I Perdenti 58. Beato Carlo Acutis

L’Eucaristia «è la mia autostrada per il Cielo». Sono le parole semplici e significative di un adolescente, espresse nel linguaggio tipico dei giovani d’oggi. Quel ragazzo era Carlo Acutis.

Carlo nasce a Londra, dove i genitori si trovano temporaneamente per motivi di lavoro, il 3 maggio 1991, da Andrea Acutis, di una nota famiglia di Torino, e Antonia Salzano, una coppia di genitori dediti al lavoro e alla famiglia. Appena un mese dopo la nascita di Carlo, la famiglia si stabilisce, per motivi di lavoro del padre, a Milano dove il piccolo Carlo inizia a frequentare le scuole prima presso le Suore Marcelline e, poi, nel liceo classico «Leone XIII», diretto dai Gesuiti.

Curiosità viva

Fin da piccolo Carlo manifesta una caratteristica tipica del suo carattere: quella di avere una grande curiosità sul mondo che lo circonda e sul mistero della vita. È talmente curioso – specialmente sulle questioni religiose – che la mamma inizia a seguire un corso di teologia per riuscire a soddisfare le domande che il figlio, man mano che cresce, le pone. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva: Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli. Prende a modello di vita alcuni giovani santi: Francisco e Jacinta Marto, i pastorelli di Fatima, Tarcisio, Luigi Gonzaga, Domenico Savio.

Anche al catechismo si distingue per la sua attenzione, per la capacità che ha di entrare nel mistero di Dio.

Amore all’Eucarestia

All’età di sette anni riceve la prima comunione: da allora, come racconterà la mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». S’innamora così tanto dell’Eucaristia che ne diviene un vero apostolo, non solo presso i suoi amici e coetanei e verso i più piccoli quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, attraverso una delicata sensibilità cristiana che resta una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita.

Assisi

Carlo ha un legame speciale con Assisi, «un luogo che il giovane milanese amava e in cui ha respirato il carisma di Francesco – scriverà di lui William Stacchiotti su La Voce -. Lo considerava il posto che lo faceva sentire più felice e qui aveva espresso il desiderio di essere sepolto. Carlo ha iniziato a frequentare la città dal 2000 dopo che i genitori acquistarono un’abitazione nel centro storico a fianco alla chiesa di Santo Stefano. Durante le festività natalizie e pasquali e nelle vacanze estive, amava trascorrere il suo tempo in città insieme ai suoi amici frequentando la piscina e giocando a calcio. Una vita serena, spensierata, vissuta con gioia con i suoi coetanei e con le persone incontrate nei suoi lunghi soggiorni. Egli non era un semplice turista o un pellegrino come i tanti che affollano la città del Poverello».

La malattia fulminante

Ma la storia terrena di questo giovane non dura a lungo. Agli inizi di ottobre del 2006 si sente male. Si pensa inizialmente a una semplice febbre, un’influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi portano a una diagnosi infausta: leucemia del tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San Gerardo di Monza. Entrando dice a sua madre: «Da qui non uscirò più», le sue sono parole di un’autentica profezia. Nei giorni del ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non viene mai sentito lamentarsi, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, lui sempre risponde: «Bene, c’è gente qui che sta peggio di me. Non svegliate mia madre che è stanca e si preoccuperebbe». Ormai conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso». Il 9 ottobre chiede l’unzione degli infermi, tre giorni dopo, il 12 ottobre, si spegne serenamente, raggiungendo quel Cristo che tanto ha amato nella sua breve vita.

Originale, non fotocopia

Amava ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo». Sua inoltre è la frase: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per orientarsi verso questa meta e non «morire come fotocopie», Carlo diceva che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente. Ma per una meta così alta servono mezzi specialissimi: i sacramenti e la preghiera. In particolare, Carlo metteva al centro della propria vita il sacramento dell’Eucaristia che chiamava «la mia autostrada per il Cielo». Così lo ricorda mons. Michelangelo M. Tiribilli al Sinodo dei giovani del 2018.

Amore ai poveri

I funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: si presentano alla celebrazione persone di ogni ceto, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito, un giovane che si avvicinava a loro, che li aiutava, che li faceva sentire amati, tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neanche dalla mamma.
È un classico dei santi, chi ama Gesù nascosto nell’Eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Carlo, in uno dei suoi video, ha espresso il desiderio di essere sepolto in terra ad Assisi, e viene, quindi, inumato in una tomba della famiglia nel cimitero della città francescana.

Amico di Gesù

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo, Carlo è stato un giovane come tanti giovani, ma nella sua normale giovinezza ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei fa fatica a cogliere: il potere e la grazia dell’Eucaristia. Fra le tentazioni del mondo che ammalia e stordisce, Carlo è riuscito a sentire la voce sottile del Signore, che chiama a una vita vera; fra i fuochi della gioventù e le tormente del XXI secolo è riuscito a sentire quel sussurro di una brezza leggera, che è stato per lui e, attraverso lui, per molti, una trasfigurazione che lo ha fatto somigliare a quel Gesù che tanto ha amato. Carlo Acutis è la dimostrazione che non esistono tempi o età in cui è più difficile vivere la fede, perché Gesù non è un ideale o un pensiero filosofico, Gesù è una persona viva, che ama, che si fa amare, e l’amore non ha tempo e non ha età.

Il miracolo

Il 12 ottobre del 2010, mentre si celebrava il ricordo di Carlo nella parrocchia di Nostra Signora Aparecida di Campo Grande, in Brasile, al momento della benedizione con una sua reliquia, si avvicinò al sacerdote celebrante un uomo con il suo bambino in braccio, affetto da pancreas anulare, una rara malattia, che causava al bambino continui conati di vomito, anche se ingeriva solo liquidi. Giunti dinanzi alla reliquia, il bambino chiese al padre cosa dovesse dire e il padre rispose: «Chiedi di smettere di vomitare». Baciando la reliquia il bambino ripeté le parole «smettere di vomitare». Da quel momento il vomito cessò per non tornare più. Nel mese di febbraio del 2011 i genitori sottoposero il bambino a nuove analisi ed emerse che il piccolo era totalmente e inspiegabilmente guarito. Questo miracolo è stato riconosciuto dalle Commissioni della Congregazione delle Cause dei Santi per la beatificazione di Carlo.

Beatificazione

Constatata la grande fama di santità di cui Carlo ha goduto sin dal giorno della sua morte, il 15 febbraio 2013 fu istruito il processo diocesano per la sua beatificazione, conclusosi il 24 novembre 2016.

Carlo fu dichiarato venerabile il 5 luglio 2018.

Il 6 aprile 2019 fu riesumato (come è tradizione fare nel caso di cause di beatificazione) e il corpo fu trovato in buono stato di conservazione, ancora con tutti gli organi integri. Ne fu prelevato il cuore (come reliquia) e il corpo fu trattato per la conservazione. Fu quindi traslato nel Santuario della Spogliazione, dove si venera all’interno di un monumento funebre, dotato di vetro, che permette, durante le ostensioni, di vederne il corpo.

Il 20 febbraio 2020 fu promulgato il decreto sul miracolo. La cerimonia religiosa della sua beatificazione si tenne il 10 ottobre 2020, celebrata nella sua amata Assisi.

Patrono dell’Internet?

Nell’esortazione apostolica Christus vivit – scritta a fine marzo 2019 -, papa Francesco, dopo aver ricordato tanti santi e sante giovani, ha un ricordo particolare per Carlo e le sue brillanti doti informatiche. «Ti ricordo – scrive nei nn. 104-106 – la buona notizia che ci è stata donata il mattino della Risurrezione: che in tutte le situazioni buie e dolorose di cui parliamo c’è una via d’uscita. Ad esempio, è vero che il mondo digitale può esporti al rischio di chiuderti in te stesso, dell’isolamento o del piacere vuoto. Ma non dimenticare che ci sono giovani che anche in questi ambiti sono creativi e a volte geniali. È il caso del giovane venerabile Carlo Acutis.

Egli sapeva molto bene che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza.

Non è caduto nella trappola. Vedeva che molti giovani, pur sembrando diversi, in realtà finiscono per essere uguali agli altri, correndo dietro a ciò che i potenti impongono loro attraverso i meccanismi del consumo e dello stordimento. In tal modo, non lasciano sbocciare i doni che il Signore ha dato loro, non offrono a questo mondo quelle capacità così personali e uniche che Dio ha seminato in ognuno. Così, diceva Carlo succede che “tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Non lasciare che ti succeda questo».

Queste parole di papa Francesco hanno incoraggiato l’iniziativa di chiedere che Carlo sia proclamato il patrono del web.

don Mario Bandera

Clicca qui per andare al sito ufficiale sul beato Carlo Acutis
con accesso all’Associazione Carlo Acutis e al Progetto TUCUM.




I Perdenti 57. Galileo Galilei, tra scienza e fede

testo di Don Mario Bandera |


«La mathematica è l’alfabeto in cui Dio ha scritto l’Universo». Queste parole pronunciate da Galileo Galilei presentano molto bene il nostro personaggio: fisico, filosofo, matematico e astronomo, egli è considerato il padre della scienza moderna perché con notevole anticipo sui suoi tempi creò un approccio scientifico alla realtà, basato sull’osservazione oggettiva.

Nato a Pisa nel 1564, Galileo iniziò nel 1580 a studiare medicina presso l’Università della sua città, prima di scegliere nel 1583 di specializzarsi in matematica. Fino al 1585 Galileo rimase a Pisa dove studiò anche fisica. Nella sua città fece la sua prima scoperta importante: si racconta che osservando
l’oscillazione di un lampadario fissato al soffitto della cattedrale di Pisa scoprì l’isocronismo, fenomeno che
stabilisce che il tempo di oscillazione di pendoli di eguale lunghezza è
costante qualunque sia l’ampiezza dell’oscillazione.

Dal 1589 insegnò a Pisa e nel 1592 venne chiamato presso l’Università di Padova dove
rimase come docente fino al 1610. I diciotto anni trascorsi nella città veneta furono
definiti da Galileo «i migliori di tutta la mia età». Nello studio di Padova creò una piccola
officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio: qui inventò nel 1593 la macchina per portare l’acqua a livelli più alti, che fu subito acquistata e utilizzata dalla Repubblica di Venezia.

Ci spieghi come mai un pisano come te lasciò il Ducato di Toscana, brillante per la sua cultura e le arti, per andare a insegnare a Padova?

Andai a Padova anzitutto perché la sua era una delle più antiche e prestigiose università italiane, ma soprattutto per la posizione del governo della Serenissima che la faceva essere una delle università con la maggiore libertà di pensiero e ricerca scientifica, rispetto a quelle di tutti gli altri stati europei, sia cattolici che protestanti. E per me quello, innamorato della matematica e della ricerca scientifica, era il posto ideale.

Il 9 ottobre 1604 nei cieli europei una supernova eccezionale fece vacillare tutte le teorie astronomiche ufficiali del tempo. Fu un fenomeno che ebbe molti osservatori, perché il quel periodo c’era una spettacolare congiunzione di Giove e Saturno. Era il momento buono per fare oroscopi e anche tu ne approfittasti per farne a pagamento.

Insegnavo matematica e astronomia (ancora tolemaica, anche se nel cuore cominciavo a essere copernicano). A quel tempo astronomia e astrologia viaggiavano insieme, convinti come si era dell’influsso degli astri nella vita delle persone. Per cui in molti mi chiedevano oroscopi.

Quella supernova, osservata e documentata dal suo nascere al suo scomparire, aveva cominciato a mettere in discussione la concezione allora dominante sulla natura del cielo e delle stelle. Non era una cometa e neppure un pianeta sconosciuto. Cos’era e da dove veniva? Così mi sono messo ad approfondire e, quando nel 1607 degli occhialai olandesi costruirono il primo cannocchiale, intuii le possibilità offerte da quello strumento che permetteva di vedere lontano.

Così costruisti il tuo primo cannocchiale (chiamato poi nel 1611 telescopio) modificato e perfezionato, e nel 1609 lo presentasti al governo della Serenissima.

Il nuovo strumento mi permise di acquisire informazioni precise sulla luna. Scoprii che la sua superficie non era liscia come pensavano gli antichi, ma presentava delle irregolarità. Il cannocchiale mi diede modo di studiare anche la Via Lattea, che si rivelò un insieme di stelle lontanissime, che allargavano all’infinito i confini dell’universo. Osservai pure che i pianeti del sistema solare avevano dei satelliti e scoprii anche i quattro maggiori satelliti di Giove. Scrutando il sole, poi, vidi con una certa sorpresa che sulla sua superficie c’erano delle macchie.

Le scoperte vennero pubblicate nel 1611 nell’opera Sidereus Nuncius, che inviai al granduca di Toscana Cosimo II de Medici, il che mi valse una posizione da insegnante a Firenze.

Quali erano le idee nuove che tu presentasti?

I miei studi mi portarono a sostenere l’autonomia della scienza da filosofia e teologia.

Lo esprimo in modo semplificato: proponevo che filosofia e teologia (e quindi la Bibbia) dovessero spiegare il perché dell’esistenza del mondo, ma che toccasse alla scienza spiegarne il funzionamento e le leggi. Per me solo la scienza poteva dare una conoscenza valida della natura. «È l’intenzione dello Spirito Santo d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo», scrissi a Caterina de’ Medici, citando una frase del cardinale Cesare Baronio, per spiegarle questo concetto.

china di Paul Gichui

Nel 1611, la Chiesa e il Sant’Uffizio iniziarono a prestare attenzione alle tue opere, e nel marzo di quell’anno fosti convocato a Roma, da papa Paolo IV. Là ti venne ribadito che il nuovo metodo scientifico e il sistema copernicano contraddicevano i testi sacri.

Qualche anno dopo, precisamente nel 1614, a Firenze, frate Tommaso Caccini lanciò contro i matematici moderni, e in particolare contro di me, l’accusa di contraddire le Sacre Scritture con le nuove concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Avevo infatti aderito alle idee di Keplero sui movimenti dei pianeti, tra cui quella in base alla quale la Terra compiva su se stessa un moto di rotazione, e alla teoria eliocentrica enunciata nel De revolutionibus orbium coelestium del 1543 dall’astronomo polacco Niccolò Copernico, per cui non il Sole girava attorno alla Terra, ma il contrario.

Il clima iniziò a farsi teso per i sostenitori di queste idee, e nel 1616 i teologi della Chiesa di Roma (come anche i Riformatori protestanti) affermarono che le idee copernicane erano eretiche perché contraddicevano le Sacre Scritture e le opinioni dei Padri della Chiesa.

Fu in quel periodo che formulai il metodo scientifico sperimentale in una serie di lettere scritte tra il 1613 e 1616, tra le quali la lettera a Caterina de’ Medici, chiamate poi Lettere copernicane, e nel Saggiatore, testo del 1623 dedicato allo studio delle comete. In queste due opere mi preoccupai di spiegare come la Bibbia avesse carattere morale e salvifico, ma non scientifico, per cui volevo chiarire l’approccio che si doveva avere nelle scienze. Le discussioni di carattere scientifico dovevano basarsi su ipotesi e teorie elaborate e confermate a partire dall’osservazione diretta della realtà naturale.

L’osservazione sistematica e scientifica della realtà naturale offriva un cammino nuovo ed esaltante al sapere. Le conferme ottenute aprivano la strada a quello che sarebbe poi rimasto il migliore metodo per comprendere i meccanismi della realtà naturale: il metodo scientifico sperimentale.

Quindi tu fosti uno dei primi protagonisti di quello che sarebbe stato un lungo contrasto tra religione e scienza?

Sì, perché con le sentenze di condanna da cui fui raggiunto, si voleva sottolineare che non ci poteva essere una scienza indipendente dalla visione religiosa biblica, come sostenevo io.

I tempi della cultura e della società nelle quali vivevo non erano ancora maturi ad accogliere le mie idee, ma io volevo che maturassero.

Nel 1633 accettai di presentarmi al tribunale dell’Inquisizione a Roma, per risolvere la questione che ormai si trascinava da prima del 1614, quando un frate di Firenze mi aveva denunciato al sant’Uffizio. Una questione che non riguardava solo me, ma anche altri studiosi (laici, religiosi e frati) che condividevano le mie idee.

Quindi non finì nel 1616 quando ti ammonirono per la prima volta a non professare né divulgare la teoria copernicana?

Dopo quell’ammonizione, il dibattito continuò, e in modo molto vivace, anche perché avevo un carattere forte e non mi lasciavo certo intimidire dai miei oppositori. In più il numero di coloro che condividevano la visione copernicana del mondo e si interrogavano sul vero rapporto tra scienza e Sacre Scritture cresceva. Fu in quel periodo che pubblicai il mio libro Il Saggiatore, che impressionò positivamente il papa Urbano VIII, con il quale mi incontrai poi molte volte.

Quale fu la causa dell’ultimo processo e condanna?

acquarello di Paul Gichui

Nel 1632, dopo anni di lavoro, pubblicai il libro Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, approvato anche dal consultore dell’Inquisizione di Firenze. Nel libro, oltre a sostenere e provare la teoria copernicana, ribadivo che la matematica, mezzo necessario per capire la razionalità della natura, non poteva essere in contraddizione con Dio, il quale è assoluta razionalità. Il libro ottenne un grande successo anche tra molti ecclesiastici e studiosi, ma fece infuriare i conservatori degli uffici romani che lo videro come una minaccia alla fede. In più, in alcuni ambienti, si cominciò ad accusare il papa di essere troppo tenero con le correnti eretiche.

Da qui la decisione di convocarmi a Roma per il processo, che iniziò il 12 aprile e si concluse il 22 giugno 1633 con la condanna.

Quando ti hanno condannato, sei finito in prigione?

La condanna prevedeva tre anni di prigione e la recita una volta alla settimana dei sette salmi penitenziali. Ma la prima cosa che dovetti fare fu l’abiura, nella quale giuravo di credere in tutto quello che «tiene, predica e insegna la santa Chiesa cattolica».  Ma per i salmi, hanno accettato che li dicesse mia figlia, suora di clausura, e presto la pena venne tramutata in arresti domiciliari che scontai fino alla morte nella mia villa di Arcetri, vicino a Firenze, chiamata «il Gioiello».

***

Il 10 novembre 1979, nella sala regia del Vaticano, accanto alla Cappella Sistina, in occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, davanti a cardinali, ambasciatori, scienziati e uomini di cultura di tutto il mondo, Papa Wojtyla ha affermato: «La grandezza di Galileo è nota a tutti, come quella di Einstein. Ma, a differenza di colui che oggi noi onoriamo davanti al Collegio cardinalizio, nel Palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire – noi non sapremo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa».

Dopo aver ricordato che il Concilio Vaticano II aveva deplorato i conflitti che hanno indotto gli uomini a credere che ci sia contrasto tra scienza e fede, il Santo Padre ha così proseguito: «Io auguro che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galilei e, nel riconoscimento leale dei torti, da qualsiasi parte provengano, facciano scomparire le lacune che questo caso ancora presenta, nella mente di molti, in una concordia fruttuosa fra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. Io dò tutto il mio appoggio a questo compito che potrà onorare la verità della fede e della scienza e aprire le porte a future collaborazioni».

Secoli dopo la sua morte, nel 1992 la Chiesa ha riconosciuto formalmente la grandezza di Galileo Galilei, «riabilitandolo» e assolvendolo dall’accusa di eresia. Egli è sepolto a Firenze, in Santa Croce, nel mausoleo dei sommi italiani.

Don Mario Bandera




I Perdenti 56. Suor Leonella, amore come medicina

testo di don Mario Bandera |


Il 26 maggio 2018 è stata beatificata a Piacenza – sua città natale – suor Leonella Sgorbati delle missionarie della Consolata, uccisa nel 2006 in Somalia. Era una consacrata dagli ideali cristallini, aveva dedicato completamente la sua vita missionaria a formare personale locale per gli ospedali in Africa. Nel 2000 aveva accettato di lasciare il Kenya, dove era arrivata nel 1970, per andare ad aprire una scuola per infermieri a Mogadiscio pur consapevole dei rischi che correva in un territorio sconvolto dalla violenza della guerra e dall’estremismo della jihad islamica. Ogni giorno si affidava serenamente e con estrema fiducia a Dio.

Suor Leonella, il cui nome di battesimo era Rosa, era nata nel 1940 a Rezzanello di Gazzola (Piacenza). La sua vocazione l’aveva portata a entrare nell’Istituto delle missionarie della Consolata. Nell’anno in cui è stata uccisa era fra le ultime quattro religiose presenti in Somalia. Tutti gli altri missionari avevano dovuto abbandonare il paese negli anni Novanta, a causa dell’affermazione di gruppi islamisti integralisti e dell’assenza totale delle istituzioni statali, nel contesto di una guerra civile scoppiata nel 1986, e ancora in corso anche se con minore intensità.

La sua testimonianza, il suo sacrificio, restano una delle pagine più luminose e intense della storia dell’Istituto delle missionarie della Consolata.

Suor Leonella, come nasce la tua vocazione?

Il desiderio di donare tutta la vita a Dio è nato in me a 16 anni: in quel lontano giorno – aprile 1956 – leggendo la sua Parola, mi sono sentita «abitata» come se il Signore mi volesse tutta per Sé. Ho provato una tale emozione che in seguito avrei scritto nel mio diario: «Da quel momento capii che non mi sarei sentita mai più sola, ma abitata da Lui».

Un vero scossone per la tua giovane vita, non è così?

Che ha avuto una conseguenza decisiva per la mia esistenza in quanto, riflettendo su quello che stavo vivendo, ho deciso che mi sarei fatta suora… che avrei cercato di vivere per Cristo, e di parlare a tutti del suo amore.

Questi ardori giovanili, sono diventati scelte concrete con il passare degli anni.

Difatti, undici anni dopo sono entrata nell’Istituto delle suore missionarie della Consolata e nel momento della mia professione religiosa mi è stato dato il nome di Leonella.

E poi come si sono sviluppati gli avvenimenti della tua vita consacrata?

Dopo aver compiuto il noviziato e gli studi in infermeria e ostetricia, nel 1970 ho realizzato il sogno di partire come missionaria per il Kenya, dove sono restata 30 anni, interrotti solo da tre rientri in Italia. Agli amici e familiari, che mi chiedevano perché non facessi ritorno più spesso in patria, rispondevo: «Un po’ per gli impegni, un po’ per scelta», ma rassicuravo tutti che non ero diventata selvatica, anche se mi sentivo sempre più africana.

Il tuo lavoro in Kenya in che consisteva?

Dopo i primi anni, appena ho avuto la qualificazione per l’insegnamento, mi è stata affidata la formazione delle infermiere e ostetriche locali. Ho svolto questo servizio soprattutto all’ospedale di Nkubu, vicino alla città di Meru. Con le ragazze aspiranti infermiere ci volevamo un bene dell’anima, tant’è che pur essendo le allieve numerose, riuscivo a stabilire un rapporto profondo e personale con ciascuna di loro.

Ma viste le tue capacità, a questi primi impegni se ne sono aggiunti ben presto altri, non è vero?

Negli anni successivi, sono stata nominata caposala di pediatria al Nazareth Hospital vicino Nairobi, ho conseguito un diploma universitario per dirigere la scuola per infermieri, e, dulcis in fundo, nel ’93 sono stata scelta come superiora delle missionarie della Consolata in Kenya.

La tua competenza nel vasto campo sanitario del Kenya era ampiamente riconosciuta da tutti.

A tal punto, che sono stata chiamata a far parte del Consiglio nazionale degli infermieri, con sede a Nairobi. Ho avuto così modo di partecipare alla stesura del progetto dell’anno 2000 del ministero della Sanità del Kenya «Salute per tutti», che aveva l’obiettivo di creare nelle zone rurali, dove è concentrata l’80% della popolazione, centri sanitari autogestiti.

Proprio allora, però, ti è arrivato un invito al quale non ti sei sentita di dire di no.

Infatti, sempre nel 2000, ho ricevuto una proposta dalla Somalia, dove era rimasto solo un piccolo gruppo di mie consorelle che lavoravano come volontarie nell’Ospedale Sos, Kinderdorf International, l’unica struttura sanitaria presente a Mogadiscio che offriva cure gratuite in ambito pediatrico.

Naturalmente hai accettato.

Sapevamo che c’era urgente bisogno di una scuola per infermieri e infermiere, per questo ho detto di sì. Una volta giunta in Somalia, con molti sacrifici, siamo riuscite ad aprire una modesta struttura.

Nel 2006, si sono diplomate le prime 34 infermiere. Per l’occasione ho voluto che la cerimonia fosse davvero molto solenne e formale. I diplomandi erano tutti con la toga universitaria e in alta tenuta. L’avvenimento senza precedenti in Somalia, è stato trasmesso dalla tv locale, e anche in Kenya.

Qualcuno però ha cominciato a far circolare la voce che tu stavi trasformando questi giovani convertendoli al cristianesimo.

I più fanatici, vedendo i ragazzi con le toghe, dicevano che li avevo già vestiti da «padri», cioè come i missionari. Io non ho fatto caso a queste illazioni piene di acredine nei nostri confronti, ma bisogna pur dire che nel 2006 la Somalia era pervasa da fortissime tensioni, e pur muovendoci nella realtà di Mogadiscio con molta prudenza e nel rispetto di tutti, eravamo ben consapevoli di essere «in trincea», senza difesa alcuna. Per questo le nostre giornate avevano un tempo cospicuo dedicato alla preghiera e alla contemplazione.

Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati


Dopo il 12 settembre 2006, giorno del discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona, scoppiano proteste in tutto il mondo islamico alimentate dai gruppi più radicali. Le consorelle, più avanti, racconteranno di una mattina in cui suor Leonella, che si alzava molto presto per pregare, aveva detto loro con aria sconvolta che «si doveva pregare e offrire molto per il papa e per la Chiesa perché aveva sentito dalla radio che il mondo musulmano era in grande agitazione a causa di un discorso del papa a Ratisbona».

Il 17 settembre è domenica, suor Leonella ha terminato la lezione alla scuola infermieri dell’ospedale e sta rientrando al Villaggio Sos dove abita, situato dall’altra parte della strada, quando viene colpita a morte. Sette pallottole per lei e la sua guardia del corpo, Mohamed Mahamud Osman, musulmano e papà di quattro figli, che muore nel tentativo di difenderla. Lei viene portata ancora viva in ospedale, dove tanti somali si offrono per le trasfusioni di sangue. Una consorella, Marzia Ferra, racconterà così i suoi ultimi istanti: «Era ancora viva, sudava freddo, ci siamo prese per mano, ci siamo guardate e prima di spegnersi come una candelina, per tre volte mi ha detto: “Perdono, perdono, perdono”». Una parola, ripetuta tre volte, che sgorga dal cuore pieno di amore di un’autentica testimone cristiana dei nostri tempi.

Suor Leonella resta nella memoria della grande famiglia missionaria come una donna dalla mente brillante e dal carattere solare e allegro, sempre pronta alla battuta di spirito. «Il suo sorriso aperto e schietto, la generosità nel servire, l’allegria e l’affabilità che faceva stare bene coloro che le erano vicino, sono qualcosa di indelebile e un caro ricordo per una luminosa missionaria della Consolata come suor Leonella».

Don Mario Bandera

*Al martirio di suor Leonella è stato dedicato il dossier su MC maggio 2018.

Quadro della beatificazione di suor Leonella Sgorbati




I Perdenti 55. Hadewijch d’Anversa, beghina, mistica e poetessa

testo di Don Mario Bandera |


È interessante notare come alcuni termini che all’origine avevano un loro un preciso significato, ora ne abbiano un altro ben diverso. È il caso del sostantivo femminile «beghina» (mentre il corrispondente maschile – bagardo – non è mai stato popolare) che «nell’uso comune – scrive il vocabolario Treccani – [si riferisce a una] donna che ostenta una devozione puramente esteriore e formale; bigotta, bacchettona».

Questo termine, a partire dal XII secolo, fu utilizzato per indicare membri di associazioni religiose femminili formatesi al di fuori della struttura ufficiale degli ordini monastici e religiosi con lo scopo di una rinascita spirituale della persona e di un rinnovamento della Chiesa. A tali associazioni si univano donne nubili o vedove, donne pie, fortemente religiose, ma volutamente non monache. Si consacravano al Signore e vivevano in comunità (beghinaggi) o in piccoli gruppi, ma non abitavano nei conventi. Contraevano voti simili a quelli degli ordini religiosi, però privilegiavano la libertà individuale, non rinunciavano ai loro beni e si impegnavano a vivere del lavoro manuale e a distribuire il superfluo. Si affidavano a un consigliere spirituale, ma senza rispondere direttamente alle autorità ecclesiastiche.

Questi movimenti sorsero soprattutto nelle Fiandre (oggi parte del Belgio) intorno al 1150 e si diffusero largamente in Germania e in Francia, e, in misura minore, in Italia, avendo séguito proprio in tempi in cui nascevano i grandi ordini religiosi, come i francescani, i domenicani, i cistercensi. Il tempo di massima fioritura fu il XIII secolo, a cui seguì un periodo di declino con una ripresa nel XVII secolo che neppure la Rivoluzione francese riuscì a spegnere. Le ultime beghine erano ancora attive in Belgio negli anni ‘70 del secolo scorso.

Sebbene influenzate dalla vivacità religiosa del tempo e dalla voglia di rinnovamento che condividevano con i nuovi ordini mendicanti, queste associazioni presto caddero in sospetto di eresia a causa di interpretazioni molto personali e a volte esclusivamente letterali delle Sacre Scritture. Questo era dovuto al fatto di non avere una regola scritta, uni-forme e approvata, all’eterogeneità dei gruppi e alla larga diffusione tra il popolo, e all’essere spesso confuse con movimenti ereticali come Manichei, Catari, Osservanti, Albigesi, Flagellanti e Fratelli del Libero Spirito.

Il termine «beghina» ha un significato incerto e «deriverebbe dal verbo beggen (cfr. ingl. to beg) “pregare” e insieme “mendicare”, o dal francese antico bege (mod. beige), ossia dai “panni bigi” di rozza lana di cui si vestivano» (enc. Treccani). Probabilmente è stato utilizzato anche con connotazioni dispregiative e derisorie da parte dei membri delle istituzioni ecclesiali più antiche che guardavano con sospetto la nascita in seno alla Chiesa di simili movimenti.

Noi abbiamo voluto saperne di più colloquiando con Hadewijch d’Anversa, una delle rappresentanti di spicco del movimento delle beghine di quei secoli.

Carissima, di te conosciamo solo il nome e gli scritti che ci hai lasciato, parlaci un po’ della tua vita.

Sono nata nei pressi di Anversa da una famiglia aristocratica, e ho vissuto tra le Fiandre e il Brabante, tra la fine del 1100 e la metà del 1200, più o meno contemporanea o poco più giovane di san Francesco d’Assisi. Durante il mio periodo di «beghinaggio» misi per iscritto molte mie meditazioni.

Tra le tue opere c’è un gruppo in liriche di stile provenzale, ispirate non dal tuo amore di donna per un uomo o viceversa, bensì dal tuo immenso amore di donna per Dio.

Ho scritto molto nella mia lingua locale, il neerlandese, anche se conoscevo bene sia il latino che il francese. Ho lasciato quarantacinque Poesie Strofiche (Strofische Gedichten), frutto del mio amore per Dio. Ho scritto anche trentuno Lettere (Brieven) a carissime amiche che potevano capire e intendere il mio stato d’animo, e a cui raccontavo le mie pene e le mie gioie di innamorata di Dio.

Abbiamo anche la descrizione delle tue visioni, nelle quali, con più immediatezza, descrivi le tue mirabili esperienze mistiche.

Ho lasciato il racconto di quattordici Visioni (Visoenen) e ho scritto anche un testo definito la Lista dei perfetti (Lijst der volmaakten) dedicato a persone per me sante, oltre un gruppo di sedici Poesie miste (Mengeldichten), definite anche come «lettere in rima».

I miei scritti, soprattutto le poesie, vengono riconosciuti come esempio del vertice letterario (scritti da una donna tra l’altro!) raggiunto dalla letteratura mistica delle Fiandre e del Brabante nei XII e XIII secoli.

Dai tuoi scritti capiamo che il tuo cammino di ascesi mistica è stato un percorso esaltante che ti ha portata a vivere esperienze quasi impossibili da raccontare.

Tutto ciò che l’uomo può pensare di Dio o comprendere, e comunque immaginare, ebbene questo non è Dio. Perché se l’uomo potesse intenderlo e comprenderlo con i suoi sensi e i suoi pensieri, Dio sarebbe meno dell’uomo e noi avremmo finito di amarlo. La stessa cosa avviene con gli uomini senza profondità, presso i quali l’amore è presto alla fine.

La mia è stata come un’avventura interiore, una «fiera cavalcata» alla ricerca dell’Amato. Perché l’Amore è tutto, e ciò che conta è soltanto amare, senza preoccuparsi dei dogmi e della gerarchia ecclesiale.

Come hai vissuto il tuo amore per Dio?

Antico manoscritto delle visioni di Hadewijch d’Anversa

Possiamo dire che la vera ragione dell’amore è un’onda che cresce sempre, senza arrestarsi mai. Ciò che appartiene alla ragione è in opposizione con quel che soddisfa la vera natura dell’amore: la ragione non può infatti portar via nulla all’amore, né a sua volta può dargli alcunché.

Prima di possedere l’Amato – lo esprimo con il linguaggio simbolico della poesia provenzale del mio tempo -, bisogna fargli la corte per conquistarlo, agendo sempre cavallerescamente e con generosità, in tutte le cose e con qualsiasi persona, sconosciuta o meno che sia, secondo la dignità dell’Amato, per l’alta fama e per il bene che l’amante avrà presso di lui. Perché lui intende bene la cortesia: quando conosce le grandi pene e il duro esilio che ha sofferto la sua amante, nonché i suoi nobili sacrifici, allora non può non rispondere con l’amore e dare tutto se stesso. Ecco come si corteggia l’Amato!

Ma come è possibile arrivare a questi livelli?

L’aquila fissa il sole senza mai arretrare, come l’anima interiore guarda Dio senza distogliere mai lo sguardo da lui. L’evangelista Giovanni è il capostipite di questa spiritualità, di questo modo di amare Dio, dove non si pensa né ai santi né agli uomini, ma affidandosi completamente alle mani del Signore, si vola semplicemente nelle altezze divine. Quando l’aquilotto non può fissare il sole, viene gettato fuori dal nido. Così farà l’anima sapiente, la quale rigetta tutto ciò che può oscurare lo splendore dello Spirito, poiché all’anima – al pari dell’aquila – non si addice il riposo, bensì il volo incessante verso l’altezza sublime.

Perciò, secondo il tuo modo di vedere, Dio esercita nel più piccolo dei suoi doni tutte le sue più grandi virtù.

Le ricchezze di Dio sono molteplici; Dio è molteplice nell’unità e semplice nella molteplicità. Poiché Dio è questo, tutti i suoi figli conoscono le sue copiose delizie, davvero tutti, l’uno più dell’altro.


La mistica teologica della Hadewijch, rappresentante dell’affascinante mondo della mistica femminile del Medioevo fiammingo, è un esempio significativo di un fedele connubio tra esperienza mistica (da lei chiamata «conoscenza sperimentale») e contemplazione della Parola. Su Hadewijch d’Aversa non è ancora detta l’ultima parola. Per conoscerla meglio si deve soprattutto leggere la sua opera. Le sue Lettere ci restituiscono l’immagine di una donna colta, intelligente, sensibile, soprattutto rivolta a filtrare le sue abbondanti grazie mistiche alla luce del Dio trinitario. Una figura più attuale che mai. Possiamo dire che Hadewijch rappresenta un unicum nella storia della prosa e letteratura neerlandese: la somma maestria con cui ha saputo esprimersi nella sua lingua volgare, ci ha fornito un’opera magnifica. Un’opera pervasa dall’amore, concetto chiave della sua vita. La sua vita, infatti, è una continua ricerca dell’amore per poter soddisfare l’amore e con esso Dio. Le sue esperienze personali, raccontate alle sue amiche, dovevano guidarle alla pienezza dell’amore. Concludendo possiamo dire che la mistica dell’amore in quei secoli lontani ha preparato il terreno a una pedagogia ascetica che è presente ancora oggi nella vita della Chiesa.

Don Mario Bandera

 


NOTA BIOGRAFICA

(da https://it.wikipedia.org/wiki/Hadewijch)

Hadewijch d’Anvers (fine XII secolo – inizio XIII secolo) è stata una mistica e poetessa fiamminga, vissuta probabilmente nel ducato di Brabante (nel quale allora erano incluse città come Bruxelles, Anversa, Lovanio e Breda). Legata al nascente movimento delle «Beghine», fu tra le principali figure della letteratura volgare europea sviluppatasi in quel periodo. Scrisse anche opere in prosa. Non si posseggono notizie certe riguardanti la scrittrice, al di fuori delle indicazioni contenute nelle sue opere, tramite le quali ci ha svelato gli aspetti più intimi della sua anima. Confidò di essere stata conquistata dal «divino amore» all’età di dieci anni, che l’ha accompagnata per tutta la vita. Le sue opere furono incentrate sull’amore, sulle sofferenze e le estasi che produce all’anima. Nelle Brieven (Lettere), chiarì la sua dottrina mistica, costituita da una miscela di razionalità e passionalità sublimata. Ancora più significative furono le Strophische Gedichten (Poesie strofiche), realizzate riadattando gli schemi della lirica provenzale alla sua forte espressività, e ruotanti attorno al tema dell’Assoluto, dell’amore frutto della trasposizione dell’ideale cavalleresco, dell’umiltà come condizione di grazia e della contrapposizione tra quest’ultima e la fierezza.

 




I Perdenti 54. Giorgio Perlasca, diplomatico per amore

testo di don Mario Bandera |


Giorgio Perlasca nasce a Como il 31 gennaio 1910. Dopo qualche mese, per motivi di lavoro del padre Carlo, la sua famiglia si trasferisce a Maserà, in provincia di Padova. Negli anni Venti aderisce con entusiasmo giovanile alla nascente ideologia fascista, in particolar modo alla sua versione dannunziana. Tanto che, per sostenere le idee di Gabriele D’Annunzio, litiga con un suo professore che aveva condannato l’impresa del Vate a Fiume, e per questo motivo è espulso per un anno da tutte le scuole del Regno.

Coerentemente con le sue scelte ideologiche, nel 1936 parte come volontario per la guerra di Etiopia e nel 1937 per la Spagna, dove combatte in un reggimento di artiglieria al fianco del generale Franco. Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, nel 1939, il suo rapporto con il fascismo entra in crisi essenzialmente per due motivi: l’alleanza che il governo di Mussolini stringe con la Germania, contro cui l’Italia aveva combattuto una guerra solo vent’anni prima, e per le leggi razziali entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani. Rinuncia quindi alle sue idee giovanili, senza però diventare un oppositore al regime. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si trova con permesso diplomatico nei paesi dell’Est Europa come agente di una ditta di Trieste che importa carne per l’Esercito italiano. L’armistizio tra l’Italia e gli Alleati dell’8 settembre 1943, lo coglie mentre si trova a Budapest in Ungheria.

Sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà al Re d’Italia, e nonostante le nostalgie fasciste di gioventù, rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici dove gli viene prospettato il trasferimento in Germania. Nel mese di ottobre del 1944, quando i tedeschi che occupano l’Ungheria affidano il potere alle Croci Frecciate, ovvero ai filonazisti magiari, iniziano le persecuzioni sistematiche e le deportazioni nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica.

Davanti alla grande sinagoga di Busapest

In un contesto così difficile e violento come ti muovesti in quei frangenti a Budapest?

Approfittando di un permesso che mi diedero per andare a Budapest per una visita medica, riuscii a nascondermi e fuggire. Mi nascosi prima presso vari conoscenti, quindi, grazie a un documento che attestava la mia partecipazione alla guerra civile spagnola e al foglio che mi assicurava assistenza diplomatica per il mio lavoro di importatore di carne per l’esercito, trovai rifugio presso l’ambasciata spagnola.

Quel documento della guerra di Spagna, firmato nientemeno che dal Generalissimo Franco, fu fondamentale per te.

Grazie a quello, in pochi minuti diventai cittadino spagnolo con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca, e iniziai a collaborare con Ángel Sanz Briz, l’ambasciatore spagnolo che, assieme ad altri ambasciatori di paesi neutrali presenti in Ungheria (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano), stava già rilasciando salvacondotti per proteggere gli ebrei ungheresi.

Già, ma a fine novembre 1944 Sanz Briz lasciò l’Ungheria per il suo rifiuto di riconoscere il governo filonazista appena nato.

Il giorno dopo, il ministero dell’Interno ungherese, venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz, ordinò di sgomberare le case di proprietà della Spagna, dove avevano trovato rifugio molti cittadini ebrei.

E fu a quel punto che tu, Giorgio Perlasca, commerciante italiano di bestiame, con una conoscenza perfetta della lingua spagnola, prendesti la decisione più importante della tua vita.

l documento redatto a mano con le credenziali che accreditano Giorgio Perlasca come diplomatico dell’Ambasciata spagnola in Ungheria, presentato al Ministero degli Esteri d’Ungheria nel novembre 1944.

Infatti, mi precipitai presso il ministero dell’Interno urlando: «Sospendete tutto! State sbagliando tutto! L’ambasciatore spagnolo Sanz Briz si è recato a Berna in Svizzera, per comunicare più facilmente con il suo governo a Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza».

È proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci, difatti fosti creduto e le operazioni di sgombero furono sospese.

Il giorno dopo su carta intestata e con timbri autentici, compilai di mio pugno la nomina ad ambasciatore spagnolo e la presentai al ministero degli esteri dove le credenziali diplomatiche vennero accolte senza riserve.

Nelle vesti di diplomatico tenevi in piedi pressoché da solo l’ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile impostura che ti portò a salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati nelle case protette lungo il Danubio.

Cercavo di tutelarli in ogni modo dalle incursioni delle Croci Frecciate, mi recai più volte con Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del re di Svezia, e con il nunzio della Santa Sede monsignor Angelo Riotta, alla stazione per cercare di recuperare più gente possibile.

Protetto dalla mia posizione di diplomatico spagnolo riuscii persino a ingannare il ministro dell’Interno ungherese, minacciando una supposta ritorsione spagnola sui cittadini ungheresi viventi in Spagna e addirittura in America Latina, se avesse autorizzato l’incendio del ghetto di Budapest.

È vero che trattavi ogni giorno con il governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilasciando salvacondotti che dicevano: «Parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non saranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà sotto la protezione del governo spagnolo».

Questi salvacondotti li rilasciavo utilizzando una legge voluta nel 1924 dal ministro spagnolo Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (ovvero di antica origine spagnola) scacciati alcuni secoli prima (31 marzo 1492) dalla regina Isabella la Cattolica dal suolo iberico. Lungo i secoli essi si erano dispersi in tutta Europa.

La legge Rivera in un certo qual modo fornì la base legale dell’intera operazione organizzata coraggiosamente da te, che permise di mettere in salvo più di cinquemila ebrei ungheresi.

Direi proprio di sì.

Perlasca e Cossiga il 30 giugno 1990

Il busto dedicato a Giorgio Perlasca davanti all’Istituto di Cultura Italiana di Budapest

Dopo l’entrata a Budapest dell’Armata Rossa sovietica, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia. Da eroe solitario diventa un «uomo qualunque»: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà. Grazie però ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la Seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca viene alla luce.

Le testimonianze dei sopravvissuti salvati sono numerose e ben documentate, la notizia diventa di dominio pubblico, arrivano i giornali, le televisioni, si pubblicano libri su quella drammatica vicenda.

Lo stesso Perlasca – vincendo la sua naturale riservatezza – accetta di recarsi nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché follie come quella del nazismo non abbiano mai più a ripetersi.

Giorgio Perlasca muore il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova, sulla sua lapide a fianco delle date di nascita e di morte, è incisa un’unica frase in ebraico: «Giusto tra le Nazioni».

Don Mario Bandera

Libro dedicaro a Giorgio Perlasca




I Perdenti 53. Diventare santi tra i lebbrosi di Molokai

testo di Don Mario Bandera |


Dai coniugi fiamminghi De Veuster nascono otto figli, tra cui ci saranno due suore e due preti dei missionari dei «Sacri Cuori di Gesù e Maria», detti anche «Società del Picpus», dalla via di Parigi dove è nata la congregazione. Giuseppe (Jozep), penultimo degli otto (nato il 3 gennaio 1840), è destinato ad aiutare il padre, ma a 19 anni entra al Picpus facendo il noviziato a Lovanio. Siccome a scuola non ha studiato latino, accetta volentieri di essere missionario fratello e al momento dei primi voti prende il nome di Damiano. Ma durante il noviziato impara da solo il latino e rivela una mente vivace e brillante. Per questo, il maestro dei novizi, dopo i primi voti, lo incoraggia a diventare sacerdote e viene inviato a Parigi per gli studi di teologia. Là c’è anche suo fratello Pamphile, che, ordinato prete nel 1863,  non può partire per la missione perché malato. Allora Damiano ottiene di partire al posto suo anche se non è ancora stato ordinato sacerdote. Destinazione della missione: le Isole Sandwich, così chiamate dal loro scopritore James Cook nel 1778 in onore di Lord Sandwich, capo della Marina inglese. Sono un arcipelago indipendente sotto una monarchia locale. Più tardi saranno chiamate Isole Hawaii.

Damiano le raggiunge dopo mesi di navigazione, da Brema a Honolulu. Completa gli studi, diventa sacerdote nel 1864 e lavora pastoralmente nell’isola principale, Hawaii, nel distretto di Puna, dove sono ben otto anni che manca un missionario. Istruisce la gente nella fede e insegna loro ad allevare pecore, montoni e maiali, come pure a coltivare la terra. Il divario culturale crea ostacoli duri, la solitudine a volte gli pare insopportabile. Ma è solo un primo collaudo.

Nel 1865 gli viene affidato il vasto distretto di Kohala. In quella realtà viene per la prima volta in contatto con il dramma della lebbra che sta avendo effetti devastanti tra la popolazione locale. Importata da marinai  e commercianti stranieri, insieme all’influenza e alla sifilide, la lebbra causa la morte di migliaia di persone. Per questo il re delle Hawaii decreta, proprio nel 1865, di isolare i tutti lebbrosi nella penisola di Kulaupapa distetto di Kalawao al Nord dell’isola di Molokai, garantendo cibo e vestiario e niente più. Tra di essi c’è anche un piccolo gruppo di cattolici che il vescovo cerca di aiutare e sostenere anche con al costruzione di una piccola chiesa.

Dal 1865, padre Damiano, detto Kamiano nella lingua locale, assistite, impotente, allo spaventoso avanzare del flagello che decima la sua gente. Alla prova della malattia, si aggiunge, per i lebbrosi, quella, ancor più grande, di essere strappati alle loro famiglie, ai loro villaggi, senza alcuna speranza di ritorno. Padre Damiano promette una visita a quelli che vengono portati via, e li accompagna il più a lungo possibile sul loro percorso. È quindi con piena cognizione di causa che si offre volontario, il 4 maggio 1873, per raggiungere i lebbrosi.

Caro padre Damiano sapevi che offrendoti volontario per assistere i lebbrosi di Molokai ci saresti rimasto tutta la vita?

Andando a Molokai si doveva obbligatoriamente risiedervi, perché il governo locale temeva il contagio e proibiva di lasciare la penisola lebbrosario nella quale erano stati concentrati tutti i lebbrosi del regno. Il tasso di mortalità era molto alto: pensa che ci furono ben 183 decessi nei primi otto mesi della mia presenza.

Come vivevano i lebbrosi?

Rivecevano dal governo cibo e vestiario, ma erano abbandonati a se stessi, in misere capanne dove vivevano in grande promisquità. La lebbra sfigurava la loro carne, ma c’erano altre lebbre più profonde, quelle morali. Abbandonati a se stessi e senza speranza, vivevano i pochi giorni che rimanevano loro in orge, ubriacature e violenze, sfruttamento reciproco, costringendo le donne alla prostituzione. Anche i lebbrosi cristiani, lasciati a se stessi, avevano molta difficoltà a mantenere viva la propria fede.

Come hai fatto a guadagnarti la stima e l’affetto di tutti?

A Molokai oltre che essere sacerdote, facevo il medico, il padre, curavo le anime, lavavo le piaghe, distribuivo medicine, cercavo di stimolare quel senso di dignità che ogni ammalato portava dentro di sé, facevo in modo che i lebbrosi si unissero per coltivare la terra, creando luoghi di accoglienza per i più deboli. Cercavo soprattutto di far crescere tra loro uno spirito di gruppo e un certo orgoglio per le conquiste raggiunte.

Credo di averli aiutati a ritrovare il rispetto per se stessi e a darsi un’organizzazione interna per non vivere totalmente allo sbando.

Volevi trasformare una terra di morte in un luogo di vita.

Vero. Nel 1984, un medico americano che aveva vsitato il luogo diversi anni prima, tornando era rimasto sopreso di trovarlo completamente trasformato. Non c’erano più le sordide capanne che avevo trovato al mio arrivo, ma i lebbrosi stessi avevano costruito, con l’aiuto del vescovo e di benefattori, due villaggi con case circondate da giardini e orti, strade e impianti per l’acqua. C’era un ospedale ben funzionante, gli orfanotrofi, due chiese e un cimitero. E poi feste, vita religiosa, processioni e la banda musicale.

Come hai fatto?

Al Signore avevo chiesto solo di rimanere in salute. Mi occupai del mio doppio orfanotrofio di bambini lebbrosi che erano più di 40. La metà di loro, molto avanti nella malattia, non dovettero aspettare molto per andare in Cielo. Da parte mia viaggiavo tanto per recarmi da una comunità all’altra. Alla domenica, celebravo di solito due messe, mentre per quattro volte alla settimana insegnavo il catechismo e impartivo due volte la benedizione del Santissimo Sacramento. Mi ero messo anche a fumare la pipa per difendermi dall’insopportabile odore di carne in disfacimento che ammorbava l’aria circostante e che a volte provocava svenimenti fra la gente anche in chiesa.

La tua opera di promozione umana e di evangelizzazione in un contesto così difficile veniva grandemente apprezzata da coloro che ti circondavano, ultimi fra gli ultimi.

Alla mia gente piaceva organizzare processioni. In occasione delle festività liturgiche importanti essi si organizzavano per portare la croce nei luoghi più significativi e impervi della penisola. Tu dovevi vederli, nonostante le loro infermità, marciare  dietro la bandiera hawaiana con tamburi e strumenti musicali di latta fabbricati da loro. Seguivano i gruppi delle donne con i bambini, poi gli uomini, quindi i cantori.

In queste circostanze ovviamente tu portavi il Santissimo.

Quando si arrivava alla residenza del sovrintendente (incaricato dal governo) si deponeva sotto la veranda il Santissimo Sacramento. Quindi facevamo riposare sul tappeto erboso i nostri piedi e le gambe malate, stanche dalla lunga marcia. Subito dopo con devozione ci dedicavamo all’adorazione del Santissimo. Dopo la benedizione, la processione riprendeva la strada e si ritornava con lo stesso ordine nella chiesa del lebbrosario.

Qual è stata la forza che ti ha sostenuto?

Il Santissimo Sacramento è stato veramente lo stimolo che mi ha aiutato ad andare avanti in tutti quegli anni. Senza la presenza continua del Salvatore, non avrei mai potuto perseverare nel legare la mia sorte a quella dei lebbrosi di Molokai. Siccome la celebrazione dell’Eucarestia è il pane quotidiano del prete, mi sentivo felice, ben contento nell’ambiente eccezionale nel quale la divina Provvidenza si era compiaciuta di collocarmi per rendere un servizio ai più emarginati e dare così lode al Dio dell’Amore e della Misericordia.

Nel 1885 padre Damiano viene contagiato dalla lebbra. La notizia si sparge come un baleno nell’arcipelago delle isole Hawai. Pochi mesi prima della morte arriva il padre belga Conrardy in compagnia di alcune suore e volontari per prendersi cura dell’ospedale. Finalmente può fare una confessione dopo anni di solitudine come sacerdote. Finita l’unzione degli infermi, padre Damiano dice: «Sono tranquillo e rassegnato, e anche più felice in questo mio mondo».

Fino all’ultimo aiuta i medici che studiano la lebbra, accettando di sperimentare su di sé nuovi farmaci.

Muore il 15 aprile 1889, circondato dalla sua comunità dopo un mese di letto sul quale lo ha costretto la malattia che lo ha reso ogni giorno più debole, e mille malati di lebbra lo seppelliscono ai piedi di un albero.

Nel 1936 il suo corpo viene riportato in Belgio, a Lovanio. Papa Giovanni Paolo II lo beatifica a Bruxelles nel 1995, continuando l’iter iniziato da Paolo VI nel 1967 su richiesta di 33mila lebbrosi e concluso da Benedetto XVI che lo canonizza in Piazza San Pietro l’11 ottobre 2009.

Don Mario Bandera

Film su padre Damiano

  • Il classico in bianco e nero è:
    Molokai, l’isola maledetta (1959)
    che si può vedere su Youtube.
  • Molokai: the story of Father Damien (1999)
    è interpretato da Humberto Almazán, un attore messicano diventato
    missionario.

 




I perdenti 52. Augusto César Sandino, libertà e riscatto sociale

testo di Don Mario Bandera |


È passato diverso tempo da quando, in Nicaragua, in un agguato teso dagli sgherri del dittatore Anastasio Somoza è stato assassinato Augusto César Sandino. Era il novembre del 1934.

Da allora, la figura dell’eroe nicaraguense è entrata nell’iconografia del continente americano, come simbolo della lotta per la libertà e del riscatto sociale per tutti i popoli del Centro America. Ricordare Sandino oggi, ci permette di fare memoria soprattutto dell’eroe dell’antimperialismo capitalista made in Usa, voce profetica non solo del suo Nicaragua, ma di tutti i popoli oppressi dal grande capitale al soldo delle nazioni più potenti. Proprio questa sua veste di oppositore al colonialismo militare, economico e culturale yankee, mostra l’attualità e genialità del pensiero di Sandino.

Forse la leggenda legata alla sua persona sta proprio nel fatto che egli non è stato l’eroe solitario, lontano e irraggiungibile, ma l’uomo che, gomito a gomito con gli oppressi ed emarginati di ogni latitudine, ha lottato per la dignità e la libertà di ogni uomo e singola nazione. Ancora oggi nei murales che coprono i muri del Nicaragua, il suo volto creolo risalta per il colore bronzeo che lo caratterizza come un qualunque contadino centroamericano. Il cappello, poi, bianco alato con una striscia alla base, è quello tipico di tutti i lavoratori della sua terra che si recano al lavoro alle prime luci dell’alba.

Sandino era, e resta, un eroe popolare, per questo lo sentiamo parte dei nostri ideali. Nella sua vita ha incarnato pienamente l’eterna resistenza degli ultimi, quando questi si ribellano alle condizioni disumane di lavoro e di vita imposte dall’alto. La sua grandezza sta proprio nella sua ribellione. Forse, il gesto più significativo della sua vita è stato quello di dire di no al padre, che da uomo semplice e tranquillo, obbedendo agli ordini del governo, era andato dal figlio a dirgli: «Augusto César, arrenditi!». Sandino, fedele ai suoi ideali, non ha obbedito e ha «mandato a quel paese» i generali che gli chiedevano la resa. Sandino era, e resta, l’emblema dell’uomo libero. In breve tempo egli è diventato «il generale degli uomini liberi».

Gli uomini liberi in quel periodo erano un esercito di straccioni: uomini, donne e bambini, che lo seguivano sugli impervi sentieri delle montagne del Nicaragua, gridando: «Qui non si arrende nessuno!», sventolando le bandiere sandiniste sporche di fango e rotte da mille lotte.

Caro comandante, una delle prime cose che suscitano un certo stupore in chi ti avvicina è il modo con cui accogli l’interlocutore…

Da sempre, quando saluto o accolgo qualcuno non gli dò la mano, ma preferisco abbracciarlo: sono convinto, infatti, che ogni uomo – specialmente il più povero – porta dentro di sé la pienezza della dignità insita in ogni essere umano. Così facendo cerco di portare alla luce questa qualità nei centroamericani.

Parlaci un po’ di te, della tua vita in Nicaragua.

Nacqui il 18 maggio 1895 a Niquinohomo, nel dipartimento de Masaya, figlio illegittimo di un ricco coltivatore di caffè che aveva approfittato di mia madre che lavorava nei suoi campi. Abbandonato a 9 anni da mia madre, per un po’ vissi con mia nonna e, appena fui in grado di lavorare, venni accolto nella casa di mio padre dove dovevo comunque lavorare per guadagnarmi da vivere

A 17 anni, era il 1912, restai molto impressionato dalla morte del generale Benjamin Zaledon, un patriota della mia terra che, con pochi uomini e con scarse risorse a sua disposizione, si era opposto alle truppe statunitensi che erano sbarcate in Nicaragua a sostegno del presidente Adolfo Diaz.

Sopravvissi lavorando nella terra di mio padre fino al 1921, quando in un violento litigio ferii uno che aveva fatto commenti denigratori su mia madre.

E cosa comportò quel ferimento?

Dovetti scappare dal paese per evitare la vendetta della sua potente famiglia. Mi misi a viaggiare e a lavorare per i paesi del Centro America, arrivando in Messico. Fu in quel paese che cominciai la mia «formazione politica» e iniziai a rendermi conto degli influssi pesanti dell’ingerenza nordamericana nella vita dei nostri paesi. Direi che fu lì che mi convertii all’antimperialismo. Nel 1926 rientrai in Nicaragua, andando al mio paese, dove nel frattempo il mio vecchio nemico era diventato sindaco. Fui costretto a rifugiarmi in una città del Nord.

In quel periodo scoppiò lo scontro aperto tra liberali e conservatori.

Con l’appoggio statunitense quelli del partito conservatore avevano estromesso il presidente liberale. I liberali allora avevano iniziato una vera guerra perché fosse rispettata la Costituzione. A sostegno dei conservatori e dei loro interessi (era in gioco anche il progetto della costruzione di un secondo canale dall’Atlantico al Pacifico che doveva passare attraverso il Nicaragua) gli Usa avevano occupato militarmente le coste catturando anche il leader dei liberali. In questa situazione io entrai a far parte delle truppe liberali, inizialmente senza grandi successi.

Ma poi le cose cambiarono.

Dopo le prime sconfitte, mi misi a studiare a fondo le tattiche di guerriglia e in breve le cose cambiarono, riuscendo anche ad avere un nutrito gruppo di cavalleria proveniente dalla città di San Juan de Segovia. Con loro riportammo vittorie significative sulle truppe dei conservatori sostenuti dagli statunitensi. Ma, di fronte al rischio di un intervento diretto degli Usa, i liberali e i conservatori nel 1927 si misero d’accordo rimandando tutto alle elezioni del 1928.

Tu però non accettasti quel patto.

Mi ritirai allora al El Chipote, una cittadina quasi sulla costa del Pacifico, dove misi su famiglia.  Fu lì che la mia lotta ebbe una svolta, da guerra civile (liberali e conservatori) a lotta patriottica contro gli invasori nordamericani. Il 12 maggio 1927 scrissi un messaggio diretto alle autorità locali di tutti i dipartimenti del paese per rendere pubblica la mia determinazione di continuare la lotta finché i militari nordamericani non avessero lasciato il paese.

Il primo giorno del mese di luglio del 1927, insieme ai miei compagni emisi un Manifesto politico rivolto a tutto il popolo del Nicaragua, mentre il 14 dello stesso mese risposi negativamente alla proposta di sospendere le nostre azioni di guerriglia in tutto il paese che il capitano dei marines degli Stati Uniti, Gilbert Hatfield, mi aveva fatto recapitare.

Che successe dopo?

Con un pugno di combattenti mi rifugiai sulle montagne e ben presto mi trovai al comando di un vero esercito, Ejército defensor de la soberanía nacional (Esercito difensore della sovranità nazionale), composto da volontari provenienti anche da altri paesi americani. Con esso condussi per cinque anni un’efficace guerriglia contro gli occupanti statunitensi, infliggendo loro delle sonore sconfitte. Essi risposero organizzando, finanziando e armando la Guardia nazionale (l’esercito ufficiale del Nicaragua) al soldo dei latifondisti, sfruttando la divisione tra le varie componenti del paese. Fu una guerra dura e senza esclusione di colpi. Fino al 1933 quando, negli Usa della Grande depressione iniziata nel 1929, il presidente Roosvelt decise di cambiare tattica e scegliere una «politica di buon vicinato». Vennero ritirate tutte le truppe dai paesi centroamericani e caraibici, Nicaragua compreso. Dopo il ritiro nel gennaio del 1933 delle forze armate americane dal suolo nazionale, accettai di interrompere la lotta armata, ottenendo in cambio dal presidente liberale Juan Bautista Sacasa un’amnistia e la possibilità di creare con i miei uomini delle cooperative agricole nella regione del fiume Coco.

Si può dire che la lotta per gli ideali di giustizia e pace sociale, grazie alla tua volontà e determinazione, a quel punto avesse raggiunto i suoi obiettivi.

Certo che, quando il primo di gennaio del 1933, vidi ritirarsi le truppe nordamericane dal territorio nicaraguense, provai una profonda commozione e una grande gioia. Finalmente eravamo liberi a casa nostra.

Però restava da dare un impianto istituzionale e un programma sociopolitico al nuovo Nicaragua che, grazie a voi, si affacciava con la sua specificità sullo scenario mondiale.

Era una faccenda tutt’altro che facile. Avevo accettato il trattato di pace e deposto le armi, ma la situazione non era pacifica, anche perché la Guardia nazionale, che fu ufficialmente incaricata della sicurezza del paese, non perdeva occasione per rifarsi sui vecchi nemici sandinisti. In più Anastasio Somoza, capo della Guardia, aveva nella propria testa un solo obiettivo: prendersi tutto il potere.

Augusto César Sandino (centro) In viaggio verso il Messico. / Da http://teachpol.tcnj.edu/amer_pol_hist/thumbnail350.html. – Wikipedia

Un uomo buono e deciso, testardo e tutto d’un pezzo come César Augusto Sandino, non poteva immaginare il tradimento di Anastasio Somoza, forse uno dei più viscidi politici della storia dell’America Centrale. Per assumere il potere, Somoza aveva deciso di eliminarlo. Spinto dai propri ideali, Sandino andò incontro alla morte, mentre viaggiava per partecipare a un incontro di pacificazione tra le varie forze nicaraguensi. Fu ucciso in un’imboscata in una notte del febbraio 1934, sotto un cielo pieno di stelle. Il suo nome, la sua forza d’animo e la sua dignità si trasformarono immediatamente in leggenda per tutto il continente americano. Conoscere la storia di questo eroe semplice significa imparare che cosa è l’America Latina «centrale», dove scorrono le sue arterie più nascoste, le sue «vene profonde», là dove la gente conserva e recupera il suo status di umanità. La storia di Augusto César Sandino è la storia della fierezza e della libertà di ogni uomo che non si arrende ai soprusi dei potenti né ai despoti di turno.

Don Mario Bandera




I Perdenti 51. Dimităr Pešev, l’uomo che fermò Hitler

testo di Don Mario Bandera |


Dimitar Iosifov Peshev

Dimităr Josifov Pešev (o Peshev – 1894-1973) fu un uomo politico bulgaro che, come tanti, si lasciò affascinare dagli esperimenti totalitari nell’Europa del Novecento. Aveva iniziato la sua carriera come magistrato nel 1921 ed era poi diventato avvocato nel 1932. Nel 1935 accettò la proposta del primo ministro bulgaro Georgi Kjoseivanov di diventare ministro della Giustizia nel nuovo governo. Pochi anni dopo diventò il vicepresidente del parlamento.

Egli era un autentico democratico ma si illuse che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica, quest’ultima messa alla prova, dopo la Prima guerra mondiale, da tentativi di colpi di stato sia di destra che di sinistra.

Fu fautore dell’alleanza con la Germania nazista perché attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall’idea che la Germania potesse ridare al suo paese i territori «ingiustamente» perduti dopo le disgraziate guerre balcaniche degli anni 1912-13: parte della regione di Dobruja, passati alla Romania, e la Tracia dell’Ovest, alla Grecia.

Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero alla Bulgaria, nel 1940, di far parte dei paesi dell’Asse alleati alla Germania (con il ritorno sotto il dominio bulgaro dei territori perduti), e nel 1941 di approvare le leggi razziali.

Il giorno in cui si tenne in parlamento la discussione sulla politica che si sarebbe dovuta tenere nel paese nei confronti della minoranza ebraica, Pešev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente.

Pensava, in quel momento, che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa.

La visione democratica che tu avevi non ti aiutò a capire che i nazisti che occupavano la tua patria, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.

Una domenica mattina, all’improvviso, ricevetti la visita disperata di un amico che non vedevo da anni. Era un mio vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, una ridente cittadina al confine con la Macedonia dove avevo vissuto la mia adolescenza. Mi informò che il governo, in accordo con i tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica, presente da secoli in Bulgaria.

Questo amico ti mise anche al corrente che i treni erano già stati predisposti nelle stazioni.

Il piano prevedeva che la notte successiva gli ebrei sarebbero stati rastrellati e caricati su vagoni che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia (la destinazione, allora sconosciuta, era Auschwitz). Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione.

A quel tempo avevi già sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non te ne eri preoccupato più di tanto.

Proprio così, ma di fronte a un amico che – disperato – mi chiedeva di aiutarlo, ebbi come un sussulto, un risveglio della mia coscienza.

Di colpo mi scossi dal mio torpore e subito mi diedi da fare. In quel primo momento pensai anzitutto di aiutare i miei amici di Kjustendil. Mi precipitai in parlamento, radunai altri deputati e con loro entrammo nell’ufficio del ministro dell’Interno, Petar Dimitrov Gabrovski – che condivideva col primo ministro forti simpatie naziste – e, dopo uno scontro drammatico, lo costringemmo a revocare l’ordine della deportazione. Erano le 5,30 del mattino del 9 marzo 1943.

E poi cosa avvenne?

Siccome in Tracia e Macedonia – dove il controllo tedesco era più forte – avevano già cominciato a radunare e deportare gli ebrei, telefonai personalmente a tutte le prefetture del paese per verificare che il contrordine fosse stato ricevuto e quindi rispettato. In questo modo la deportazione fu sospesa, ma non cancellata.

Decisi quindi di lanciare un’offensiva in parlamento. Mi ero reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza di cinquantamila ebrei bulgari.

Non c’era un minuto da perdere allora.

La lettera di protesta.  Sofia, 17 marzo 1943. Central State Archivess

Infatti, stesi una lettera di protesta molto dura e raccolsi le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo, al primo ministro Bogdan Filov e al re Boris III, di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.

Questo gesto di ribellione però ti costò molto caro. Perdesti la tua carica in parlamento e rischiasti di essere consegnato ai tedeschi.

Già, ma raggiunsi l’obiettivo che mi ero proposto: la mia denuncia ebbe un effetto dirompente, che nessuno si sarebbe aspettato. Il re, sentendosi sostenuto, fece marcia indietro e bloccò la deportazione.

Ma il tuo re era filonazista?

No. Anche lui si era illuso che l’alleanza con la Germania e la restituzione dei territori perduti potesse riparare le ingiustizie della conclusione della Prima guerra mondiale, combattuta (e persa) al fianco della Germania e dell’Austria. Ma non concordava con il nazismo e, poi, con lo sterminio degli ebrei. Va ricordato che era in stretto contatto con monsignor Angelo Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXIII), allora nunzio apostolico a Istanbul. Con la sua collaborazione era riuscito a far partire molti ebrei per la Palestina. Aveva anche cercato di evitare la loro deportazione obbligando gli uomini ebrei validi a lavori forzati di pubblica utilità. In più, il re aveva rifiutato, il 14 agosto, la richiesta di Hitler di inviare l’esercito bulgaro alla (disastrosa) campagna di Russia.

Purtroppo però, il re morì improvvisamente il 28 agosto 1943.

(Boris III è il marito di Giovanna di Savoia, sorella di Mafalda che abbiamo «intervistato» sul numero di Gennaio 2020, ndr).

Hitler non accettò volentieri il suo rifiuto e c’è il fondato sospetto che il re fu avvelenato.

In quella situazione anche la mia posizione era tutt’altro che facile. Morto il re, ci fu un reggente, perché il successore era ancora un bambino, poi gli avvenimenti precipitarono con la vittoria dell’Armata Rossa che liberò il paese dai nazisti, ma diede mano libera ai partigiani comunisti.

E tu, continuasti con la politica?

Subito dopo il conflitto mi diedi da fare per riscoprire e valorizzare gli ideali democratici della vita pubblica e m’impegnai per il cambiamento politico nel mio paese e per il suo riallineamento con l’Occidente.

Dimităr Pešev, commise però il «grave errore» di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani comunisti, che stavano consegnando il paese ai russi.

Ciò gli costò molto caro al momento dell’occupazione della Bulgaria da parte dell’Armata Rossa. Pešev fu processato con l’accusa di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo l’accusa arrivò a insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Tale accusa fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo. La corte era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Ci fu però un piccolo miracolo. Il suo difensore ebreo, Joseph Nissim Yasharoff, estrasse il classico coniglio dal cilindro e ricordò alla corte che Pešev nel 1936, quand’era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damian Velchev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l’arrivo dell’Armata Rossa.

Pešev ebbe così solo quindici anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. Il gulag gli fu risparmiato solo grazie all’intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Pešev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.

Dopo la guerra Pešev visse dimenticato da tutti. Gli ebrei, nel ‘49, lasciarono in massa la Bulgaria per trasferirsi in Israele. Negli anni ‘60, superate le difficoltà dell’emigrazione, iniziarono a inviare aiuti a chi li aveva salvati: Pešev ricevette stabilmente del denaro e delle lettere che lo ringraziavano per la sua azione. Gli fu proposto di recarsi in Israele, ma egli rifiutò: voleva prima essere riabilitato nel suo paese. Morì senza avere questa soddisfazione.

Don Mario Bandera

 

Il titolo di questa intervista è stato suggerito dal libro:
Gabriele Nissim,
L’uomo che fermò Hitler. La storia di Dimităr Pešev che salvò gli ebrei di una nazione intera,
Mondadori, Milano 1999.




I Perdenti 50. Le sorelle Mirabal

testo di don Mario Bandera |


Il 25 novembre 1960, a Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana, nell’isola di Hispaniola, le tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) furono seviziate, violentate e uccise a bastonate su preciso mandato del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. Quell’episodio innescò l’inizio della fine di uno fra i regimi più dispotici dell’America Latina. Il loro brutale assassinio risvegliò l’indignazione popolare che avrebbe portato, l’anno seguente, all’assassinio di Trujillo e alla fine della dittatura.

Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni unite, con la risoluzione 54/134, ha dichiarato, in loro memoria, che il 25 novembre di ogni anno sia celebrata in tutte le nazioni la «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne».

La militanza sociale e politica delle tre sorelle Mirabal era iniziata quando Minerva, la più intellettuale delle tre, il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal, organizzata dal dittatore per le classi sociali più in vista, aveva osato sfidarlo apertamente in un dibattito pubblico, sostenendo le proprie idee democratiche. Quella data segnò l’inizio delle rappresaglie contro Minerva e tutta la sua famiglia, con periodi di detenzione in carcere per il padre e la progressiva confisca di tutti i loro beni.

Carissima Patria, cominciamo con le presentazioni.

I nostri nomi per esteso sono: Aida Patria Mercedes nata nel 1924, Maria Argentina Minerva del 1926 e Antonia Maria Teresa, nata nel 1935. Nascemmo tutte e tre da una famiglia benestante, i Mirabal Reyes, a Ojo de Agua nella provincia di Salcedo della Repubblica Dominicana. C’era anche una quarta sorella (in realtà la seconda perché nata nel 1925): Bélgica Adela, detta Dede, che, pur simpatizzando con noi, non partecipò alle nostre attività, e dopo la nostra uccisione si prese cura dei nostri figli.

Nella vostra famiglia fin da piccole si respirava aria di dialogo e libertà e foste educate nel rispetto dei diritti umani.

La nostra era una famiglia di contadini relativamente ricchi. Questo ci permise di ricevere una buona educazione, prima in una scuola gestita da suore poi studiando all’università. L’esempio dei nostri genitori ci spinse a un coinvolgimento sempre più personale contro la dittatura che si era imposta nel nostro paese e che sentivamo sempre più pesante. A mano a mano che crescevamo aumentava in noi la voglia di reagire alla situazione dittatoriale in cui vivevamo. Il generale Rafael Leónidas Trujillo, andato al potere nel 1930, gestiva la nazione come un vero padrone, anche della vita delle persone.

Quindi è dal contesto familiare che nacque il desiderio di una vostra militanza politica?

In un certo senso sì, ma tutto divenne più chiaro quando Minerva, diventata avvocato, non ottenne la licenza di praticare la sua professione perché il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal organizzata dal dittatore per le classi più ricche della nostra città, lei lo aveva sfidato apertamente in presenza di una folla numerosa rifiutando il suo corteggiamento e sostenendo le proprie idee, che ovviamente contrastavano con quelle del dittatore.

Come conseguenza foste coinvolte negli avvenimenti sociali e politici, alcuni tragici per l’odio e la violenza che scatenarono contro di voi.

Parecchi nostri amici si schierarono con noi e anche le nostre famiglie presero una posizione netta contro il dittatore Trujillo. Nel contempo nell’intera società dominicana cominciava a spuntare un’opposizione sempre più decisa nei confronti della dittatura.

Di voi tre chi era la più decisa nel portare avanti la linea che vi eravate date?

Senza ombra di dubbio Minerva. Fu lei che con un gruppo di amici il 9 gennaio del 1960 tenne nella sua casa la prima
riunione degli oppositori politici al regime. Quell’incontro segnò la nascita dell’organizzazione clandestina rivoluzionaria «Movimento del 14 giugno», di cui il marito di Minerva, Manolo Tamarez Justo, fu eletto primo presidente. Anche lui fu poi assassinato nel 1963. Il nome del movimento veniva da un fatto di sangue, il massacro di alcuni giovani per mano degli sgherri di Trujillo, a cui Minerva aveva assistito mentre partecipava a un ritiro spirituale.

Minerva fu dunque l’anima del movimento di opposizione?

In un’epoca in cui predominavano valori (o per meglio dire anti valori) tradizionalmente «machisti» di violenza, repressione e forza bruta, dove la dittatura non era altro se non l’iperbole della sopraffazione, in quel mondo maschilista sudamericano, mia sorella Minerva dimostrò fino a che punto e in quale misura la volontà e la coscienza femminile sono una forma di dissidenza al potere.

Una presa di posizione, la sua, subito imitata da altri amici e conoscenti che diedero vita a un robusto movimento contrario al regime.

Ben presto anche Maria Teresa e il marito, che già da anni erano attivisti politici, furono coinvolti in questa onda crescente del «Movimento 14 giugno» e anch’io con mio marito scegliemmo di aderire. Non volevamo che i nostri figli crescessero in un regime corrotto e tirannico. Dovevo lottare contro di esso con tutte le mie forze, disposta anche a dare la mia vita, se necessario.

La vostra opera coraggiosa di aprire le coscienze dei vostri concittadini si estese a macchia d’olio su tutto il territorio della Repubblica, e divenne tanto efficace che il dittatore Trujillo in persona arrivò ad affermare: «Nella mia azione di governo ho solo due problemi: la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal».

Insieme formavamo un bel gruppo e ci davamo da fare per far conoscere alla gente i nomi di coloro che erano uccisi dal
regime. Ci firmavamo «Las Mariposas», le farfalle, adottando per tutte quello che era il nome clandestino di Minerva.

Nell’anno 1960 le mie sorelle Minerva e Maria Teresa furono incarcerate due volte; la seconda volta condannate a cinque anni di lavori forzati con l’accusa di avere attentato alla sicurezza nazionale. Ma i gesti e gli attestati di solidarietà che giunsero da tutto il mondo costrinsero il dittatore Trujillo a rilasciarle anche se furono messe agli arresti domiciliari.

Anche i vostri mariti subirono la stessa sorte?

Sì, anche loro vennero imprigionati e torturati.

Il 25 novembre 1960, a Minerva e Maria Teresa viene concesso un permesso speciale per far visita ai loro mariti, Manolo Tavarez Justo e Leandro Guzman, detenuti in carcere. Patria, la sorella maggiore, vuole accompagnarle anche se suo marito è rinchiuso in un altro carcere e la madre le supplica di non andare perché teme per le sue tre figlie. L’intuizione della madre si rivela esatta: le tre donne, insieme al loro autista Rufino de la Cruz, vengono prese in un’imboscata da agenti del servizio segreto militare, torturate e uccise, e i loro corpi buttati nella loro macchina precipitata poi in un burrone per simulare un incidente.

«Se mi ammazzano, tirerò fuori le braccia dalla tomba e sarò più forte». Con questa frase, l’attivista dominicana Minerva Mirabal rispondeva agli inizi degli anni ‘60 a chi le faceva notare che il regime dispotico del presidente Rafael
Leónidas Trujillo (1930-1961) avrebbe cercato in ogni modo di uccidere lei e le sue sorelle.

L’assassinio delle sorelle Mirabal produsse gran dolore in tutto il paese e in tutta l’America Latina e fortificò lo spirito patriottico della comunità, desiderosa di raggiungere un governo democratico che garantisse il rispetto della dignità umana.

Più di mezzo secolo dopo, la promessa di Minerva ci sembra che si sia compiuta: la sua morte e quella delle sue sorelle per mano della polizia segreta dominicana, è considerata da molti uno dei principali fattori che portò alla sconfitta della
dittatura di Trujillo. Ogni 25 novembre, la testimonianza di Minerva, Patria e Maria Teresa risuona in tutto il mondo per il «Giorno internazionale per eliminare la violenza contro la donna» che è stato dichiarato dall’Onu in onore delle tre sorelle dominicane.

Don Mario Bandera


25 NOVEMBRE

GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

La «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne» è stata istituita partendo dall’assunto che la violenza contro le donne sia una violazione dei diritti umani. Tale violazione è una conseguenza della discriminazione contro le donne, dal punto di vista legale e pratico, e delle persistenti disuguaglianze tra uomo e donna.
La violenza contro le donne influisce negativamente e rappresenta un grave ostacolo nell’ottenimento di obiettivi cruciali quali l’eliminazione della povertà, la lotta all’Hiv/Aids e il rafforzamento della pace e della sicurezza.
La sostanziale carenza di risorse da destinarsi a iniziative per l’eliminazione della violenza contro le donne e le ragazze in tutto il mondo contribuisce a far sì che questo fenomeno persista. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile – che comprendono un obiettivo specifico per porre fine alla violenza contro le donne e le ragazze – offrono grandi possibilità, ma necessitano di finanziamenti adeguati per apportare cambiamenti reali e significativi nella vita delle donne e delle ragazze.
Questa Giornata segna l’inizio della campagna dei «Sedici giorni di attivismo», comunemente conosciuta come la «16 Days campaign». Viene sostenuta da cittadini e organizzazioni in tutto il mondo per promuovere la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne e le ragazze. La campagna è stata ideata dal primo istituto per la leadership mondiale delle donne (Global women leadership institute) nel 1991.
La campagna si collega a due importanti ricorrenze: il 25 novembre (giornata internazionale sulla violenza contro le donne) e il 10 dicembre (giornata internazionale per i diritti umani). I sedici giorni della campagna fanno così da ponte a queste giornate per chiedere l’eliminazione di tutte le forme di violenza di genere.
A sostegno di questa iniziativa, la campagna del Segretario generale delle Nazioni unite sollecita un’azione mondiale incentrata sulla sensibilizzazione e sulla necessità di un impegno per mettere in luce il fenomeno e attuare misure per prevenirlo e contrastarlo. Ogni anno viene sottolineato un tema particolare.

adattato da www.onuitalia.it




I perdenti 49. Mafalda di Savoia

testo di Mario Bandera |


Mafalda di Savoia, (al secolo: Mafalda, Maria, Elisabetta, Anna, Romana) secondogenita del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e della Regina Elena del Montenegro, nasce a Roma, il 19 novembre 1902. Tra i quattro figli della coppia regale, essa spicca per il suo temperamento brillante, inoltre possiede un’indole docile ed ubbidiente. Dalla madre eredita il senso più autentico della famiglia, i valori cristiani e la passione per l’arte e la musica. Crescendo rivela una passione per la musica classica, soprattutto per le opere di Giacomo Puccini, il quale incontrandola una volta le dice che a lei dedicherà quello che poi sarà uno dei suoi capolavori: l’opera lirica Turandot.

Trascorre infanzia e giovinezza fra Roma e le varie residenze della famiglia reale. Durante la Prima guerra mondiale segue, con le sorelle Jolanda e Giovanna, la madre nelle frequenti visite negli ospedali ai soldati feriti, collaborando agli innumerevoli atti di carità verso i poveri e i sofferenti.

Conosce in seguito Filippo d’Assia (1896-1980), principe tedesco arrivato in Italia per completare gli studi di architettura. Dopo qualche anno di fidanzamento si sposano e le nozze si celebrano a Racconigi il 23 settembre 1925. Dalla loro unione nascono quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta.

Mafalda di Savoia è donna coraggiosa che non misura il rischio quando si tratta di intervenire per gli altri, così come avviene durante la Seconda guerra mondiale. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, Hitler progetta la sua vendetta ai danni della famiglia reale italiana, giudicata inaffidabile e traditrice del Patto fra Italia e Germania e come vittima da sacrificare indica proprio la consorte del principe d’Assia. Dopo la scomparsa di Boris III re di Bulgaria, morto per avvelenamento il 28 agosto 1943, Mafalda parte per Sofia per stare accanto in quei giorni terribili a sua sorella Giovanna, sposa del re.

Nei giorni in cui ti trovavi in Bulgaria non ti misero al corrente dell’armistizio dell’otto settembre intercorso tra Italia e Alleati e fosti informata soltanto a cose fatte, mentre eri già in viaggio per rientrare in Italia.

Dopo i funerali del re, iniziai il viaggio per tornare a Roma. Stavo attraversando la Romania, quando il treno fu fermato in piena notte nella stazione ferroviaria di Sinaia. Lì c’era la regina Elena di Romania, che aveva fatto fermare il treno proprio per informarmi di quanto era successo in Italia e pregarmi di non tornare a casa. Ma io volevo rivedere i miei figli e non accettai il consiglio.

Decidesti quindi di tornare ugualmente a Roma per ricongiungerti con i tuoi figli e con la tua famiglia.

Ero convinta che i nazisti mi avrebbero rispettata in quanto moglie di un ufficiale tedesco, e delle SS per di più. Raggiunsi Roma dopo un viaggio avventuroso, in treno fino a Bucarest e poi in aereo fino a Pescara. Nella capitale scoprii che il re, mio padre, insieme a mia mamma, la regina, e ai miei fratelli, si erano sottratti alla cattura da parte dei tedeschi dopo il patto di Badoglio con gli Alleati, cosa che si erano ben guardati dal dirmi, benché fossero mesi che erano in trattative. Grazie a Dio, riuscii a rivedere, per l’ultima volta, i miei figli: Enrico, Ottone ed Elisabetta (Maurizio era con il padre in Germania), accolti e protetti da monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, nel proprio appartamento in Vaticano.

Ma i tedeschi, sentendosi traditi, non avevano intenzione di mollare la presa.

Per niente! La Gestapo, sotto la regia del colonnello Herbert Kappler, per compiacere il desiderio di vendetta di Hitler, aveva organizzato l’«Operazione Abeba» per catturami e deportarmi. Ingenuamente io caddi nella trappola da loro predisposta. Fui invitata a presentarmi a Villa Wolkonski, sede dell’ambasciata tedesca a Roma, con la scusa di una telefonata da parte di mio marito dalla Germania. Ero ansiosa di parlare con lui e non sapevo che invece era già stato arrestato ed era chiuso nel campo di concentramento di Flossemburg perché sospettato di aver aiutato il suocero, mio padre, il re d’Italia, a sbarazzarsi di Mussolini. Era il 22 settembre 1943 quando mi presero, e fui subito imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera, da dove poi fui trasferita a Berlino, città in cui mi sottoposero a estenuanti interrogatori. Infine, fui deportata nel lager di Buchenwald, dove arrivai il 18 ottobre.

Come ti hanno trattata?

Non hanno avuto riguardi per me. Quando arrivai nel campo di concentramento, possedevo solo i vestiti che avevo addosso al momento dell’arresto. Le mie richieste per avere indumenti e biancheria pulita furono sempre respinte.

Non ti permisero neppure di rivelare la tua vera identità.

Non solo, per scherno i nazisti mi chiamavano Frau Abeba. Fui rinchiusa in una baracca riservata a prigionieri particolari che non lavoravano e ricevevano il vitto delle SS, poco migliore di quello dei prigionieri comuni. Con noi c’era anche Rudolf Breitscheid, membro di spicco del partito socialdemocratico e delegato al Reichstag durante l’era della Repubblica di Weimar, e sua moglie. A me venne assegnata come compagna di stanza la signora Maria Ruhnau alla quale in segno di riconoscenza, regalai l’orologio che portavo al polso. Per caso fui notata da un prigioniero italiano che mi riconobbe, così la voce della mia presenza si diffuse tra gli altri internati.

Per una persona abituata agli agi, la realtà del campo di concentramento deve essere stata traumatica.

Era una realtà squallida e avvilente, dappertutto c’era dolore e sofferenza. Anche se il nostro era un campo di lavoro e non di sterminio, eravamo trattati con brutalità, senza pietà per nessuno, nemmeno per le numerose donne e bambini che vi erano detenuti. La dura vita del campo, il poco cibo (che dividevo con coloro che reputavo ne avessero più bisogno di me) e il glaciale freddo invernale, fecero deperire ulteriormente il mio fisico già gracile e provato.

Quali sono le cause della tua morte?

Il 24 agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager – non si è mai capito il perché di tale azione assurda contro chi era già vittima dei nazisti – e la baracca dove ero fu distrutta. In quell’occasione riportai gravissimi danni al braccio sinistro che fu ustionato fino all’osso.

Venni ricoverata nell’infermeria improvvisata nella casa di tolleranza usata dai guardiani del lager, ma là fui intenzionalmente abbandonata per molto tempo senza assistenza, poi fui finalmente operata per fermare la cancrena dovuta alle ustioni e mi amputarono il braccio.


Ancora sotto l’effetto dei pesanti sedativi, Mafalda venne riportata nel postribolo e abbandonata, senza assistenza. Morì dissanguata il 28 agosto 1944, a 42 anni. Il dottor Fausto Pecorari, radiologo italiano anch’esso internato a Buchenwald, dichiarò che Mafalda era stata intenzionalmente operata in ritardo e la sua morte era stata il risultato di un assassinio sanitario premeditato. La salma di Mafalda di Savoia, grazie al padre boemo Joseph Tyl, monaco cattolico dell’ordine degli Agostiniani Premostratensi, non venne cremata, ma fu messa in una cassa di legno, sepolta con la dicitura: 262 eine unbekannte Frau (donna sconosciuta). Dopo alcuni mesi dei marinai italiani, reduci dai lager nazisti, trovarono la bara della principessa martire e posero una lapide identificativa.

Dallo studio della vita della principessa e della sua personalità, emerge la figura di una donna briosa e mite, intelligente e colta, sempre dedita agli altri; una sposa e una madre esemplare, di grandissima fede cattolica, sempre pronta alla carità per i più bisognosi e disagiati. Persona semplice, indulgente, benevola e amabile.

Il suo sacrificio è l’ultimo atto di una vita occupata prioritariamente dalla presenza del Vangelo. Anche nel campo di concentramento di Buchenwald non badò a se stessa, in cima ai suoi pensieri c’erano i figli, il marito, i genitori, gli internati del campo e in particolare agli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza. Le sue ultime parole furono proprio dirette a loro: «Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana».

Il marito Federico sopravvisse all’internamento prima nel lager di Flossenburg, poi in quello di Dachau e infine a Villabassa in Val Pusteria dove fu liberato dagli Alleati.

Mafalda di Savoia riposa oggi in terra tedesca nel piccolo cimitero degli Assia a Francoforte-Höchst, frazione di Francoforte sul Meno. Innumerevoli sono vie, piazze, giardini pubblici intitolati a lei, esiste persino un comune che porta il suo nome (in provincia di Campobasso), cippi e monumenti eretti in suo onore in diverse scuole e realtà italiane sono dedicati alla sua memoria.

Figlia, madre e moglie ideale, principessa dai connotati straordinariamente umani e cristiani, Mafalda di Savoia rappresenta una vittima innocente giustiziata in una guerra dove l’odio espresse la sua faccia più turpe e la violenza il suo volto più feroce. Grazie alla sua testimonianza possiamo sperare in un futuro più giusto e fraterno.

Don Mario Bandera