Siccità, fame e guerra: il mondo a un bivio


Dal punto di vista climatico, l’estate 2022 è stata complicata. La siccità si è aggiunta alla guerra in Ucraina, spingendo quasi 50 milioni di persone, specialmente nel Corno d’Africa, sull’orlo della carestia. Intanto, le negoziazioni per il clima in vista della Cop27 non fanno progressi e il Programma alimentare mondiale fatica a trovare i fondi per assistere chi è in difficoltà.

La Cop27, o Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si svolgerà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dall’8 al 17 di novembre@. Purtroppo, le premesse non sembrano per il momento incoraggianti.

Qualcosa di più potrebbe uscire dai lavori preparatori della Pre-Cop27 previsti questo mese, magari sulla spinta dei dati pubblicati a settembre dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc, nell’acronimo inglese) nel Rapporto di sintesi del suo sesto ciclo di valutazione@, ma anche la Conferenza sul clima di Bonn dello scorso giugno si era conclusa con pochi progressi.

Quella di Bonn è stata la prima occasione di incontro per le parti dopo la Cop26 di Glasgow del 2021. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di definire un programma concreto per realizzare i tagli alle emissioni decisi dai paesi del mondo a Glasgow. Invece, riferiscono diverse fonti, fra cui la Bbc, la negoziazione ha subito uno stallo: sul tema delle perdite e dei danni, infatti, le parti non hanno trovato un accordo.

I paesi in via di sviluppo chiedono che Unione europea e Stati Uniti mettano loro a disposizione i fondi necessari a contrastare i danni che il cambiamento climatico sta già provocando nei loro territori. Essi ritengono le due potenze mondiali le principali responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale situazione. Dal canto loro, Usa e Ue respingono queste richieste, temendo che se accettassero di pagare per le emissioni storiche, potrebbero trovarsi costretti a farlo per decenni, se non secoli@.

A complicare il quadro vi è poi la posizione della Cina, oggi principale responsabile delle emissioni con dieci miliardi di tonnellate all’anno, un quarto del totale globale@. La Cina, infatti – ricorda Ferdinando Cotugno sul quotidiano Domani -, per la Convenzione Onu per i cambiamenti climatici, risulta ancora nell’elenco dei paesi in via di sviluppo, come nel 1992, e da quella posizione conduce le trattative sul clima «come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo».

Hunger map 2020 del World food programme

Il cambiamento climatico è già qui

«Il sistema», riporta il pezzo di Cotugno citando le parole dell’esperto della rete Climate action network, Harjeet Singh, «ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta»@.

Oggi, a essere distrutte, sono sempre più anche le «case» europee e statunitensi: nel nostro continente, l’estate scorsa è stata la più calda degli ultimi 500 anni@, mentre uno studio della rivista Nature, già a febbraio scorso, indicava il ventennio 2000 – 2021 come il più secco da 1.200 anni a oggi per gli stati sudoccidentali degli Usa@.

Quanto all’Africa, fra Etiopia, Kenya e Somalia, lo scorso agosto erano 22 milioni le persone che avevano difficoltà a trovare sufficiente cibo. Un numero quasi doppio rispetto ai 13 milioni in difficoltà a inizio anno, mentre le persone che non avevano accesso ad acqua pulita erano passati dai 9,5 milioni di febbraio ai 16,2 milioni di agosto.

La maggior parte degli abitanti del Corno d’Africa, riporta Unicef@, dipende dall’acqua fornita da venditori che la trasportano su camion o carretti trainati da asini, e nelle zone più duramente colpite dalla siccità molte famiglie non possono più permettersi di comprarla: ad esempio, il prezzo dell’acqua in Kenya ha subito fra gennaio 2021 e lo scorso agosto aumenti fino al 400% a Mandera, nel Nord del paese, e del 260% a Garissa, città a poco meno di 400 chilometri a Est della capitale Nairobi.

Angola, nel territorio di Luacano

Le difficoltà del Wfp

La regione del Corno d’Africa sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni perché, per quattro volte consecutive, la stagione delle piogge è stata troppo scarsa di precipitazioni e, secondo le previsioni, sarà così anche la prossima. «Ancora non si vede la fine di questa crisi», ha avvertito lo scorso agosto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World food programme, Wfp), «perciò dobbiamo trovare le risorse che servono per salvare vite umane e impedire alle persone di arrivare a livelli di fame catastrofici».

Le risorse che servono sarebbero circa 418 milioni di dollari per i prossimi sei mesi, ma ottenerli è più difficile anche a causa della guerra in Ucraina, che sta avendo conseguenze dirette sulla capacità del Wfp stesso di ottenere il cibo da distribuire nelle emergenze umanitarie, innanzitutto, in termini di forniture. Nel rapporto sull’approvvigionamento di cibo del 2021@, infatti, si legge che sia Ucraina che Federazione Russa erano fra i primi dieci fornitori dell’agenzia Onu: su 4,4 milioni di tonnellate di cibo, quasi un quinto – principalmente grano e piselli – venivano dalla prima e il 5,5% dalla seconda, che forniva grano, farina di grano, olio vegetale e legumi.

Inoltre, il Wfp prevedeva a marzo scorso che l’incremento dei prezzi del grano causati dalla guerra avrebbero determinato su base mensile un aumento di circa 23 milioni di dollari nei propri costi di approvvigionamento, che si aggiungevano ai +6 milioni di dollari al mese per maggiori costi di trasporto e ai +42 milioni di dollari di costi in più che l’agenzia già stava registrando rispetto al 2019, per un totale di 71 milioni di dollari al mese di aumento@.

Per questo la partenza dal porto di Odessa della prima nave con 23mila tonnellate di grano diretta in Etiopia, resa possibile dall’accordo Black sea grain
initiative sottoscritto da Ucraina e Russia con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite, è stata accolta con sollievo@.

«Per fermare la fame nel mondo non basterà l’uscita delle navi dall’Ucraina – dice Beasley -, ma con il grano ucraino di nuovo sul mercato globale abbiamo la possibilità di impedire a questa crisi di aggravarsi ancora».

Borodjanka

La guerra in Ucraina e l’insicurezza alimentare

Ma le conseguenze della guerra in Ucraina vanno oltre le difficoltà del Wfp, e si traducono in insicurezza alimentare per molti paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, riportava l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, in una nota informativa di giugno@, hanno una significativa dipendenza dal grano russo e ucraino. L’Eritrea, ad esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per circa il 93%, il Pakistan importa circa la metà del suo grano dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia.

Al di là della dipendenza diretta dalle importazioni di cibo, che peraltro alcuni commentatori come Ibrahima Coulibaly, della Rete coltivatori dell’Africa occidentale (Roppa), giudicano irrilevanti@, le conseguenze del conflitto riguardano l’aumento dei prezzi e l’inflazione in generale.

La riduzione della produzione agricola e i blocchi nella zona del Mar Nero, si legge in un aggiornamento pubblicato dal Wfp a giugno@, insieme alle restrizioni commerciali, hanno portato a una ridotta disponibilità di prodotti essenziali e a un forte aumento dei prezzi globali dei cereali: rispetto ai prezzi di gennaio 2022, a maggio l’incremento era stato del 48,6% per il grano, del 28,7% per il mais e del 9,3% per il riso, con implicazioni sui prezzi in tutta l’Africa orientale.

L’aumento dei prezzi del carburante e dei generi alimentari ha, inoltre, spinto al rialzo il tasso di inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più povere.

Sempre a causa di sanzioni e aumenti dei costi di produzione, i prezzi globali dei fertilizzanti sono aumentati di quasi il 30% dall’inizio del 2022. Si è così ridotta la quota di fertilizzanti importati in Africa orientale, in coincidenza, fra l’altro, con il picco della principale stagione di semina, quella di marzo-aprile-maggio. Secondo le stime del Wfp, questo potrebbe determinare una diminuzione dei raccolti del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La pandemia da Covid-19 aveva già fatto aumentare di 161 milioni il numero di persone che soffrivano la fame e, secondo la Hunger Map 2020 (mappa della fame) del Wfp, se l’attuale tendenza continua, nel 2030 le persone affamate saranno 840 milioni@.

Questi calcoli non tengono però in considerazione la guerra, il cui impatto può essere per ora solo stimato: nelle simulazioni della Fao, considerando il calo nelle esportazioni previsto dall’Ucraina e dalla Federazione Russa nel 2022 e 2023 e ipotizzando che la disponibilità globale di cibo non verrà compensata con derrate prodotte altrove, nel 2023 il numero di persone denutrite nel mondo potrebbe aumentare di quasi 19 milioni@.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia in Colombia

Clima e guerre, un nodo sempre più stretto

La guerra in Ucraina, spiega Champa Patel, che si occupa del futuro del conflitto con il gruppo di ricerca International crisis group, nel suo podcast War & peace@, spiega che la guerra ha anche un impatto negativo sulla lotta al cambiamento climatico, perché il ritorno parziale di molti paesi occidentali a fonti di energia fossili per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, rallenta il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi climatici, a cominciare dalla riduzione delle emissioni.

Raggiungere questi obiettivi, spiega Patel, è a sua volta «necessario per evitare che il cambiamento climatico abbia effetti catastrofici, soprattutto in quei paesi che sono già fragili o in conflitto». Il clima non provoca le guerre in modo diretto, ma agisce da «moltiplicatore della minaccia e contribuisce al conflitto esacerbando tensioni che esistono già».

C’è poi un aspetto della guerra e del suo incidere sul clima che a oggi è misurato in modo impreciso: le emissioni del settore militare. Axel Michaelowa, fondatore dell’agenzia di consulenze tedesca Perspectives climate group, ha spiegato all’emittente pubblica Deutsche Welle che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. «Le emissioni annuali dirette dei comparti militari in grandi paesi come Stati Uniti e Regno Unito raggiungono l’1% del totale nazionale», la maggior parte per il funzionamento di aerei da combattimento. Altre derivano anche dalla distruzione delle riserve di carbonio durante le guerre, mentre le emissioni indirette per ricostruire città e infrastrutture dopo un conflitto possono facilmente superare i 100 milioni di tonnellate di CO2: circa un quarto dei gas serra emessi dall’Italia@.

Chiara Giovetti

Campo di girasoli in Ucraina




Conferenza cooperazione:

non c’è pace senza sviluppo


Nei giorni 23 e 24 di giugno scorsi, si è svolta a Roma la seconda Conferenza nazionale della cooperazione. Appuntamento fissato per legge, la due giorni ha restituito un’immagine della cooperazione e dei suoi attori profondamente cambiata dagli eventi epocali degli ultimi tre anni.

Pace, persone, prosperità, pianeta e partnership: sono le cinque P dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, quella che contiene gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Cinque parole chiave che hanno dato il nome ad altrettante tavole rotonde di Coopera, la seconda Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo, che si è svolta a Roma lo scorso giugno@.

La precedente Coopera si era tenuta nel gennaio del 2018 e, facendo un confronto anche solo superficiale fra i programmi, alcune differenza saltano all’occhio: tre anni e mezzo fa, la comunità della cooperazione aveva dato grande risalto al dibattito sulla collaborazione con il settore privato, sulla comunicazione e sulla migrazione, mentre aveva parlato meno di pace e di clima@.

Quest’anno, anche se il tema della migrazione è rimasto centrale – anche per via della recente aggressione russa all’Ucraina e dei cinque milioni di profughi che ha causato -, si è parlato molto di più di pace, di ambiente e di crisi climatica, mentre la collaborazione con il mondo profit è stata trattata come elemento che integra la cooperazione.

L’impressione è che, se Coopera 2018@ sottolineava l’importanza della cooperazione in sè – forse per tentare di arginare l’ostilità verso l’aiuto allo sviluppo alimentata dal clima politico dell’epoca -, la conferenza di quest’anno abbia insistito piuttosto sull’argomento che da soli non ci si salva, come la crisi climatica, la pandemia e la guerra in Ucraina stanno dimostrando.

La sensazione di un mondo interconnesso in modo non reversibile e di un’urgenza non rimandabile è emersa in modo più potente rispetto al 2018 e ha ripreso forza il dibattito sull’impegno ad aumentare la percentuale di Pil da destinare alla cooperazione, per portarlo dall’attuale 0,28% allo 0,70% richiesto dalle Nazioni Unite già cinquant’anni fa, come ha ricordato la portavoce della campagna 070 e presidente della Focsiv, Ivana Borsotto@.

Intervento del Cardinal Parolin

Pace@

La prima tavola rotonda della Conferenza è iniziata con un omaggio all’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso nel febbraio del 2021 insieme al carabiniere della scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista del convoglio, Mustapha Milambo, in un agguato nei pressi di Goma, Repubblica democratica del Congo.

La viceministra Marina Sereni ha sottolineato il legame fra intervento umanitario e sviluppo nelle emergenze e nei conflitti. «Dobbiamo avere un’ottica di medio periodo», ha detto Sereni, «e indirizzare gli aiuti in modo da portare assistenza alla popolazione, ma anche rafforzarne la resilienza».

Stimolo, questo, subito raccolto da Fatima Gailani, negoziatrice di pace ed ex presidente della Mezzaluna rossa afghana, che si è fatta portavoce del timore della popolazione afghana che la comunità internazionale abbandoni il paese per ostilità verso l’attuale regime dei talebani, al quale gli aiuti danno sollievo. «È una scelta difficile, ma fatela pensando ai 35 milioni di persone che non sopravviverebbero un solo giorno senza quegli aiuti».

La Ong Emergency, ha poi affermato la sua presidente Rossella Miccio, non solo non ha abbandonato il paese, ma ha ampliato la sua presenza, introducendo fra l’altro una scuola di specializzazione per medici nella quale il 20% degli studenti è costituito da ragazze. L’anno scorso il mondo ha sborsato 2.113 miliardi in spese militari, ha ricordato Miccio, e solo 175 miliardi in aiuti allo sviluppo. Raggiungere lo 0,70% del Pil in cooperazione è davvero «l’obiettivo minimo», e per farlo occorre una volontà politica chiara che scelga questa strada e la porti avanti con la collaborazione di tutti.

L’Africa, ha poi spiegato il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, è il continente con più conflitti e con il maggior numero di paesi nei quali la democrazia regredisce: si registrano infatti numerosi colpi di stato e l’espandersi del jihadismo, che nella provincia mozambicana di Cabo Delgado ha già provocato 850mila sfollati. Chiederci a che cosa serve la cooperazione, ha detto Impagliazzo, equivale a chiedersi a che cosa serve l’Italia.

Intervento di Suor Alessandra Smerill

Persone@

Il panel sul tema Persone ha messo al centro la migrazione, con l’intervento della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che ha ricordato l’accordo raggiunto al Consiglio affari interni dell’Unione Europea lo scorso 10 giugno: su 28 paesi presenti al Consiglio, 18 paesi membri e tre dei quattro cosiddetti associati (cioè non membri Ue ma aderenti al trattato di Schengen) hanno deciso di aderire al meccanismo per il ricollocamento dei migranti, introducendo così accanto al principio di responsabilità anche il principio di solidarietà fra stati europei, con un impegno ad aiutare i paesi di primo ingresso come l’Italia.

Sul nesso fra accoglienza e integrazione si è invece soffermato padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli: «Non dobbiamo pensare all’accoglienza solo in termini di spazio, di quante persone possiamo accogliere», ha spiegato il gesuita, «dobbiamo vederla come la faccia di una medaglia di cui l’altra faccia è l’integrazione». Per la legge attuale, ad esempio, i richiedenti asilo non possono accedere a corsi di formazione professionale. Eppure i dati ci dicono che la loro permanenza in Italia dura anni e allora varrebbe la pena pensarli da subito come nuovi residenti.

La seconda parte della tavola rotonda ha affrontato temi sanitari legati alla pandemia e all’aumento delle diseguaglianze che questa ha causato, ma anche problemi noti da tempo, come l’antibiotico-resistenza che ha reso inefficaci un’ampia fascia di antimicrobici. È fondamentale investire in vaccini e tecnologie, ha precisato la direttrice del Centro della regione Toscana per la salute globale, Maria José Caldés Pinilla: nel Sud del mondo la popolazione vaccinata è fra il 16 e il 20% e questo è preoccupante. Ma è altrettanto fondamentale investire per rafforzare i sistemi sanitari pubblici nel mondo, affinché possano non solo rispondere a future pandemie, ma anche garantire alle donne un parto sicuro.

Intervento di Walter Ricciardi, consulente del Ministro della Sanità.

Pianeta, Prosperità, Partnership

La tavola rotonda sulla Prosperità ha visto la partecipazione del ministro dell’Economia e delle finanze Daniele Franco e, fra gli altri, l’intervento di suor Alessandra Smerilli, religiosa salesiana a capo del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale della Santa Sede@. A causa degli stravolgimenti degli ultimi anni, ha detto suor Alessandra, alcuni dogmi economici sono crollati e modelli alternativi di sviluppo considerati prima un po’ esotici ora non appaiono più come tali. Citando l’economista britannica Kate Raworth, suor Smerilli ha parlato dell’economia della ciambella@: «Finora abbiamo pensato che tutto può essere rappresentato da un grafico su assi cartesiani dove “buono” è ciò che va verso destra e verso l’alto. Immaginiamo invece il sistema economico come un grafico a forma di ciambella, nel cui buco stanno tutti coloro che non si vedono garantiti nemmeno i diritti fondamentali, mentre fuori dalla ciambella stanno quanti vivono senza rispettare i limiti del pianeta. Una finanza per lo sviluppo dovrebbe avere il compito di aiutarci a rimanere tutti dentro quei limiti», ha concluso suor Alessandra, cioè nello spazio delimitato dalla ciambella.

Quanto al panel sul Pianeta@, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha sottolineato che è indispensabile rimuovere le diseguaglianze globali perché la transizione ecologica abbia successo e che «la sobrietà è la forma più sofisticata di resilienza». Francesco La Camera, presidente dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena), ha poi affermato che la crisi attuale dovuta alla guerra in Ucraina avrà nel breve periodo un effetto negativo sulla transizione energetica, per via del ricorso temporaneo a fonti tradizionali per produrre elettricità; tuttavia, nel medio-lungo periodo la crisi potrebbe determinare addirittura un’accelerazione della transizione. Per i paesi che hanno bisogno di trovare alternative al gas russo, infatti, passare al carbone nell’immediato è un modo per non vincolarsi ad altri fornitori di gas firmando con questi contratti a lungo termine, il rispetto dei quali poi allungherebbe i tempi per il definitivo passaggio alle fonti di energia pulita.

L’ultima tavola rotonda sulla Partnership@ ha riguardato la costruzione dei partenariati multi-attore per lo sviluppo sostenibile e ha visto fra gli altri l’intervento in collegamento di Elly Schlein, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna. Schlein ha raccontato di aver partecipato in giugno all’incontro dei 70 direttori nazionali della federazione di Ong ActionAid e di averli visti convergere su un punto: «Serve partecipazione per fare partenariati solidi, ma bisogna soprattutto mettere le fasce più deboli delle nostre popolazioni in condizioni di partecipare».

Chiara Giovetti

Intervento di Mattarella, presidente della Repubblica


Italia in Africa

Il XII Convegno SpeRA

Lo scorso maggio, nei giorni 26 e 27, si è svolto in modalità ibrida – in parte online e in parte in presenza al ministero degli Affari esteri e della Cooperazione interazionale, Maeci – il convegno Italia e Africa@.

Organizzatore ne è stato il consorzio SpeRA, un coordinamento che riunisce diverse associazioni di volontariato attive nella cooperazione in Africa e che ha l’obiettivo di favorire la collaborazione e lo scambio di informazioni fra organizzazioni impegnate nel Continente@.

Le due giornate di tavole rotonde hanno permesso il confronto tra una ventina di partecipanti appartenenti a quattro articolazioni della società: l’università, la chiesta missionaria, l’imprenditoria e il volontariato, inteso quest’ultimo – nelle parole del direttore centrale  per l’Africa subsahariana al Maeci, ambasciatore Giuseppe Mistretta – come cooperazione spontanea, cioè non istituzionale.

A rappresentare la chiesa missionaria sono stati i tre interventi di suor Paola Moggi, direttrice di «Combonifem», la rivista del Centro di comunicazione delle Suore missionarie comboniane, di padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata in Costa d’Avorio e di chi scrive, in qualità di responsabile dell’ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus e collaboratrice di MC.

La sessione del 26 maggio mattina ha affrontato il tema dei progetti e delle opere italiane nei paesi africani. In questo contesto, la chiesa missionaria ha presentato tre iniziative: una scuola nella contea di Foya, Nord Ovest della Liberia, illustrata con un video inviato da padre Lorenzo Snider, missionario della Società delle missioni africane (Sma) responsabile della scuola; il progetto educativo delle Suore missionarie comboniane a Butembo, Nord Kivu, Rd Congo, presentato nel video inviato dalla superiora regionale suor Cinzia Trotta; il Consolata hospital Ikonda, descritto attraverso il video ufficiale visualizzabile online sul sito dell’ospedale@.

Il 26 pomeriggio il convegno ha affrontato il tema «La società civile e religiosa italiana: processi di integrazione in Africa», mentre la mattina del 27 è stata dedicata alle sinergie per la salute globale, o «OneHealth», ossia «un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse» e «sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema sono legate indissolubilmente»@.

La sessione finale del pomeriggio del 27, dedicata agli interventi istituzionali e alla sintesi dei lavori, ha visto l’emergere di un dibattito in corso da tempo nel mondo del volontariato: per molte piccole associazioni è impossibile operare gli adeguamenti – principalmente tecnici, di personale e di bilancio – necessari per essere riconosciute come attori della cooperazione istituzionale. Nonostante questo, con grande impegno e spesso sopportando costi anche notevoli, svolgono numerose attività in Africa e nel mondo, sono a tutti gli effetti una parte della cooperazione dell’Italia e vorrebbero vedere riconosciuto dalle istituzioni il loro ruolo.

Intervento della viceministro Marina Sereni

La risposta delle istituzioni – affidata alla viceministra degli Esteri Marina Sereni – è stata di voler certamente valorizzare il mondo delle piccole associazioni e della cooperazione spontanea, ma di volerlo e doverlo fare nel contesto indicato dalla legge 125/2014 sulla cooperazione, a sua volta frutto di un adeguamento legislativo alle modalità di cooperazione adottate dagli altri paesi europei. Se non possiamo costringere nessuno a adattarsi a un modello unico, ha detto la viceministra riferendosi al modello della cooperazione istituzionale, non possiamo nemmeno pensare che questo modello si adatti alle piccole organizzazioni. L’Italia è sottoposta alla valutazione dell’Ocse-Dac, il comitato di controllo sull’aiuto pubblico allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, e certe procedure che per le piccole associazioni appaiono come rigidità sono tuttavia necessarie per rispettare gli impegni che l’Italia ha preso a livello internazionale.

È legittimo e giusto, ha concluso, che la piccola organizzazione non si iscriva al Registro del Terzo settore, non abbia la forza di partecipare ai bandi, non voglia stare all’interno di regole rigide, così come è giusto che questo tipo di volontariato venga riconosciuto e valorizzato sia dalla rete diplomatica italiana che dalla cooperazione istituzionale, in modi che volontariato e istituzioni devono cercare di definire insieme.

Chi.Gio.




L’economia secondo Francesco

testo di Francesco Gesualdi |


Un’economia che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del pianeta e non lo depreda. È l’idea di economia di papa Francesco.

Nel novembre dell’anno scorso si è tenuto ad Assisi un importante simposio internazionale, che aveva per titolo The economy of Francesco, l’economia di Francesco. L’iniziativa è nata da un invito che papa Francesco aveva rivolto il 19 maggio 2019 a giovani economisti, imprenditori e imprenditrici di tutto il mondo: «Cari amici, vi scrivo per invitarvi ad un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda. Un evento che ci aiuti a stare insieme e conoscerci, e ci conduca a fare un “patto” per cambiare l’attuale economia e dare un’anima all’economia di domani. […] Nella lettera enciclica Laudato si’ ho sottolineato come, oggi più che mai, tutto è intimamente connesso e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. Occorre pertanto correggere i modelli di crescita incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente, l’accoglienza della vita, la cura della famiglia, l’equità sociale, la dignità dei lavoratori, i diritti delle generazioni future. Purtroppo, resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità».

Non bastano le scelte individuali

Gli organizzatori hanno ritenuto che l’invito di Francesco potesse essere soddisfatto affrontando dodici aree tematiche, per l’occasione ribattezzate «villaggi tematici»: lavoro e cura; management e dono; finanza e umanità; agricoltura e giustizia; energia e povertà; profitto e vocazione; policies for happiness; CO2 della disuguaglianza; business e pace; economia è donna; imprese in transizione; vita e stili di vita. Tutte tematiche importantissime, ma forse non le più appropriate per capire quale forma organizzativa deve assumere il sistema economico per raggiungere gli obiettivi auspicati da papa Francesco.

Come cattolici abituati a dare valore alle scelte individuali, abbiamo la tendenza a concentrarci sugli aspetti di microeconomia: la gestione aziendale, il ménage familiare, il risparmio personale e tutti gli altri ambiti che lasciano spazio alle scelte dei singoli. Percorsi senz’altro da esplorare, ma con la consapevolezza che, per vincere le sfide odierne, non bastano le scelte individuali: serve anche una nuova idea di organizzazione economica, senza la quale ci salviamo l’anima, ma non l’umanità.

Fino a ieri il nostro problema principale era la cattiva distribuzione della ricchezza. Un problema gravissimo che stava e continua a stare alla base di molti altri problemi: le disuguaglianze Nord-Sud, le guerre, le migrazioni di massa, le crisi economiche, la disoccupazione, l’aumento di povertà a ogni latitudine. Alle richieste di giustizia, il sistema ha sempre opposto grande resistenza e se, qualche eccezione c’è stata, si è verificata solo in presenza di crescita. In effetti nella seconda metà del secolo scorso, quando l’Europa era attraversata da una crescita sostenuta, in molti paesi si è affermata la socialdemocrazia contrassegnata da bassa disoccupazione, redditi medio-alti e una buona previdenza sociale. Poi, sotto i colpi del neoliberismo, della globalizzazione, della crisi finanziaria e dell’austerità, la crescita si è fermata provocando ovunque aumento di disuguaglianze, disoccupazione, povertà.

La misura del Pil e i limiti del pianeta

Oggi il vero limite alla crescita non viene da dentro il sistema, bensì da fuori. Viene dal pianeta che, dopo due secoli di crescita ossessiva, sta dando segni di cedimento sia sul piano delle risorse che dei rifiuti. Alcuni segnali sono la crisi idrica, l’impoverimento dei mari, l’eccesso di anidride carbonica, i cambiamenti climatici, perfino la pandemia da Covid. Segnali di crisi  che diventano ancora più gravi alla luce del fatto che metà dell’umanità non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana: non mangia a sufficienza, non dispone di servizi igienici e talvolta neppure dell’acqua potabile, non ha accesso alla corrente elettrica, non può curarsi, non può mandare i propri figli a scuola. Per vivere meglio, questa parte di umanità deve consumare di più, ma rischia di non poterlo fare finché noi opulenti non accettiamo di sottoporci a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse. Non a caso nella Laudato si’, papa Francesco scrive: «È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». E nella lettera d’invito ai giovani economisti scrive che «occorre correggere i modelli di crescita».

Mettere in discussione la crescita, significa mettere in discussione il capitalismo perché l’obiettivo di ogni persona che si mette in affari, non importa se in agricoltura, nell’industria, nel commercio o nella finanza, è ottenere un profitto da reinvestire ulteriormente per avere un capitale sempre più ampio. Il desiderio di arricchimento è sempre esistito, ma non era mai successo che fosse elevato a scopo di sistema come invece è successo con il capitalismo. Prova ne sia che il Pil, il famoso Prodotto interno lordo, è stato assunto al tempo stesso come obiettivo e come indicatore dello stato di salute dell’economia e della società. Possiamo dire che il Pil scorre dentro le nostre vene, non solo per il martellamento ideologico che abbiamo subito attraverso ogni possibile mezzo mediatico (pubblicità) e istituzionale (scuola), ma anche perché il sistema è stato abbastanza abile da legare la sopravvivenza di ciascuno di noi alla crescita.

Tra natura e disoccupazione: dubbi e paure

In effetti, prima che alle imprese, la sobrietà fa paura ai sindacati e ai partiti di sinistra per le ricadute sull’occupazione. Sappiamo tutti che il lavoro è legato a doppio filo ai consumi: se questi ultimi crescono, l’occupazione ha qualche possibilità di crescere, altrimenti a crescere sono i licenziamenti.

La storia dimostra che il capitalismo ha messo in atto un vero e proprio piano per trasformarci tutti in persone dipendenti dal lavoro salariato. Prima ci ha spossessato di ogni possibilità di provvedere a noi stessi, poi ci ha detto che l’unico modo per far fronte ai nostri bisogni è rifornirci al supermercato, che però esige denaro per fare passare le merci al di là della cassiera. Così il nostro problema è diventato come procurarci quel denaro che è chiave di accesso ad ogni nostro bisogno e desiderio. Ed ecco il lavoro salariato come unica soluzione che il sistema ci mette a disposizione. Ma il lavoro salariato è legato alle vendite, e più vendite significano più consumo di materia e maggiore produzione di rifiuti. Il che procura non poco imbarazzo in chi ha la doppia sensibilità sociale e ambientale: praticare la sobrietà per non danneggiare la natura o vivere il consumismo per non favorire la disoccupazione? Per cui il vero tema che dovremo affrontare in una prospettiva di sostenibilità è quello del lavoro: come coniugare sobrietà e lavoro per tutti?

La strada per uscire dal dilemma è chiederci se esistono altri modi, oltre il lavoro salariato, per provvedere ai nostri bisogni. Modi non più basati sulla compravendita, e quindi sul denaro, ma sulla gratuità. Se potessimo ottenere ciò che ci serve in forma diversa dall’acquisto, smetteremmo di dipendere dal denaro e quindi dal lavoro salariato. Automaticamente, Pil, produzione e consumi smetterebbero di essere i padroni indiscussi della nostra vita, la sufficienza tornerebbe ad essere la nostra guida per ritrovare l’armonia con noi stessi, con gli altri, con la natura.

Le calamità e il «lavoro d’uso»

La soluzione è il «lavoro d’uso», la forma più ancestrale di lavoro, quello applicato direttamente ai bisogni da soddisfare in ambito personale e familiare: cucinare, lavare, riparare, curare, insegnare. Una soluzione che ci può apparire obsoleta. Eppure, se vogliamo ampliare il soddisfacimento dei nostri bisogni, senza chiedere agli altri di aumentare i propri consumi, dovremmo espandere proprio il lavoro d’uso. Con un’avvertenza: oltre che a livello individuale, il lavoro d’uso può e deve essere organizzato anche a livello collettivo. Lo sperimentiamo ogni volta che siamo colpiti da una calamità. Se il fiume esonda o arriva il terremoto, ci mettiamo subito tutti insieme per affrontare l’emergenza. Ed ora molti sindaci invocano il lavoro d’uso anche in situazione di normalità: quando i soldi si fanno scarsi si scopre quanto sia importante il lavoro delle persone per soddisfare i bisogni collettivi.

Dal micro al macro

Ovviamente il discorso è molto più articolato, ma questi brevi cenni mostrano che, per passare da un’economia della crescita a un’economia del limite, nel rispetto della dignità di tutti e della piena inclusione lavorativa, bisogna sapere operare trasformazioni profonde nell’impostazione economica, fino a ripensare il ruolo del lavoro, il ruolo del mercato, il ruolo del denaro. Soprattutto bisogna concentrarsi sull’economia pubblica per ridefinire la sua funzione e per capire come possiamo farla funzionare in maniera autonoma dal mercato, perché quando le risorse si fanno scarse bisogna riscoprire la programmazione e creare le premesse per garantirci alcune sicurezze di base come il soddisfacimento dei bisogni fondamentali per tutti, la difesa dei beni comuni, un’occupazione minima per tutti.

Traguardi che solo l’economia pubblica può garantire. Ecco perché è riduttivo, e alla fine poco risolutivo, concentrarsi sulle tematiche micro tralasciando quelle macro. È un po’ come concentrarsi sul dito, mentre papa Francesco ci indica la luna.

Una visione incompleta

Azzardo un paio di ipotesi sul perché gli economisti cattolici hanno scarsa propensione ad occuparsi dell’architettura complessiva del sistema e soprattutto perché tendono a non includere l’economia pubblica fra le scelte strategiche di cambiamento. Una prima motivazione è che non hanno piena consapevolezza dello stato di crisi del pianeta e che il tempo della crescita è finito. La seconda motivazione è che fanno una lettura selettiva della dottrina sociale della Chiesa.

Da Leone XIII in poi, molti papi hanno scritto encicliche sociali che hanno dato ampi riconoscimenti ad aspetti come la proprietà privata, l’iniziativa economica, il mercato. Nel contempo, hanno sempre puntualizzato che serve l’intervento dello stato, affinché tali libertà non entrino mai in rotta di collisione con il godimento dei diritti e la tutela dei beni comuni. Troppi economisti e politici hanno la tendenza a fermarsi alle prime affermazioni dimenticando di integrarle con le precisazioni poste a loro corredo. Una lettura ideologica che ostacola la ricerca di soluzioni capaci di affrontare le nuove sfide che la storia ci lancia.

Francesco Gesualdi

Il sistema economico del Pil e del profitto non è più sostenibile. Foto Mohammed Alim – Pixabay.