricoltura – ha una conseguenza pratica rilevante: l’ottenimento della «personalità giuridica» da parte della comunità indigena. A partire da questa è possibile chiedere allo stato molte cose: la costruzione di una scuola o di un centro di salute, la fornitura di acqua adatta al consumo e, soprattutto, la titolazione delle terre ancestrali come previsto dall’articolo 89 della Costituzione peruviana.

La proprietà delle loro terre è imprescrittibile, afferma la norma. La realtà mostra però situazioni diverse. L’esempio più clamoroso viene dalla Riserva nazionale Pacaya Samiria (dal nome dei due fiumi che la attraversano).

Sulla loro terra

Inaugurata nel 1982, Pacaya Samiria ha un’estensione di quasi 21.000 chilometri quadrati (come la metà della Svizzera). Situata alla confluenza dei fiumi Huallaga, Marañón e Ucayali, all’interno della cosiddetta depressione Ucamara (Ucayali-Marañón), la riserva è un gioiello di biodiversità. La gran parte dei turisti che la visitano – sono circa 12.000 all’anno, di cui la metà stranieri – non sa però che la riserva si fonda su una serie di ingiustizie. Essa infatti è situata sul territorio ancestrale dei Kukama, ma questi – a parte alcune comunità che hanno resistito – non lo abitano più da quando ne furono espulsi. «Hanno presentato la riserva mostrando gli animali, ma dimenticando gli uomini», commenta Rusbell con una triste sintesi.

All’ingiustizia perpetrata ai danni degli indigeni lo stato peruviano ha aggiunto anche la beffa di permettere l’estrazione petrolifera all’interno della riserva (dal lotto 8X, che dispone di vari pozzi). E, come ampiamente prevedibile, l’attività ha prodotto inquinamento. Come accaduto, fuori dalla riserva, con il lotto petrolifero 192 (gestito dalla canadese Frontera Energy, che ha sostituito l’argentina Pluspetrol Norte) e con l’oleodotto Nor Peruano di Petroperú.

Nell’affrontare l’argomento Rusbell si scalda. Parla con passione. Nelle parole e nei gesti.

«Tutto ciò che viene chiamato investimento in terra indigena è impattante – spiega -. Imprese del legno, imprese turistiche, compagnie petrolifere. Queste ultime sono entrate da più di 40 anni e che hanno fatto? Dicevano che avrebbero portato sviluppo, ma non c’è stato. Anzi, cosa c’è ora nei luoghi dove esse hanno operato? Ecco, qui sta la disgrazia, la disgrazia (lo ripete due volte, ndr). Lo dico chiaramente, con rabbia e collera. Hanno lasciato terre e acque inquinate. Dove andrà la gente a seminare e a pescare?».

I Kukama sono uno dei popoli indigeni che mangia più pesce. L’inquinamento delle acque dei fiumi è per loro un colpo mortale.

«Ci sono – spiega l’apu – molte persone con metalli pesanti nel sangue che stanno morendo lentamente. Per non dire quelli infettati dal virus dell’epatite B. C’è qualcuno del governo che prende posizione per noi? Siamo dei dimenticati».

Rusbell ricorda che la stessa mancanza di consulta previa (consultazione preventiva) con le comunità indigene – prevista dall’articolo 6 della Convenzione 169 (e dalla legge peruviana n. 29785 del 2011) – stava per accadere per il megaprogetto cinoperuviano noto come Hidrovía Amazónica, che mira a realizzare una via navigabile di oltre 2.500 chilometri usando i corsi dei fiumi Marañón, Huallaga, Ucayali e Amazonas. Questa volta non è andata così: la consultazione è avvenuta. Tanto che, a luglio 2017, il governo peruviano ha annunciato di aver sottoscritto 70 accordi con 14 popoli indigeni. Occorrerà però aspettare per dare un giudizio definitivo perché le organizzazioni indigene sono tante e spesso in contrasto tra loro.

E?poi non c’è soltanto questo. Come per altre tematiche, anche per la Hidrovía Amazónica non è soltanto una questione di impatto ambientale e pareri preventivi, ma anche di cosmovisione o, per dirla meglio, di cosmologia amazzonica.

«Ridono di noi»

Quando si entra nel campo della cosmologia amazzonica, non è facile seguire i discorsi di Rusbell. Che abbia una mentalità laica o religiosa, nell’ascoltatore non indigeno prevalgono pensieri dettati dalla razionalità e dalla logica. Tuttavia, la conoscenza della cosmovisione è indispensabile per avvicinarsi alla comprensione del mondo indigeno.

Per i Kukama esistono vari mondi (di norma 5: terra, acqua, sotto l’acqua, cielo, sopra il cielo), abitati da esseri che influenzano – nel bene e nel male – la vita delle persone. Così c’è il mondo in cui viviamo, abitato da gente, animali, piante, spiriti buoni e spiriti cattivi. E c’è il mondo che sta sotto l’acqua, dove vivono sirene, yakurunas (gente dell’acqua) e la yakumama (la madre delle acque rappresentata da un enorme serpente). Così, ad esempio, quando le persone muoiono affogate e non se ne ritrovano i corpi, si dice che sono andate a vivere nel mondo sotto l’acqua. E le famiglie coltivano la speranza di rimanere in contatto con loro tramite gli sciamani. Per tutto questo i Kukama hanno un forte vincolo e un grande rispetto per i fiumi e per l’acqua.

«Altro tema è la nostra credenza: noi crediamo che dentro l’acqua ci siano esseri viventi. Hanno mandato scienziati con apparecchiature sofisticate per cercarli, ma hanno visto soltanto terra. È che vivono in maniera sotterranea: lì stanno. Escono quando i nostri curanderos ne hanno bisogno. Per aiutare a curare. Quanti bambini kukama sono stati rubati dalle sirene e, dopo anni, sono tornati per dire: “Mamita, sono vivo. Non preoccuparti. Là dove vivo mi sono fatto una famiglia”. Siamo orgogliosi di poter dire che noi abbiamo nostre famiglie che vivono sotto l’acqua. Questa è una realtà. Nella mia comunità c’è un vecchietto di 75 anni. Egli parla direttamente con la sirena. Questa esce dall’acqua e conversa con lui in persona. Noi ci crediamo, ma, se lo diciamo ad altri, questi ridono e dicono che siamo matti».

Rusbell parla con convinzione davanti a un interlocutore non sufficientemente preparato in materia. Riesco solamente a domandare se Tarapacá abbia uno sciamano. «Sì, abbiamo uno sciamano che è anche curandero». Poi, per riportare la discussione su livelli più comprensibili alla mentalità occidentale, chiedo a Rusbell come sia diventato apu.

«Si chiama la comunità all’assemblea. Si propongono i candidati. E poi si discute finché ne rimane soltanto uno. Così sono stato eletto anch’io. Sono apu dal 2011. Nel 2019 si riconvocherà l’assemblea che può rieleggermi o cambiare. L’apu è il rappresentante della comunità, la sua massima autorità. Egli però agisce secondo le direttive dettate dalla collettività. Sono aiutato da una giunta comunitaria composta da quattro persone».

La lingua perduta

L’identità culturale di un popolo passa anche attraverso la propria lingua. Chiedo a Rusbell quale sia la sua.

«Parlo kukama e castigliano. Quest’ultima è la lingua più parlata perché il nostro popolo è stato quello più sottoposto alla “castiglianizzazione” da parte dei meticci. La verità è che stavamo perdendo la nostra lingua, ma ora stiamo recuperandola. Stiamo imparandola di nuovo. Per fortuna, sono rimasti alcuni vecchietti che parlano il kukama, ma non lo usavano più per vergogna. E poi ci sono alcuni insegnanti bilingue che stanno insegnando ai nostri bambini».

Lo metto in difficoltà quando gli domando una conclusione in lingua kukama. Ride. «No, no, non sono in grado. Sto ancora imparando».

Rusbell Casternoque, apu di Tarapacá, non parla (per ora) la lingua madre, ma non per questo è un meticcio. È un kukama e lo rivendica con orgoglio.

Paolo Moiola


La responsabile del Caaap di Loreto

Dimenticati e inquinati

Dimenticati dallo stato, i popoli indigeni si trovano ad affrontare le conseguenze
dell’inquinamento di fiumi e territori. Anche per questo molti di loro emigrano verso le città dove però trovano discriminazione e altre difficoltà. Conversazione con l’avvocata Nancy Veronica Shibuya, che con il Caaap combatte al loro fianco.

Iquitos. Nel 1974 nove vescovi cattolici dell’Amazzonia peruviana crearono il «Centro amazzonico di antropologia e di applicazione pratica» (Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica, Caaap), un’associazione civile che aveva l’obiettivo di servire le popolazioni emarginate, in particolare i popoli indigeni.

Nancy Veronica Shibuya è una giovane avvocata di 36 anni che dal 2012 lavora con il Caaap come responsabile della regione di Loreto. Quando la incontro nell’ufficio di Iquitos mostra un atteggiamento molto professionale, ma già dalle sue prime risposte traspare la passione per quello che fa, per i diritti che ogni giorno cerca di difendere o conquistare.

Veronica, quali sono i problemi principali dei popoli indigeni?

«Sono tanti. A iniziare da quelli che debbono affrontare nei loro territori a causa di  attività estrattive, deforestazione, inquinamento da petrolio. Quest’ultimo è tremendo perché colpisce in maniera diretta attraverso l’acqua, la terra, l’aria.

Oltre ai problemi ambientali che sono quelli più urgenti, ci sono quelli dovuti al mancato rispetto dei diritti alla salute e all’educazione come per tutti gli esseri umani. E ancora quelli sociali: alcolismo, prostituzione, tratta di persone».

Tratta di persone?

«Certo. Ci sono giovani donne indigene che sono state rapite e portate in altre zone del paese o fuori del paese. La regione di Loreto è nota anche per questo».

Si dice che un indigeno abbia verso la natura una sensibilità molto superiore a quella di un non indigeno. È una realtà o un mito?

«È così: esiste una differenza di sensibilità molto marcata. Un cittadino vede il taglio degli alberi come una necessità per avere legno. Al contrario, un indigeno ha molte difficoltà a tagliare un albero perché questo può avere un significato particolare o naturalistico o spirituale. Lo stesso vale quando s’inquina una laguna dato che per gli indigeni l’acqua significa vita, alimento, continuità. Il cittadino comune lo vede semplicemente come un reato e nulla più.

È difficile riuscire a comprendere la mentalità indigena che vede gli essere umani connessi con l’ambiente, le piante e gli animali. Nel momento in cui riusciremo a comprendere questo, riusciremo a comprendere anche il rapporto tra gli indigeni e l’Amazzonia».

L’Amazzonia è veramente in pericolo?

«Chiaro che è in pericolo. Un pericolo costante dovuto alla depredazione e alle minacce derivanti da megaprogetti, attività estrattive, indifferenza dello Stato. E parlo non soltanto dell’Amazzonia peruviana, ma dell’intera Amazzonia. Non sappiamo se, da qui a qualche anno, un ambiente come questo esisterà ancora».

 Quando non vince l’indifferenza, prevalgono frustrazione e impotenza. Che si può fare?

«Finché non sensibilizziamo ogni persona a rispettare l’ambiente circostante, poco o nulla possiamo fare. Certo, non dipende soltanto dal singolo individuo, ma dalla collettività nel suo insieme. E poi è necessario che lo stato assuma il suo ruolo a difesa dell’Amazzonia, delle risorse, dei popoli che vi vivono, esseri umani che meritano lo stesso rispetto che noi esigiamo».

Che tipo di lavoro svolge il Caaap?

«Il nostro lavoro con le comunità indigene è multidisciplinare. Significa che esse ricevano non solo un’assistenza tecnica e legale, ma anche formativa».

Esempi concreti di assistenza quali possono essere?

«L’assistenza legale può riguardare i rapporti giuridici con le istituzioni dello stato, ad esempio sulle questioni legate alla terra. Quella tecnica per spiegare come funziona qualcosa, ad esempio – per rimanere sull’attualità – il progetto di idrovia amazzonica. La formazione, infine, avviene con incontri e assemblee sulle tematiche più varie».

Come scegliete le comunità presso cui operare?

«Passando attraverso le organizzazioni indigene. Come Acodecospat (Asociación cocama de desarrollo y conservación san Pablo de Tipishca) di cui fanno parte 63 comunità kukama. O come Acimuna (Asociación civil de mujeres de Nauta) che raggruppa donne kukama discriminate o maltrattate. O ancora come Oepiap (Organización de estudiantes de pueblos indígenas de la amazonía peruana) in cui confluiscono studenti indigeni di varie etnie. Recentemente abbiamo iniziato a lavorare affiancando il Vicariato San José del Amazonas con le popolazioni indigene della conca del Putumayo. Ci sono Ocaina, Kichwa del Napo, Yaguas e Huitoto».

Veronica, non esiste un pericolo di neocolonialismo?

«Io credo che sia un problema sempre latente. Finché tutti i popoli indigeni non saranno consapevoli dei loro diritti esisterà questo pericolo».

Come Caaap lavorate molto con i Kukama.

«Sì, perché qui è l’etnia più diffusa. Negli anni hanno perso la propria lingua, rimasta viva soltanto negli anziani. Oggi però lottiamo al loro fianco per un’educazione bilingue. Il Kukama vive in stretta connessione con il fiume. Il suo alimento principale è il pesce. Oggi però il Marañón, il fiume lungo il quale vive la maggior parte dei Kukama, è così inquinato che le autorità statali hanno dichiarato che la sua acqua non è adatta al consumo umano e di conseguenza i pesci che in essa vivono.

Dato che il Kukama è un grande consumatore di pesce, le conseguenze dell’inquinamento sono molto pesanti. Tra l’altro, in quanto uomini di pesca, le loro attività agricole sono sempre state limitate. Hanno piccoli appezzamenti di terreno coltivati a riso, juca e platano».

Da tempo si assiste a una migrazione dalle comunità indigene sparse nella foresta amazzonica verso le città come Iquitos. Come lo spiega?

«La migrazione dei popoli indigeni verso la città è dovuta all’abbandono da parte dello stato. Ci sono carenze molto gravi. Pensiamo al diritto alla salute. Le comunità indigene non hanno centri di salute. Non ci sono opportunità di lavoro per gli adulti e d’istruzione per i figli. Le persone emigrano per cercare di soddisfare necessità fondamentali».

Chi emigra in città trova un’esistenza diversa e soprattutto altri problemi.

«Chiaro che c’è differenza tra gli indigeni che vivono nelle comunità e quelli che sono venuti a vivere in città. Nelle comunità c’è una totale di libertà di espressione, in città non è così. Nelle comunità un indigeno sta in contatto permanente con la natura e le sue risorse. È circondato dalla famiglia e ci sono vincoli stretti tra gli uni e gli altri. Venendo in città, la maggior parte degli indigeni si lascia influenzare dalla cultura occidentale. Si ritrova in balia di situazioni che spingono gli indigeni a negare la propria identità culturale. La negano per l’obiettivo di essere accettati in determinati ambiti sociali. La realtà racconta però che la maggioranza degli abitanti è indigena. Se poi glielo chiedi, ti risponderanno: “No, io sono della città”, “No, io vivo a Iquitos”, “No, io sono di Iquitos”».

Mi ha detto che voi lavorate anche con un’organizzazione di studenti indigeni. Per quale motivo?

«Nelle comunità i giovani indigeni non hanno la possibilità di avere un’educazione superiore. Quando alcuni di loro vengono in città ed entrano in un istituto superiore, per essere accettati, negano da dove vengono o chi sono. Anche se l’aspetto fisico o il nome dicono molto, loro continuano a negare.

È una lotta costante contro la discriminazione. Noi come associazione li sosteniamo per rafforzare il loro lato identitario, perché non perdano il senso della loro provenienza e il loro essere. Un esempio. Al contrario dei Kukama, gli Awajún (o Aguaruna della famiglia linguistica jíbaro, ndr) continuano a sviluppare la propria lingua. Eppure, in ambito scolastico o lavorativo anch’essi in generale negano la loro identità».

Voi siete un’istituzione della Chiesa cattolica. In più occasioni papa Francesco ha chiesto perdono per gli errori commessi nei confronti dei popoli indigeni.

«Storicamente, nel processo di evangelizzazione la Chiesa ha commesso molti errori. Ha avuto un atteggiamento impositivo che ha causato molti danni. È stato chiesto perdono. Oggi il volto della Chiesa è cambiato: è una chiesa itinerante, più vicina ai popoli e ai deboli. E il Caaap ne è un esempio concreto».

Paolo Moiola




Il volto indio di Iquitos. Nella capitale amazzonica peruviana

Testo e foto di Paolo Moiola |


Si ipotizza che l’80 per cento degli abitanti di Iquitos, la più grande città dell’Amazzonia peruviana, siano indigeni urbani: Huitoto, Kukama, Kichwa. Non esistono numeri certi perché la maggior parte di loro preferisce tacere sulla propria origine. Quando non è l’aspetto fisico a tradirne la provenienza, lo è quello culturale. Vivono nelle periferie di Iquitos, dove manca di tutto e vivere dignitosamente è un’impresa. Accompagnati da due amici missionari abbiamo visitato il barrio di Masusa e quello delle Malvinas.

Iquitos. Accanto alla pulsantiera dell’ascensore c’è, ben visibile, un adesivo: «No allo sfruttamento sessuale di bambini, bambine e adolescenti. Il nostro hotel protegge il futuro di Loreto». A Iquitos, capitale del dipartimento peruviano di Loreto, la gran parte dei visitatori arriva per le meraviglie della natura (la riserva di Pacaya Samiria, quella di Allpahuayo Mishana, la laguna di Quistococha) e – non si può tacerlo – per il turismo de la pobreza, il turismo della povertà, tale è infatti la visita alla comunità di Belén (definita, con rozzo cinismo, la «Venezia amazzonica»). Altri ancora giungono a Iquitos per provare l’esperienza dell’ayahuasca, la bevanda indigena dagli effetti allucinogeni. Ci sono, infine, i visitatori che arrivano fin qui allo scopo di adescare minori.

La pedofilia non è che uno dei tanti problemi che affliggono la capitale dell’Amazzonia peruviana. È proprio per vedere e capire la città reale che prendo contatto con due vecchi amici missionari: padre Miguel Ángel Cadenas e padre Manolo Berjón, da tre anni tornati nel capoluogo loretano dopo aver vissuto per venti tra le comunità dei Kukama lungo il rio Marañón.

Masusa e gli indigeni urbani

Con un mototaxi – il tipico mezzo di trasporto di Iquitos (le auto sono una rarità, i bus sono pochissimi e scalcinati) – mi reco alla parrocchia della Immacolata Concezione dove i due missionari spagnoli prestano servizio. La loro parrocchia serve il vasto territorio di Punchana, uno dei quattro distretti municipali di Iquitos.

La chiesa della Inmaculada si nota subito, non tanto per i suoi due tozzi campanili, quanto per il suo colore blu elettrico. Miguel Angel e Manolo sono già in strada. Un abbraccio e, su due mototaxi, partiamo subito alla volta del barrio di Masusa. Questo è il quartiere cresciuto attorno al principale porto fluviale di Iquitos, quello sul rio Amazonas.

Scesi dai veicoli, a piedi ci addentriamo nel barrio e nei suoi vari asentamientos humanos (insediamenti umani). Man mano che proseguiamo il contesto urbano si degrada e con esso peggiora a vista d’occhio la situazione di chi vi abita. Dopo qualche minuto di cammino arriviamo in una specie di piazzetta il cui pavimento è fango mischiato con detriti legnosi (scopriremo più in là il motivo). Tutt’attorno abitazioni su palafitte costruite con legno di recupero e dalla struttura visibilmente precaria.

In un angolo sorge la cappella Sagrado Corazón de Jesús, dove una ventina di fedeli e una decina di bambini attendono i padri per la messa domenicale. Dopo la celebrazione, padre Miguel Ángel sollecita le persone presenti a prendere il microfono e a raccontarsi davanti alla telecamera. Si alternano in molti, donne e uomini, probabilmente attratti da quella piccola ma inaspettata opportunità di uscire dall’anonimato, di far sentire la propria voce. Con grande dignità raccontano da dove vengono, cosa fanno, dei problemi quotidiani. Che sono tanti, dalla mancanza di un lavoro a una situazione abitativa subumana.

«Nessuno ha confessato di essere indigeno per timore della discriminazione – commenta poco dopo padre Miguel -. Ma è importante sapere che questa gente proviene da comunità native. Si tratta di indigeni urbani. Secondo noi, arrivano all’80 per cento della popolazione, in particolare qui, nelle periferie. Ci sono persone con tratti somatici indigeni, in altre si notano meno. Però i tratti culturali sono evidenti, soprattutto con riferimento alla cosmologia (la visione del mondo) e allo sciamanesimo». Gli chiedo di farmi qualche esempio. «Una città come Iquitos è piena di “piante che proteggono contro gli spiriti maligni”. Non ci sono cifre precise, ma sappiamo che il numero di sciamani è altissimo. Quando muore qualcuno si cerca un colpevole, anche se il referto medico parla di cancro. Ci sono persone che dicono di “fotografare gli spiriti” con il cellulare. Si lascia che i bambini prendano le proprie decisioni fin da piccoli, frutto di una concezione indigena della persona».

Accanto alla cappella c’è una piccola e tristissima struttura che funge da asilo e i missionari scrollano la testa sconsolati. Pochi passi più in là, un signore attorniato da un nugolo di bambini sta caricando su un motocarro delle taniche di acqua. «Siamo a 300 metri dal rio Amazonas, ma qui non c’è acqua da bere, per lavarsi, per cucinare o per lavare. Non c’è acqua per nulla. Come, d’altro canto, in gran parte della città di Iquitos».

Le «madereras»

Dall’asentamiento humano Alejandro Toledo ci incamminiamo verso quello chiamato Santa Rosa del Amazonas.

Le stradine sterrate su cui camminiamo sono piene di trucioli e segatura di legno.

«Il municipio – spiega padre Miguel – invece di riempire con terra ha permesso alle segherie di usare i loro scarti di lavorazione per rialzare il terreno. Quando arriva la creciente (termine che indica i periodi – normalmente da marzo a maggio – di massima portata del rio Amazonas e dei suoi affluenti, quando le acque esondano, ndr), l’acqua continua a inondare le case, anche se si nota meno perché non compaiono ponteggi e passerelle. Sotto le case a palafitta sono però rimasti grandi vuoti dove si accumulano acqua putrida e rifiuti. Senza dimenticare che gli scarti del legno hanno fatto aumentare la popolazione di topi e di zanzare. Ancora una volta ha vinto l’opportunismo di politici e affaristi a scapito dei diritti dei cittadini». Eccole, le madereras, le segherie, le imprese del legname. Sono state costruite in questa zona per la vicinanza con il porto di Masusa. Il problema è che oggi sono circondate da insediamenti umani densamente abitati. Questo significa che la gente vive in mezzo ai residui della lavorazione del legno, tra cui particelle minuscole che vengono respirate. Allo stesso tempo molti abitanti traggono vantaggio dalla vicinanza delle madereras per recuperare materiale per le loro abitazioni o per costruire esteras (stuoie di legno) da vendere al mercato.

Le segherie hanno barriere d’alluminio che impediscono di vedere all’interno e torrette di guardia agli angoli. Ma per una cinquantina di metri lungo il perimetro c’è ancora una semplice staccionata (probabilmente in attesa di essere sostituita), che consente la visione. Al di là, cumuli di pezzi di tronchi dal diametro enorme. Un bulldozer sta spostando materiale di ogni dimensione.

Attività legale o illegale?, chiedo a padre Manolo. «Sicuro che è illegale – risponde il missionario -. O meglio: può essere che formalmente siano imprese legali, ma quasi sempre estraggono il legno illegalmente. Mi spiego: hanno una concessione per una data zona, ma poi lavorano in un’altra». In cerca di legno prezioso?, insisto io. «Dipende. La verità è che adesso di legno prezioso ne è rimasto veramente poco».

Mentre faccio foto e filmati noto che ci stanno osservando da una baracca che funge da ufficio. Probabilmente la loro è soltanto curiosità.

In ogni caso, a pochi metri di distanza, sull’angolo, un container color verde pallido è stato adibito a stazione di polizia. Lo hanno messo su ruote, in modo che sia a mezzo metro dal terreno sconnesso. Ci hanno ricavato alcune finestrelle e una porta. Dipinto due stemmi: quello del governo di Loreto e quello della polizia. E una scritta rassicurante: Juntos por la Seguridad Ciudadana! (Uniti per la sicurezza cittadina!).

La porta è aperta e così ne approfitto per entrare.

C’è una piccola scrivania, due sedie, un vecchio televisore e due brandine a castello. E soprattutto ci sono due giovanissimi poliziotti che stanno ascoltando musica dal cellulare. Appena mi vedono, abbassano il volume e si mettono in testa il cappellino d’ordinanza. I due mi accolgono calorosamente, nonostante abbia una telecamera in mano.

Mi dicono che sono aperti 24 ore e che intervengono principalmente per casi di violenza familiare e furti. Chiedo della droga di cui tutta l’Amazzonia peruviana è grande produttrice. «Sì – confermano i poliziotti -, c’è spaccio di pasta basica di cocaina. Sono coinvolti molti minori. Una dose costa un sol (25 centesimi di euro, ndr)».

Li ringrazio e raggiungo di nuovo le mie guide. Uno dei due poliziotti ci raggiunge però dopo pochi secondi per chiederci se vogliamo essere accompagnati nel nostro percorso. «No, grazie. Non c’è bisogno», rispondono i missionari. Questa non è una zona frequentata da stranieri, ma i due padri sono conosciuti anche perché qui c’è una delle quattro cappelle della loro parrocchia.

L’insediamento di Santa Rosa è triste e squallido come il precedente con la differenza che è tagliato in due da una via sterrata, usata da qualche veicolo delle segherie. La strada prosegue per qualche centinaio di metri fino a raggiungere il punto dove il rio Itaya sbocca nell’Amazonas. Sulla spiaggia che guarda i due fiumi da una parte c’è una catasta di enormi tronchi d’albero, dall’altra una montagna illegale di rifiuti e davanti a questa, tra l’acqua e la terraferma, un cimitero di vecchi battelli arrugginiti. Giriamo a destra seguendo l’Amazonas e, dopo poche decine di metri, giungiamo al porto di Masusa, conosciuto anche con il nome di puerto Silfo Alvan del Castillo.

I battelli amazzonici

I cancelli sono aperti e non c’è alcun controllo. Sulla riva sono ormeggiati una serie di battelli di medie dimensioni (50-100 tonnellate), all’apparenza tutti piuttosto scalcinati, ma che raggiungono quasi ogni angolo dell’Amazzonia peruviana. Il porto di Masusa funziona per merci e passeggeri.

Oggi c’è poca gente perché è domenica. Tuttavia, ci sono alcuni camion che caricano o scaricano mercanzia.

«Arriva soprattutto frutta e viene imbarcato soprattutto riso per le comunità dell’interno. E naturalmente arriva la droga. Da qui partono anche le persone vittime di tratta per andare verso Lima o la costa dove saranno impiegate nella prostituzione o in lavori illegali. Ci sono sia maschi che femmine e moltissimi di loro sono minorenni. È facile cadere nella tratta di persone. Se sei un ragazzo che vive in una famiglia povera e ti offrono un lavoro in un altro posto, alla fine decidi di partire».

Lasciamo il porto per entrare nell’adiacente mercato di Masusa. È una struttura riparata da una tettornia dove si vendono prodotti alimentari. Sui tavolacci in legno è rimasto poco o nulla perché l’ora è tarda. Su uno ci sono mucchi di zampe di gallina, su un altro razzolano alcuni pulcini.

Usciamo da una porta laterale del mercato per trovarci in un vicolo di sassi e rifiuti. I due missionari debbono fare visita a un’anziana malata. Abita sotto una palafitta, una sorta di pianoterra aperto, senza pareti circostanti, senza porte e finestre. Un tugurio con un pavimento di nuda terra e un soffitto di assi la cui altezza non permette a una persona di stare in piedi. Su un lato di questa stanza improbabile c’è un gruppetto di bambini con gli occhi fissi su un piccolo televisore, dall’altra una signora sdraiata su un vecchio letto circondato da indumenti e medicine. Alla vista dei missionari lei si mette seduta e scambia qualche parola. È anziana e malata, ma il suo viso conserva i segni di un’antica bellezza. Marta, questo il nome, non ha famiglia e sopravvive con l’aiuto dei vicini di casa. Prima dei saluti, chiede a padre Miguel Ángel di ricevere la comunione. Una visita, quella alla signora Marta, che ti prende lo stomaco e che ti lascia senza parole.

Abitare alle Malvinas

Con i consueti mototaxi lasciamo il quartiere del porto. La prossima destinazione è il barrio delle Malvinas. Anche qui, come a Masusa, le condizioni abitative peggiorano man mano che ci addentriamo, in particolare verso l’asentamiento Iván Vásquez.

Percorriamo una calle pavimentata con cemento, tanto stretta che a stento ci passa un mototaxi. Poi la viuzza termina e il luogo si allarga in maniera inaspettata, ma anche poco piacevole. La stradina nascondeva la rete fognaria (acantarillado), che ora invece esce allo scoperto in forma di un fiumiciattolo di acque putride e puzzolenti (desagüe).

È riduttivo definirla una fogna a cielo aperto perché è larga alcuni metri. L’acqua ha un colore grigio, impenetrabile dallo sguardo. È stagnante tanto che i sacchetti di rifiuti gettati sul fondo non si muovono e sono oggetto di attenzione da parte di vari gallinazos – grandi uccelli dalla testa nera appartenenti alla famiglia degli avvoltorni – che vi cercano cibo.

Sulle due sponde della fogna è cresciuta una ininterrotta serie di abitazioni con le persone che all’aperto cucinano, lavano i panni o vendono mercanzie (dal pesce alle banane agli spiedini).

Non è strano che la gente accetti tutto questo?, chiedo alle mie guide. «No, non è strano. Sono venuti da fuori per cercare migliori condizioni di vita ma hanno trovato questo».

Camminiamo lungo il canale finché arriviamo a una curva, dove una conduttura in cemento sbuca dal greto della cloaca. «Ecco questo è il punto più incredibile. Qui fuoriescono i rifiuti dell’ospedale Essalud, che sta a cento metri di distanza», mi spiega padre Miguel Ángel. Vista la situazione, non stupisce che, oltre alla malaria e al dengue, diffuse in tutta Iquitos, qui siano endemiche anche le infezioni respiratorie acute e le malattie diarroiche acute.

Dopo la curva, il fiume-fogna torna diritto proseguendo per alcuni chilometri fino a terminare nel rio Nanay, molto vicino alla confluenza di questo con l’Amazonas. Sulle due sponde sono state poste barriere in legno e sacchi di sabbia per frenare l’acqua nei periodi della creciente, la piena dei fiumi. Per passare da una sponda all’altra gli abitanti hanno costruito passerelle di assi. Ne attraversiamo una per andare a camminare sul lato esterno.

L’insediamento è molto esteso. Tutte le abitazioni sono su palafitte e costruite con assi di legno e tetti in lamiera. I bambini sono ovunque e, come in ogni parte del mondo, trovano il modo di giocare e divertirsi. C’è anche un ampio spazio libero dove in molti stanno seguendo una partita di calcio. Più avanti, nello spazio tra alcune abitazioni, un gruppo di giovani sta giocando a pallavolo.

Dato che non esiste alcun sistema di distribuzione idrica, incrociamo varie persone che, a mano, trasportano secchi d’acqua. «A dispetto di tutto questo – chiosa padre Miguel Ángel -, da qui non vogliono andarsene. Il barrio è vicino al porto. E Masusa è il solo luogo dove molti di loro possono trovare un lavoro: o come scaricatori o come rivenditori dei prodotti più vari. Questa città non offre altro».

Tra invisibilità e indifferenza

Ormai è quasi buio. È ora di tornare indietro. Oggi abbiamo conosciuto due barrios di Iquitos, dove la gente – quasi sempre indigena – vive in condizioni di povertà o di estrema povertà. La maggior parte degli abitanti della più importante città dell’Amazzonia peruviana vive così. Ma rimane invisibile agli occhi dei più. O indifferente, che forse è anche peggio.

Paolo Moiola

 




Amazzonia, opportunità e sfida per religiosi e missionari

Testo e foto di Jaime C. Patias


Rappresentanti di 30 Congregazioni religiose con progetti nella prospettiva pan-amazzonica si sono riuniti, nella città di Tabatinga (Stato di Amazônas, Brasile), sulla triplice frontiera tra Brasile, Colombia e Perù.

L’obiettivo dell’incontro, avvenuto fra il 20 e il 24 aprile, è stato quello di favorire la comunione e rafforzare la missione della Vita Religiosa Consacrata in quella regione. “Qualcosa di nuovo sta nascendo nella missione in questo terreno”.

All’incontro hanno partecipato 90 missionari (sacerdoti, religiosi, religiose e laici), fra cui quattro missionari della Consolata: i padri Fernando Florez (Perù), Joseph Musito (Roraima-Brasile), Jaime C. Patias, Consigliere Generale per l’America, e il diacono Luiz Andres Restrepo Eusse (Ecuador). Ha partecipato anche, suor Maria Teresa, missionaria della Consolata a Roraima. Le presenze dei Missionari della Consolata, nel territorio amazzonico, si situano nel nord del Brasile, in Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela.

I missionari della Consolata in Amazzonia

Presentando il percorso di 70 anni di presenza in Amazzonia (1948-2018), si è fatto memoria dei 50 anni della morte di P. Giovanni Calleri (1968), dei conflitti, delle sfide, persecuzioni e minacce sofferte, così come delle gioie frutto delle conquiste. Nella Regione Amazzonia, oggi ci sono tre esperienze significative che ispirano il futuro della nostra missione: il lavoro nella Terra Indigena Raposa Serra do Sol (Roraima), la Missione Catrimani (fondata nel 1965) e il Centro di Documentazione Indigena (CDI) a Boa Vista. Significativo è anche il lavoro accanto ai popoli indigeni nell’Amazzonia colombiana (dal 1951), in Venezuela, in Ecuador (Sucumbios, dal 2005) e in Perù (2013). Queste esperienze devono essere valutate e ripensate nello spirito della continentalità. Inoltre, data l’importanza della questione amazzonica, le regioni IMC del Brasile e dell’Amazzonia sono chiamate a qualificare la missione.

Il Progetto Missionario IMC del Continente America ha assunto, tra le altre, le opzioni per l’Amazzonia e per gli Indigeni. Per una Congregazione che ha nel suo DNA la missione ad gentes è impossibile essere nel continente americano senza mettere i piedi, il cuore e la testa in Amazzonia. Nel corso degli anni, abbiamo imparato a camminare con i popoli indigeni, con le loro speranze e lotte, le gioie e conflitti, rompendo schemi e frontiere. Oggi vogliamo vivere la missione nel territorio amazzonico, nello spirito della continentalità, in rete con altre congregazioni e organizzazioni. Siamo convinti che questo percorso ci renda più forti e più efficaci. La missione profetica nella Raposa Serra do Sol e la Missione incarnata del Catrimani richiedono missionari senza paura del nuovo, incarnati e aperti al dialogo. La sfida è mantenere vive queste due esperienze che danno visibilità al carisma ereditato dal beato Allamano, e valorizzare il Centro di documentazione indigena (CDI). Per questo riteniamo essenziale la formazione di missionari appassionati della causa indigena e dell’Amazzonia.

Alcuni eventi ci animano, ad esempio, il pontificato di Francesco, la creazione della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonia (REPAM), l’enciclica Laudato sì, il Sinodo speciale per l’Amazzonia, le varie assemblee e i processi in andamento.

L’incontro di Tabatinga è stato promosso dalla REPAM e dalla Confederazione dei Religiosi e Religiose di America Latina e Caraibi (CLAR). L’Amazzonia e i suoi popoli sono fonte di vita per la Vita Religiosa Consacrata. La realtà ci sfida a pensare la missione di forma intercongregazionale e interistituzionale, in un territorio ricco di connessioni. La nostra presenza in Amazzonia è fermento di rivitalizzazione del carisma che ci fa ritornare alle origini della fondazione.

Sinodo per l’Amazzonia

Non potendo raggiungere Tabatinga, il presidente della REPAM, cardinale Claudio Hummes, ha inviato un messaggio di incoraggiamento: «Considero questo incontro molto importante e promettente, nel momento in cui la situazione della Pan-Amazzonia chiede aiuto. Il papa Francesco ascolta questo grido e per questo motivo ha deciso di convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia. Tutti noi che siamo già in questa regione in vista dell’evangelizzazione siamo molto felici per questa decisione. È lo Spirito Santo che ci chiama. La preparazione del Sinodo è già in corso, collaboriamo tutti. Il Sinodo può essere un evento storico che costruirà nuove strade per la Chiesa e per un’ecologia integrale. Ringraziamo Dio per questo kairos che concede alla Chiesa missionaria e gli chiediamo di illuminarci e dare a tutti il coraggio di non avere paura del nuovo».

Jaime C. Patias, IMC




Colombia-Perù. La forma della felicità

Testo e foto di Paolo Moiola |


Non ci sono né acquedotto né acqua potabile. Non ci sono fognature e strade. L’elettricità arriva per quattro ore al giorno. La malaria è la norma. Eppure, a Soplín Vargas, piccolo villaggio di 700 persone (tra indigeni e meticci) sulla riva peruviana del rio Putumayo, si può essere felici. È il sumak kawsay, la forma indigena della felicità. Confermata dai missionari.

Verso Soplín Vargas. Ci imbarchiamo al porticciolo di Puerto Leguízamo. Qui non esiste un servizio di trasporto pubblico. I passaggi sul rio Putumayo dipendono dall’intraprendenza dei singoli. Come fa la signora Teresa, una donna imprenditrice che ha coinvolto nell’attività anche i propri figli. Due volte a settimana la sua vecchia lancia in legno percorre il tragitto tra Puerto Leguízamo e Soplín Vargas, in terra peruviana. Ci accomodiamo tra sacchi di cemento marca San Marcos, scatole e borse della spesa. È stato imbarcato pure un mobile di medie dimensioni. I passeggeri – uomini e donne con bambini – sono tutti peruviani che vengono a fare acquisti sul lato colombiano del fiume, dove i prodotti si trovano più facilmente e più a buon mercato. «Teresa, come va il business?», chiedo mentre lei è ancora sul molo in attesa di altre persone. «Più o meno», risponde lei con una risata. Non esistono orari. L’unica regola è evitare di muoversi con il buio. Raggiunti i 14 passeggeri, Teresa molla la cima e Angelo, uno dei suoi figli, accende il motore. «Ci vorranno poco più di due ore», spiega padre Fernando Flórez, che a Soplín Vargas ha la sua missione.

A pochi minuti dalla partenza passiamo davanti alla base della «Forza navale del Sud» dell’Armada colombiana, che qui ha una presenza di rilievo vista la zona di confine (con Perú ed Ecuador) e la situazione di conflitto armato con le Farc che vigeva fino agli accordi di pace del novembre 2016.

La navigazione procede tranquilla. L’acqua del fiume ha un colore opaco, tra il verde e il marrone, come si notava dall’aereo. Sulle rive la vegetazione è continua ma quasi non ci sono alberi ad alto fusto. Ogni tanto, seminascosta dalla boscaglia, s’intravvede qualche abitazione su palafitte. Le rare imbarcazioni che s’incontrano sono soprattutto peke-peke (il nome deriva dal tipico rumore del motore) appartenenti a pescatori o a famiglie che si spostano lungo il fiume.

Dopo un paio di ore di viaggio, sulla riva peruviana compare un grande cartellone della Marina da guerra del Perú – sul Putumayo ha alcune guarnigioni stabili (come la controparte colombiana) – che annuncia l’arrivo a Soplín Vargas. «Sia Puerto Leguizamo che Soplín Vargas debbono i loro nomi a soldati caduti durante la guerra tra Colombia e Perú che ebbe luogo tra il 1932 e il 1933», mi spiega padre Fernando.

La lancia di Teresa riduce la velocità e si dirige verso un piccolo molo sul quale sono indaffarate parecchie persone. Man mano che ci avviciniamo capisco il motivo di tanto trambusto. Qualcuno sta squartando una vacca e vari dei presenti se ne portano via un pezzo, chi più grande, chi più piccolo. La maggior parte di loro se lo carica sulle spalle per fare più comodamente la ripida scalinata in legno che dal fiume conduce al promontorio dove sta Soplín Vargas. Per questa sua posizione il villaggio è considerato in «altura», che significa non inondabile dal Putumayo.

Noi scendiamo poco più avanti in un posto più scomodo e sconnesso. Gli stivali sono indispensabili per muoversi su un terreno reso fangoso e viscido dalle piogge.

Dopo una camminata in leggera salita su sentieri in terra battuta, arriviamo alla missione. Ad accoglierci è il volto sornione di padre Moonjoung Kim, missionario della Consolata coreano che con padre Fernando opera a Soplín Vargas.

La missione è una piccola casa in muratura posta su un unico piano.

L’entrata dà su un salone dove si svolgono tutte le attività (incontri, messe, feste, celebrazioni). Al fondo dello stesso ci sono quattro porte corrispondenti alle stanze da letto dei due padri, al cucinino e al piccolo bagno.

«Sumak kawsay»

Padre Fernando e padre Kim operano su tutto il distretto denominato Teniente Manuel Clavero, che si estende su un territorio amazzonico molto vasto (circa 9.107 km2). C’è Soplín Vargas, il capoluogo con circa 700 abitanti e una comunità mista di meticci e indigeni. Ci sono due altre comunità meticce e poi 28 comunità indigene: Kichwa soprattutto (21), ma anche Secoya (6) e Huitoto (1). La più piccola, Peneyta, conta soltanto 36 abitanti.

Vista l’ampiezza del territorio, i due missionari sono sempre in viaggio, muovendosi in barca e a piedi. Però, a dispetto di fatica e difficoltà, sembrano in totale armonia con l’ambiente naturale, umano e culturale in cui sono immersi. «La chiesa cattolica – spiega padre Fernando – dovrebbe evangelizzare e il vangelo – anche dal punto di vista etimologico – significa “buona notizia”. In questo pezzetto di Amazzonia noi dovremmo portare buone notizie. Ciò si traduce nel sumak kawsay, tradotto come buen vivir. Tutto ciò che sta a favore della vita è Vangelo, tutto ciò che sta contro la vita va denunciato. Anche per questo io e padre Kim stiamo percorrendo il Putumayo in lungo e in largo: per formare líderes e líderesas che possano essere gestori del buen vivir».

Il sumak kawsay-buen vivir è un concetto affascinante: vivere privilegiando la comunità in un contesto di rispetto dell’ambiente naturale. Affascinante ma difficile, soprattutto per un bianco che, per capirlo ed eventualmente attuarlo, deve spogliarsi di molti preconcetti, di strutture mentali sedimentate, di comodità date per acquisite. Ad esempio, vivere nella foresta amazzonica è un’esistenza unica in ogni aspetto della quotidianità.

«Di acqua ne abbiamo molta – racconta padre Fernando -. Il problema è che spesso non è potabile. È un paradosso, lo so. Siamo sulle sponde del fiume Putumayo, ma il fiume è inquinato. In primis, dall’immondizia: tutto ciò che le comunità producono come immondizia, viene buttato nel fiume. Va detto che l’indigeno è passato in poco tempo da uno scarto naturale (gusci, cortecce, legno) alla plastica. Con la differenza che il primo non inquina, il secondo sì. A Soplín Vargas parte dell’immondizia si raccoglie, ma si butta in un terreno senza alcun trattamento. Non esiste il concetto di riciclaggio. E poi ci sono i reflui umani che anch’essi vanno a finire nel fiume. Qui in pochissimi hanno un gabinetto con una fossa biologica».

Dunque, come ci si procura l’acqua?, chiedo da straniero abituato alle comodità dei bianchi. «Normalmente la gente raccoglie l’acqua piovana in un contenitore, ma altrettanta prende l’acqua da bere direttamente dal fiume. Noi portiamo l’acqua (trattata) in bottiglioni dalla Colombia e, quando la gente sulla barca ci vede, ride di noi. “Fernando, l’acqua del Putumayo non si prosciuga, perché vai a comprarla?”».

Domando della vita quotidiana. «Se non lavorano nella municipalità – spiega padre Fernando -, le persone al mattino vanno a collocare le loro reti nel rio Putumayo per pescare. Durante la notte possono andare a caccia per procurarsi la carne, che poi salano dato che qui non c’è possibilità di congelare i prodotti». Dunque, pesca, caccia, ma anche un’agricoltura di tipo familiare.

«Nelle chagras (o chacras, piccoli appezzamenti di terra) si coltivano – spiega padre Kim – riso, frutta amazzonica e yuca. Quest’ultima è molto usata dagli indigeni, anche per produrre bevande tipiche come la chicha e il masato». Chiedo della coca. «E tristemente si coltiva anche coca – conferma il missionario -. Però, la si coltiverebbe meno, se in altre parti del mondo non si consumasse. Senza dimenticare che gli indigeni la utilizzano anche in alcuni loro rituali tradizionali».

Dopo la cena, nel salone multiuso rimontiamo la tenda sotto la quale dormirò. Occorre approfittare della luce: a Soplín Vargas la corrente elettrica viene erogata per 4 ore giornaliere, dalle 18,00 alle 22,00. La missione non ha un generatore autonomo. Non c’è televisione né collegamento internet. «Però – dicono quasi all’unisono i due missionari – abbiamo vegetazione, tranquillità, persone con le quali si può parlare faccia a faccia senza un telefono che suoni».

Amazzonia, cuore del mondo

Ogni mattino mi alzo anchilosato, ma senza punture. Anche la scorsa notte le zanzare (zancudos o mosquitos) non sono passate dalla mia tenda. Esco subito per approfittare della temperatura sopportabile. Percorro il sentiero – sono poche centinaia di metri – che porta verso il centro del villaggio. Passo davanti alla scuola primaria e secondaria e a un piccolo campo da gioco in cemento. Ancora pochi passi e sono sulla Plaza de Armas di Soplín Vargas. È uno spazio erboso circondato da una stradina pavimentata con lastroni di cemento. Tutt’attorno ci sono il posto di polizia (una baracca in legno di colore verde pallido), il municipio e anche un ufficio del Banco de la Nación.

Incrocio il direttore del collegio. La scuola di Soplín Vargas – chiamata Teniente Luis García Ruiz – conta 108 alunni in primaria e 78 in secondaria. Secondo il direttore, i problemi principali sono quelli della mobilità (degli insegnanti e degli studenti) e i bassi salari. «Non stiamo tanto bene, però stiamo migliorando», conclude. In piazza incontro anche il medico, il dottor Francisco José Rosas Pro, che mi invita a casa sua. Sposato con Rina, infermiera, hanno una bambina. Sono qui dal 2012, ma in attesa di trasferimento.

«Manca molto – racconta il medico – l’appoggio dello stato, soprattutto per quanto concerne i medicinali. Non danno neppure quelli di base come amoxicillina e paracetamolo. Non rispondono alle nostre richieste. Oppure inviano medicinali non richiesti in quantità quando vedono che stanno per scadere».

Gli chiedo delle patologie più diffuse. «A parte la diarrea e problemi respiratori tipici, c’è la malaria, sempre presente. Ogni giorno ci sono pazienti. Spesso scelgo di dare loro i medicamenti anche se l’analisi del sangue è negativa, perché vengono da molto lontano. Qui a Soplín Vargas si tratta principalmente di malaria vivax, ma nei caserios (i villaggi più piccoli) c’è una prevalenza del falciparum» (sulla malaria vedi MC ottobre 2018 pag. 62).

Siamo interrotti per un’emergenza. Lo seguo al puesto de salud (consultorio medico) che dista un centinaio di metri. È una struttura in muratura relativamente grande ma triste e spoglia. Pare abbandonata. Le stanze non mancano, ma sono quasi tutte chiuse e vuote. L’unica aperta e attrezzata è quella sulla cui porta c’è il cartello «Tópico de emergencia». All’interno un paziente, sdraiato sul lettino, lamenta forti dolori al basso ventre. Francisco lo visita. Esce poco dopo. «Probabili calcoli renali. Ho dato dei medicinali e ordinato (all’unica addetta, ndr) una fleboclisi».

Al puesto de salud di Soplín Vargas l’umidità percorre muri e scalini, ma non c’è l’acqua per gli usi normali. «Una delle tante ragioni per cui ho chiesto di essere trasferito», chiosa il medico.

Alla sera racconto della mia visita all’ambulatorio. «Sì, è vero. Qui ci sono molte necessità – ammette padre Fernando -. I governi non si preoccupano della gente di questi territori. Sono interessati soltanto ad accaparrarsi le ricchezze della regione: per queste persone l’Amazzonia è sinonimo di denaro. Per me invece è il cuore del mondo».

Paolo Moiola


Nella comunità kichwa di Nueva Angusilla

«Sì, io sono il cacique»

Sul fiume Putumayo, come su tanti altri fiumi amazzonici, vivono varie comunità indigene. Spesso dimenticate dallo stato centrale.

Verso Nueva Angusilla. Da Soplín Vargas navighiamo lungo il rio Putumayo verso Sud per 140 chilometri. Quando il fiume incontra il rio Angusilla, suo affluente, siamo arrivati alla comunità kichwa di Nueva Angusilla.

L’avamposto militare – qualche casupola dipinta di verde e un’insegna posta sul terreno antistante – sta su un promontorio senza alberi. Ma la posizione è perfetta: all’intersezione tra i due fiumi. Poco più avanti, sul pontile un gruppo di adulti e bambini sono in attesa della nostra lancia. I cartelli di benvenuto tenuti dai piccoli sono per mons. José Javier Travieso Martín: è un’occasione unica perché il vescovo risiede a San Antonio del Estrecho, molto lontano da Nueva Angusilla.

Il villaggio è stato costruito con una struttura rettangolare: il lato libero guarda verso il fiume, sugli altri tre sono sorte le abitazioni. Le case – fatte di assi di legno e tetto di lamiera o di frasche – sono rialzate dal terreno di circa mezzo metro. Al centro, sproporzionata rispetto al resto, c’è la costruzione più moderna, chiamata Centro de Servicio de Apoyo al Hábitat Rural, ma da tutti conosciuta come «tambo». È un progetto del governo peruviano per ospitare – nei luoghi più disagiati – i principali servizi pubblici: registro civile, credito e appoggio tecnico ai contadini, consultorio medico, asilo nido per bambini, consulenza giuridica e altro ancora. Però, a Nueva Angusilla come altrove, c’è solo il contenitore fisico, mentre i servizi mancano o sono molto carenti.

«Qui ci sono circa 120 abitanti. Si vive di agricoltura e pesca. E poi lavoriamo con il legno con cui facciamo assi vendute in Colombia», mi dice gentile ma forse un po’ a disagio Eliseo, un abitante che si sta dirigendo verso il locale comunale – una struttura in legno aperta e con un tetto di frasche – dove il vescovo impartirà battesimi e comunioni.

Cerco il capo, il responsabile della comunità: il cacique, ma meglio sarebbe dire apu o curaca. Eccolo. Statura piccola e volto da giovanissimo, risponde volentieri alle domande anche se con visibile timidezza. «Sì, sono il cacique. Mi chiamo Jackson Kenide Mashacuri Andi e ho 24 anni. La popolazione mi ha eletto come autorità di qui. Mi piace molto stare con la gente per aiutarla a organizzarsi». E con orgoglio aggiunge: «Ho fatto il quinto grado della scuola secondaria e dunque sono capace di difendermi». Precisa che gli abitanti sono 117 che vivono coltivando yuca e platano (banane da cuocere, ndr) e pescando per il proprio consumo. Spiega che, come cacique, fa parte di una organizzazione chiamata Fikapir – Federación Indígena Kichwa Alto Putumayo Inti Runa -, la quale funge da intermediario con le autorità statali.

Chiedo dei problemi che ci sono. «Per la salute non c’è quasi appoggio. Per l’educazione stiamo cercando di avere professori bilingue. Adesso abbiamo soltanto insegnanti meticci che non parlano la nostra lingua. Qui la popolazione parla kichwa». Anche i giovani?, chiedo. «Sì, anche loro. Lo parlano in casa ma non a scuola».

Ci sono problemi di malaria? Fa una smorfia prima di rispondere: «Eh, sì. Soltanto un mese fa c’erano 20-25 persone contemporaneamente con la malaria. Malaria vivax». E c’è la posta medica?, intervengo. «Sì, ma non abbiamo il tecnico».

Oggi è una giornata di festa. Bisogna andare a mangiare. Pollo, riso, platano fritto. Prima di risalire sulla lancia, Jackson mi presenta la sua famiglia per un’ultima foto.

Paolo Moiola


Indigeni e bianchi

Una ciotola di «masato» (per un ipocondriaco)

Tra un indigeno e un bianco le diversità sono evidenti. Soprattutto quelle culturali. L’importante è accettarle, magari con un arricchimento reciproco. Racconto di un piccolo episodio di vita quotidiana.

Nueva Angusilla. Una semplicissima casa in legno rialzata da terra di circa un metro. Nessun mobile, un paio di secchielli (di plastica) con dell’acqua, qualche indumento appeso a fili volanti. Una famiglia numerosa e allargata (genitori, figli, nipoti) accoglie padre Fernando. In quanto amico del missionario, io sono un ospite da onorare come meglio si possa. E il meglio per una famiglia kichwa è offrire una ciotola colma di masato. È – lo confesso – un momento che temevo e che inevitabilmente si presenta. Tremo all’idea di dover ingerire quella bevanda tanto gradita dagli indigeni quanto indigesta per i non-indigeni, soprattutto se occidentali. Bere è un atto dovuto, segno di rispetto, riconoscenza, amicizia. Bere è però anche un rischio certo di avere conseguenze fisiche immediate e sicuramente poco piacevoli. Anni di esperienze negative mi vengono immediatamente alla memoria. Non c’è speranza di farla franca. È quasi matematico.

Il masato (aswa, in kichwa) è il nome di una bevanda molto comune in tutto il bacino amazzonico. È ottenuta a partire dalla yuca dolce (o manioca), una pianta con una radice a forma di tubero, commestibile e ricca di amidi. La sua preparazione è compito delle donne indigene. I tuberi vengono prima pestati e poi bolliti. La pasta ottenuta è quindi masticata dalle donne per provocarne la fermentazione. Da ultimo si diluisce la massa in acqua (quasi sempre di dubbia potabilità) e il masato è pronto per essere bevuto.

Prendo la ciotola di… plastica tra le mani. Appoggio le mie labbra incerte sul bordo. È come se quella bevanda biancastra e veramente poco attraente quasi mi guardasse e mi dicesse: «Bevimi!».

La decisione è repentina ed improvvisa. In un decimo di secondo passo la ciotola nelle mani compassionevoli di padre Fernando. Labbra appena inumidite, ma no, non ce l’ho fatta a bere. Però almeno sono arrivato lì, lì a pochissimo dalla temuta meta.

Cerco nella mia testa due paroline in lingua kichwa: «Yapa alli» (muy bueno, molto buono), dico con un sorriso tanto largo quanto bugiardo a tutti i presenti che sono lì davanti, con gli sguardi fissi su di me. E subito cerco di sviare l’attenzione. Una foto, una foto di tutti con padre Fernando. Sì, mi vergogno, ma il mio stomaco e probabilmente la mia salute sono salvi. Spero sia salva anche la mia reputazione presso quella famiglia kichwa di Nueva Angusilla. Sentendomi come colpevole di un reato, prometto loro che farò arrivare le foto cartacee di quella visita. Temo però che il masato tornerà ancora a materializzarsi davanti a me. Negli incubi notturni o nella realtà.

Paolo Moiola




Lettere dai lettori: cari missionari

Bombe italiane in Yemen

Riguardo agli ordigni prodotti in Sardegna, venduti all’Arabia Saudita e usati dalla coalizione a guida saudita per bombardare lo Yemen, il ministro Roberta Pinotti ha assicurato che l’Italia ha osservato scrupolosamente tutte le norme nazionali e internazionali in materia di produzione e vendita di armi. Io dico invece che la differenza tra un sistema democratico e una dittatura la fa anche la disponibilità ad ammettere i propri errori, la fa anche la voglia di chiedere scusa, la fa anche il desiderio di rimediare ai danni fatti, più o meno consapevolmente, più o meno legalmente.

Uberto Zumpanesi
31/12/2017

Gambo, Etiopia

Buongiorno, io e mio marito siamo appena tornati da un viaggio in Etiopia del Sud, dove abbiamo avuto l’opportunità di stare tre giorni alla missione di Lephis Forest, Ospedale di Gambo. È stata un’esperienza straordinaria, anche se non era la prima volta che visitavamo una missione africana. Vogliamo soprattutto ringraziare Abba Alvaro che, nonostante tutto il daffare che ha, ci ha dedicato il suo tempo prezioso per accompagnarci all’ospedale e alla fattoria. Anche i due volontari italiani presenti e l’infermiera Gabriella ci hanno fatto sentire a casa, ed è stato bello brindare all’anno nuovo alle 20,30 (prima che il generatore si spegnesse dato che il governo non è troppo attento ai bisogni della zona e la corrente è un optional). A breve invieremo una piccola offerta: ci sono tante spese, non guasterebbero dei pannelli solari e delle galline per la fattoria, utili per le uova che sono carissime e servono per nutrire i molti bambini del reparto di pediatria dell’ospedale! Ancora grazie e cari saluti.

Gianna Masoero  e Guido Porta
05/01/2018

Permacultura

Sono un vostro abbonato da anni e vi posso dire che la vostra rivista missionaria è una delle più interessanti che arrivano in casa. Ho letto sul numero di novembre l’articolo «Una prospettiva per guardare il futuro». Un articolo interessante i cui contenuti andrebbero giustamente diffusi in ogni comunità. Vorrei però fare un appunto, se mi permettete, non ho trovato nessun accenno alla nostra alimentazione (riduzione o eliminazione delle proteine animali) non solo per il nostro benessere ma per il benessere di tutti i fratelli del mondo e del pianeta Terra. Una proposta interessante nata negli anni Novanta è la campagna dei «Bilanci di Giustizia».

Il mio sogno da anni è che questi argomenti siano presi a cuore dalle nostre comunità cristiane e inseriti in un vero cammino di fede e di amore dei fratelli. Tanti saluti e buon lavoro.

Daniele Engaddi
10/01/2018

Abbiamo inoltrato l’email all’autrice dell’articolo che ha risposto subito.

Gentile Daniele,
in primis La ringraziamo per essere un fedele lettore e per aver mostrato interesse verso l’articolo incentrato sulla Permacultura. Proprio perché lo scritto, in particolare, verteva sulla progettazione, conservazione consapevole degli ecosistemi e su quelle tecniche agricole più rispettose degli equilibri degli habitat del pianeta, non abbiamo ritenuto opportuno aggiungere un argomento così vasto e complesso come quello dell’alimentazione.

Il rapporto tra tutela dell’ambiente e riduzione/eliminazione delle proteine animali è indubbio, ma questo sarebbe necessario approfondirlo in un altro articolo e uno solo non sarebbe nemmeno esaustivo. Ringraziandola ancora per la sua attenzione, porgiamo cordiali saluti.

Silvia C. Turrin
11/01/2018

Grazie

Caro padre,
non smetta di scrivere e punzecchiare le nostre anime! Io scrivessi come penso, sarei già radiato! Si vede che lei ha superiori più clementi. Tutta la vostra rivista è un dono per noi in questo tempo in cui «anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare».

Don Vincenzo F.
15/12/2017

A proposito di apparizioni e veggenti

Caro Direttore,
[…] nel numero di novembre 2017 avete ospitato la risposta di don Paolo Farinella ad una lettera pervenuta. Sono rimasto basito! È sicuramente degna di rispetto la posizione di don Paolo, ma che un sacerdote parli in questo modo delle apparizioni di Maria, beh, sinceramente fa male; credo che se il beato Giuseppe Allamano avesse visto questa «ospitata» non ne sarebbe rimasto affatto contento… […] Fa veramente male sentire parlare così da parte di sacerdoti delle apparizioni di Maria e mi ha fatto male vedere pubblicato sulla rivista questa posizione.

Benedetto N.
13/12/2017

Prima del sig. Benedetto anche un altro lettore aveva scritto sull’argomento, «sconsolato» dalla stessa risposta, chiedendomi di inviare a don Farinella la sua email (da non pubblicare) nella quale, a sostegno del suo pensiero, citava diversi passaggi dai Quaderni della mistica Maria Valtorta. Don Paolo ha risposto immediatamente con una email che ho inoltrato subito al lettore interessato.

Tenendo conto però dell’importanza dell’argomento, mi permetto di riportare qui la risposta di don Paolo, omettendo tutte le parti più personali. Le scritte tra parentesi quadre sono redazionali per rendere comprensibile il testo nei punti omessi o tagliati.

Ecco la risposta di Don Paolo Farinella.

[…] Rispondendo a una lettera di una lettrice [in MC 11/2017 p.6] scrivevo letteralmente: «Mi dispiace deluderla, io non mi occupo di apparizioni. […] Non capisco queste apparizioni di Madonne che dicono sempre la stessa cosa, ormai da secoli, solo per la soddisfazione di chi dice di avere avuto messaggi personali. Sto con la Chiesa che non mi obbliga a credere ad esse, nemmeno a quelle riconosciute come Fatima o Lourdes. Infatti un cattolico che affermasse: “Io non credo alle apparizioni della Madonna di Fatima o di Lourdes” non sarebbe meno cattolico di chi afferma di credervi». Questa è la posizione ufficiale e costante della Chiesa.

Lei [dissente dalla mia posizione e], per dare forza alla sua critica, cita un passo della Valtorta da «I Quaderni» del 1943, come se fosse «Parola di Dio».

Mi permetta di dirle sinceramente che mi cadono le braccia perché se siamo ancora alla Valtorta, significa che la Chiesa ha ancora un lungo cammino da fare sulla via della purificazione dall’idolatria. La Valtorta non dice nulla di diverso di tutte le altre pseudo e sedicenti apparizioni mariane, come fossero fotocopie e invano papa Francesco ripete, riguardo a Medjugorje, che «la Madonna non è una postina». Se siamo ancora a questo punto, è stato vano il concilio Vaticano II, a cui mi attengo scrupolosamente perché è il magistero più alto della Chiesa cattolica. I Padri conciliari hanno posto rimedio a una stortura teologica che poneva la Madonna al di sopra di Dio stesso anche pastoralmente (prima del concilio ogni domenica c’era una festa della Madonna, cui si sacrificava il senso dell’ottavo giorno in sé, memoriale della Pasqua, della morte e risurrezione del Signore). Il concilio ha posto Cristo al centro della vita, della spiritualità, della preghiera, della liturgia, della morale, e ha ricollocato Maria al suo posto, quello splendidamente descritto da Dante: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», diversamente Maria non è la Madre di Gesù, ma un idolo separato perché più comodo da gestire, anche a livello sentimentale.

Quanto alla Valtorta […] sappia che, in questo modo, lei si pone fuori della Chiesa che ha condannato due volte quelle fantasiose e romanzate visioni definendole pericolose per la fede. Il 16 dicembre 1959, dall’allora Sant’Uffizio, i volumi usciti furono inseriti nell’«Indice dei libri proibiti» e il 6 gennaio 1960 «L’Osservatore Romano» li definì: «Una lunga prolissa vita romanzata di Gesù… Anzitutto il lettore viene colpito dalla lunghezza dei discorsi attribuiti a Gesù e alla Vergine SS.ma», e aggiunge che è tutto l’opposto dei Vangeli, dove regna la sobrietà.

Evidentemente la condanna ufficiale della Chiesa, quella cui la Madonna della Valtorta dice di ubbidire, ma alla quale la visionaria non ubbidì affatto, non bastò se il 31 gennaio 1985 il card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione della Fede (ex Sant’Offizio), dovette dare la stroncatura definitiva.

Dopo avere ripreso e confermata la condanna del 1959, concluse: «Avendo poi alcuni ritenuta lecita la stampa e la diffusione dell’Opera in oggetto (Il Poema dell’Uomo Dio, ndr) … non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu presa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti (sottolineatura mia) … Joseph cardinale Ratzinger». La condanna si estende a tutti gli scritti della Valtorta. […]

Paolo Farinella
06/12/2017

A questo proposito, ricordo che quando iniziai a lavorare in questa rivista nei primi anni Ottanta, trovai in redazione un intero scaffale pieno di libroni di centinaia di pagine dai titoli come questi: «Lo Spirito Santo parla al cuore di…», «La Madonna ai suoi diletti figli», «Le rivelazioni di Gesù a…» e via dicendo. Ricordo di aver tirato fuori il Vangelo tascabile che portavo con me. La piccolezza di quel libricino – che pure aveva rivoluzionato il mondo – a confronto con quei volumoni era impressionante. Tenni il Vangelo. I libroni finirono nel container della carta per le missioni.

Da Roraima: fratel Carlo Zacquini

I mezzi di comunicazione mi permettono di mantenere con una certa regolarità contatti con molte persone. Mi considero molto fortunato di annoverare un numero piuttosto grande di veri amici che si interessano sovente della mia salute e delle mie attività, e in modo speciale poi degli Yanomami e dei popoli indigeni nel Brasile.

Mi sento un po’ incapace di alimentare – come sarebbe mio dovere – questa catena di persone che sempre si chiedono e mi chiedono se possono fare qualcosa per le finalità a cui mi dedico. Come è difficile poter rispondere con chiarezza; come è difficile fare chiarezza anche dentro di me su quel che sarebbe meglio fare!

Ho l’impressione che in questi ultimi tempi l’attività principale che svolgo stia prendendo una bella piega. In un modo o nell’altro, al momento siamo già in quattro persone fisse a lavorare al Centro di Documentazione Indigena (Cdi). Sembrano molte, ma … pur volendo dedicarci esclusivamente a questo lavoro, per ora siamo lontani dal riuscirci.

Certamente non è per mancanza di lavoro! Ultimamente abbiamo dovuto fare una pausa nelle attività più importanti, non perché stiamo prendendola alla leggera, ma, come sovente capita da queste parti, per le difficoltà e gli imprevisti che ci obbligano a ridurre la velocità dei nostri passi.

Abbiamo sempre più materiale importante che non ci sta nell’attuale edificio che ospita il Cdi. Ci è stato offerto altro materiale da varie parti per arricchire la nostra documentazione. Questo vuol dire che altre persone e enti hanno notato l’importanza del Cdi, e stanno dando credito alle nostre intenzioni e iniziative. Alcuni ci suggeriscono anche di guardare avanti con fiducia e ottimismo, includendo anche altre attività che per ora non sono previste. Io credo che dovremo andare avanti con prudenza, ma anche con fiducia nella Provvidenza. Essa ci farà vedere al tempo giusto come proseguire.

Certamente non sarà mai facile competere con gli avversari dei popoli indigeni; né possiamo illuderci di trasformare i popoli indigeni in società perfettamente adattate a resistere a tutti gli attacchi mossi contro di loro. Sta a noi tutti fare la nostra parte, e dare a loro i mezzi migliori per farsi le ossa!

La situazione attuale di invasione della Terra Indigena Yanomami da parte dei cercatori d’oro è veramente brutta. Si parla di varie migliaia di invasori che portano con sé violenza, droghe, corruzione di minorenni, contaminazione col mercurio, trasmissione di malattie veneree, impunità! Il villaggio degli indigeni isolati è accerchiato ormai da almeno tre gruppi di garimpeiros che hanno già sparato almeno a uno di essi.

Guardando un po’ oltre, è palese lo sfacelo della giustizia a tutti i livelli; e gli esempi più sconvolgenti vengono dalle più alte autorità del paese. Oltre 60mila morti violente in un anno; caos nei servizi pubblici (sanità, scuola, prigioni, …).

Nel nostro piccolo, nella discarica di immondizie della città di Boa Vista, a metà ottobre, sono stati trovati più di cento bambini che vi lavoravano, cibandosi anche di rifiuti.

Adesso la discarica è controllata. Ma durerà?

Con l’afflusso di decine di migliaia di venezuelani (si parla di settantamila, tra cui un buon numero di indigeni Warao e altri) che fuggono dalla violenza, dalla miseria e dalla fame vera e propria, si accentua la situazione di caos negli ospedali, negli ambulatori medici, nelle scuole, col contrabbando, nelle prigioni, …

Pare che anche la natura voglia collaborare al caos; recentemente ci sono già stati almeno 60 casi di bagnanti aggrediti da piranha nelle spiagge del rio Branco, a Boa Vista. Alcuni esperti hanno suggerito che la causa potrebbe essere l’inquinamento delle acque.

Guardandoci attorno si ha l’impressione che si voglia distruggere il pianeta per favorire una piccola minoranza.

Le statistiche dicono che gli otto «uomini» più ricchi del mondo sono padroni di ricchezze maggiori di quelle della metà degli uomini, e 800 milioni di esseri umani fanno la fame.

In Brasile si producono enormi quantità di cibo (granaglie, carne, caffè, frutta, vini) usando con abbondanza diserbanti tossici proibiti in Europa (Combate Racismo Ambiental, 28 nov. 2017). Buona parte di questi cibi va a finire sulle vostre tavole. Tempo fa, ho suggerito che si organizzasse un boicottaggio ai prodotti alimentari provenienti dal Brasile. Chi non lo ha fatto, probabilmente si è alimentato con pericolosi veleni.

Le mie e le nostre speranze sono rafforzate dalla vostra indefessa attività in favore dei popoli indigeni e di altri dimenticati dagli uomini. Con affetto e riconoscenza,

Fratel Carlo Zacquini
da Boa Vista, Roraima, Brasile, 07/12/2017

Le 99 pecore

Carissimo Direttore,
nel riprendere in mano il n.10 del mese di ottobre, ho letto la lettera di Andrea Sari e la sua risposta in un giorno non penso casuale (martedì 12 dicembre). Nel commentare le letture del giorno  (il Vangelo di Matteo 18,12-14 che ricorda il pastore che lascia le 99 pecore per cercare quella perduta), il nostro curato ci ha lasciato questo bel pensiero: «Il Signore non è che abbandona le 99 pecore per cercare quella perduta perché sa che il gregge non si allontanerà dal posto dove le ha lasciate. Le 99 sono consapevoli di essere al sicuro e non vanno in cerca di pericoli, mentre quella perduta non era cosciente dei pericoli che poteva incontrare abbandonando il gregge». Ecco, con questo spirito don Luciano ci ha invitati a «sentirci vicino il Signore» anche quando sembra che si allontani per ricercare la pecorella smarrita. Penso che senza tanti lunghi ragionamenti valga l’invito del nostro curato di «vivere con serenità il nostro rapporto con il Signore in ogni momento della giornata» anche quando il Signore si allontana.

Pino Candiani
parrocchia di Loreto,  Bergamo, 12/12/2017

 




È l’Amazzonia

Testi e foto di Paolo Moiola |


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

AMAZZONIA
I numeri, le ricchezze, le minacce

Da conquistatori a protettori
A colloquio con padre Angelo Casadei

«Essere custodi è la nostra responsabilità»
Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

Questo dossier

Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

La «minga»?del?vicariato?di Puerto?Leguízamo-Solano

L’Amazzonia è una regione unica. Per millenni abitata solamente da popoli indigeni, oggi ospita anche altre popolazioni. Gli uni e gli altri debbono affrontare molti problemi, perché la foresta si è trasformata in un luogo ambito a causa delle sue ricchezze. Il giovane Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano ha invitato decine di persone dei tre paesi confinanti – Perù, Ecuador, Colombia – sui quali si estende il suo territorio, per discutere su come difendere l’Amazzonia dall’assalto degli sfruttatori. Ha chiamato quest’evento «Minga amazónica fronteriza».

Verso Puerto Leguízamo, Colombia. Nel piccolissimo aeroporto di Puerto Asís non è facile avere informazioni. Non ci sono né monitor né annunci. L’aereo della Satena, la compagnia colombiana gestita dai militari, che ci ha portato qui da Bogotà, è ora fermo sulla pista. Finalmente un addetto ci spiega che a Puerto Leguízamo, meta del viaggio, sta piovendo a dirotto e pertanto la partenza è rimandata finché le condizioni meternorologiche non miglioreranno. Di norma nelle zone equatoriali le piogge sono molto intense ma si esauriscono in poco tempo. In ogni caso non c’è alcuna protesta dei viaggiatori visto che nessuno desidera imbarcarsi su un volo rischioso. All’improvviso viene aperta la porta che conduce sulla pista dove è posteggiato l’aereo (l’unico aereo). Saliamo la scaletta fiduciosi di riprendere il viaggio. Mi sistemo accanto al finestrino con la macchina fotografica nella speranza di poter immortalare qualche immagine dall’alto. Il volo si svolge tranquillo, a parte qualche prevedibile scossone. Nuvole nere impediscono di vedere bene la terra sottostante. Tuttavia, non mancano squarci nel cielo che consentono di ammirare i luoghi sorvolati. È una visione che affascina ma che al tempo stesso fa riflettere e intristire. Sotto è Amazzonia e il verde domina ancora incontrastato, ma gli spazi disboscati o ridotti a pascolo sono ampi. L’elemento più appariscente sono i fiumi, tanti, lunghi e sinuosi. Le loro acque non appaiono blu o verdi, ma marroni come la terra che trasportano.

Il volo dura circa un’ora. Nonostante la pioggia, l’atterraggio è relativamente facile. L’aeroporto di Puerto Leguízamo è costituito da una pista malconcia in mezzo alla campagna e una casetta bassa e anonima verso la quale s’incamminano i passeggeri di Satena. La pista è delimitata da una rete metallica oltre la quale s’intravvedono alcuni mototaxi, veicoli a tre ruote che costituiscono il mezzo di trasporto di gran lunga più diffuso. E, subito dietro, un grande cartellone sbiadito da sole e acqua che dà il benvenuto a Puerto Leguízamo, cittadina allungata lungo le rive del Putumayo, con il Perù di fronte e l’Ecuador poco sopra.

Sul volo ho incontrato padre Francisco Pinilla, colombiano e missionario della Consolata che lavora da queste parti da sei anni e che sta andando proprio dove vado io. Ne approfitto subito per chiedere una descrizione del luogo.

«Siamo – spiega – più o meno al centro del 6% dell’Amazzonia che la Colombia possiede. Contando tutto il municipio, qui vivono all’incirca 40mila abitanti». Di cosa vivono? «Un tempo si producevano riso, frutta, platano, yuca, però ultimamente la gente preferisce produrre altre cose (il padre si riferisce alla coca, ndr) che danno più reddito. Quindi, i prodotti locali sono andati sparendo». Per arrivare fino a qui ci sono due modalità. «Sì – conferma il missionario -, come siamo venuti, in aereo, con la compagnia della Forza aerea colombiana, e attraverso il fiume da Florencia o da Puerto Asís in 8-10 ore di viaggio».

Il viaggio per fiume, molto più lungo ma molto meno costoso di quello aereo, fino a qualche mese fa non era accessibile a tutti per la presenza delle Farc, che potevano fermare o sequestrare le persone giudicate non gradite. Dopo la firma degli accordi di pace (novembre 2016), la situazione è divenuta assai più tranquilla.

Sotto una leggera pioggia saliamo su un mototaxi. Per conversare occorre parlare a voce alta perché il rumore del veicolo è assordante ed anche la strada – stretta e dissestata – non agevola il dialogo tra i due passeggeri. Il paese è cresciuto lungo quest’unica arteria. Nostro destino è la sede del giovane Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che ha organizzato un incontro internazionale sull’Amazzonia: la «Minga amazónica fronteriza». Minga è un termine kichwa che indica un lavoro collettivo e gratuito di carattere temporaneo.

Iscrizione dei partecipanti

L’Amazzonia, da cortile a piazza centrale

L’albero simbolo dell’Amazzonia

All’incontro sono iscritte 147 persone: 32 provenienti dal Perù, 11 dall’Ecuador e 103 dalla Colombia (più una dall’Italia: chi scrive), tutte ospitate nelle strutture del Vicariato. In ognuno dei tre giorni (6-8 novembre 2017) è prevista l’esposizione di un esperto che parlerà di Amazzonia alla luce del motto della minga: Somos territorio, somos pobladores, somos cuidadores. La minga prevede però la partecipazione attiva di tutti. Per questo gli iscritti sono stati divisi in 11 gruppi o tavoli di lavoro: dai contadini ai cacique e governatori, dai laici missionari ai vescovi. Ogni gruppo dibatterà sugli interventi ascoltati in sala partendo dalle risposte ad alcune domande. Le considerazioni verranno quindi esposte da un portavoce di ciascun gruppo davanti all’assemblea riunita in seduta comune.

Nell’aula magna del Centro pastorale del Vicariato, sullo sfondo di un suggestivo albero di cartapesta (opera del padre Carlos Alberto Zuluaga), vengono cantati gli inni nazionali di Ecuador, Perù e Colombia. È mons. Joaquin Pinzón, il padrone di casa, a dare il benvenuto agli ospiti e aprire il convegno. Ma sono due indigeni shuar ecuadoriani, Bosco Guarusha e il figlio Daniel Guarusha, a offrire un senso mistico all’inaugurazione della minga con una cerimonia di purificazione (la cosiddetta «limpia») molto coinvolgente e partecipata.

Il primo intervento è di Maurizio López, segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). «Per molti anni – spiega il relatore – l’Amazzonia è stata considerata come il “cortile sul retro”. Si parlava di “terra senza uomini per uomini senza terra”, di “territorio di indios da addomesticare”, di “inferno verde”. Oggi l’Amazzonia si è trasformata nella “piazza centrale”. E non si capisce cosa sia meglio visto che oggi ci sono tanti occhi e tanti pareri su questa realtà. Se prima era un luogo da addomesticare e civilizzare, adesso la si vede come dispensa per lo sviluppo del mondo. Il che conduce a un “estrattivismo” che si comporta come se qui non ci fosse nessuno. Come se questi territori non avessero una loro popolazione, identità, cultura ed anche una loro sacralità».

Per di più – spiega ancora – oggi l’Amazzonia viene distrutta non per ripartire in maniera equa le sue ricchezze, ma perché esiste una corsa all’accumulazione senza fine. «Come dice papa Francesco – conclude Maurizio López -, siamo davanti a una crisi che è ad un tempo sociale e ambientale».

In sala da pranzo

Dal «grande vuoto» ai selvaggi da umanizzare

L’antropologo peruviano Javier Gutiérrez Neira inizia il suo intervento citando dati archeologici che certificano la presenza umana in Amazzonia almeno da 12mila anni avanti Cristo. Smentita scientifica al mito del «gran vuoto amazzonico», successivamente sostituito da quello delle popolazioni selvagge da umanizzare. Azione che ebbe il suo apice con il genocidio avvenuto durante l’epoca del caucho (1840-1915), quando più di 30mila indigeni – principalmente Huitoto, Ocaina e Resigaro – vennero ridotti in schiavitù o sterminati. Rispetto al passato, oggi sono cambiate le condizioni generali (alle popolazioni autoctone si sono aggiunti gli abitanti meticci), ma non lo stato di conflitto.

I governi – spiega l’antropologo – hanno lottizzato l’Amazzonia dandola in concessione per molti anni a società minerarie e petrolifere, «senza considerare gli impatti sui territori indigeni e sulla stessa Amazzonia, la quale durante oltre 50 anni d’estrazione petrolifera ha conosciuto soltanto inquinamento e conflitti sociali». Nulla di più vero: in Perù, Colombia ed Ecuador, ad esempio, i conflitti ambientali in atto sono centinaia (Observatorio latinoamericano de conflictos ambientales, Olca).

Secondo l’antropologo peruviano, l’Amazzonia va pensata «da dentro» e non «da fuori». Dovrebbero cioè essere i popoli amazzonici ad avere la responsabilità di formulare una politica per l’Amazzonia e portarla all’attenzione degli stati nazionali.

Mons. Héctor Fabio Henao

La cancellazione del limite e la creazione delle necessità

Mons. Héctor Fabio Henao, direttore nazionale della Pastorale sociale della Caritas colombiana (e dal 17 dicembre anche presidente del Comitato del Consiglio nazionale per la pace, la riconciliazione e la convivenza) inizia il suo discorso dal concetto di limite. «La teoria è che la gente abbia necessità che non si saziano mai e per questo occorra produrre al massimo. È il produttivismo, cioè produrre illimitatamente per creare consumismo. Un consumismo che, a sua volta, ci porta verso uno sviluppo patologico, che chiameremo sviluppismo».

«Veramente abbiamo necessità illimitate? È sicuro che le necessità dell’essere umano non abbiano limiti? In verità, sono i sogni, i desideri a essere illimitati, mentre le necessità sono limitate». Ma come si inserisce in tutto questo l’Amazzonia? Il capitalismo, che mons. Henao definisce «uno stato dell’anima», vuole controllare completamente l’essere umano e la natura. Per questo ha messo gli occhi sull’Amazzonia. Concretamente: il capitalismo selvaggio spinge per l’estrazione delle materie prime (estrattivismo) del bioma amazzonico per alimentare una produzione senza limiti.

Mons. Henao vede il cambio corretto nelle proposte fatte da papa Francesco nella sua Laudato si’. Qui si parla di ecologia integrale e di rivoluzione della tenerezza. «Dobbiamo – conclude Henao – bandire la frase “Tutto è lecito”, visto che essa non include il futuro, non pensa cioè ad assicurare una vita dignitosa a chi verrà dopo di noi».

Gruppo di lavoro

«Cosa abbiamo capito, cosa vogliamo fare»

Dopo tre giorni di relazioni, dibattiti e incontri conviviali, l’8 novembre giunge il momento di tirare le somme. Tutti i gruppi partecipano alla stesura di un Manifesto rivolto agli abitanti dell’Amazzonia e a tutti coloro che hanno a cuore la sua causa. La dichiarazione prende atto dei grandi problemi che coinvolgono il bioma amazzonico: dallo sfruttamento petrolifero a quello minerario e boschivo, dalle monocolture all’allevamento, dal narcotraffico all’insufficiente presenza dello stato.

Quindi, richiama le autorità nazionali, internazionali e locali a comportamenti adeguati alle particolari necessità dell’Amazzonia: adottare piani di sviluppo che siano realmente amazzonici; garantire la consultazione preventiva dei popoli indigeni per qualsiasi progetto; educare le comunità locali a un trattamento adeguato dei rifiuti; incentivare le autorità accademiche allo studio scientifico della realtà amazzonica, nonché alla formazione e divulgazione delle conoscenze maturate; spingere gli agenti pastorali ad avere una parola più profetica e decisa in difesa dell’Amazzonia.

Infine, il Manifesto afferma la volontà degli estensori di partecipare attivamente alla realizzazione del Sinodo amazzonico del 2019*, accompagnare le comunità amazzoniche nella ideazione ed esecuzione di progetti sostenibili e di contrastare con determinazione tutto ciò che attenta alla vita in Amazzonia.

Un Manifesto – per propria intrinseca natura – contiene indicazioni generali e a volte generiche, soprattutto su una materia complessa com’è la realtà dell’Amazzonia. Tuttavia, esso è importante come base di partenza concettuale, per produrre una fotografia del problema e ipotizzare soluzioni, modalità d’azione, comportamenti.

Vista sul Rio Putumayo

La minga è terminata. Il giorno seguente seguo padre Fernando Florez, uno degli organizzatori più impegnati, mentre accompagna al porto di Puerto Leguízamo il gruppo di partecipanti – paiono tutti allegri – che torneranno in Ecuador e in Perù. I primi salgono su una lancia a motore per passeggeri che lascia subito la banchina e inizia a solcare le acque calme del Rio Putumayo in direzione Nord. I secondi si accontenteranno di un vecchio barcone di legno senza finestrini e con tavolacci al posto delle sedute. Il motore tuttavia pare a posto. Dato che il viaggio verso San Antonio del Estrecho durerà due giorni e non ci sono posti di rifornimento lungo il tragitto verso Sud, occorre fare il pieno di carburante. Il distributore sta sulla strada, qualche metro più in alto rispetto alla riva. Il comandante collega allora il suo barcone con la pompa di benzina attraverso un lungo tubo di gomma. Ci vuole oltre un’ora per completare il rifornimento. Alla fine il barcone prende il largo docilmente con la logora bandiera peruviana che sventola nell’aria, tra i cenni di saluto di chi è rimasto a prua e il rumore ripetitivo dei peke peke – le piccole barche a motore – che gli passano a fianco. L’Amazzonia è (anche) questo.

Paolo Moiola


AMAZZONIA

I numeri, le ricchezze, le minacce

DEFINIZIONE

Si chiama Amazzonia la regione sudamericana che ospita la maggiore foresta tropicale umida del pianeta e la più grande riserva di acqua dolce del mondo.

DATI?GEOGRAFICI

  • SUPERFICIE: 7.989.004 km2 divisi su 9 paesi;
  • PAESI: Brasile (64%), Perù (9,7%), Bolivia (7%), Colombia (6,6%), Venezuela (5,9%), Guyana (2,1%)*, Suriname (1,9%)*, Ecuador (1,6%), Guyana francese (0,8%)*; (*): paesi con territorio amazzonico posto fuori del bacino idrografico del Rio delle Amazzoni.
  • FIUMI: Río delle Amazzoni (6.992 Km, il più lungo del mondo), con migliaia di affluenti tra cui il Río Negro (2.000 km), il Río Madeira (3.240 km), il Río Putumayo (1.813 km), il Río Napo (1.130 km), il Río Marañón (1.600 km). (Fonte: Gutierrez-Acosta-Salazar, Instituto Sinchi, Colombia 2004)

DATI?DEMOGRAFICI

  • POPOLAZIONE: 38 milioni di cui 25 in Brasile e 3,7 in Perú;
  • CITTÀ PRINCIPALI: Manaus (Brasile), Belém (Brasile), Iquitos (Perú), Santarém (Brasile);
  • POPOLI?INDIGENI: circa 420 popoli indigeni (60 in isolamento) per un totale approssimativo di 1,5 milioni di persone; sono 433mila (per 240 popoli) nell’Amazzonia brasiliana e 333mila (per 52 popoli) nell’Amazzonia peruviana.

RICCHEZZE

Foreste, acqua, fauna, flora, biodiversità, risorse del sottosuolo, popoli indigeni.

MINACCE?ANTROPICHE

Attività petrolifere, attività minerarie (oro, in primis), allevamento bovino estensivo, monocolture (soia, in primis), industria del legname, coltivazioni di coca, sfruttamento delle acque dei fiumi (centrali idroelettriche), biopirateria.

(Paolo Moiola, 2018)


Da conquistatori a protettori

A colloquio con padre Angelo Casadei

Per l’Amazzonia colombiana sono mutate molte cose. I missionari, presenti dalla metà del XVI secolo, già da tempo avevano cambiato le proprie modalità di lavoro. Scegliendo di schierarsi (con convinzione) a fianco dei popoli indigeni e in difesa di un ambiente unico.

Puerto Leguízamo. «Forse anche noi missionari arrivammo con uno spirito di conquista e per accompagnare la colonizzazione di questo territorio. Oggi c’è quasi una visione opposta. Prima si parlava di conquista dell’Amazzonia, oggi si parla di protezione e conservazione. Oggi l’Amazzonia non è più soltanto la sua ricchezza ecologica, ma anche quella dei popoli che in essa vivono. C’è stato – conclude padre Angelo – un cambio di visione rispetto a quando arrivammo».

I primi missionari arrivarono da queste parti a metà del XVI?secolo, i missionari della Consolata nel 1952, padre Angelo Casadei da Gambettola nel 2005. «Però in Colombia ero già stato durante gli studi, dal 1989 al 1990», precisa.

Padre Angelo Casadei

Dalla guerra agli accordi di pace

Padre Angelo non si separa mai dalla sua Canon. Fotografa e filma tutto. E quando lo fa non passa inosservato dall’alto dei suoi 186 centimetri d’altezza. Avendo operato in Caquetà (a Remolino e San Vicente del Caguán) e in Putumayo (prima a La Tagua, oggi a Solano), il missionario è un testimone privilegiato di questa parte dell’Amazzonia che per anni è stata un feudo quasi inaccessibile delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia», le Farc.

«Era una guerra civile. All’interno di uno stesso paesino potevi trovare persone che appartenevano all’esercito e altre alla guerriglia.

Per questo dico che l’accordo di pace è stato un bene per i colombiani. Anche se permangono gruppi dissidenti, per esempio a Solano. Oggi il vero problema nasce dall’assenza dello stato. L’unica presenza sono queste grandi basi militari (il riferimento è alla base che sta accanto alla sede del Vicariato, ndr). Prima dell’accordo tra il governo e le Farc, i soldati uscivano in gruppo e rientravano in gruppo per ridurre i rischi. C’erano però vasti territori dove i militari non entravano mai e dove l’ordine pubblico era gestito dalla stessa guerriglia. Oggi, con la consegna alle autorità della gran parte dei guerriglieri, molti di questi territori sono rimasti scoperti. Se lo stato non darà segnali di presenza, il rischio è che gli spazi vuoti possano essere occupati da bande criminali o dalla delinquenza comune e le persone inizino a farsi giustizia da sé. Com’è già accaduto».

La coca e le (difficili) alternative

Il problema è reale. Le bande criminali – una delle più conosciute è La Constru – si dedicano all’attività mineraria illegale e soprattutto al narcotraffico, che è in costante aumento. Il Putumayo è il secondo dipartimento colombiano per coltivazione di coca: si stimano 25.162 ettari coltivati, il 17% del totale (146.000 ettari nel 2016, stando ai dati Simci-Unodc). Più coca significa più danni ambientali (disboscamento e sversamento di sostanze chimiche nell’ambiente) e più danni sociali.

Un chilo di coca – quella più grezza prodotta sul posto di raccolta delle foglie (pasta básica de cocaína) – vale oggi quasi 3 milioni di pesos (circa 870 euro).

La media di produzione per ogni ettaro coltivato è di chilogrammi 1,45 di pasta base (dati Simci-Unodc). I raccolti sono tre all’anno. I piccoli contadini che la coltivano non diventano ricchi, vivono o semplicemente sopravvivono (cosa ancora più vera per i raspachines, i braccianti giornalieri che raccolgono le foglie).

«È difficile trovare un’alternativa alla coca, soprattutto in territori isolati come questi. Un chilo di coca, che sono milioni di pesos, lo metti in uno zainetto e lo trasporti facilmente dove vuoi. Se coltivi mais o yuca o altri prodotti, la commercializzazione risulta molto più difficile. I missionari hanno proposto vari prodotti in alternativa alla coca – soprattutto cacao e caucciù -, anche se non esiste un prodotto sostitutivo perfetto. Il nostro è però anche un lavoro di coscientizzazione, per far capire alla gente cosa comporta produrre cocaina».

Se si esclude la coca, le alternative economiche praticabili ed ecosostenibili non sono molte. L’allevamento – che qui è sempre di tipo estensivo – ha effetti devastanti perché implica disboscamento. Tanto disboscamento: la media attuale è di una vacca per ogni ettaro. Quanto alle altre colture sono, almeno per il momento, troppo poco redditizie. «La foresta offre però varie ricchezze – precisa padre Angelo -. Penso alle piante medicinali. Penso alla noce amazzonica, che ha mercato e che viene coltivata da alcune comunità indigene. Penso al caucciù (caucho natural), che un tempo era una ricchezza. Penso al cacao. Penso al turismo, che qui non esiste anche se abbiamo due grandi parchi naturali, La Paya e Chiribiquete. Ovviamente dovrebbe essere un turismo con limiti ben precisi».

Militari al porto lungo il fiume

Oro e petrolio, una maledizione

Altro fattore di distruzione è stato l’espansione dell’attività mineraria illegale, in particolare quella legata alla ricerca dell’oro alluvionale. I danni prodotti dalla ricerca del prezioso metallo riguardano soprattutto la contaminazione delle acque con il mercurio. «Anche le Farc – spiega padre Angelo – usavano l’attività mineraria illegale per avere delle entrate. In particolare, chiedevano una percentuale sull’oro estratto. Oggi però la situazione pare fuori controllo».

La fine della guerra civile ha dato nuovo impulso anche all’esplorazione petrolifera nell’Amazzonia colombiana. Ecopetrol (Colombia), GranTierra (Canada), Monterrico (Perù), Amerisur (Gran Bretagna) sono alcune delle compagnie che hanno aperto campi petroliferi in Caquetà e Putumayo.

«Per le compagnie petrolifere la scomparsa delle Farc è un vantaggio perché entrano nelle zone di ricerca con più facilità. La guerriglia era contraria alla loro attività perché essa porta strade e comunicazione, rompendo l’isolamento». Contrarie sono anche la maggior parte delle comunità indigene che si trovano direttamente coinvolte nei progetti petroliferi.

«Lungo il fiume Putumayo e lungo il Caquetà ci sono molte comunità indigene di vari gruppi etnici, che da sempre vivono in questi territori. Mantengono la loro lingua e tradizioni, anche se sono comunità che sono venute a contatto con l’uomo e la cultura occidentali. E spesso sono state violentate, come all’epoca del caucciù quando moltissimi indigeni furono schiavizzati».

«Noi ci siamo assunti il compito di accompagnarli in una riflessione sul trauma subito. Per molto tempo siamo stati gli unici ad avvicinarli e aiutarli nelle loro lotte. Per questo i popoli indigeni ci guardano con rispetto».

Paolo Moiola

Mons. Jaoquín Pinzón


«Essere custodi è la nostra responsabilità»

Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

Al centro dell’Amazzonia colombiana si trova il Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, cinque anni a febbraio. Il vescovo Joaquín Pinzón e i suoi collaboratori hanno scelto di percorrere la strada della sostenibilità ambientale per difendere un territorio unico ma ambito e molto fragile. Un impegno complicato: gli sfruttatori dell’Amazzonia sono tanti (minatori illegali, compagnie petrolifere, coltivatori di coca, commercianti di legname, ecc.) e non paiono intenzionati ad arretrare. Approfittando anche dell’assenza dello stato.

Puerto Leguízamo. Le sei e trenta del mattino sono un buon orario per un’intervista all’aperto. Non ci sono ancora i chiassosi alunni della scuola attigua e la temperatura è ideale.

Mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza è giovane all’anagrafe e giovanile nell’aspetto. Colombiano del dipartimento di Santander, missionario della Consolata, egli ha visto nascere, crescere e cambiare il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che regge fin dalla sua fondazione, avvenuta nel febbraio del 2013. Da allora sono trascorsi 5 anni e tutt’attorno le cose sono cambiate: in primis, ci sono stati gli accordi di pace con le Farc e qui, a Puerto Leguízamo, molto più che nelle città (che infatti raccolgono la maggioranza dei contrari), i cambiamenti sono fatti quotidiani, concreti e visibili.

Monsignor Pinzón, il suo vicariato comprende municipi di tre diversi dipartimenti: Putumayo, Caquetá e Amazonas. Come descriverebbe questo territorio?

«Siamo ubicati nel cuore dell’Amazzonia colombiana. Ma allo stesso tempo siamo ai confini dell’Amazzonia peruviana e di quella ecuadoriana. In altre parole, noi non solo ci troviamo in un contesto amazzonico ma anche di frontiera. Per molti il Rio Putumayo ci divide, ma per noi non è così. Come dice padre Gaetano Mazzoleni, missionario della Consolata che ha lungamente vissuto qui, il fiume ci unisce. Il fiume ci dà la possibilità di muoverci, di trovare i prodotti per alimentarci. È la nostra “autopista fluvial”…».

Interessante la terminologia che lei usa: autostrada fluviale, autostrada d’acqua…

«In questo contesto amazzonico dove non esistono strade, il rio è la nostra autostrada. Il fiume è la possibilità per spostarci e metterci in comunicazione con altre popolazioni e altri contesti. È il nostro spazio di vita che ci mette in comunione con gli abitanti di questa Amazzonia sudcolombiana, nordperuviana e nordecuadoriana».

Popoli indigeni e non solo

Per molto tempo – per motivi politici, economici e culturali – si è sostenuto che l’Amazzonia fosse spopolata anche se era abitata dai popoli indigeni. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, l’Amazzonia è soltanto foresta e fiumi. Invece ci sono anche i suoi abitanti.

«Quando parliamo di pobladores (abitanti) dell’Amazzonia dobbiamo parlare di popoli, culture e famiglie da integrare. Siamo tutti pobladores di questo territorio, ma con caratteristiche molto particolari e precise. In questo Vicariato, ad esempio, ci sono molti popoli ancestrali, come i Murui (della famiglia Huitoto), gli Inga, i Koreguaje, i Siona, i Kichwa».

I popoli indigeni sono gli abitanti originari, oggi però non ci sono più soltanto loro.

«Sì, nel corso della storia, per diversi motivi e circostanze, qui sono arrivate altre persone: per cercare migliori condizioni di vita o per sfuggire alla violenza presente in altri territori. Oggi li chiamiamo campesinos, un tempo erano detti colonos. Definizione questa rifiutata dagli interessati: “Non siamo coloni. Non siamo venuti a colonizzare. Siamo abitanti di questo territorio”. Nello stesso tempo, sono cresciute le dimensioni delle città e le loro popolazioni. Insomma, l’Amazzonia odierna ospita differenti esperienze umane».

Gli accordi di pace e il vuoto di potere

Fino a pochi mesi fa Puerto Leguízamo e tutta questa regione erano sotto il controllo delle Farc. Gli accordi di pace hanno cambiato la situazione?

«Sì, l’hanno cambiata. La maggioranza degli appartenenti al movimento se ne sono andati nei luoghi di concentrazione fissati dal governo. In due territori del Vicariato rimangono piccoli gruppi dissidenti. In particolare, un gruppo venuto dall’Oriente – conosciuto come la dissidenza del Frente Primero – e altri gruppetti locali fuoriusciti dal Frente 48. Però, possiamo affermare che la situazione è cambiata perché i guerriglieri non esercitano più quel controllo sociale che avevano in gran parte di questo territorio. Quello che manca ora è una risposta del governo centrale. Le persone si domandano: oggi chi esercita l’autorità in questi luoghi? Chi comanderà d’ora in avanti? C’è incertezza. C’è paura che possano arrivare altri gruppi fuorilegge e che essi possano assumere il controllo che prima esercitavano le Farc.

Insomma, nella gente da una parte c’è contentezza per il cambiamento, dall’altra c’è sconcerto per la mancanza di risposte da parte del governo rispetto al vuoto di potere che si è creato».

Sempre più coca

Gli accordi di pace non pare abbiano cambiato l’economia della coca, che continua a essere prodotta in quantità.

«È vero: la produzione di coca prosegue. In ciò è cambiato poco. Anzi, secondo alcuni, la produzione è aumentata. Occorre riflettere sul fatto che le persone continuino a coltivare e la produzione a crescere. Il problema oggi è la commercializzazione. Anteriormente le Farc facevano da intermediarie, oggi manca questo passaggio. Pertanto, è aumentata la produzione ma è diminuita la commercializzazione. Le persone continuano a considerare la produzione di coca un’attività vitale, ma sono preoccupate per l’aspetto commerciale. Per tutto questo sulla questione della coca occorrerebbe fare una riflessione ad hoc».

È molto difficile vivere facendo i contadini. Al contrario, con pochi ettari di terra – si parla di tre – coltivati a coca si può vivere. A volte anche bene.

«Con tre ettari di coca si può vivere se le famiglie hanno esigenze limitate. È anche vero che il movimento di denaro generato dal narcotraffico ha incrementato le esigenze. Il problema vero è che non esiste una politica di sostituzione, un’alternativa che consenta alle famiglie di lasciare la coltivazione della coca per dedicarsi ad altre attività che consentano non soltanto di vivere ma di vivere degnamente».

Il porto sul fiume

Oro e petrolio sono incompatibili con l’ambiente

Altro problema che pare allargarsi è legato all’attività mineraria, in particolare quella illegale connessa alla ricerca dell’oro.

«L’attività mineraria illegale è un problema piuttosto serio, perché essendo illegale non esiste alcun controllo. Costoro arrivano e si stabiliscono in luoghi dove si possano nascondere da sguardi indiscreti. Questo genera una situazione molto difficile perché essi praticano l’attività senza preoccuparsi di usare metodi che riducano gli effetti sull’ambiente. A queste persone interessa soltanto estrarre il minerale, in questo caso l’oro, senza alcuna precauzione che consenta di mitigare l’impatto ambientale».

Già da alcuni anni si parla di tonnellate di mercurio riversate nei fiumi colombiani (Estudio Nacional del Agua 2014). Il problema riguarda anche il río Putumayo?

«Sì, nel río Putumayo si utilizza il mercurio. Questo ha generato e continua a generare problematiche. Contaminando il fiume, contaminano il pesce e quindi coloro che lo consumano. A poco a poco, le persone si caricano di questo metallo che l’organismo non è in grado di trattare».

Nel vicino Ecuador e nel Nord del Perù le imprese petrolifere stanno distruggendo l’Amazzonia e inquinando i fiumi. Com’è la situazione qui in Colombia?

«Rispetto alle compagnie petrolifere, al Nord del Putumayo – nella zona di Puerto Asís, in particolare – stanno avvenendo delle esplorazioni per capire se c’è la possibilità di estrarre petrolio. In questo momento sono in corso dialoghi con le comunità interessate, anche se alcuni di questi sono viziati da interessi economici. Le persone non sono state sufficientemente preparate e così accade che, con un po’ di denaro, a volte vengono comprate. Le persone non hanno la possibilità di raggiungere la consapevolezza dell’impatto che le attività petrolifere possono produrre».

I perché di una minga amazzonica

Il suo Vicariato ha organizzato – novembre 2017 – una «minga amazónica fronteriza». Perché avete usato il termine «minga»?

«Minga è parola kichwa che significa offrire qualcosa in cambio di qualcos’altro. Nella pratica, si traduce in un’esperienza di lavoro comunitario che porta beneficio a tutti e nel quale tutti apportano ciò che hanno. In altre parole, tutti mettiamo i nostri sforzi in una causa comune per ottenere un beneficio comune. Per questo noi abbiamo voluto dare al nostro incontro di riflessione la categoria della minga. Creare uno spazio di riflessione comune».

Lo slogan continuamente richiamato durante la minga è stato «Amazonia, contexto de vida que une orillas», un contesto di vita che unisce le sponde. Ci spieghi meglio in cosa consiste questa unione.

«Qui a Puerto Leguízamo si è unito un buon gruppo di persone della Colombia, del Perù e dell’Ecuador. Abbiamo avuto come ospiti i vescovi di San Miguel del Amazonas (Perù), di San Vicente e di Florencia. Abbiamo avute persone che si muovono da diverse prospettive rispetto a quella ecclesiale: persone delle amministrazioni (come il sindaco di Puerto Leguízamo), di organismi ecuadoriani, di organizzazioni ambientaliste.

Tutte istituzioni e persone a cui interessa la cura di questo contesto di vita. Tutti riuniti per una causa comune: come essere abitanti responsabili che cercano uno sviluppo sostenibile, cioè che non danneggi ma al contrario protegga il contesto amazzonico in cui ci ritroviamo a vivere.

Dalla minga siamo usciti tutti contenti e desiderosi di trasformarci in difensori di questo territorio e di questo spazio di vita. Le istituzioni pubbliche, quelle ambientali e quelle ecclesiali. Tutti desiderosi di trasformarci in piccoli cuidanderos».

Quindi, in epoca di sfruttamento dell’Amazzonia, voi volete esserne curatori, difensori, protettori: una bella responsabilità.

«Il motto completo della minga era: “Somos territorio, somos pobladores, somos cuidanderos”. L’ultima parola non è in un castigliano perfetto: in realtà, dovrebbe essere cuidadores. Ma abbiamo usato questa perché è un termine che usano le persone di qui quando affidano il loro campo a qualcuno perché lo curi bene. Dunque, non explotadores, ma al contrario cuidanderos».

il gruppo di lavoro dei vescovi a Puerto Leguízamo; da sinistra in senso orario: il padrone di casa, mons. Jaoquín Pinzón, mons. José Travieso (San José del Amazonas, Perú), mons. Francisco Múnera (San Vicente del Caguán, Caquetá), mons. Omar Giraldo (Florencia, Caquetá).

Dalla «Laudato si’» al Sinodo amazzonico

Per il novembre del 2019 è stato convocato un sinodo per l’Amazzonia. Si può dire che la vostra minga lo abbia anticipato?

«Potremmo dirlo ma sarebbe una risposta un po’ superba. Abbiamo sognato e progettato quest’esperienza di minga nel febbraio 2017. Potremmo dire che abbiamo anticipato il sinodo. Ma la vera risposta è che papa Francesco ci ha sfidati con il contributo della Laudato si’.

L’enciclica è stato un regalo per l’umanità. Sappiamo che essa è una proposta del papa non soltanto per la chiesa ma per l’umanità tutta.

Vivendo in questo territorio noi ci siamo sentiti molto in sintonia. Non soltanto con la Laudato si’, ma con la sensibilità ecologica di questo papa».

Monsignor Pinzón, la porta qui accanto è quella di una scuola elementare. Quanto è importante l’istruzione nella difesa dell’Amazzonia?

«Abbiamo bisogno di un sistema educativo che ci aiuti. Finora ci hanno abituato non soltanto al consumo, ma al consumo senza limiti. Necessitiamo di un’educazione nuova, basata su un’altra mentalità, che ci renda persone responsabili nell’uso delle risorse. Il mondo ci chiede di essere responsabili con il pianeta, con la nostra casa comune, con la natura che Dio ci ha regalato».

Paolo Moiola

Vescovi partecipnati alla minga


Questo dossier:

• Approfondimenti

Il manifesto della Minga di Puerto Leguízamo è leggibile a questo link (clicca su questa linea).
Sul canale YouTube sono invece reperibili vari documentari di padre Angelo Casadei.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=UUG7cIYkOIY?feature=oembed&w=500&h=281]

• Prossimamente

Il nostro reportage lungo il río Putumayo proseguirà in terra peruviana fino alle comunità di Soplín Vargas e Nueva Angusilla.

• Dedica

Questo dossier è dedicato a padre Antonio Bonanomi, scomparso domenica 7 gennaio. Per molti anni padre Antonio – una vita in Colombia, soprattutto tra gli indigeni del Cauca – è stato assiduo informatore dell’autore sulle cose colombiane, nonché guida durante il primo viaggio in quel paese. Mancherà a tanti. (Pa.Mo.)


Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano

·      FONDAZIONE

Il 21 febbraio 2013. Da allora è retto da mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza.

·      GEOGRAFIA

Si estende in tre dipartimenti colombiani: Caquetá, Putumayo e Amazonas. È caratterizzato dalla presenza di due grandi fiumi: il río Caquetá e il río Putumayo, più i loro affluenti. In esso si trovano il Parco nazionale naturale La Paya, il Parco nazionale naturale Chiribiquete e la Zona di riserva forestale dell’Amazzonia. I centri urbani principali sono Puerto Leguízamo (Putumayo), Solano (Caquetá) e Puerto Alegría (Amazonas).

·      POPOLI?INDIGENI

Kichwa (Quechua), Koreguaje, Siona, Huitoto (ramo Murui), Inga, Nasa, Andoque.

·      ALTRE?POPOLAZIONI

Meticci (campesinos) e comunità di afrodiscendenti.

·      DATI

  • SUPERFICIE: 64.912 km2;
  • POPOLAZIONE: 46mila abitanti;
  • RELIGIONE: 36mila cattolici.

Rio Putumayo




Gli indigeni (e l’industria del carbone) della Guajira colombiana


Testi e foto di Eloisa d’Orsi


In questo dossier vi raccontiamo una storia di incubi (il carbone e le sue conseguenze) e di magie (l’inventiva che alimenta l’arte di sopravvivere delle persone).

Incubi e?magie

CARBONE di?COLOMBIA

  • Le risorse minerarie colombiane sono di circa 17 miliardi di tonnellate. Suddivise tra il dipartimento del Cesar, la Guajira, Boyacá e Antioquia.
  • La Colombia è il principale paese produttore di carbone in America Latina. A livello globale è il decimo per la produzione, il quinto per l’esportazione.
  • Per l’economia colombiana, il carbone si è consolidato come secondo prodotto di esportazione dopo il petrolio grezzo.Il terzo è il caffè.
  • La produzione nazionale è cresciuta in modo significativo nel corso degli ultimi venti anni, alimentata soprattutto dalla realizzazione di grandi progetti destinati all’esportazione da parte di investitori stranieri come Drummond, Exxon, Bhp Billiton, Glencore International, Amcoal e Rio Tinto.
  • Le principali destinazioni del carbone colombiano sono l’Europa e gli Stati Uniti.

L’incubo:
L’impossibile convivenza tra miniere e popolazioni indigene

La scelta tra il carbone e la vita

Come in tutta l’America Latina le attività estrattive producono effetti devastanti sulle popolazioni indigene e sull’ambiente. E oltretutto sono fonte di profitti soltanto per una ristretta oligarchia nazionale e internazionale. Il caso del carbone nella Guajira colombiana.

La Guajira, uno dei trentadue dipartimenti colombiani, è un deserto di sabbia, vento e cactus, all’estremo Nord Est del paese. Con le sue 3mila ore di sole all’anno e i suoi venti costanti del Nord, gli Alisei, è più nota per le sue spiagge selvagge e per le tartarughe marine che per il suo potenziale minerario ed energetico. Eppure il valore delle sue esportazioni di combustibili fossili indica un ambito economico degno di grande interesse. Ben più grande di quello dei turisti nei confronti delle borse colorate tessute a mano dalle belle donne indigene della regione. Donne native come è nativo il 98% degli abitanti della zona, di cui 270mila appartengono all’etnia wayuu, uno dei gruppi della famiglia indo-americana, il maggiore di tutto il paese.

 

Vivere da Wayuu 

I Wayuu, presenti nella Guajira da più di 10mila anni e plasmati dai suoi elementi naturali, il vento, la luna, il tempo, la calma, tanto da farli confluire nei loro racconti cosmogonici, sono da sempre un popolo resistente che, nonostante gli svariati tentativi violenti di colonizzazione, ha mantenuto le proprie tradizioni e la propria lingua, il Wayuunaiki. Sparsi in piccoli villaggi dislocati su un territorio di 15mila km2 di superficie sabbiosa con una vegetazione rada, hanno fin qui vissuto di pastorizia e pesca che garantivano loro una precaria sussistenza.

Grazie a tecniche tramandate dalla loro cultura ancestrale, come lo scavo di «jagüeyes» (pozzi per accumulare le piogge), la canalizzazione dell’acqua dei fiumi per irrigare i terreni, la costruzione di case «antisismiche» con tetti di corteccia di cactus e pareti di fango e bambù, i Wayuu conquistarono palmo a palmo questa zona semidesertica, dimostrando la possibilità di sopravvivere a contatto con una natura difficile, con risorse scarse, tramite la gestione responsabile delle stesse.

El Cerrejón: la miniera, la città, il treno

L’industria mineraria colombiana cominciò a crescere a partire dagli anni ’70, quando iniziò lo sfruttamento delle riserve di gas e di carbone del sottosuolo, tra le più grandi dell’America Latina.

Nel 1976 il governo, sotto la presidenza di Alfonso Lopez Michelsen, firmò un accordo storico con la società transnazionale Intercor (oggi ExxonMobil) per sviluppare una delle più importanti operazioni minerarie di tutto il paese, quella della montagna El Cerrejón, nel Sud del dipartimento de La Guajira.

Nel 2002, il governo cedette le proprie quote alle multinazionali Bhp Billiton, Anglo American e Xstrata Glencore che – una volta costituitesi nel consorzio «Carbones del Cerrejón Limited» (www.cerrejon.com) – estesero la loro concessione di altri 25 anni. Un territorio di 69mila ettari i cui abitanti furono lasciati, di fatto, nelle mani di un colosso energetico transnazionale. Fino al 2034.

Dopo 40 anni di attività, la miniera del Cerrejón, controllata 24 ore al giorno da più di 800 guardie armate, è diventata una zona off limits. Un piccolo principato con i suoi 12mila dipendenti – tra lavoratori interni ed esterni (contractors) – che faticano senza tregua giorno e notte nei 42 hangar di mantenimento della miniera, caricatori dislocati in un’area di circa 8.400 metri quadrati. Un quartier generale di polvere nera e macchine pesanti di dimensioni abnormi con pneumatici di 4 metri di altezza e 100mila dollari di valore di mercato, che sembrano uscite da un film di fantascienza. Trattori, raschiatori, bulldozer, Caterpillar cingolati, autobotti per i liquidi, gru semoventi, scavatori, traforatrici, camion e autocarri a cassoni ribaltabili con capacità di 320 tonnellate. Ingombranti dinosauri di metallo che, con folli pulegge, pompe, rulli, pale, in questi anni di attività, hanno scavato montagne, inghiottito fiumi e sommerso interi villaggi di polvere. Tutto ciò per raggiungere la cifra di 33.700 tonnellate di carbone termico estratto ogni anno. Combustibile fossile che viene lavato quotidianamente con 17mila litri di acqua dolce e poi trasportato su una ferrovia per 150 chilometri fino a Puerto Bolivar. Qui viene stivato in navi con capacità fino a 180mila tonnellate che salpano verso Europa, America e Asia.

La costruzione della ferrovia, tagliando il territorio, ha sconvolto i rapporti tra i diversi clan della zona, mettendo in difficoltà la loro forma di organizzazione sociale e l’uso delle risorse agricole e animali locali.

È vero che grandi cartelli segnalano a caratteri cubitali il passaggio dei convogli ferroviari, ma, come dicono scherzando gli indigeni più anziani, «le capre non sanno leggere», e finiscono travolte dai vagoni, mentre le particelle nere di carbone si disperdono nell’aria, oscurando il paesaggio.

Polveri micidiali

«È solo polvere, annerisce, ma è innocua», ripetono come un mantra i responsabili del programma di miniera del Cerrejón durante una delle tante visite organizzate ad hoc per i giornalisti. Polvere nera e leggera come quella seminata dai camion che trasportano il carbone agli hangar, e che i venti Alisei del Nord disperdono nell’ambiente in una pioggia costante di particelle sospese. Particulate Matter, si chiamano, o Pm10, e sono responsabili di malattie respiratorie, problemi cardiovascolari e tumori polmonari: la silice cristallina, infatti, è un agente cancerogeno.

I responsabili di «Carbones del Cerrejón», interrogati a riguardo, minimizzano affermando di essere entro i limiti consentiti dalla legge colombiana e di avere un efficiente sistema di monitoraggio della qualità dell’aria, nonostante si oppongano a far realizzare test da società indipendenti e non al loro servizio. L’azienda cerca di mitigare la situazione usando grandi quantità di acqua, ma la misura risulta essere insufficiente. Per i lavoratori della miniera che fanno turni di 12 ore, come per le comunità circostanti, quella «polvere nera e innocua» è diventata la causa di gravi malattie. Una di esse è quella diagnosticata al piccolo Moisés Daniel Guette, figlio di Luz Angela Uriana Epiayu.

La casa di Luz Angela e dei suoi cinque figli

Luz Angela è una donna di 28 anni che, insieme ai suoi cinque figli e al suo compagno, due cani smilzi e poche capre, vive nella piccola comunità wayuu di Provincial, in una bella casa di mattoni di fango, a soli 1.500 metri dal «Tajo la Puente»: un buco nero di polvere largo due chilometri e profondo più di 100 metri, una delle zone di estrazione de El Cerrejon. Moisés, il suo piccolo di sei anni, ha gli occhi color mandorla e una storia di problemi respiratori. «Si stanca subito quando corre e ha bisogno di fermarsi perché non riesce a respirare», dice la madre che, con il solo sostegno del Colectivo de Abogados José Alvear Restrepo, sta conducendo una battaglia importante che nel 2015 ha portato il giudice di Barrancas a dare seguito a una denuncia contro il consorzio energetico. David, il figlio più grande, appena 11 anni, mostra le crepe profonde nelle pareti della sua capanna di argilla provocate dalle continue esplosioni che gli fanno fischiare le orecchie tre volte al giorno. «È il nostro terremoto 13,45, l’ora della prima esplosione della giornata», racconta con il suo lessico da adulto e gli occhi grandi da bambino: «Trema tutto, corriamo fuori per paura che ci cada il soffitto sulla testa e, una volta finito, torniamo a vedere quanti mattoni sono venuti giù». Gli anni passano e la casa non sopporterà ancora a lungo.

Si chiama «water grabbing», furto d’acqua

Luz Ángela non è l’unica a combattere il progetto del «Tajo la Puente»: ha dalla sua gran parte della comunità locale, insorta dopo aver scoperto che i lavori di apertura della nuova zona di estrazione avrebbero implicato la deviazione del corso d’acqua Arroyo Bruno. Secondo la compagnia, la deviazione dovrebbe proteggere l’alveo del torrente. Secondo i nativi, invece, mira solo a incrementare la produzione con lo sfruttamento dei 40 milioni di tonnellate di carbone che riposano appena sotto il letto del fiume. Il Bruno è uno dei 45 bellissimi torrenti che affluiscono nel fiume Ranchería. La compagnia aveva già cercato di deviarlo qualche anno fa provocando vive proteste.

Questo ennesimo progetto di deviazione di un corso d’acqua, come denuncia Jackeline Romero Epiayu, del collettivo Fuerza Wayuu, avrebbe gravi conseguenze perché, danneggiandone l’alveo e diminuendone il flusso, farebbe aumentare la siccità. Ad agosto la Corte costituzionale ha deciso di rinviare l’inizio del progetto in attesa che le cause in corso si risolvano. Ma il rinvio è una delle tante misure provvisorie che non mettono fine ai conflitti in un territorio semiarido in cui il consorzio minerario ha già prosciugato 17 fonti d’acqua e continua impunito a godere del 70% delle riserve idriche, aggravando le conseguenze del cambio climatico.

«Cerrejón Llc» utilizza 25 litri di acqua al secondo prelevandola dal fiume Ranchería, mentre gli abitanti della regione hanno diritto solo a 0,7 litri al giorno a persona.

Se i governi continueranno a investire in energie fossili, dirigeranno il mondo verso un futuro in cui la rivalità per risorse fondamentali come l’acqua diventerà sempre più disperata. Oscure profezie – come quelle lanciate da Greenpeace nel suo rapporto The Great Water Grab – che nella Guajira sono già divenute realtà, fornendo un esempio delle conseguenze negative della privatizzazione dei beni comuni. L’acqua, l’aria, la terra, sono proprio i beni per i quali i leader locali lottano, anche se minacciati dalle multinazionali. Secondo Global Witness, almeno 200 ambientalisti lo scorso anno sono stati uccisi in 24 paesi: il 60% in America Latina, nell’inerzia dei governi, spesso complici.

Sono la violenza, la corruzione e la politica a corto raggio i mali contro i quali i Wayuu quest’anno si sono ribellati occupando pacificamente i binari della ferrovia. La loro richiesta è che venga rispettata la loro autonomia politica e territoriale e che il governo intervenga per risolvere la crisi della malnutrizione della Guajira, problematica urgente che potrebbe annientare il loro popolo.

Tra malnutrizione e abbandoni

Fame, sete, siccità: parole che sembrano inappropriate nel 2017 in una regione che produce il 44,4 per cento delle esportazioni di carbone del paese. Eppure la malnutrizione peggiora, specie nell’Alta Guajira, dove la crisi offre scene surreali ai pochi visitatori della zona che – mentre percorrono in 4×4 le strade sterrate del territorio wayuu – vengono fermati a check point improvvisati con un filo di spago da bambini malnutriti e disidratati che chiedono da mangiare ottenendo qualche caramella.

Nel frattempo nella Media e Bassa Guajira, a causa della contaminazione delle acque, i nativi sono costretti ad abbandonare i villaggi, accettando – in cambio di misere compensazioni – di reinsediarsi in luoghi senza anima né fonti d’acqua, nei quali la cultura ancestrale viene annullata costringendo gli indios a trascorrere le giornate sotto il solleone aspettando invano la pioggia.

Aspettando la pioggia che non arriva

In wayuunaiki, pioggia si dice «juya», parola che può significare anche «anno», inteso come il tempo che intercorre tra una pioggia e l’altra. Ma come vengono calcolati gli anni se non piove più? Il significato originario della parola «wayuu» è «figli della pioggia», ma negli ultimi cinque anni le precipitazioni – anche a causa del fenomeno de El Niño – sono diminuite drasticamente. E quando piove, non sono precipitazioni normali, ma veri e propri cicloni che sferzano violentemente quelle lande desolate colpite da una siccità prolungata. Non riuscendo a penetrare in profondità, l’acqua inonda le coltivazioni dissestando il territorio.

I costi della svendita del territorio

Nei villaggi della Alta, dove il vento caldo soffia senza sosta tra i rami secchi e il sole incendia l’aria, donne avvolte in tessuti dai colori vivaci raccontano, con la calma di chi calcola il tempo in altro modo, le loro storie di desolante quotidianità. Storie d’impianti di potabilizzazione rotti, di mulini a vento in avaria, di cisterne che non arrivano mai, di sete, fame, disoccupazione, povertà, di mancanza di pozzi, corruzione, inquinamento delle acque, malattie respiratorie e della pelle. Nenie che nascono dalle conseguenze di un’operazione di gigantesca privatizzazione avallata da un governo miope che, in nome dello «sviluppo», ha avuto l’idea poco originale di sacrificare il territorio e i suoi abitanti, comportando enormi profitti per le corporation e scarsissimi benefici per il paese.

Infatti solo il 10% dei profitti viene utilizzato in Colombia, e l’1% in Guajira. Il «Cerrejón Llc», in 40 anni di saccheggio – o «concessione», a seconda del punto di vista -, oltre al genocidio culturale dei popoli in questione, ha causato effetti ambientali devastanti.

La strada da imboccare

Anticamente l’uomo era in grado di sopravvivere con quel poco che aveva. Le poche popolazioni indigene che sono ancora radicate sulle proprie terre sono lì, pronte a mostrarci come l’unico modo di adattarsi ai cambiamenti ambientali passi da una profonda comprensione del territorio. Motivo per cui l’Università delle Nazioni Unite nel 2016 ha deciso di convocare alcune popolazioni indigene per discutere di un loro possibile contributo alla indipendenza energetica, soprattutto attraverso le energie rinnovabili, provando finalmente a invertire il paradigma occidentale di successo, progresso e sviluppo.

Eloisa d’Orsi


La magia 1:

Le indigene wayuu e l’energia solare

Storie di donne che portano la luce

Colombia, India e un tocco d’Italia. A Nazareth – villaggio indigeno dell’Alta Guajira – un gruppo di donne di etnia wayuu è partita alla volta del «Barefoot College», in India, per imparare a produrre energia verde. Un progetto meritorio e di successo sostenuto da un’importante azienda italiana. Questa è la storia di una di loro.

La storia di Magalys Polanco, la nonna wayuu che a Nazareth dal buio creò la luce, come ogni storia che si rispetti in Colombia, ha qualcosa di quel «realismo magico» che rende la sua terra così fascinosa e imprevedibile. Tutto ebbe inizio nel 2013, quando Magalys Polanco, 65 anni e 3 figli, venne a sapere di quel tipo allampanato che si aggirava come un rabdomante per la provincia di Uríbia, in cerca di donne analfabete di una certa età che avessero il coraggio di lasciare per un certo tempo la Guajira per andare fino in India. «Ma perché mai gente di città si aggirerebbe per una regione sperduta come l’Alta Guajira in cerca di attempate madri di famiglia semianalfabete?», si chiedevano scettiche le comari indigene in coda per ricaricare il proprio cellulare all’ospedale di Nazareth, l’unico punto con energia elettrica del villaggio.

Magalys, al di là della sua terza media, è una donna curiosa e intelligente, e volle andare di persona a parlare con quell’uomo venuto da un altro mondo con promesse realmente luminose.

L’affidabilità è donna

«Perché cercate delle donne per andare fin laggiù?», gli chiese quando lo trovò. E l’uomo, di nome Rodrigo Paris, «messaggero» del Barefoot College, le raccontò che la fondazione di cui era emissario aveva scelto di coinvolgere nei suoi progetti di sviluppo sostenibile delle donne perché più ancorate al territorio di quanto non lo fossero gli uomini. Questi, infatti, di solito, una volta ottenuto il brevetto di ingegneri solari, abbandonavano il villaggio per andare in città a cercare di sfruttare economicamente la loro nuova professione. E concluse: «Si educas a un niño tendrás un hombre, si educas a una niña tendrás una aldea» (Se educhi un bambino avrai un uomo, se educhi una bambina avrai una comunità). Magalys lo ascoltò con attenzione e, pur non avvezza a concetti come quello dell’empowerment femminile, comprese che la posta in gioco non era solo imparare un mestiere, ma regalare a tutta la sua comunità energia elettrica. Si sentì chiamata in causa, ne discusse con la sua famiglia e decise di partire per recarsi al corso intensivo per ingegneri solari organizzato dal Barefoot College in Rajasthan, India.

Bunker Roy e il «collegio dei piedi scalzi»

Il Barefoot College, «collegio dei piedi scalzi», (www.barefootcollege.org) è una fondazione non profit con base a Tilonia, un villaggio del Rajastan. È un centro di lavoro sociale e di ricerca di cui esistono pochi esempi al mondo. Fu creato nel 1972 da Bunker Roy, un attivista della intellighenzia indiana. Dopo aver studiato nelle migliori università, seguendo i principi del Mahatma Gandhi secondo il quale lo spirito dell’India vive nei villaggi, invece di sfruttare i suoi studi per godersi una vita da benestante, decise di andare a vivere per un certo tempo in campagna, dove si scontrò con la violenta realtà dell’India rurale. Dopo aver toccato con mano le devastanti conseguenze della carestia del Bihar del 1960, Roy decise di regalare il suo sapere ai poveri e agli emarginati, i cosiddetti «intoccabili», che per lui erano persone degne di rispetto che andavano aiutate a mettere a frutto le proprie conoscenze. Convinto delle potenzialità della formazione come strumento di riscatto, diede il là a uno degli esperimenti sociali più interessanti dell’India contemporanea e, lavorando sulla formazione di poveri e analfabeti, riuscì a nobilitare mestieri antichi come quello delle levatrici o degli scavatori manuali di pozzi, e a responsabilizzare migliaia di persone che nessuno avrebbe mai impiegato, rivisitando dalle basi il concetto stesso di «professionalità» che – secondo Roy – è una combinazione di competenza, passione, e sicurezza per il proprio lavoro. Convinzione quella di Roy che negli anni gli fece ottenere svariati riconoscimenti come quello per l’«Imprenditorialità sociale Schwab» nel 2002, il «Premio Ashden» per l’energia sostenibile nel 2003, e nel 2005 il «Premio Skoll per l’Imprenditoria sociale», trasformandolo in una delle figure di spicco nella comunità indiana del mondo della cooperazione. La rivista Time lo ha nominato nel 2010 tra le 100 personalità più influenti del mondo.

Il Barefoot College ha formato più di 50mila bambini attraverso le scuole serali in villaggi remoti di sedici stati indiani per creare «professionisti a piedi nudi», insegnando loro a sfruttare le proprie risorse in maniera autonoma. Grazie al coinvolgimento di partner internazionali, è poi riuscito ad ampliare i suoi programmi verso regioni sperdute dell’America Latina, dell’Africa e del Medio Oriente. Il suo nuovo obiettivo ora è quello di formare più donne possibile per portare energia elettrica nei loro villaggi, rendendoli sostenibili e rafforzandone il tessuto sociale per incentivare i suoi abitanti a non fuggire verso le città.

A raccontarci tutto questo, con gli occhi pieni di rispetto e ammirazione, è proprio Rodrigo Paris, ambasciatore per l’America Latina del Barefoot College che, dopo aver trovato Magalys, è riuscito a convincere a partire alla volta di Tilonia altre donne coraggiose: Anastasia, Maria Luisa e Maria Milagros. Tutte loro, anche grazie alla partner-ship con l’italiana Enel Green Power (www.enelgreenpower.com), hanno portato elettricità a migliaia di persone di varie comunità sperdute.

Raccontare alla luce di casa Magalys

Ho scelto di andare a visitare la comunità di Magalys, all’estremo settentrionale della penisola, nella provincia di Nazareth, la più difficile da raggiungere. Per arrivarci servono diversi giorni di viaggio in cui non è mai chiaro quando si arriverà. Per la strada s’incontrano solo cactus, alberi morti e vecchi mulini arrugginiti che evocano una lontana presenza umana. Quando sono giunta con Rodrigo Paris, dopo vari incidenti di percorso come insabbiature e conseguenti salvataggi da parte di indios locali, la strada tortuosa che si arrampicava per la serra della Makuira era avvolta nell’oscurità più assoluta. Una volta giunti in cima, è apparsa fioca una luce che, oscillando, si è avvicinata sempre più fino a svelarci Magalys nel suo bel vestito bianco e nero. Dopo averci accolti sorridente nel suo rancho, la donna si è messa subito a preparare arepas con queso nella sua cucina illuminata da varie lampade a led alimentate dai pannelli solari.

«Vedi, anche solo questo momento che stiamo vivendo ora sarebbe stato impensabile qualche anno fa: passare la serata insieme chiacchierando, cucinando o tessendo. Ora i ragazzi possono studiare la sera, noi donne possiamo tessere e si può passare del tempo insieme senza doverci mettere a letto alle sette di sera per poi svegliarci alle tre del mattino. Ora sì che abbiamo capito perché in città la gente fa le ore piccole», scherzava con la sorella.

Magalys, come le altre indigene wayuu partite con lei per la grande avventura, parlava solo wayuunaiki e un poco di spagnolo. «Chi avrebbe mai potuto credere a una cosa simile? Proprio io in India. Africa», racconta, felicemente ignara delle sue lacune geografiche, commossa nella sua amaca tessuta a mano e oscillante al vento del Nord, tipico della regione. «Il viaggio è stato difficile all’inizio. Nessuna di noi capiva nulla di cosa dicessero. Pensavamo fosse hindi, poi abbiamo scoperto che era inglese». «Ripetevamo – continua la donna – cento volte le stesse parole: il nome dei componenti, delle valvole, trasmettitori, bottoni, lampade… era estenuante; pensavamo di non farcela. Le mie compagne volevano tornare a casa. Non eravamo neanche in grado di chiedere di non darci quel cibo così piccante, pensavamo davvero di aver fatto un lungo viaggio inutile. Ma a un certo punto ho capito quello strano abbinamento tra numeri e colori – ha sussultato Magalys emozionata dal ricordo -. Mi sono alzata dal mio banco e ho detto: “Teacher! Posso venire alla lavagna?”. E da allora ho cominciato ad aiutare le altre che avevano più difficoltà. E la lingua, anche con le signore che arrivavano da Zanzibar e dal Myanmar, ha smesso di essere un problema. Comunicando a gesti, siamo riuscite a fare amicizia scoprendo di avere molte cose in comune, e alla fine ci siamo anche divertite».

E così grazie a un’intuizione sagace, a vari incontri casuali, un pizzico di fortuna, molto coraggio e un metodo di apprendimento basico fatto di empatia, ascolto, gesti, ripetizioni e associazione di numeri e colori, dopo sei mesi di corso in India, le novelle ingegnere solari sono tornate in Colombia.

Le ingegnere (e i pannelli) al servizio delle comunità

Maria Luisa ha partecipato all’installazione di 35 pannelli solari a Bocas de Aracataca, nel dipartimento di Magdalena. E Magalys, già da un paio d’anni, monta valvole, gestisce e ripara i pannelli quando subiscono dei danni e ha anche imparato a ricaricare i telefoni, di modo che i membri della sua comunità non sono più costretti a fare chilometri a piedi sotto il sole per andare fino a Nazareth per la ricarica. E grazie alle conoscenze acquisite, e ai pannelli donati da Enel per il programma «Enabling Electricity», presentato al Forum del Settore privato nell’ambito dell’iniziativa «Global Compact» delle Nazioni Unite (www.unglobalcompact.org), non solo lei, ma buona parte della comunità, sta portando avanti un progetto più ampio di elettrificazione rurale in quindici comunità tramite il fotovoltaico, che mira a facilitare l’accesso all’elettricità in aree isolate come Nazareth, Wimpeshi o Uribia, rendendole comunità autosufficienti e sostenibili.

Grazie all’appoggio della Corinam International Corporation (corinam.org), le ingegnere solari infatti hanno dato vita all’«Associazione solare pedagogica» per implementare la formazione della comunità attraverso riunioni e workshop di contabilità di base, gestione del progetto, responsabilità, gestione dei conflitti. Le famiglie utilizzatrici del programma assicurano la sostenibilità del servizio e la remunerazione delle «mamme solari», tramite un contributo mensile il cui importo è stabilito collettivamente, e comunque inferiore a quello che le famiglie avrebbero speso per l’illuminazione tradizionale.

Si chiama cooperazione

Il Barefoot College gestisce il progetto, il governo indiano copre i costi del viaggio e la logistica, il settore privato mette i pannelli solari, le donne chiamate in causa mettono il loro impegno, il loro coraggio di essere catapultate in un altro mondo, e i loro mariti e gli uomini dei villaggi mettono lo sforzo che comporta accettare un ruolo nuovo della donna all’interno della loro comunità. Una circostanza, questa, che in certe società come quella wayuu (fondata sul matriarcato) ha già delle basi culturali, ma in moltissimi altri casi, specialmente in paesi del Sud, è molto facile che possa creare conflitti interni. Quello innescato dal Barefoot College è un meccanismo virtuoso di cooperazione internazionale sulle questioni relative all’energia solare che dal 2008, quando il governo dell’India ha deciso di includerlo nei suoi programmi di cooperazione internazionale, è riuscito ad addestrare 1.100 donne provenienti da 64 paesi. In Colombia, grazie a 350 impianti solari installati nella regione, è arrivato a coinvolgere 15 comunità, 1.050 famiglie e circa 3.500 beneficiari. Grazie anche all’iniziativa di Enel Green Power, dal 2012 a oggi, ha garantito l’accesso all’elettricità in 41 comunità di nove paesi dell’America Latina portando benefici a 19mila persone scommettendo non solo a favore della sostenibilità ma anche della parità di genere, favorendo l’empowerment femminile.

La sfida raccolta da queste donne indigene colombiane, grazie a questo esperimento di sapere collettivo, sta tessendo legami nella comunità e distribuendo a raggiera le conoscenze acquisite, migliorando la vita quotidiana dei beneficiari, e continuando a creare opportunità permettendo a queste donne, madri, nonne indigene di reinventare il proprio futuro e di rendendolo davvero «luminoso».

Eloisa D’Orsi


La?magia?2:

i Wayuu e la trasformazione dell’acqua

Salata, dolce, scarsa (ma sempre preziosa)

Secondo dati ufficiali sono 5mila i bambini indigeni morti negli ultimi sei anni per denutrizione e mancanza d’acqua potabile nella Guajira. Vi raccontiamo la storia di Juan Carlos Borrero Plaza, ingegnere che, per aiutare le popolazioni della regione, ha inventato un sistema per desalinizzare l’acqua.

La penisola della Guajira è una terra semiarida e, per gli indigeni che la abitano, l’acqua è sempre stata un elemento chiave. Amata, rispettata, invocata, difesa, temuta, scarseggiante e maledetta, ma pur sempre wuin (acqua). I Wayuu vivono da secoli questa contraddizione: attorniati da ogni lato dall’acqua salata dell’Oceano, hanno sempre visto scarseggiare quella dolce. Ma se prima – da nomadi e abili rabdomanti quali sono sempre stati – spostandosi alla sua ricerca, padroneggiavano quelle lande desolate, ora che si ritrovano confinati in un territorio sempre più frammentato e compromesso dall’industria mineraria, stanno letteralmente morendo di sete. Per letteralmente intendo che, secondo i dati dell’Unicef, i bambini morti negli ultimi sei anni a causa della malnutrizione sono stati 5mila, anche se secondo le autorità tradizionali la cifra potrebbe arrivare a 14mila.

Quando arrivò Juan Carlos

Vedere un bambino morire di disidratazione davanti ai propri occhi è uno spettacolo difficile da accettare, specialmente in questo secolo, e a maggior ragione per una persona come Juan Carlos Borrero Plaza, un ingegnere specializzato in approvvigionamento idrico e in energie rinnovabili. Un giorno, di ritorno da una visita al Parco Eolico di Jepirachi della Empresas Públicas de Medellín (Epm), nel bel mezzo del deserto si trovò di fronte a una donna che supplicava aiuto per suo figlio. Parlava in wayuunaiki e Juan Carlos non capiva. La guida che accompagnava lui e consorte gli spiegò che, nella Guajira, i bambini muoiono di sete. Portarono la donna e il figlio in ospedale, ma il bimbo morì: Juan Carlos rimase scioccato. Non si capacitava che esistesse un problema simile proprio nel suo paese. Promise allora a sua moglie Helga che avrebbe smesso di dedicarsi a qualsiasi altra invenzione fino a che non avesse trovato una soluzione per tutti coloro che non possono soddisfare un bisogno primario come quello dell’acqua.

L’invenzione dell’«aero-desalinizzatore»

Con 20 anni di esperienza nell’installazione di impianti di trattamento delle acque alle spalle, l’ing. Borrero sostiene che i sogni nascano nel cuore, crescano nella mente ma si realizzino con le mani. Così mantenne la sua promessa tornando nella provincia di Manaure per eradicare il problema della siccità e ridare l’acqua ai «figli della pioggia», il popolo wayuu.

Quando i capi tradizionali dei villaggi sentirono parlare quel signore con un accento caleño che sosteneva di poter estrarre acqua dolce dal sottosuolo grazie alla forza motrice del vento, pensarono che si trattasse di un incantesimo. O forse della solita fregatura di abili venditori di promesse come ne avevano già incontrati.

Succede spesso che, in una regione con grandi risorse ma minime possibilità di riscatto, le poche persone preparate, approfittino delle ricchezze a disposizione facendo aumentare esponenzialmente l’ingiustizia sociale. Ma Juan Carlos è un omone con la faccia sincera e gli indigeni di quel villaggio di 30 abitanti erano così disperati che decisero di dargli il loro assenso. Fu così che, durante i nove anni successivi, egli poté utilizzare segretamente il villaggio di Ulekumaná, in provincia di Manaure, come laboratorio a cielo aperto per mettere a punto la sua invenzione e finalmente brevettare il suo «aero-desalinizzatore». Un apparato basato sulla forza dell’energia eolica (che fornisce la pressione necessaria per aspirare acqua da pozzi) e sulla osmosi inversa che purifica l’acqua facendola passare attraverso filtri e membrane legate che ne sopprimono gli agenti patogeni. Una tecnica questa che Barrero ha messo a punto anche grazie a due viaggi di studio in Egitto e in Messico per approfondire le conoscenze della tecnologia idrica degli antichi egizi e delle civiltà precolombiane, i quali già in quei tempi remoti utilizzavano gli ioni per purificare l’acqua.

Purificare con la forza dei venti

Nella Guajira acqua ce n’è in quantità, ma quella dolce è solo circa l’1%. Purificare la linfa vitale significa dover affrontare costi ingenti e pertanto non sostenibili.

Per rendere il progetto sostenibile, gli studiosi coinvolti da Barrero si sono concentrati sul tema dell’energia che avrebbero dovuto usare per realizzare il processo di purificazione. In una regione come la Guajira, sferzata dagli Alisei del Nord, una forza della natura perenne e pulita, l’idea di utilizzare il vento è sembrata ovvia. Per sfruttarlo senza costi aggiuntivi sono stati utilizzati quei 3mila vecchi mulini a vento installati, negli anni ’50, dal governo di Rojas Pinilla. Da anni in disuso, essi languivano spettrali nel deserto. Ora invece, grazie al progetto di Juan Caros «Guajira sin sed» (Guajira senza sete), hanno finalmente ricominciato a battere le ali, riuscendo incredibilmente a vincere la sfida di rendere dolce l’acqua salata, senza l’ausilio della chimica e costi insostenibili.

Il progetto di Barrero, presentato con l’appoggio dell’Università Santiago de Cali nel 2013, oggi conta 40 aerodesalinizzatori nella zona. Essi forniscono acqua potabile a molte rancheríe (fattorie) isolate disperse per tutta la Guajira. Ogni aerodesalinizzatore – che può durare tra i 20 e i 30 anni – consente di produrre 4mila litri di acqua potabile al giorno, e aiuta a dissetare 20mila persone. Un successo che è stato certificato a livello mondiale da Unicef e dalla impresa svizzera «Sgs», leader mondiale nella verifica e certificazione. Ora che il progetto è avviato, Barrero vorrebbe riuscire a superare tutti gli impedimenti e arrivare a installare almeno 400 di questi sistemi nella Guajira.

Le potenzialità dell’idrogeno

Uomo di scienza, ma anche inventore, alchimista e soprattutto sognatore, Juan Carlos vede cose che altri non hanno la lungimiranza di vedere. Già ai tempi dell’università inventava modi per purificare l’acqua facendola bollire con raggi ultravioletti, o si faceva ispirare dal sistema digestivo delle galline per decomporre sostanze senza prodotti chimici. Non c’è da stupirsi che abbia inventato una nuova tecnica per l’idrogenasi tropicale (metodologia che spezza la molecola dell’idrogeno, ndr), che gli è fin valsa un invito alla Casa Bianca. Il gas idrogeno, che può essere ottenuto dall’acqua, ha enormi potenzialità per generare e conservare energia da usare per produrre elettricità ad un prezzo ragionevole. I nuovi catalizzatori a idrogeno potrebbero diventare un passaggio chiave nel processo di sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili.

Juan Carlos Barrero Plaza d’altra parte è convinto del fatto che le tecnologie si debbano adattare alle persone e non certo il contrario. Lui fa parte di quella ristretta cerchia di persone che in Colombia sta lottando per capitalizzare il proprio patrimonio naturale, solare ed eolico per utilizzarlo in favore delle popolazioni svantaggiate che vivono in un territorio da secoli penalizzato dalla carenza d’acqua dolce e dall’abbondanza di acqua salmastra, e che nel prossimo futuro potrebbe vedere aumentare le difficoltà in concomitanza con l’aggravarsi del cambio climatico.

Bambini da istruire

Quando non sta ideando marchingegni, Juan Carlos inventa storie per bambini, storie che gli hanno già fatto guadagnare un premio dalla «Società dei poeti» della Colombia e che lui sta cercando di pubblicare con uno sponsor per poterli regalare ai poveri, perché possano leggere e imparare come tutti gli altri.

È convinto sia fondamentale e necessario insegnare ai bambini che le nostre risorse non sono infinite e che – se non accresceranno le loro conoscenze – continueranno a subire le prepotenze di chi sa approfittare meglio delle circostanze.

«I sogni sono nati nel cuore, crescono nella mente e sono fatti con le mani. Così continuerò a lavorare, se Dio lo permette», ama ripetere Juan Carlos Borrero Plaza. Uomo di scienza, inventore, alchimista e soprattutto sognatore.

Eloisa d’Orsi


Questo dossier:

 Eloisa d’Orsi

Eloisa d’Orsi è una fotogiornalista freelance, laureata in antropologia visiva presso l’Università di Torino. Ha collaborato con varie testate quali Internazionale, L’Europeo, GEO, New York Magazine, The Guardian, El Pais, Die Zeit. Ha lavorato molto sull’America Latina, con un’attenzione particolare alla Colombia. Negli ultimi anni ha coperto il conflitto in Crimea e nella Striscia di Gaza (nel 2014), la situazione igienico-sanitaria in India e nella Repubblica democratica del Congo (nel 2016) grazie a un grant dell’European Journalism Centre. Più recentemente, grazie a una fellowship dell’Iwmf (International Women’s Media Foundation), ha realizzato questo lavoro.

Ringraziamenti

Un ringraziamento a Luz Angela Uriana e alla sua famiglia, al leader di Chancleta Wilman Palmezano Arregocés, Jackeline e Jasmine Romero Epiayù di Fuerza Mujeres Wayuu, Censat Agua Viva, Emma Banks, Avi Chomsky, Annabel Micus del Colectivo de abogados, Louise Winstanley di ABColombia, Cinep, Richard Solly, Peter Drury e Stephan Suhner di Ask (Arbeitsgruppe Schweiz-Kolumbien) e Oliver Balch e Juanita Isla di Iwmf.

I principali siti web citati:

 www.cerrejon.com; www.barefootcollege.org; www.enelgreenpower.com; www.corinam.org; www.unglobalcompact.org.

Altri link e YouTube:

Per il testo 1: stress idrico, censat.org/; diritti umani, www.colectivodeabogados.org/;
Fuerza Mujeres Wayuu; jieyuuwayuu.blogspot.it/;
speciale carbone Colombia // El Espectador; static.elespectador.com/especiales/1402-caribe/index.html.com.
Per il testo 2: Barefoot College, Bring the sun home, Anastasia Garcia, Magalys Polanco cercare su YouTube.
Per il testo 3: revistas.usc.edu.co/index.php/Ingenium/article/viewFile/312/277 e su YouTube (aerodesalinizzatore).

Foto delle copertine

In prima: Magalays Polanco illumina la sua casa.
In ultima: un gruppo di Wayuu occupano per protesta i binari della ferrovia che collega la miniera de El Cerrejón a Puerto Bolivar.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




I Maya, il mistero di una civiltà perduta


Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell’America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell’era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l’improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l’architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente.
E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l’uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.

Le ipotesi fantasiose

L’avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all’era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.

Piramide a gradoni di Sakkara o Saqqara in Egitto

Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all’uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un’importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L’evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.

Ziggurat di Ur

La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l’eresia, dall’altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso.

Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l’apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l’organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.

Stele davanti a un tempio di Calakmul

La matematica, il calendario, l’astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l’alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via.

In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l’anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell’anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell’era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell’VIII.

Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all’astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all’osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell’anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque e Chichén Itzá.

El Caracol, osservatorio astronomico di Chichén Itzá

Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l’astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell’anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l’anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza.

I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51).

Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un’idea dell’antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico.

Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti.

Un chacmool di Chichén Itzà

La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l’agricoltura e l’80% dell’alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell’importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell’astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all’incoronazione di un re.

sacro cenote di Chichén Itzà

I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L’aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un’antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan.

Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all’interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.

La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi.

Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell’albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.

La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell’età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l’invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l’introduzione di nuovi culti.

Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l’ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s’impegnarono in un’opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l’istituzione dell’encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l’impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán.

Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l’eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d’accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l’ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.

I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos’è rimasto dell’antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell’America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo.

Mercato “Maya” oggi

Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L’antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l’hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l’astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l’alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia.

Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere».

Sergio Parmentola

Sergio Parmentola insieme alla sua guida, Edgardo Coello

 

 




Ecuador: Meglio i turisti che il petrolio


Sani Isla è il nome di una comunità indigena quichua di un migliaio di persone che vive sulle rive del fiume Napo, davanti al parco nazionale Yasuní. In questi anni la comunità ha dovuto affrontare le mire espansionistiche delle società petrolifere, prima della statunitense Occidental Petroleum (Oxy), poi della ecuadoriana Petroamazonas. La prima se n’è andata, la seconda ha iniziato a operare anche all’interno del vicino Yasuní, scrigno mondiale della biodiversità e casa di alcune etnie isolate. Nel frattempo, dopo varie esitazioni, la comunità di Sani Isla ha scelto la strada del turismo ecosostenibile, dell’artigianato e della silvicoltura. Allontanando le sirene delle imprese petrolifere. Almeno per il momento.

Francisco de Orellana. Il Rio Napo è uno dei maggiori affluenti del Rio delle Amazzoni. È un fiume importante perché attraversa la foresta amazzonica ecuadoriana, costeggiando tra l’altro il Parco Nazionale Yasuní, uno scrigno inestimabile di biodiversità (nonché casa di alcune etnie indigene isolate)1. La nostra lancia a motore, partita dal piccolo molo di Francisco de Orellana (anche conosciuta come Coca), schizza veloce sul pelo dell’acqua. Ogni tanto decelera o vira con agilità per evitare tronchi di alberi che affiorano dall’acqua.

Il fiume, largo e abbastanza profondo, è percorso soprattutto da canoe e da piccole imbarcazioni a motore. Ma ogni tanto s’incrociano anche chiatte che trasportano camion legati all’industria petrolifera. È proprio il petrolio che sta mettendo a repentaglio i fragili equilibri dell’Amazzonia ecuadoriana. Lo si capisce anche da una banale osservazione dell’ambiente circostante. Non molto dopo la partenza dal porticciolo di Coca, sulla riva sinistra del Napo notiamo alcune torri petrolifere sormontate dalla tipica fiamma che brucia il gas in eccesso2. Senza dire degli sbancamenti di cui sono fatti oggetto alcuni tratti della sponda sinistra del fiume.

Avvistamenti di questo tipo per fortuna non si ripetono nelle due ore successive di navigazione: sulle due rive del Napo è pura vegetazione. A un certo punto, mentre sulla riva opposta è già territorio del Parco Yasuní, la lancia inizia a rallentare e si avvicina alla sponda sinistra dove c’è un ormeggio e una passerella. «Bienvenidos a Sani Isla», recita il cartello.

Le donne di Sani Isla

Ci accolgono quattro giovani donne, indigene dell’etnia quichua3 che abita questo spicchio d’Amazzonia ecuadoriana. Indossano semplici ma eleganti camicette colorate e gonne a falde. Una tabella di legno conficcata nel terreno spiega che a Sani Isla, con il supporto di due organizzazioni, la statunitense Rainforest Partnership e la ecuadoriana Conservación y Desarrollo, si porta avanti un progetto lavorativo per le donne della comunità.

Una signora con i capelli neri raccolti in una treccia ci spiega che qui lavorano 34 donne divise in 5 gruppi che si alternano settimanalmente. Dal 2010 le donne producono oggetti d’artigianato – collane, braccialetti, orecchini, borse di stoffa -, fatti con semi e fibre vegetali, raccolte nella foresta o appositamente coltivate. I prodotti vengono poi venduti ai turisti che arrivano dai vicini lodge (Sacha, Sani, Napo Wildlife Center) della foresta e che visitano Sani Isla.

Quello dei lodge è un turismo con un impatto ambientale contenuto sia per i numeri esigui di turisti che muove (è costoso) sia per le sue modalità ecosostenibili. In ogni caso, nessuna attività umana produce un impatto comparabile con la devastazione insita in qualsiasi attività petrolifera (esplorazione, perforazione, estrazione, trasporto, ecc.). La comunità di Sani Isla lo sa benissimo perché in passato, sul rapporto con le imprese petrolifere, si è divisa al proprio interno.

Nel 1998 i leader della comunità firmarono un accordo con l’impresa statunitense Occidental Petroleum (Oxy), per consentire l’esplorazione petrolifera sul loro territorio che si estende per 20.567 ettari legali (e altri 42.000 reclamati)4. Come compensazione ottennero la costruzione di una struttura ecoturistica, il Sani Lodge. Questo opera dall’anno 2000 ed è interamente gestito dalla comunità, che ne ricava un reddito importante. Per fortuna, la Occidental non trovò il petrolio e se ne andò. Venne però sostituita dalla ecuadoriana Petroamazonas (del gruppo Petroecuador), che già operava in zona e con la quale venne sottoscritto un nuovo accordo. Ma tra molti abitanti di Sani Isla, divenuti nel frattempo più consapevoli dei pericoli dell’attività petrolifera, iniziò a crescere il malcontento. Fu così che, nel dicembre del 2012, l’assemblea comunitaria rigettò quell’accordo, aprendo un contenzioso legale e politico tuttora in corso.

Una donna del gruppo, Mariska, ci accompagna per illustrarci il luogo e le piante che crescono qui attorno. È molto giovane e un po’ timida, ma risponde con gentilezza alle domande, anche a quelle che preferirebbe evitare. «Un tempo – spiega – la comunità lavorava con le compagnie petrolifere, adesso soltanto con il turismo, che è meglio perché non inquina».

A Sani Isla non ci sono abitazioni dato che le singole famiglie vivono lungo il Rio Napo. Qui ci sono soltanto le strutture comunitarie, alcune costruite in maniera tradizionale (con legno e tetti di frasche), altre in muratura. In mezzo un campetto da calcio, una serra, un’antenna radio. Ai lati alcuni piccoli appezzamenti coltivati con prodotti della foresta, soprattutto cacao.

Le strutture più grandi sono due semplici costruzioni in muratura dalla forma rettangolare, un solo piano, grandi finestre e tetto piatto. In una ci sono una lavagna e banchi scolastici su cui poggiano alcuni libri. L’altra, distante pochi metri, ospita un’ampia sala con sedie di plastica dove si tengono le assemblee. Sul bancone, un libro: Pachacamacpac Quillcashca Shimi, recita la copertina. Lo apriamo per capire di che tratti. È una Bibbia bilingue (spagnolo e quechua), segno che la sala è utilizzata anche per le funzioni religiose.

Nessuna compensazione vale l’inquinamento

Sulla porta di una casetta notiamo una giovane donna con un neonato in braccio. Ci avviciniamo e vediamo che la porta è quella dell’ambulatorio medico.

All’interno ci sono due persone giovani – una donna e un uomo – seduti attorno a un tavolo sul quale ci sono un misuratore di pressione, alcune boccette di disinfettante, un barattolo con batuffoli di cotone, alcuni quaderni. I due si presentano come Elizabeth Orbe e Charles Belzu, medici.

«Io sono medico comunitario – spiega Elizabeth -. Lavoro per Petroamazonas. Prestiamo servizio a tutte le comunità che stanno nella sua zona d’influenza. È un lavoro svolto in accordo con il ministero della Salute».

«Io lavoro per il ministero di Salute pubblica e sono specialista in medicina familiare – racconta Charles, boliviano e laureato a Cuba -. Veniamo di norma la domenica perché in questo giorno ci sono le riunioni della comunità. Facciamo anche delle visite alle case quando ci sono anziani o donne in gravidanza che non possono muoversi o che non hanno la possibilità economica per muoversi».

«Le patologie più comuni – spiega Elisabeth – sono problemi della pelle, respiratori e gastrointestinali. Di solito la loro causa sono le scarse condizioni igieniche».

Senza voler mettere in imbarazzo i due giovani medici chiediamo delle patologie conseguenti a inquinamento. «Per quanto ci riguarda – risponde Charles – non abbiamo riscontrato problemi dovuti a inquinamento. Il governo permette l’estrazione petrolifera, ma pretende attenzione per l’ambiente».

All’esterno, su un muro dal vivace colore arancione, una piccola targa recita: «Quest’opera fu costruita da Occidental Petroleum (Oxy) in accordo con la comunità nell’anno 2002».

«Quella adesso non c’è più. Ora c’è Petroecuador», ci dice un giovane dagli occhi arrossati seduto su una panca posta davanti all’entrata.

Parla lentamente, quasi scandendo le parole, forse perché lo spagnolo non è la sua lingua madre. «Mi chiamo Cirilo e sono un agente di salute della comunità di Sani Isla», spiega.

L’agente di salute è una sorta d’infermiere generico. «Le persone che vengono da me – racconta – hanno spesso problemi di pelle a causa di mosquitos e zancudos. E poi c’è la questione dell’acqua: qui non c’è acqua potabile. Dobbiamo purificarla o comprarla a Coca. Quanto ai medici vengono soltanto la domenica».

Chiediamo a Cirilo di questo rapporto ambiguo con le compagnie petrolifere. Lui non ha dubbi ribadendo più volte e senza tentennare: «Vengono qui e inquinano. Noi dobbiamo essere molto duri nei loro riguardi».

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Le acque del Rio Napo

In una capanna senza pareti alcune donne stanno preparando il cibo su una grande griglia scaldata da un fuoco di legna. Sopra cuociono platano (banana da cottura, ndr), tuberi di yucca e alcune varietà di semi.

In un angolo, accanto alle amache in cui sono adagiati due neonati, un’altra donna indigena, accovacciata a terra, sta pulendo pesce del Rio Napo. Il fiume però non è più pescoso come un tempo. Difficile dire se a causa del super sfruttamento o per l’inquinamento delle sue acque causato da sversamenti di petrolio (derrame de crudo). L’ultima emergenza resa pubblica risale al giugno del 2013 quando le acque inquinate del Napo arrivarono fino alla provincia di Maynas, foresta amazzonica del Perù.

Paolo Moiola

 Note

(1) Il Rio Napo nasce alle falde del vulcano Cotopaxi. Confluisce nel Rio delle Amazzoni dopo circa 1.130 chilometri, gli ultimi 667 in territorio peruviano.
(2) La pratica è nota come «gas flaring».
(3) La scrittura: Quichua o Kichwa per l’etnia, Quechua per la lingua.
(4) Fonte: Rainforest Partnership, The Sani Warmi Project, 2013.


Amazzonia

Tra sfruttamento e preservazione

Più l’ambiente è delicato, più la presenza umana produce un impatto rilevante. Come fare per impedire lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia? Come fare se l’interesse particolare di un paese (Ecuador, Brasile, Perù e altri paesi amazzonici) è in conflitto con quello generale della comunità internazionale? E che dire dei diritti dei popoli indigeni che l’Amazzonia la abitano?

Nel 2007 Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, lanciò una proposta rivoluzionaria nota come «Iniciativa Yasuní-Itt». Le ingenti riserve petrolifere del Parco Yasuní sarebbero rimaste nel sottosuolo se la comunità internazionale avesse contribuito a dare all’Ecuador almeno la metà delle entrate che il paese avrebbe ricavato sfruttando quei giacimenti. In questo modo si sarebbe salvaguardata una delle maggiori riserve mondiali di biodiversità, evitando nel contempo di immettere nell’atmosfera altre quantità di anidride carbonica.

I fondi raccolti furono però molto esigui rispetto a quanto previsto dal governo ecuadoriano. Pertanto, nell’agosto del 2013, Correa, ancora presidente, annunciò la fine del progetto e l’inizio dello sfruttamento del petrolio dello Yasuní, pur limitato – spiegò – all’1 per cento della superficie del parco nazionale.

L’idea – sicuramente rivoluzionaria – non ebbe successo un po’ per demerito del governo ecuadoriano, molto per lo scarsissimo contributo della comunità internazionale. Oggi lo sfruttamento del petrolio del Yasuní è iniziato e le prospettive non sono rosee, perché i danni – pur occultati – già iniziano a vedersi.

Il disastro brasiliano – In Brasile, paese che possiede la maggior parte dell’Amazzonia (circa il 64% dell’estensione totale), la situazione è ancora più drammatica, come certificano gli studi dell’istituto Imazon (Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazônia) e i dati satellitari dell’Inpe (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais). Il disboscamento (desmatamento) annuale è diminuito dal 2004 (quando raggiunse la cifra record di 27.800 Kmq, con un aumento del 100% rispetto al 1997) al 2012 (4.700 Kmq), ma successivamente ha ripreso ad aumentare in maniera preoccupante. Stando ai dati ufficiali, nel 2016 il disboscamento è stato di circa 8.000 chilometri quadrati (un’area vasta come la regione Friuli Venezia Giulia). Le ricerche attestano che la causa principale del disboscamento è l’allevamento bovino, seguito dalle piantagioni di soia.

Particolare versus generale – I paesi amazzonici dichiarano che la loro sovranità è un diritto intangibile anche quando si parla di Amazzonia. In base a questa considerazione affermano di avere il diritto di decidere cosa fare dell’ambiente amazzonico e delle sue ricchezze. Dimenticando però che quello stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto ai popoli indigeni, abitanti originari di quei territori.

Conoscere per difendere – La preservazione dell’Amazzonia è un obbligo indiscutibile, a maggior ragione in tempi di drammatico cambiamento climatico. Trovare e mettere in essere una difesa efficace senza privare i paesi amazzonici di opportunità di crescita è un problema aperto e di non facile soluzione. Il mercato internazionale delle emissioni (per esempio, quello del programma Redd, Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è ancora embrionale e presenta aspetti ambigui. L’ecoturismo, pur non esente da impatti ambientali, può essere un’attività economica accettabile se adeguatamente regolamentata. Anzi, può diventare uno strumento utile per far conoscere la bellezza del mondo amazzonico. E quindi per aiutare a difenderlo dalle innumerevoli minacce esterne, in primis dallo sfruttamento indiscriminato delle sue ricchezze.

Paolo Moiola

 

Archivio MC

Tra gli articoli più recenti sull’Ecuador segnaliamo:

  • I dieci anni di Rafael Correa, maggio 2016;
  • L’alunno e il professore, giugno 2016;
  • La maledizione del petrolio, luglio 2016;
  • Una storia troppo sporca, agosto-settembre 2016.

Tutti gli articoli sono firmati da Paolo Moiola.

Siti web

  • yasunidos.org -è la Ong ecuadoriana che difende il Parco Yasuní.
  • rainforestpartnership.org – è la Ong statunitense che si occupa di salvaguardia delle foreste pluviali e che sostiene anche il progetto Sani Isla.

Videoreportage

Un videoreportage sul Río Napo e su Sani Isla è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo




Parchi e Diritti Umani:

Conservazionismo vs Popoli Indigeni


La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli

«Occhi e orecchie» della foresta
Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Contro il bracconaggio (ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

* Per tutti gli studi e le ricerche citati qui di seguito, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.


«Occhi e orecchie» della foresta

Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.

Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.

Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.

Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.

Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».

In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.

Survival International

Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»

Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.

Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.

Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.

Il lato oscuro della conservazione

L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.

A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.

Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.

Chi c’è dietro gli sfratti

Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».

Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.

  • Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
  • Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
  • Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.

Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.

Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.

Un problema mondiale

«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.

  • Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
  • India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
  • Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.

Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.

Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.

Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.

Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.

Sfratti eccellenti

Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.

  • Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
  • Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
  • I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.

Rifugiati a casa loro

Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.

Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».

Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:

  1. In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
  2. Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
  3. Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.

Survival International

Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.

Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.

La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.

Convenzioni violate

Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:

  • all’autodeterminazione (articolo 1.1);
  • a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
  • a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
  • alla libertà di religione (articolo 18.1);
  • a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).

In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.

Recinzioni, multe e intimidazioni

Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.

Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.

In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.

Survival International

Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I Pigmei Baka in Camerun

Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.

Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.

Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.

Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.

I cacciatori Boscimani del Botswana

«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.

Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.

Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.

Survival International

Note

1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.

2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.

I parchi hanno bisogno di loro

I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.

I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.

Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.

«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.

Ragazza Penan, Malaysia.

Incrementano la biodiversità

La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».

Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.

Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.

Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.

Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.

Controllano gli incendi

«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.

Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.

In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.

Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.

Fermano la deforestazione

Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.

Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.

«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.

Fermano lo sfruttamento eccessivo

Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.

Controllano il bracconaggio

I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.

Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.

Bambino boscimano nel Botswana, 2004.

Caccia di sussistenza e sostenibilità

I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.

In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.

Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».

Survival International

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.

Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.

L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.

È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.

Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.

Survival International

Per maggiori informazioni sulla campagna visita la pagina: www.survival.it/conservazione

Nota

* Per tutti gli studi e le ricerche citati, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.

Fonti

  • M. Chapin, A Challenge to Conservationists, WorldWatch, novembre-dicembre 2004.
  • M. Colchester, Conservation Policy and Indigenous Peoples, Cultural Survival Quarterly 28, no. 1 (2004).
  • M. Dowie, Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples, Mit Press (2009).
  • R. Duffy, Are we hearing a “call to arms” from wildlife conservationists?, Just Conservation (2014).
  • M. Gauthier e R. Pravettoni, Come si costruisce un parco naturale, Il Post (2016).
  • Iucn, Sacred Natural Sites: Conservation of Biological and Cultural Diversity, Earthscan (2010).
  • J. Vidal, The tribes paying the brutal price of conservation, The Guardian (2016).
  • Altre fonti sul sito www.survival.it/conservazione.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Survival International È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.