Noi e Voi

Il mondo che verrà e noi

Care lettrici, cari lettori,
questo numero di MC è stato lavorato in modalità «smart working»: ciascun redattore da casa propria.

Sappiamo che solo una parte delle lavoratrici e dei lavoratori può lavorare stando tra le mura domestiche, e che molti hanno dovuto continuare a farlo andando fuori. Pensiamo in particolare agli operatori sanitari e a quanti producono beni o offrono servizi essenziali. Pensiamo poi a tutti quelli che non hanno più potuto lavorare o che hanno dovuto usare le ferie, o ricevono la cassa integrazione, o semplicemente sono dovuti rimanere a casa senza reddito.

Non sappiamo come sarà la situazione quando leggerete queste pagine. Sicuramente non sarà tornata la normalità perché la pandemia e le sue conseguenze ci accompagneranno per lungo tempo.

Noi, nel frattempo, cercheremo di capire quale mondo ne verrà fuori. Certamente un mondo più povero e ferito. Speriamo anche più solidale e attento alle cose essenziali.

Marco Bello, Luca Lorusso,
 Paolo Moiola (i redattori di MC)

Ricordando Raffaele Masto

La notizia che non avremmo mai voluto sentire infine è arrivata. Era sabato sera 28 marzo. Tutti chiusi in casa per il lockdown. Un messaggio sul telefono ci avvisava: Raffaele Masto (nelle tre foto  durante un reportage in Nigeria -ndr) se n’è andato. Raffa (nelle foto sotto), come lo chiamavano amici e colleghi, ci ha lasciati dall’ospedale di Bergamo, dove aveva subito un trapianto di cuore alcuni mesi fa. Finita la lunga terapia intensiva, doveva essere trasferito, ma è arrivata la furia del Covid-19 che se lo è portato via.

Raffa scriveva di Africa, continente che ha percorso in lungo e in largo per oltre 30 anni. Il suo era un giornalismo fatto «con la testa e con le suole delle scarpe», sempre in giro, in mezzo alla gente, a cercare il contatto umano e le storie vere. Sempre dalla parte di chi aveva qualcosa da dire, ma veniva zittito. Grande conoscitore del continente, forniva acute analisi degli eventi che lo caratterizzavano. Univa in sé profonda competenza e grande umiltà. Sempre pronto a dare un consiglio o a rispondere alla richiesta di un collega, sempre interessato a te, ai tuoi progetti. Sempre aperto a insegnare qualcosa ai più giovani. A trasmettere una passione. Mai un atteggiamento di superiorità.

Ci mancherà la sua voce un po’ impastata e pacata dei servizi su Radio Popolare, i suoi scritti sulla rivista «Africa» e sul blog «Buongiorno Africa», i suoi libri di approfondimento, unici in Italia per i temi affrontati. Mi ricordo quando lo intervistai per il suo libro su Boko Haram, «Califfato Nero». Ricordo le disquisizioni su Aboubakar Shekau, il capo del gruppo terroristico, chiamato «l’immortale», perché dato più volte per morto e più volte rispuntato in un video sul web. In quell’occasione Raffa mi disse: «[In questo lavoro] i viaggi sono stati essenziali, perché un fenomeno studiato dall’Europa continua ad avere dei buchi che si riempiono e si comprendono solo se si riesce ad andare sul posto. Io ho cercato di farlo preparando molto bene le missioni, creando e mantenendo relazioni con persone fidate in loco, e cercando di risparmiare».

L’ultima volta ho incontrato Raffa a una serata su Thomas Sankara, il presidente visionario del Burkina Faso, a Milano. Entrambi eravamo intervenuti, e stavamo seduti fianco a fianco. Uscimmo insieme, io e lui. Mi chiese: «Di cosa ti stai occupando? Quali progetti hai?». E concluse: «Dobbiamo organizzare di incontrarci».

Addio Raffa, giornalista di grande umanità. Ci mancherai.

Marco Bello

Passione e Risurrezione

Carissimi amici e benefattori,
per celebrare la Pasqua di risurrezione, prima bisogna passare attraverso la sofferenza della passione e della morte. Coraggio! La Fede e la Speranza e l’Amore sono le nostre uniche medicine in questo difficile momento in cui la piaga del coronavirus sta flagellando il mondo.

Noi uomini e donne, con la nostra scienza e tecnologia ci credevamo onnipotenti, superiori a tutto, capaci di assoggettare il mondo intero. Chissà che il Buon Dio ci aiuti a ottenere qualcosa di buono anche da questo male e ci faccia più solidali e misericordiosi gli uni verso gli altri.

Grazie a Dio, qui in Kenya, mentre scrivo, non è ancora arrivata questa piaga, e preghiamo tanto per esserne esenti, altrimenti con le nostre poche strutture ospedaliere diventerebbe un vero disastro. Invece ora noi abbiamo la piaga dell’invasione delle locuste, che non vedevamo dal 1952 e che divorano il bel verde che le piogge straordinarie di quest’anno ci avevano regalato.

I bambini che voi generosamente aiutate da diversi anni potranno, attraverso lo studio, vedere aperte davanti a loro nuove strade, oltre che alla tradizionale pastorizia nomade e all’agricoltura di sussistenza. Molti di questi bambini durante le vacanze (novembre-dicembre 2019) sono stati circoncisi (purtroppo anche qualche bambina) e ora si sentono degli ometti maturi. Per fortuna per loro sarà più facile trovare un lavoro utile e non ricadere in certe tradizioni ormai sorpassate.

Qualcuno entra anche nelle scuole superiori e nel seminario. Recentemente ho ordinato tre sacerdoti locali, figli di povere famiglie di pastori: ringraziamo il Buon Dio che fa questi miracoli.

Ringrazio anche il Signore perché in questo anno ricorre il cinquantesimo del mio sacerdozio. Sono appena sceso dal monte Kenya (nella foto di apertuta e in questa foto qui sotto – ndr) su cui ho celebrato una messa di ringraziamento insieme ad alcuni miei sacerdoti e cristiani. Di nuovo vi prometto la mia preghiera quotidiana. C’è più gioia nel dare che nel ricevere, ci diceva Gesù. E Tonino Bello: «Amare, voce del verbo morire (al proprio egoismo)».

+ Virgilio Pante
Maralal, Kenya, 08/03/2020

Carissimo «wild bishop»,
complimenti e benedizioni per i 50 anni di sacerdozio celebrati sulla montagna «sacra» del Kenya, che ti ha visto frequentatore assiduo sin dai tuoi primi anni di servizio missionario in quel paese. Davvero una bella esperienza di libertà, per uno abituato ai grandi spazi del Nord del Kenya e alla cattedrale più bella del mondo, quella che Dio stesso si è costruito.

La notizia a cui accenni di passaggio, quella delle circoncisioni, ha invece suscitato in me un po’ di apprensione, memore di quanto vissuto coi riti di passaggio del 1990-91, quando con suor Corona Nicolussi, proprio a Maralal, passammo di lorora in lorora (il villaggio dove si celebra l’iniziazione, di cui la circoncisione è momento centrale) a disinfettare e curare centinaia e centinaia di ragazzi e ragazze con nel cuore la paura di una diffusione epidemica dell’Aids.

Fortunatamente questa nuova epidemia di coronavirus si sta spargendo in Kenya (225 casi e 10 defunti al 15/04/2020) quando i rituali per l’iniziazione del nuovo gruppo di età dei Lkisieku (i frettolosi) sono ormai giunti alla loro conclusione, essendo iniziati nel luglio 2019. Auguro ogni bene a questi nuovi giovani perché assumano la loro responsabilità nella società. Spero anche che il grande lavoro fatto da tante donne Samburu in questi anni per attualizzare «riti alternativi di iniziazione» delle ragazze senza il ricorso alla mutilazione genitale femminile, abbia dato i suoi frutti positivi.

 

Copie di MC col pacco viveri

Spett.le Missioni Consolata,
le scrivo questa lettera dalla parrocchia di Fiorenzuola d’Arda, nella zona del piacentino, tristemente nota alle cronache attuali per il primato negativo del nostro comune sul numero di decessi e sui casi di positività riscontrati in Emilia Romagna.

A causa di ciò, molte persone sono rimaste sole.

La nostra parrocchia, assieme ad alcune associazioni di volontariato del luogo, si è fatta carico di raccogliere le esigenze di un numero sempre crescente di persone (ad ora sono 150 nuclei famigliari) che sono costrette ad un regime di isolamento presso le proprie abitazioni.

È stato così intrapreso un servizio di consegna a domicilio di generi alimentari e di medicinali.

Ora l’emergenza chiama tutti a una maggior responsabilità e, proprio perché siamo una comunità, abbiamo bisogno di gesti di solidarietà. Come ha ricordato il Santo Padre «nessuno si salva da solo» e solo certi comportamenti collettivi possono portare a dei risultati.

Pensando a come possiamo essere vicini a tali persone, ci è parsa buona l’idea di far giungere nelle case, copie della vostra rivista, affinché una lettura più profonda e più consapevole dell’attualità e del momento straordinario che stiamo vivendo, possa essere di conforto e di sostegno a tutte quelle persone che stanno attraversando questa condizione particolare e drammatica.

Vi chiederemmo quindi se foste disposti ad inviarci presso la parrocchia delle copie omaggio della vostra rivista, da inserire nelle borse della spesa delle persone che assistiamo a domicilio.

Pensiamo possa essere anche un’occasione di promozione del vostro prezioso lavoro.

Certi nella vostra condivisa risposta vi ringraziamo per la concreta attenzione.

Don Giuseppe Illica, parroco
Fiorenzuola d’Arda, 08/04/2020

È ovviamente un piacere per noi poter condividere con voi questo momento e poter far compagnia ai vostri parrocchiani.

Come missionari e missionarie della Consolata ci sentiamo profondamente uniti all’Italia, con la quale condividiamo tanta storia di fede e umanità. In particolare siamo più che mai vicini a chi vive nelle regioni più colpite dove abbiamo tanti famigliari, amici e benefattori. Siamo vicini anche ai nostri fratelli e sorelle  degli altri istituti missionari che hanno pagato un pesante contributo di vite, come i missionari saveriani e le missionarie comboniane.
Che in questo duro momento di traversata del deserto con i «serpenti» del coronavirus che attaccano chiunque, possiamo sempre essere capaci di alzare gli occhi insieme a Colui che è stato innalzato e che unico è guarigione vera del cuore dell’umanità.




Kenya: In viaggio con il vescovo «selvaggio»

Foto e testi di Daniele Romeo


Sole. Polvere. Calore. Il suono delle campane delle mucche. Il belato delle capre. Il sottofondo costante, ritmico, quasi ipnotico del canto di guerrieri Samburu, che si preparano a festeggiare l’evento dell’iniziazione alla vita adulta di un gruppo di ragazzi. Accade ogni quindici anni circa. È una scena affascinante, antica, quasi biblica. Come biblica è la figura di Virgilio Pante, the wild bishop, il «vescovo selvaggio», come lo chiamano nella diocesi di Maralal e come lui stesso ama definirsi.

Pante, come preferisce essere chiamato, è la mia guida e il mio «autista» instancabile alla scoperta del territorio abitato dalle etnie Samburu, Turkana e Pokot, in un safari fotografico che mi permetterà di conoscerlo e apprezzarlo insieme a un altro grande missionario poco convenzionale in un territorio difficile, isolato, al centro di eterni conflitti e dominato dalla filosofia dell’«Io, adesso»: monsignor Virgilio Pante e padre Aldo Giuliani, missionari della Consolata.

Il viaggio

Mi trovo nel Kenya del Nord, la Samburu County, nella diocesi di Maralal, per un viaggio fotografico esplorativo in un’area nella quale da decenni, esattamente dal 1952, operano i missionari della Consolata. Partito da Nairobi, sono arrivato a Maralal, dove monsignor Pante ha la sua sede. E da Maralal partirò, accompagnato dal missionario, alla scoperta delle missioni più remote della sua diocesi.

Lungo l’itinerario percepisco un’atmosfera fraterna, serena, fatta di amicizia e condivisione che solo il viaggiare in compagnia e col supporto di chi da sempre vive in simbiosi e sintonia con questa terra, può creare. Un senso di pace interiore mi fa sentire solidale con questi luoghi isolati. Siamo in una delle zone forse più difficili del Kenya, segnata dalla violenza causata dalla follia dell’uomo e dalla durezza e sobrietà di un ambiente naturale che pure è di sorprendente bellezza.

A decidere ogni singola tappa, villaggio e missione da visitare, per tutto il tempo al volante della sua Toyota 4×4, è il vescovo Pante, narratore instancabile e conoscitore di ogni angolo di quella che lui chiama la «sua sposa» (la sua diocesi) che ha attraversato in tutte le direzioni con la sua moto.

Monsignor Pante, la mitra, la Yamaha

Ordinato vescovo della diocesi di Maralal il 6 ottobre del 2001, è fiero di aver donato, un paio di anni fa, a papa Francesco la sua mitra in pelle di capra. Mitra che non rappresenta per lui solo un simbolo cristiano, ma uno stile di vita e la memoria della sua stessa esistenza in mezzo ai pastori samburu da quando nel 1972 iniziò la sua avventura missionaria in un territorio in bilico tra montagne e deserto e segnato dalla conflittualità delle tribù di pastori nomadi che lo abitano, sempre in competizione per le magre risorse.

Durante il nostro viaggio mi racconta che da quel lontano 1972, molte cose sono cambiate in meglio mentre molte sono peggiorate. Altre sono rimaste identiche, come la sua smisurata passione missionaria.

Allora quelle terre erano relativamente pacifiche, spazi infiniti e incantati tra gli scenari maestosi della Rift Valley, punteggiati, come in un dipinto, dai pastori samburu al seguito delle loro greggi. A quel tempo era solo, lui e la sua motocicletta Yamaha, che ancora oggi custodisce gelosamente a Maralal e usa spesso e volentieri, non solo sulle strade e piste polverose del Nord.

Viaggiare nel Nord del Kenya non è agevole. Lontani solo poche ore da Nairobi, ci si addentra in zone con strade sterrate e prive di qualsiasi indicazione, sulle quali un fuoristrada non è certo un lusso. In questo ambiente, Pante si muove come nel giardino di casa, senza esitazioni, conoscendo a occhi chiusi il cammino che porta ai villaggi più isolati, alle manyatte (tipici insediamenti dei Samburu) immerse nel mezzo del nulla e alle missioni di Baragoi, Barsaloi, South Horr, Tuum e Sererit.

Veniamo accolti dai bambini. All’inizio ci fissano con i loro sguardi timidi e incuriositi, ma, dopo pochi attimi, ci circondano sorridenti festeggiando l’arrivo del vescovo. Grazie alla sua dimestichezza con le lingue samburu e swahili, il vescovo mi aiuta a godere di racconti, storie e leggende degli anziani dei villaggi.

La Suguta Valley e i conflitti etnici

«Cactus, alberi di acacia e polvere: sono le ultime cose che i militari della polizia keniota hanno visto quando sono stati uccisi in un’imboscata in uno dei luoghi più inospitali della terra». Queste le parole con cui Pante descrive la «valle della morte» quando l’osserviamo dall’alto andando verso Baragoi. Situato a Sud del lago Turkana e parte della Rift Valley, questo è uno dei luoghi più caldi e inospitali del mondo. La valle è stata ed è tuttora luogo di rifugio sicuro per razziatori di bestiame, sia Turkana che Samburu, che si rubano il bestiame a vicenda, un tempo solo per dare prova di coraggio contro il «nemico», oggi anche istigati da mestatori e trafficanti di bestiame.

Il conflitto tra Samburu, Turkana e Pokot è il tema dominante delle conversazioni con monsignor Pante. La riconciliazione è l’obiettivo della sua missione di vescovo. Sono decine gli episodi raccontati durante le lunghe ore trascorse in auto. Capisco così come la competizione per il bestiame e l’approvvigionamento di acqua e pascoli nella Samburu County sono oggi manifestazioni di contese e rivalità non solo di tipo etnico ma anche politico.

La cultura della razzia tra le comunità di Samburu, Turkana, Pokot, Borana, Gabbra e Rendille è cambiata negli ultimi 40 anni. Mentre un tempo erano gli anziani i guardiani delle istituzioni tribali, oggi lo sono molto meno. Tra le fila delle comunità di pastori nomadi, sono emersi politici e astuti uomini d’affari pronti a sfruttare le rivalità tradizionali e l’oggettiva scarsità di risorse per scatenare le violenze e affermarsi. Queste lobby politiche e imprenditoriali giocano un ruolo determinante nel conflitto, pagando e armando i guerrieri. La competizione per la supremazia politica è strettamente intrecciata con quella per le scarse risorse idriche e dei pascoli tra Turkana, Samburu e Pokot. Le élite politiche armano le loro comunità non solo durante la stagione secca per prendere il sopravvento nella corsa alle risorse limitate, ma durante tutto l’anno, per sostenere politiche locali e contese tra leader delle diverse etnie.

A guadagnarci sono poi i trafficanti di bestiame che lo possono acquistare a prezzi irrisori e rivendere vantaggiosamente a Nairobi o addirittura in Medio Oriente.

Ma Pante è anche molto fiducioso nel cammino di riconciliazione da lui avviato. Il ruolo della Chiesa, la presenza dei missionari sempre più «neri» e la crescita del numero dei sacerdoti locali offrono a Samburu, Turkana, Pokot, strumenti che permettono di costruire una convivenza pacifica: il dialogo, la scuola, il mercato. Incontri di preghiera, condivisione e scambio tra anziani delle diverse etnie, bambini Samburu e Pokot che dormono, mangiano e giocano insieme nella stessa scuola-collegio, mercati intertribali, nuove scuole.

È un cammino lungo e difficile, ma lentamente sta portando risultati.

Dan Romeo


Scatti ed emozioni di un fotografo

U na serie di articoli fotografici, sotto il titolo «I viaggi di Dan», troveranno spazio su queste pagine per un po’ di tempo. Confesso che è emozionante per me avere l’opportunità di condividere con i lettori di Missioni Consolata la mia passione per la fotografia, i viaggi e le azioni umanitarie.

Mi auguro di riuscire a farvi partecipi di cosa c’è dietro al lavoro di un fotografo e viaggiatore umanitario. Ho vissuto esperienze con Onlus e Ong come la stessa Missioni Consolata Onlus, Unicef, Save the children e molte altre in 55 nazioni diverse.

Vorrei soprattutto farvi entrare in contatto con le realtà che ho visitato, tutte molto diverse dalla nostra, e con le situazioni vissute, ben lontane dalla quotidianità, dal comfort e dal consumismo a cui siamo abituati. Sarò felice di poter condividere con voi una passione che ha aperto per me nuovi orizzonti.

Chi è il fotografo umanitario

Essere un fotografo umanitario e documentare le attività di una Ong, non rappresenta solo l’opportunità di viaggiare
e di vedere decine di posti diversi in tutto il mondo, ma di provare, e poi trasmettere,
emozioni che difficilmente altri tipi di lavori
o di fotografia possono offrire: paesaggi, sguardi, profumi, odori, gioie, dolori.

I viaggi e la fotografia umanitaria sono uno strumento potente che può generare consapevolezza e cambiamenti nelle nostre vite.

Le immagini catturate dalle fotografie possono far sognare le persone e proiettarle in territori remoti, far comprendere popoli, tradizioni, condizioni di vita lontani dai nostri.

Ci sono poi sempre alcune immagini che, per il fotografo, segnano i singoli viaggi e reportage perché sono legate a momenti nei quali si è creata una connessione umana e un’empatia particolare con i soggetti ripresi. Sono quelle che condividerò con voi.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

 




Anche le capre sono parte del gregge


In Kenya dal 1972. Diventa vescovo della nascente diocesi di Maralal nel 2001. Nella chiesa abbandonata di Kawap, segnata dal conflitto tra Samburu e Turkana, comprende quale stile dare al suo mandato: dialogo e riconciliazione. Tra battute di spirito e aneddoti, la chiacchierata con monsignor Pante sulla sua vita missionaria prende quasi il gusto di racconti biblici.

È il 26 novembre 2015. Papa Francesco celebra la messa nel campus dell’Università di Nairobi, Kenya. Sul capo porta una mitria di pelle di capra fatta dalle mani di una donna samburu. Gli è stata donata in aprile, a Roma, dal vescovo della diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, zona abitata da comunità di pastori. Quel vescovo è monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, la donna samburu è Lydia Letipila, di Baragoi.
Incontriamo mons. Pante nella redazione di MC. È impossibile non accorgersi del suo arrivo: la sua voce risuona allegra mentre narra storie e aneddoti con un marcato accento trentino. Gli chiediamo di poterle raccogliere per trasmetterle ai nostri lettori, e lui inizia proprio dalla mitria.

Racconta che quando l’ha data al pontefice, Francesco l’ha annusata e ha detto: «Questa non è pecora, ma capra!», e che lui gli ha risposto: «È vero, ma anche le capre sono parte del gregge».

In Kenya, a novembre, mons. Virgilio ha occasione di parlare due volte con il Papa. Racconta: «All’arrivo all’aeroporto, “Ti avevo regalato una mitria, dov’è?”. “Domani la vedrai durante la Messa”. “Bravo, sei promosso”», e aggiunge: «Tutti mi guardavano. Non si parla così a un Papa. Alla partenza, all’aeroporto gli ho detto ancora: “Guardati la salute e riposati anche. E poi la mitria usala, non solo in Kenya”. “Tranquillo”, mi ha risposto», e conclude: «Sono stato un po’ sfacciato? No, mi sentivo come davanti a un papà buono. All’inizio della messa, io ero vicino all’altare, Francesco mi ha fatto l’occhiolino e il vescovo accanto a me se n’è accorto, invidioso!».

Da Belluno a Maralal

Nato nel 1946 a Lamon, Belluno, padre Virgilio Pante arriva in Kenya nel 1972. Inizialmente nella diocesi di Nyeri, dove studia la lingua kikuyu. Poi, nel ‘73, nella diocesi di Marsabit, al Nord, dove c’è bisogno di un sacerdote.

Dopo 29 anni, nell’ottobre del 2001, diventerà vescovo della nascente diocesi di Maralal, staccata da quella di Marsabit.

La popolazione, ancora oggi, è composta da pastori seminomadi: «Samburu, Turkana, qualche Pokot», ci dice. «Nei centri più grossi, sugli altopiani dove si può fare un po’ di agricoltura, la gente è stanziale. Mentre nelle zone più basse si muove nella savana seguendo le piogge».

La diocesi si estende su un territorio di 21mila km2 (come il Veneto e la Valle d’Aosta messi insieme). Conta 260-280mila abitanti, di cui 60-70mila cattolici. «Il resto sono protestanti, pochi musulmani. Quasi l’80% sono Samburu, quasi il 20% Turkana, il resto Pokot, Kikuyu, Meru, Luo e qualche commerciante somalo».

Uno stile semplice e profondo

Parla molto, mons. Virgilio, ma senza parole di troppo o troppo di circostanza. Il tono è gioviale, spesso ironico. Quando entra nel nostro ufficio per l’intervista, fa finta di essere lui a domandare a noi se possiamo dedicargli un po’ di tempo, e ci chiede il permesso.

Indossa una polo nera sulla quale spicca un crocefisso color acciaio appeso a una semplice catenella.

Il missionario della Consolata non ha difficoltà a parlare di sé e della missione che il Signore gli ha affidato 40 anni fa, e lo fa con la stessa semplicità comunicata dal suo aspetto: facendo trasparire la profondità della sua esperienza attraverso immagini quotidiane che riguardano pastori, mercati, studenti, polvere. Una realtà precisa, una realtà salvata.

Ha barba e capelli bianchi che fanno da cornice a un volto dai tratti marcati e dalla pelle scurita dal sole. Le rughe dei suoi 72 anni agli angoli degli occhi sono un fascio di linee che fanno convergere il nostro sguardo sul suo: azzurro e intenso.

L’arrivo in Kenya

Appena arrivato in Kenya, nel 1972, padre Virgilio compra una moto. «Di seconda mano», ci tiene a sottolineare, e, dopo sei mesi a Nyeri, parte per il Nord, per un mese di vacanza nella diocesi di Marsabit, tra Samburu, Turkana, Borana. «Ho visto le giraffe, i guerrieri, gli elefanti. Quando sono tornato indietro, innamorato del Nord, il superiore, padre Pietro Baudena, viene a Nyeri a trovarmi e dice: “Tu l’hai fatta grossa, da solo con la moto, nel deserto… Ti devo dare un castigo: adesso torna lassù e stacci”». Mons. Pante, sorride: «Bel castigo, eh? Nel Marsabit c’era padre Giuseppe Inverardi. Era stato spostato al santuario della Consolata a Nairobi, e il vescovo di Marsabit, mons. Cavallera, voleva un sostituto. Padre Baudena ha continuato: “Abbiamo sentito parlare di un certo Pante, che è andato su da solo, in moto, eccetera, che è tornato intero… e allora sono venuto a chiederti la tua disponibilità”». Padre Virgilio arriva nella diocesi di Marsabit nel marzo del ‘73: «Sono andato al Nord per una monellata!», conclude sornione.

Marsabit-Londra e ritorno

Il modo di mons. Pante di raccontare la sua biografia ha qualcosa di biblico, somigliante a un racconto dei patriarchi. I dati di tempo e di luogo sono circostanziati, riguardano la sua persona, ma quello che viene fuori è un grande affresco pieno di simboli, in una visione di salvezza.

È l’affresco di una porzione di mondo e di pochi decenni di missione punteggiato di nomi di confratelli conosciuti e amati.

Nel 1979 padre Virgilio apre il seminario diocesano per i preti locali. Vuole realizzare il progetto al quale si è sentito chiamato: contribuire alla crescita di una chiesa autoctona che prenda, un po’ per volta, a camminare sulle proprie gambe rendendo «superflui» i missionari arrivati da fuori. «Ho iniziato con due seminaristi. Oggi, nella diocesi di Maralal, abbiamo circa una ventina di sacerdoti africani su 32 in totale». Padre Virgilio, però, non rimane sempre nel suo Kenya. «Nel 1987, dopo che era stato ordinato il primo prete samburu, mi hanno detto di andare a cercare vocazioni in Irlanda e Inghilterra».

Questa volta il mandato gli sembra un castigo vero, non come quello del ‘73. «Quando sei là in Africa, hai tanta soddisfazione, poi ti mandano a cercare vocazioni. È come annaffiare l’asfalto: cosa cresce? Sono stato tre anni a Dublino e quattro a Londra. Lì ho avuto tempo per aggiornarmi, leggere, girare nelle scuole e predicare nelle chiese. Sono andato all’università per un master di antropologia. Nel ‘94 viene padre Piero Trabucco, allora superiore generale: “Pante, quante vocazioni hai trovato?”. “Padre, per essere sincero, zero. Anzi, le dirò che sto perdendo la mia”».

E così, nel 1994, padre Virgilio torna in Kenya, ma non nel suo Nord: «Padre Canzian, superiore del Kenya, mi dice: “Andrai sul lago Vittoria, a Kisumu, tra i Luo”. Sono stato a Chiga, per due anni. Poi sono stato vice superiore del Kenya, a Nairobi, per cinque anni. Infine, nel 2001, il nunzio apostolico, Giovanni Tonucci, mi chiama: “Sarai il primo vescovo della nuova diocesi di Maralal. Ora non dirmi che non sei all’altezza, che non sei capace, che non sei preparato. Perché nessuno lo è. S’impara. E non dirmi che hai bisogno di una settimana per fare discernimento. No, no. Devi rispondermi adesso. Sappi che se dici di no rattristi il Santo Padre”, Giovanni Paolo II. Allora ho risposto: “E beh, allora va bene!”».

Ministero della riconciliazione

La neonata diocesi di Maralal che lo aspetta ha 12 «missioni», in gran parte con sacerdoti europei. Padre Virgilio, prima della consacrazione, deve scegliere un motto e uno stemma. Allora parte con la moto in cerca d’ispirazione e visita ogni angolo di quel territorio. «E sono rimasto colpito da Kawap, vicino Baragoi. Ho visto la chiesa abbandonata, la scuola distrutta. Lì andavo a celebrare la messa una volta. E ho chiesto cosa fosse successo. “Le battaglie tribali tra i Samburu e i Turkana, per via del bestiame. Il villaggio è stato distrutto e abbandonato”. Mi veniva da piangere e ho detto un Padre Nostro a voce alta: bisognava pregare di nuovo in quella chiesa».

È lì che il missionario capisce quale sarà il tema e lo stile del suo mandato: la riconciliazione. «Se la Chiesa costruisce solo chiese, scuole, istituzioni, e dopo ci sono le guerre che distruggono tutto, sono milioni buttati all’aria. Bisogna puntare sulle persone più che sulle strutture, e fare la pace. Allora ho scelto come motto una frase di san Paolo, seconda lettera ai Corinti: “Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione”. E come stemma? Ho preso Isaia 11: “Quando arriverà il salvatore, porterà la pace, le persone useranno la spada non per uccidere ma per arare il campo, gli animali vivranno insieme, anche il leone, il lupo, l’agnello. Il bambino giocherà con la vipera e non verrà morsicato”. Un leone sdraiato insieme a un agnello. Ecco lo stemma. E dietro di loro il monte Kenya, il monte di Dio».

chiesa di Kawap, interno (2018)

Dialogo, scuola, commercio

Padre Virgilio viene ordinato vescovo il 6 ottobre del 2001 a Maralal. Esattamente tre mesi dopo, nel parco nazionale Samburu, una leonessa adotta un cucciolo di gazzella e stanno assieme per due settimane. «Perciò la gente diceva: “Vedi un po’ cosa è successo. Padre Pante è uno stregone. Quello che ha detto si è avverato”. E mi hanno promesso: “Vescovo, vedrai che d’ora in poi faremo così anche noi. Samburu, Turkana, Pokot staremo insieme, non ci faremo più la guerra”».

Dall’inizio del suo episcopato mons. Pante punta quindi sulla riconciliazione. La Chiesa di Maralal inizia a offrire tre strumenti: occasioni di incontro e dialogo tra tribù, la scuola, il mercato.

Innanzitutto organizza incontri di preghiera e di discussione tra gli anziani dei vari gruppi.

«Le diverse tribù vivono mescolate durante il giorno, ma poi la sera ciascuno va nel suo villaggio. La lingua è diversa. I Samburu sono circoncisi, sia maschi che femmine, mentre i Turkana no. Vivono da tempo insieme, ma poi ci sono scontri, soprattutto per il bestiame. I giovani, per dimostrare che sono forti, una volta uccidevano i leoni, adesso invece rubano, ad esempio le vacche, e uccidono le persone: si mettono un braccialetto per ogni nemico ucciso come segno di valore».

Oltre agli incontri, la Chiesa offre la scuola, «perché l’ignoranza fa molto per la guerra, e l’analfabetismo nella nostra zona è al 75%. Noi puntiamo sulla scuola convitto. Li chiamo “dormitori della pace”. Bambini dei Pokot che dormono, mangiano, giocano insieme ai bambini dei Samburu».

Il terzo strumento per la riconciliazione è il commercio: «Abbiamo incoraggiato i mercati intertribali. I Pokot hanno pecore e capre buone e sane. I Samburu fagioli, patate, tabacco, coperte, zucchero, sale. E scambiano. Una regola è che al mercato nessuno può portare il fucile. Purtroppo tutti hanno il fucile. Al mercato però non si portano le armi. Il mercato crea relazione. Ho visto un cambiamento enorme negli ultimi anni. Quindici anni fa era inconcepibile un mercato così: se tu, Samburu di Porò, vedevi un Pokot, gli sparavi, come si spara a una gazzella. Si sparava a vista. Oggi invece un Pokot può entrare a Porò, fare il mercato, andare al dispensario per le medicine. All’inizio tutti mi prendevano in giro: “Ma lasciali stare i Pokot che sono come i babbuini, selvatici. Lasciali perdere, sono solo capaci di fare la guerra”. E io dicevo loro: “Volete vincere il nemico? Ci sono due strade: o lo combatti con le armi – ma, scusa, sono più forti di noi i Pokot -, oppure te lo fai amico. Se tu fai amico il tuo nemico, l’hai vinto, no?”».

Contro la politica dell’odio

«Ultimamente tra Samburu e Pokot c’è una buona relazione. Tra Samburu e Turkana, a Baragoi, invece c’è ancora un po’ di attrito», mons. Pante si prende il volto tra le mani in un gesto a metà tra la tristezza e la certezza della pace possibile. «Lì c’è di mezzo anche la politica. Per esempio ultimamente sono state rubate un migliaio di vacche. Che fine fanno? Le portano giù, nella valle di Suguta, e poi qualcuno va a prenderle con i camion per venderle a Nairobi. Non è più rubare due o tre capre per mangiare o comprarsi la moglie. C’è di mezzo anche la politica. Comunque», aggiunge per dare forza alla speranza che vuole comunicare, «la gente capisce che la guerra non porta niente di buono». E a questo proposito mons. Pante fa l’esempio di due ex parlamentari della sua diocesi, apertamente razzisti e sostenitori dei conflitti tribali, che alle ultime elezioni sono stati battuti da due donne favorevoli al dialogo e alla pace. «Uno era un giovane deputato di Maralal, conosciuto perché incitava i Samburu a combattere contro i Turkana, l’altro distribuiva addirittura le armi. Ma la gente è stufa di guerra».

Una Chiesa in transizione

Monsignor Pante ci parla anche del cambiamento che sta avvenendo nella Chiesa: la chiesa locale cresce, non solo nel numero, ma soprattutto nella responsabilità. Per illustrarci quanto dice, ci parla dell’ospedale di Wamba: «Abbiamo iniziato dando tutto gratis. Adesso però non ci sono più bianchi e nemmeno le offerte dall’Europa. La gente si aspetta ancora di essere aiutata al 100 per cento, però adesso bisogna dirle: “Non ci sono più i bianchi e i soldi che arrivano dall’estero. Dovete aiutare voi. Se venite all’ospedale dovete pagare qualcosa, no?, altrimenti le medicine chi le compra, chi paga le infermiere?”. C’è questa crisi, non solo per l’ospedale di Wamba. In generale cerchiamo di dire: “La Chiesa siete voi, i missionari hanno fatto il loro lavoro, sono vecchi decrepiti, non ce ne sono più, la chiesa è vostra”. Il clero c’è, vocazioni ce ne sono. Però, per la parte economica, la gente oggi deve contribuire. Io tra tre o quattro anni lascerò perché arriverò ai 75. Il prossimo vescovo probabilmente sarà africano. Che non debba dire: “Ecco, il mio predecessore vi dava tutto gratis, adesso io sono in difficoltà, i missionari vi hanno educato male”. No. Non vogliamo questo. I preti africani hanno un altro approccio. Quando la gente vede un prete con la pelle nera, dice: “Beh, questo è come noi, dobbiamo aiutarlo. Non ha la benzina per andare a dire la messa, diamogli la benzina. Cosa mangia?”, allora vedi che all’offertorio portano farina, fagioli, galline. È bello. Questo con noi non succedeva. Si aspettavano che fossimo noi ad aiutare loro. Adesso la cosa cambia. C’è un cambiamento positivo. La Chiesa inizia a sostenersi da sola».

Il carisma della Consolata

La prossima estate mons. Pante ordinerà un nuovo sacerdote locale. Più avanti, «se Dio vuole», altri tre. Anche la provenienza del clero locale è segno del cammino di riconciliazione nella diocesi di Maralal. Sono preti samburu, turkana, pokot, kikuyu. Ci sono giovani locali che diventano anche missionari. Il vice superiore generale dei missionari della Consolata, ad esempio, è un Samburu, padre James Lengarin.

Parlando dei suoi confratelli missionari, mons. Pante conclude con una riflessione sulla Consolata: «Il carisma della Consolata, la consolazione, è portare Gesù prima di tutto. Portare un Gesù che guariva le folle, che dava da mangiare. Noi lavoriamo ancora così. La Consolata è la fondatrice della diocesi di Marsabit da cui poi Maralal è stata staccata. Però adesso il nostro tempo finisce. Abbiamo solo quattro centri che presto saranno consegnati al clero diocesano. E noi andremo in un altro posto. Andremo ad aprire altre missioni, cominciando da zero altrove. Il nostro carisma è cominciare da zero, non stare lì sempre. È incominciare e poi andare, muoversi».

Per finire mons. Pante torna al 1972, come per chiudere un cerchio: «Agli esercizi spirituali del 1972 a Nyeri eravamo 80 sacerdoti: tutti bianchi. Adesso, vai a fare gli esercizi spirituali: sono tutti africani, eccetto cinque o sei vecchietti europei. Ecco come è cambiata la missione in quarant’anni. Ecco, i missionari della Consolata africani sono il nostro futuro. I primi saranno gli ultimi, gli ultimi primi».

Luca Lorusso

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