Bielorussia. A scuola di guerra


Il presidente Lukashenko militarizza il paese sotto la pressione di Putin. E anche i bambini vengono addestrati alla guerra. L’esercito promuove giornate e settimane residenziali per insegnare a obbedire, marciare, sparare. Con l’esca di offrire ai minori in condizioni di povertà cibo, luoghi caldi, una prospettiva di futuro.

Il 24 febbraio 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina anche dal territorio bielorusso.
Minsk non è entrata formalmente in guerra, ma il suo presidente Alexander Lukashenko, al comando del Paese dal 1994, ha sostenuto pubblicamente l’aggressione del suo alleato.

Finora le truppe bielorusse non hanno attraversato il confine ucraino, ma nelle città c’è una chiara consapevolezza che prima o poi Putin vorrà un contingente che combatta al suo fianco.

La Bielorussia è un paese chiuso, con molte nostalgie sovietiche impersonate da Lukashenko.

Al suo interno cresce una minoranza, soprattutto giovanile, con una forte pulsione europeista, ma la repressione del regime, attuata con spietatezza, tiene sotto controllo la popolazione che è sempre più impoverita e sempre meno libera.

Molti dissidenti sono fuggiti e operano in esilio. Il cambiamento per il quale lottano, però, appare ancora lontano.

Screenshot del Campo Doblest

Campi militari per ragazzi

A causa degli eventi legati alla guerra, dall’inizio del 2022 le autorità bielorusse hanno messo tra le loro priorità quella dell’aumento del numero di soldati.

La generale militarizzazione della società ha coinvolto anche i bambini, minori di 16 anni.

Il loro addestramento militare rientra in una strategia a medio e lungo termine che prevede anche l’eventuale coinvolgimento futuro nella guerra in Ucraina.

I contesti nei quali viene messa in atto la formazione militare, con veri e propri addestramenti alla vita di caserma, sono campi estivi, stage di vita all’aperto, corsi sportivi durante l’anno, attività extrascolastiche, come avveniva in Italia durante il ventennio, con l’educazione dei «balilla», organizzazione giovanile paramilitare del fascismo.

Il regime bielorusso sta effettuando un’intensa preparazione di massa dei bambini alla guerra, iniziando fin dall’età di 6-7 anni.

I «campi militari patriottici», ricadono sotto il controllo delle agenzie militari del paese, in primo luogo del ministero della Difesa, ma vedono anche la partecipazione di istruttori ceceni provenienti dalla Russia.

Lo scopo, poi, non è soltanto quello di addestrare tecnicamente i ragazzi alla vita militare, ma anche di formarli secondo l’ideologia del «mondo russo».

Bambini poveri e marginali

Nella sola estate del 2022 si sono tenuti almeno 480 campi ai quali hanno partecipato 18mila minori, pari al 2% della popolazione sotto i 18 anni.

In particolare sono stati coinvolti bambini provenienti da famiglie che vivono in condizioni di marginalità e di degrado sociale, bambini orfani o in precarie situazioni psicofisiche: sono quelli che non hanno una protezione adeguata da parte delle famiglie, le quali non si opporranno al coinvolgimento in future azioni militari.

Una prassi simile l’abbiamo già vista in atto in Russia, dove la base dell’esercito attualmente impegnato sul campo in Ucraina è composta da giovani provenienti da aree depresse, da famiglie marginali, oppure orfani, senza istruzione e senza accesso agli ascensori sociali.

campo forpost sb news

La denuncia di Our house

L’organizzazione pacifista e nonviolenta Our house, fondata in Bielorussia nel 2002 e ora in esilio in Lituania, ha pubblicato di recente un rapporto per denunciare questo processo di militarizzazione dei minori bielorussi.

Le pagine del report, tradotte in italiano e diffuse nel nostro paese dal Movimento Nonviolento (partner di Our house nell’ambito della «Campagna di Obiezione alla guerra per il sostegno agli obiettori di coscienza russi, bielorussi e ucraini»), mettono in evidenza la portata del fenomeno raccogliendo dati e informazioni ufficiali diffusi dai media bielorussi, sia governativi che non.

Il campo Doblest

Nel rapporto di Our house è descritto il tono celebrativo con il quale vengono raccontati i campi patriottici militari.

Si legge, ad esempio, sul campo Doblest (Valore), raccontato dall’agenzia di stampa ufficiale del regime «BelTA», che esso è organizzato negli spazi dell’unità militare 3.214 a Minsk, è attivo durante le vacanze scolastiche ogni giorno dal lunedì alla domenica e fornisce ai bambini che vi partecipano vitto e alloggio per l’intera settimana.

Al campo, proposto in sei sessioni, partecipano gli scolari di tutti i distretti della capitale.

I bambini fanno esercitazioni nelle quali imparano a usare e smontare armi, a capire i propri punti di forza e a muoversi, ad esempio, in un bosco.

Ogni giorno vengono addestrati al combattimento, si esercitano a fornire cure mediche militari, imparano a sparare con armi airsoft, pistole ad aria compressa e armi da fuoco vere.

Partecipano a lezioni su come comportarsi in diverse situazioni di emergenza. Inoltre, familiarizzano con i sistemi d’arma e si cimentano nel combattimento corpo a corpo.

In pochi giorni, i bambini imparano ad allinearsi, a costruire rudimentali nascondigli e a prestare il primo soccorso in caso di ferite. Si esercitano a montare una tenda e ad accendere un fuoco senza accendino o fiammiferi. Imparano l’uso delle mappe attraverso attività ludiche come cercare oggetti nascosti in un certo spazio.

Sono gli stessi addestratori a riportare alcune opinioni dei bambini dopo la prima settimana di formazione paramilitare. Tommy, di 7 anni, afferma: «Sappiamo già come montare una tenda, sparare con un fucile ad aria compressa e un’arma airsoft. Ora sappiamo come preparare correttamente un letto militare, abbiamo imparato come un soldato deve tenere in ordine le cose. Qui impariamo la lotta libera e la medicina. Mi ha particolarmente colpito il fatto di aver sparato con una vera pistola».

Il campo Forpost

Un altro campo descritto nel report di Our house che fa riferimento a un articolo apparso sul sito «Sb news», legato direttamente all’ufficio della presidenza della Repubblica, è il campo Forpost (Avamposto) nel quartiere Zavodskyi di Minsk.

Nel sommario, l’articolo di Sb news scrive: «Il gioco “Zarnitsa”, l’apprendimento delle armi e l’orientamento notturno: un ricco programma attende gli scolari al campo Forpost. Per nove giorni, gli studenti dei distretti Zavodskyi e Leninskyi di Minsk seguiranno un corso accelerato di giovani combattenti. I nostri corrispondenti hanno assistito all’inizio della loro insolita vacanza», e prosegue descrivendo il «gioco di simulazione» proposto ai ragazzi il primo giorno: «Confezioni esplosive e granate fumogene in azione. Il nemico sta minando la strada lungo la quale si muove la colonna. L’auto deve spostarsi sul ciglio della strada. I combattenti del dipartimento di ingegneria e guerra sul veicolo corazzato leggero Drakon respingono l’attacco. Viene catturato un sabotatore, ma poi viene scoperto un oggetto esplosivo.

I militari distruggono il dispositivo con una carica superficiale.

Già nel primo giorno del turno militare patriottico, i ragazzi “hanno sentito odore di polvere da sparo” – prosegue Sb news -. Gli studenti erano felicissimi».

English: President of Russia Vladimir Putin meeting with President of Belarus Alexander Lukashenko at the Constantine Palace in Saint Petersburg, Russia. Date 25 June 2022. Source Meeting with President of Belarus Alexander Lukashenko. Author Presidential Executive Office of Russia

L’appello all’Ue

Alla pubblicazione del rapporto sulla militarizzazione di massa dei minori in Bielorussia, Our house ha affiancato un appello all’Unione europea e alle organizzazioni internazionali per i diritti umani affinché avviino immediatamente una seria campagna contro questa pratica perché, scrive, «se l’Unione europea non compie una serie di passi decisivi, nel giro di 3-5 anni in Bielorussia crescerà un esercito deviato con giovani […] combattenti professionisti che sanno usare le armi da fuoco, fanatici […] [dell’]ideologia del “mondo russo”, giovani senza legami sociali e senza famiglia, ma ossessionati dal desiderio di vendetta […]. La costruzione di muri al confine o altre misure restrittive, come il divieto di rilascio dei visti, non [li] fermeranno […]. Dobbiamo agire immediatamente».

A Vilnius per sostenere i bielorussi

L’organizzazione pacifista che inizialmente lavorava in clandestinità a Minsk, ma poi ha dovuto espatriare per sfuggire alla repressione e ora opera in esilio a Vilnius in Lituania, è guidata da una coraggiosa femminista nonviolenta, Olga Karach (intervista a pag. 58).

Olga è un’attivista, giornalista e politica bielorussa. È stata lei a fondare Our house nel dicembre 2002: inizialmente era un giornale autoprodotto, stampato in uno dei condomini di via Tereshkova a Vitebsk. Nel 2004 si è trasformato in una campagna per i diritti civili nella città.

Mai riconosciuta in Bielorussia, è stata registrata come organizzazione della società civile nel 2014 in Lituania, con il nome di Centro internazionale per le iniziative civili Our house.

Dopo le elezioni presidenziali del 2020 in Bielorussia e le successive proteste, e, ancora di più, dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, un numero enorme di persone in Bielorussia e Lituania ha avuto bisogno di assistenza umanitaria. Our house si è quindi fatta carico di fornirla. Inoltre, continua a monitorare le violazioni dei diritti umani in collaborazione con altre organizzazioni.

Tra queste violazioni, assume un peso sempre maggiore quella del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, aggravata da programmi di militarizzazione di ragazzi e giovani.

Obiettori incarcerati

In Bielorussia gli obiettori di coscienza e i disertori sono perseguitati e incarcerati. Questo ha fatto sì che più di 20mila giovani non abbiano avuto altra scelta se non quella di lasciare il loro Paese e cercare rifugio all’estero.

Un tale movimento di massa di obiettori invia un forte messaggio anche alla Russia: la Bielorussia di Lukashenko finora è stata il più solido alleato di Putin, ma il fatto che i suoi cittadini si rifiutino di partecipare alla guerra è un segno che le narrazioni nazionaliste e militariste, in Bielorussia come in Russia, non sono invincibili.

Mao Valpiana
presidente del Movimento
Nonviolento italiano

Siti:

Intervista a Olga Karach

Rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko

«Il mio nome in bielorusso vuol dire “libertà”, e mi sono data una missione speciale: rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko».

Pensi che l’esercito bielorusso possa partecipare alla guerra in Ucraina?

«Lukashenko sta subendo la pressione politica della Russia, e si sta preparando a farlo, ma incontra una forte opposizione. Sta crescendo, infatti, il numero di pacifisti e obiettori di coscienza nel Paese, sebbene sia molto rischioso. Si va incontro anche alla tortura. Ci sono obiettori di coscienza in carcere per motivi politici e di opinione. Chi può, esce dal paese.

Crediamo che sia ancora possibile rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko. Come potrebbe partecipare alla guerra senza soldati?

Chiedo il vostro supporto e la solidarietà internazionale per promuovere il diritto all’obiezione di coscienza e alla diserzione dei bielorussi, per fermare la guerra e impedire il secondo fronte militare contro l’Ucraina».

Quali azioni state mettendo in campo?

«Dal primo marzo, con il supporto delle reti internazionali, noi di Our house abbiamo promosso la campagna “No vuol dire no”, un motto femminista che però si rivolge anche agli uomini che reclamano il diritto di non toccare le armi, di fare obiezione di coscienza o di disertare.

Posso fare un esempio sull’efficacia del nostro lavoro. Il ministro della Difesa ha inviato oltre 43mila cartoline di chiamata alle armi ai giovani bielorussi. Noi abbiamo fatto una campagna di comunicazione forte, e solo 6mila giovani si sono arruolati. È un risultato straordinario, ma pensate a quanto di più potremmo fare con più forze».

Però il regime sembra fortemente nelle mani del dittatore che lo regge con il pugno di ferro.

«Lukashenko ha paura di noi, ha paura di me. Io sono un’attivista per la pace e i diritti umani, una femminista, ma nel mio paese sono considerata una terrorista e un’estremista di alto livello.

Se tornassi adesso non solo andrei in prigione, ma rischierei la condanna a morte.

Lukashenko ha paura di una persona normale come me, di una donna che non ha altro se non una profonda persuasione per la nonviolenza.

Ha paura di altri come me, ha paura dei movimenti pacifisti, ha paura degli obiettori di coscienza e ha paura delle donne del mio paese che possono essere una grande forza contro questa guerra».

In Italia sentiamo parlare poco di Bielorussia. Cosa succede nel Paese?

«Il 20 febbraio scorso abbiamo lanciato un’iniziativa davanti alle ambasciate bielorusse in diverse grandi città europee per chiedere il supporto e il riconoscimento dei nostri obiettori di coscienza e disertori. È stata un’iniziativa di successo che si è svolta anche a Berlino, Amsterdam, Vilnius, Atene. Il giorno seguente Lukashenko ha presentato in Parlamento un decreto, subito approvato, sul tradimento della patria che prevede per i disertori la condanna a morte.

È un fatto gravissimo. Tuttavia, esso ci fa capire che Lukashenko riconosce che il rifiuto della guerra è il vero grimaldello che può togliere consenso al suo regime e a quello di Putin».

Cosa possiamo fare per aiutarvi?

«Sono in esilio in Lituania, tutti noi lavoriamo soprattutto dall’estero e abbiamo bisogno non solo che la nostra voce venga ascoltata, cosa di cui vi ringraziamo, ma di risorse economiche e strutturali per organizzare le nostre attività».

M.V.




Dall’obiezione al servizio civile


Nel 1972 viene emanata la legge che riconosce l’obiezione di coscienza al servizio militare, ma la sua forma punitiva mostra che la strada da percorrere è ancora lunga. Cinquant’anni di lotte per affermare il diritto di servire il bene comune ripudiando le armi.

«Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Così viene accolta la legge 772 del 15 dicembre 1972 che introduce il servizio civile in Italia da «Azione nonviolenta», il periodico fondato da Aldo Capitini e allora diretto da Pietro Pinna, il primo obiettore al servizio militare in Italia a dare «pubblicità» alla propria scelta. Si tratta di un sentimento diffuso tra obiettori e pacifisti.

Una legge «punitiva»

Tanti sono i punti di insoddisfazione: innanzitutto, la legge riconosce la possibilità dell’obiezione per i soli motivi religiosi, morali e filosofici, ma non per quelli politici; poi indica un tempo limitato nel quale si può presentare la domanda di obiezione, cosa che esclude maturazioni successive dell’obiezione.

In più, gli obiettori rimangono dipendenti dal ministero della Difesa, condizione che porta anarchici e, in particolare, testimoni di Geova, cioè il gruppo più consistente, a rifiutare la legge.

Inoltre, la durata del servizio civile è superiore di otto mesi rispetto al servizio militare.

Infine, la legge prevede una commissione che ha il potere di vagliare le motivazioni degli obiettori sulla base di una dichiarazione scritta e di un rapporto dei carabinieri.

Chi rifiuta di prestare il servizio civile o chi, non riconosciuto dalla commissione, insiste nell’obiezione di coscienza, è condannato a una pena tra i due e i quattro anni di carcere militare (che, con le attenuanti, scende spesso a circa 16 mesi).

La norma inaugura una fase nuova nella storia dell’obiezione al servizio militare. La stessa espressione «obiettore di coscienza» muta sul piano semantico (estendendosi ad altri ambiti, ad esempio quello sanitario): non individua più solo chi «getta la propria coscienza» (dal latino ob-iacio) contro un ordinamento che si ritiene ingiusto, ma anche chi sceglie un’opzione garantita dalla legge. Inoltre, per quanto sia costretta a snodarsi tra molte restrizioni, prende corpo la realtà nuova del servizio civile.

da Archivio Centro studi Sereno Regis

La lega obiettori

Poco più di un mese dopo l’approvazione della legge, obiettori e movimenti fondano la Lega obiettori di coscienza (Loc), che si prefigge due obiettivi: quello di modificare la legge, e quello di trasmettere al nuovo servizio civile l’esperienza antimilitarista della lotta precedente.

Fin dall’inizio è evidente il legame con il Partito radicale, che, con lo sciopero della fame di Marco Pannella e Alberto
Gardin, aveva «imposto» al parlamento il riconoscimento dell’obiezione di coscienza: la Loc, infatti, costituisce la propria sede nelle stanze del quartier generale del partito in Largo Torre Argentina.

Il primo anno è difficile. Il ministero della Difesa non si premura di attivare il servizio civile, mentre la commissione nominata dal governo interpreta la legge 772 nella forma più restrittiva: anche alcuni obiettori che erano stati in carcere vedono le loro domande respinte. Nei primi due mesi di gennaio e febbraio, sono 9 su 29 gli obiettori non riconosciuti.

Inizialmente, un ritardo di qualche ora nella presentazione della domanda può comportare svariati mesi di carcere.

L’ostracismo del ministero della Difesa culmina alla fine del 1973 con una circolare che intende arruolare tutti gli obiettori riconosciuti alla Scuola dei vigili del fuoco di Passo Corese (Rieti).

Il rifiuto compatto della Loc e degli obiettori lo costringe tuttavia a fare macchina indietro.

Fallito il colpo di mano, il ministero muta strategia, alternando concessioni, ad esempio sui ritardi delle domande, a un boicottaggio meno manifesto, fatto di dilazioni nell’evadere le richieste o di rifiuti al sostegno economico per i corsi di formazione.

Il suo disinteresse alla realizzazione di un servizio civile nazionale lo porta a delegarne l’attuazione interamente alla Loc, che però non è organizzata per un simile sforzo. In questa fase difficile, ma anche creativa, di autogestione, viene in soccorso, per quanto possibile, il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione), guidato da Hedi Vaccaro e poi da Domenico Sereno Regis: essendo tra i primi enti a firmare una convenzione con il ministero, destina gli obiettori alle sedi locali della Loc, perché siano impiegati nell’organizzazione burocratica dello stesso servizio civile.

Mutazioni e sfederazioni

Le prime esperienze partono nel 1974. Tre corsi di formazione cominciano alla Comunità Capodarco di Fermo, alla Casa dell’ospitalità di Ivrea e all’Ospedale psichiatrico di Trieste, quello diretto da Franco
Basaglia. In seguito gli obiettori sono smistati negli enti che firmano la convenzione: sono impiegati soprattutto in ambito sociale, ad esempio nelle comunità di tossicodipendenti del Gruppo Abele o in quelle per minori dell’Istituto don Calabria, o, ancora, in comuni sperduti, come Castelmagno (Cn).

Particolarmente significativo, anche per la sua rilevanza politica, è il servizio civile avviato all’Ital Uil, a Vicenza.

Date le molte anime che compongono la Loc, si innescano al suo interno conflitti che diventano man mano difficili da comporre. In particolare, chi fa riferimento al Partito radicale ritiene il servizio civile un accessorio rispetto al vero fine dell’organizzazione che deve rimanere l’antimilitarismo. Al contrario, per molti enti e per i nuovi obiettori che non hanno alle spalle le precedenti battaglie, la Loc dovrebbe mantenere l’identità antimilitarista subordinata all’azione «sindacale», sia muovendosi tra gli spazi garantiti dalla legge, sia mobilitandosi per un cambiamento.

Vedendo la propria linea diventare sempre più minoritaria con la crescita degli obiettori, il
Partito radicale opta nel 1978 per la «sfederazione» dalla Loc e orienta la propria battaglia in due direzioni: i referendum per l’abolizione di codici e tribunali militari (la Corte costituzionale ne consentirà solo uno, quello sulla composizione dei tribunali militari che sarà sufficiente per una riforma della giustizia militare) e la creazione della Lega socialista per il disarmo, poi confluita nella Lega per il disarmo unilaterale.

Nei mesi precedenti sono avvenuti altri due fatti rilevanti per la storia del servizio civile: il ministero ha emesso, dopo cinque anni, le norme attuative del servizio civile, e la Caritas, nata nel 1971, ha firmato la convenzione, accogliendo i primi obiettori. Finisce la stagione dell’autodeterminazione e comincia quella nella quale i grandi enti capaci di mobilitare centinaia di giovani, vedono crescere il proprio peso a discapito della Loc.

Ancora il carcere

Le restrizioni di una legge che non riconosce la scelta del servizio civile come un diritto, fanno sì che l’obiezione assuma ancora forme «sovversive».

A parte la scelta dei testimoni di Geova di non politicizzare il loro rifiuto e di non conferirgli rilievo pubblico, si aprono, infatti, spazi di contestazione della legge, soprattutto laddove essa mantiene la subordinazione alla realtà militare.

Gli obiettori «totali», quelli che rifiutano sia il servizio militare che quello civile per il modo in cui è regolamentato, e quelli che persistono nel rifiuto vedendo respinta la propria domanda, continuano a scontare il carcere militare e conferiscono alla loro opposizione un rilievo politico.

Una delle azioni più incisive nasce nel carcere di Gaeta (Latina), condotta simultaneamente nel 1975 da due obiettori «totali» e un obiettore con domanda respinta: Dalmazio Bertulessi,
Bachisio Masia ed Ezio Rossato. Con uno sciopero della fame prolungato, innescano una nuova attenzione sulle carceri militari: chiedono condizioni di vita migliori per i detenuti, la fine della censura della stampa, una più larga disponibilità di visite, la rimozione dei limiti alla corrispondenza. Per il momento ottengono solo il trasferimento a Forte Boccea, carcere giudiziario militare a Roma, e l’interessamento di alcuni parlamentari.

Un nuovo sciopero che coinvolge anche Francesco Galli, detenuto a Peschiera del Garda (Verona), consegue alcuni risultati: la riforma carceraria del ‘72 viene infatti estesa dai penitenziari civili anche a quelli militari, nei quali viene ora consentito l’ingresso ai parlamentari.

Le condizioni tremende di Gaeta sono così certificate da un’ispezione, e di lì a pochi anni il reclusorio viene chiuso.

Tre anni dopo, una nuova forma di protesta nasce nella comunità per disabili mentali di
Prunella di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria). Sandro Gozzo, tra i primi obiettori della Caritas, interrompe otto mesi prima del termine il servizio civile che sta svolgendo in quella struttura. Si tratta di un’azione che intende affermare la pari dignità tra servizio civile e militare: «Ritengo incostituzionale e quindi inaccettabile la discriminazione nei nostri confronti», scrive in un’autodichiarazione. Per questo sconterà otto mesi di carcere militare.

Nei mesi e negli anni successivi lo seguono altri, come Silverio Capuzzo e Antonio De Filippis.

Inizialmente la protesta sembra rimanere un puro atto simbolico, ma, con la decisione della corte costituzionale nel 1986 di trasferire dai tribunali militari a quelli civili i giudizi sugli obiettori, anche la differente durata dei due servizi diventa oggetto di un pronunciamento di costituzionalità.

Nel 1989, infatti, la consulta ne statuisce l’equiparazione: la maggiore durata del servizio civile è letta come una sanzione in contrasto con i diritti tutelati dalla Costituzione, «in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero».

Distruzioni a San Gregorio causate dal terremoto dell’Irpinia nel novembre 1980.

Un servizio civile di massa

Al principio degli anni Ottanta, a Padova, presso la sede locale del Mir, alcuni giovani cominciano ad adoperarsi per contrastare l’attitudine del ministero della Difesa a respingere annualmente diverse richieste di servizio civile. Dalla fine degli anni
Settanta, infatti, le domande respinte hanno ripreso a risalire: nasce una commissione ad hoc che assume un rilievo nazionale, preoccupandosi di organizzare un affiancamento giuridico agli obiettori non riconosciuti.

In quel decennio gli obiettori sono ormai migliaia ogni anno. Si tratta di una prova della trasformazione della società: il servizio militare e la retorica del sacrificio e dell’obbedienza hanno sempre meno appeal tra i giovani, mentre per una generazione che scopre il volontariato come nuova forma di impegno sociale, il servizio civile rappresenta una pratica di sperimentazione e di percezione della propria utilità.

Inoltre, pur non mancando le precettazioni d’ufficio, casi di distacchi lontano dalla propria residenza o di servizi faticosi e frustranti, nella maggior parte dei casi il servizio civile può essere svolto vicino a casa, spesso nell’ente prescelto.

A dare un ulteriore contributo al suo sviluppo è l’ingresso di un altro grande ente che si affianca alla Caritas, ovvero l’Arci: con la loro ramificata struttura, le due organizzazioni possono gestire molteplici sedi e garantire un luogo identitario a obiettori cattolici e di sinistra.

Un altro contributo alla crescita del numero di obiettori viene anche, nel 1979, dalla circolare emessa dal ministero della Difesa, retto dal socialista Lelio Lagorio, che prevedeva il congedo per gli obiettori in attesa di chiamata da oltre 26 mesi chiarendo così l’approccio svalutativo del governo nei confronti del servizio civile. Il provvedimento esplicitava che si preferiva liberarsi degli obiettori piuttosto che investire in favore di un’organizzazione capace di evadere le pratiche in tempi consoni.

La presenza pubblica degli obiettori diventa particolarmente visibile in occasione del terremoto dell’Irpinia, avvenuto il 30 novembre 1980. Già per il terremoto in Friuli di quattro anni prima non era mancato l’impegno degli obiettori, ma ora, grazie all’azione di diverse realtà, in primis la Caritas, è ben più forte.

A partire dal 1981 si assiste, invece, all’autodistaccamento di molti obiettori per partecipare alla grande mobilitazione contro gli euromissili nucleari di cui si prevede l’installazione nella base militare americana di
Comiso (Ragusa).

Per due anni l’obiezione sembra tornare alle origini, ma in realtà si tratta di una punta avanzata, rispetto a un ventre che, crescendo nei numeri, è mosso da motivazioni meno radicali, volgendosi soprattutto all’aspetto solidaristico del servizio civile.

È il prezzo inevitabile della trasformazione di un’esperienza fino a questo momento elitaria.

Un ulteriore impulso viene dalla già citata sentenza della corte costituzionale del 1989 che equipara leva e obiezione, permettendo anche a chi viene da contesti economici precari di optare per il servizio civile.

Dalle migliaia si passa alle decine di migliaia: il servizio civile è ormai una realtà di massa.

guerra jugoslavia – Condomini bruciati nel centro di un quartiere serbo di Sarajevo

Un servizio universale

La sentenza della corte costituzionale del 1989 rivela l’anacronismo di una norma che ancora non riconosce l’obiezione come diritto. L’azione sindacale del Cesc, il Coordinamento di enti di servizio civile, nato nel 1982, quella più movimentista della Loc, e alcune iniziative che hanno una certa risonanza come i digiuni del dehoniano padre Angelo Cavagna, spingono le istituzioni a promuovere una revisione della norma.

Dal 1972 alla camera e al senato sono stati presentati numerosi progetti di legge, ma i governi che si sono succeduti non hanno mai sostenuto una riforma.

Nel 1992, invece, finalmente, i due rami del parlamento approvano l’attesa sostituzione della legge 772 con una che riconosce l’obiezione di coscienza come diritto. Tutto l’arco parlamentare è unanime, con l’eccezione, scontata, dell’Msi. A mettersi di traverso è il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La norma è rimandata, infatti, alle camere, a poche ore dall’avvio della procedura del loro scioglimento. Per giungere a una legge che stabilisca il diritto di scelta saranno necessari altri sei anni.

Ci si arriva solo nel 1998, dopo che un’intera stagione politica è finita: è passata tangentopoli e la prima repubblica ha chiuso i battenti.

Anche per l’obiezione di coscienza alcune cose sono cambiate. Il conflitto in Jugoslavia ha riportato lo spettro della guerra in Europa: per iniziativa dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, alcuni giovani hanno abbandonato il loro servizio e si sono
recati in zona di guerra. Si trattava di una scelta non consentita dalla norma in vigore, ma che apriva a un importante sviluppo del servizio civile, in un’ottica di difesa nonviolenta che intervenga tra i paesi in conflitto.

Partendo da questa esperienza nascono i caschi bianchi.

Con la legge del 1998 e la trasformazione dell’obiezione di coscienza in diritto, avviene l’inevitabile sorpasso: entrando nel nuovo millennio, le domande di servizio civile superano per la prima volta quelle di leva, oltrepassando le centomila richieste.

Una storia legislativa fino a questo momento piuttosto paludata, accelera improvvisamente.

Anche le donne

Nel 2001 viene creato il nuovo servizio civile nazionale, aperto anche alle donne, e si prevede la sospensione della leva a partire dal 2007: si tratta di un istituto ritenuto ormai superato rispetto alle esigenze di professionalizzazione dell’esercito.

Sembrano intervenire anche preoccupazioni economiche che guardano alla massa di giovani che preferiscono il servizio civile: un numero contingentato di volontari sarebbe meno oneroso per lo stato: la sospensione viene anticipata al 2005 e da allora il nuovo servizio civile volontario rimane l’unico erede della precedente esperienza.

Per la prima volta ragazzi e ragazze si trovano fianco a fianco in un istituto che non prevede più differenze di genere. Anzi, un’esperienza nata in una forma totalmente maschile vede le ragazze diventarne le principali protagoniste (nel 2021, oltre il 63% saranno donne).

Nel 2015 si compie l’ultima mutazione, e il servizio civile diventa, a tutti gli effetti, universale: ancora una volta è la Corte costituzionale a garantire quell’avanzamento che la politica non riesce a intraprendere: essa allarga, infatti, la possibilità di fare domanda anche a stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

La nuova realtà del servizio civile nasconde tuttavia anche alcune ombre: la sua progressiva meridionalizzazione racconta un’Italia divisa, dove le opportunità di lavoro tra Nord e Sud sono drammaticamente diverse e in molti casi i 443 euro mensili diventano una valvola di sfogo alla disoccupazione.

Laddove gli enti che accolgono i giovani in servizio civile non sono consapevoli di quanto esso possa essere una vera scuola di cittadinanza, essi corrono il rischio di smarrire il contatto con i suoi principi e di farlo degenerare in un lavoro sottopagato, subordinato alle esigenze di bilancio dell’organizzazione.

Fare in modo che ciò non accada è la sfida che molti enti stanno raccogliendo con crescente attenzione.

Marco Labbate*

 * È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di Storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino e con l’associazione Il portico di Dolo (Ve).


ARCHIVIO
Marco Labbate, Tu non uccidere, MC luglio 2022, p. 26.
– Si veda anche «Librarsi» di questo numero.




Fiori nei cannoni


La storiografia italiana sul «no» alle armi è ancora troppo ridotta rispetto al grande lavoro per la pace condotto nel nostro paese da molti attori. Alle panoramiche nazionali si affiancano studi utilissimi su luoghi specifici (come Torino) o personaggi che varrebbe la pena conoscere meglio.

Nella storia dell’obiezione di coscienza italiana, il 2022 che ci siamo lasciati da poco alle spalle ha coinciso con il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione della legge 772/72, quella che ha riconosciuto l’obiezione di coscienza al servizio militare e istituito la possibilità di un servizio civile sostitutivo.

Per la storia dell’antimilitarismo italiano, quella dell’obiezione è stata una lotta di indubbio rilievo. Essa ha preso avvio nei primi anni del secondo dopoguerra e – nell’arco di un venticinquennio scandito dai processi agli obiettori e dall’attivismo intellettuale di un gruppo, piccolo ma prestigioso, di uomini di cultura – ha condotto a un risultato legislativo concreto: permettere che l’impegno richiesto dallo stato ai ragazzi maggiorenni potesse svolgersi non solo in forme militari ma anche nella modalità di un servizio civile.

Il caso torinese

Con Non un uomo né un soldo (Edizioni Gruppo Abele, 2022) Marco Labbate, ricercatore dell’Università di Urbino, ha ripercorso lo sviluppo di questa storia entro un ambito locale, quello torinese e piemontese.

Questa scelta ha la sua ragion d’essere nella considerazione di William G. Hoskins che Anna Tonelli riporta nelle prime righe della prefazione a questo libro: «Sempre più storici che lavorano su un quadro più grande hanno capito che per molte importanti domande nel loro campo le risposte dovranno essere ricercate negli studi al microscopio di regioni e luoghi particolari».

Il caso di Torino nella storia dell’obiezione di coscienza italiana si adatta perfettamente a questo schema, perché il piano locale e quello nazionale si intrecciano di continuo e servono a illuminarsi reciprocamente.

Da un lato, Torino può essere definita una capitale dell’obiezione di coscienza, dal momento che alcuni fatti che lì si sono svolti hanno avuto un rilievo nazionale: un esempio su tutti, il processo a Pietro Pinna, primo caso mediatico nel 1949 di obiettore di coscienza nell’Italia repubblicana, che portò l’obiezione al centro del dibattito pubblico.

Il Tribunale di Torino è stato poi teatro anche di altri importanti processi e dell’attivismo di Bruno Segre, che può ritenersi l’avvocato per antonomasia degli obiettori italiani.

Dall’altro lato, aspetti, temi, istanze di carattere nazionale hanno avuto una ricaduta nel contesto della realtà torinese. La contestazione dei cappellani militari, ad esempio, svoltasi in tutta Italia, ha registrato manifestazioni di protesta anche nel capoluogo piemontese. Segno di un serrato confronto sui temi della pace e della guerra che si è giocato in quegli anni all’interno dello stesso mondo cattolico e che ha rappresentato un aspetto non secondario della storia in questione.

Le lotte per i diritti civili

Il libro ricostruisce, dunque, con grande dettaglio e precisione, il microcosmo piemontese delle lotte per l’obiezione e degli attivisti e dei movimenti che le hanno portate avanti. Contribuisce, quindi, a chiarire questa vicenda nel suo complesso nazionale e rappresenta una sorta di integrazione a un altro libro dello stesso autore uscito in precedenza, Un’altra patria (Pacini, 2020), che ha come oggetto la storia dell’obiezione di coscienza sull’intero territorio italiano, tra il 1945 e il 1972, al momento lo studio più completo al riguardo.

Nella sua prospettiva d’insieme, la storia dell’obiezione al servizio militare può essere intesa come parte di un movimento più ampio di lotte per i diritti civili che hanno contribuito a consolidare le libertà individuali nel cammino dell’Italia repubblicana e a rafforzarne l’impianto democratico nel solco della Costituzione.

Obiettare negli anni ‘30

Non va dimenticato che, se è vero che l’obiezione di coscienza ha raggiunto la fase culminante della propria storia in età repubblicana a partire dalla fine degli anni Quaranta, è però altrettanto vero che, nei decenni precedenti, alcuni casi di obiettori avevano già fatto la loro comparsa.

Se ne possono trovare, ancorché pochi, sia negli anni della prima guerra mondiale, sia in epoca fascista.

Tra questi, ad esempio, figura Claudio Baglietto, amico di Aldo Capitini, il maggiore teorico della nonviolenza nell’Italia del Novecento.

Baglietto, all’inizio degli anni Trenta, sembrava avviato a una brillante carriera accademica alla Normale di Pisa, ma il corso delle cose sarebbe stato stravolto da un suo gesto dirompente: in seguito al conseguimento di una borsa di studio nel 1932, si recò a Friburgo dove decise di non fare più ritorno in Italia per non essere costretto a svolgere il servizio militare.

La morte lo colse ancora molto giovane a Basilea, nel 1940.

Da poco tempo un libro a più mani, esito di un convegno di studi e curato da Magda Tassinari, sua pronipote, e Beppe Olcese, intitolato Guerra, pace, nonviolenza. Attualità di Claudio Baglietto, Biblion, 2022, ci ha permesso di conoscere un po’ meglio la storia della sua vita, spesa all’insegna di una tensione morale che meriterebbe maggiore notorietà.

Pacifismo italiano

Si può, infine, considerare il tema dell’obiezione di coscienza con uno sguardo più ampio, che permetta di valutarne la sua storia inserendola all’interno dei movimenti pacifisti e antimilitaristi sviluppatisi in Italia nell’intero secolo XX.

È un tema del quale la ricerca storiografica italiana si è occupata raramente e nel quale molto rimane ancora da esplorare e da indagare con metodo critico.

Uno degli studi di riferimento a cui rimandare resta quello di Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni (Donzelli, 2006), che fornisce un quadro d’insieme entro il quale collocare lo sviluppo delle idee pacifiste e nonviolente nell’Italia novecentesca, cercando di tratteggiare i principali itinerari sociali, politici e culturali sui quali si sono mosse. Tra questi, uno dei più rilevanti è, senza dubbio, l’ambito dell’obiezione di coscienza all’uso delle armi e alla sistematica preparazione della guerra.

Massimiliano Fortuna

 




Obiezione di coscienza: Tu non uccidere


L’obiezione al servizio militare ha una lunga storia. Ne ripercorriamo le tappe principali dalla fine della Seconda guerra mondiale all’approvazione della legge avvenuta in Italia nel 1972. Un’altra difesa non armata e nonviolenta è possibile.

Pietro Pinna, primo obiettore

Il 22 maggio 1947 all’Assemblea costituente si discute dell’articolo 49 (poi 52 nella numerazione definitiva) della Costituzione italiana, quello cioè che statuirà il sacro dovere della difesa della patria e il servizio militare obbligatorio nei limiti e modi previsti dalla legge.

Il momento storico è delicato: il secondo governo De Gasperi è andato in crisi. Ancora non lo si sa, ma l’unità resistenziale tra democristiani, socialisti e comunisti è in procinto di rompersi.

Umberto Merlin, relatore, membro della Democrazia Cristiana, interviene su alcuni emendamenti. Uno di questi, a firma del socialdemocratico Ernesto Caporali, propone il riconoscimento in Costituzione dell’obiezione di coscienza. Merlin lo rigetta con una frase laconica: «Non lo possiamo accettare perché in Italia non esiste una setta di obiettori di coscienza, come quella che esiste in Inghilterra» (si riferisce probabilmente alla Società degli amici, noti come Quaccheri, presso i quali il rifiuto della guerra ha una lunga tradizione).

«Obiezione di coscienza» è, in effetti, un’espressione «esotica», come la definirà nel 1949 il poeta Guido Ceronetti, giovanissimo attivista per il suo riconoscimento. Se il primo paese a legiferare sul tema è stato la Norvegia nel 1900, seguito da Gran Bretagna nel 1916, Danimarca nel 1917, Svezia nel 1920 e Paesi Bassi nel 1922, i paesi cattolici ci arriveranno solo nella seconda metà del ‘900: la Francia nel 1963, il Belgio nel 1964, l’Italia nel 1972, la Spagna e il Portogallo nel 1976.

Di obiettori di coscienza in Italia ce ne sono stati fin dalla Prima guerra mondiale, ma dei loro nomi non si ha notizia. Erano liberi pensatori o, soprattutto, testimoni di Geova: nessuno di loro si è mai definito obiettore.

All’epoca della Costituente, della questione cominciano a discutere alcuni circuiti pacifisti raccolti attorno al filosofo Aldo Capitini e all’ex sacerdote modernista Giovanni Pioli. Ma di fatto l’obiezione è presente solo nei dizionari come calco dall’inglese.

Fermenti cattolici

Foto LaPresse Torino/Archivio storico | Storico, anni ’60, Aldo Capitini

Che l’obiezione di coscienza abbia maggiore diffusione nel mondo anglosassone protestante è cosa evidente. Tuttavia, anche il mondo cattolico comincia a fare i conti con l’adesione al comandamento del non uccidere e dell’amore evangelico. Il cattolicesimo francese, ad esempio, si confronta con le crisi di coscienza legate alla drammatica guerra in Indocina iniziata nel 1946. In Austria, invece, il caso del contadino Franz Jägerstätter, il quale ha rifiutato di prestare servizio militare nella Wehrmacht di Hitler, venendo giustiziato, suscita imbarazzo nell’episcopato: questo, nonostante la sua opposizione morale al nazismo, biasima l’atteggiamento di Jägerstätter rispetto al servizio militare.

A tutte le latitudini, gli obiettori di coscienza pongono questioni non marginali: la sostenibilità della dottrina della guerra giusta in epoca atomica, il ruolo della coscienza del singolo di fronte all’autorità di uno stato che può ordinare crimini immani.

Emerge, inoltre, una tradizione cristiana nonviolenta che affonda le radici nei richiami del Vangelo, ma anche nelle storie esemplari di alcuni santi, come Massimiliano di Tebessa o Martino di Tours.

Il «primo» obiettore

A cambiare l’inerzia della situazione in Italia è un giovane di Ferrara, Pietro Pinna. Egli, pur essendo mosso dalla spiritualità cattolica, si è distaccato dalla Chiesa nella quale non ha trovato conformità tra la sua predicazione e il Vangelo.

Matura la sua scelta mentre svolge il servizio militare nel 1949. Scrive a Capitini, che gli risponde in modo distaccato. Questi, infatti, preferisce che il giovane prenda in completa autonomia la decisione che gli potrà costare la libertà. Quando Pinna decide di obiettare, tuttavia, Capitini gli è a fianco. «Bastò una breve circolare dattiloscritta spedita ai più noti operatori per la pace in Italia, a qualche associazione all’estero, a un parlamentare (il deputato Umberto Calosso), a qualche giornale, per rendere noto il fatto, sì che in pochi mesi, in Italia, divennero popolari […] il termine e il nome dell’obiettore di coscienza n. 1», ricorderà qualche anno più tardi.

A sostegno di Pietro Pinna si muovono Edith Bolling, vedova del presidente americano Woodrow Wilson, Tatjana Tolstoj, figlia del celebre scrittore russo, alcuni parlamentari laburisti.

Al processo di Torino sono presenti le maggiori testate giornalistiche nazionali: molte sono critiche, ma non pochi sono i fogli che sostengono l’obiettore.

A difendere Pinna in tribunale è Bruno Segre, quello che diventerà lo storico avvocato degli obiettori. Il suo giornale «L’Incontro», fondato all’inizio del 1949, si imporrà come una delle voci più presenti nel diffondere le idee degli obiettori.

Pinna è condannato a dieci mesi con la condizionale e nuovamente richiamato al Car di Avellino. Seguono una nuova condanna, l’amnistia, infine la liberazione: al Car di Bari viene, infatti, riformato il 12 gennaio 1950 per una inesistente nevrosi cardiaca, inventata per chiudere il caso.

Padre Ernesto Balducci

Un embrione di dibattito

Nell’ottobre 1949, Umberto Calosso, deputato del Partito socialista dei lavoratori italiani, e il democristiano Igino Giordani presentano un disegno di legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, poi insabbiatosi nella Commissione difesa.

Nel frattempo, l’esempio di Pinna è seguito da altri giovani: dal libertario Elevoine Santi e dagli anarchici Pietro Ferrua e Mario Barbani. Proseguono anche le obiezioni dei testimoni di Geova che, tuttavia, non danno risalto al loro gesto.

Presentatosi al primo processo con la Bibbia in mano, Pinna compie un gesto che chiama in causa il mondo cattolico, il quale è attraversato da un forte dibattito. «L’Osservatore romano» rievoca «la più famosa obiezione di coscienza che la storia registri», quella dei terziari francescani, avvenuta nel 1221 a Rimini. Monsignor Carlo Pettenuzzo, docente dell’Istituto internazionale salesiano don Bosco di Torino, su «L’Incontro» definisce il cristianesimo «il più grande obiettore di coscienza».

Su questo embrionale dibattito cala la scure della condanna della «Civiltà Cattolica»: lo stato impone il servizio militare per proteggere la «vita associata»; il cittadino che ne «trae benefici» vi deve obbedire.

Nell’esasperazione delle tensioni della guerra fredda, l’obiezione di coscienza è vista come un cavallo di Troia della propaganda comunista, nonostante il Partito comunista guardi con freddezza, quando non con ostilità, il gesto degli obiettori, avvertito come frutto di una mentalità borghese.

Don Primo Mazzolari

Don Primo Mazzolari

Con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, il dibattito si chiude. Oltre alla voce del gruppo capitiniano, a sostenere gli obiettori rimane quella solitaria di don Primo Mazzolari. Nel suo libro più celebre, Tu non uccidere, pubblicato inizialmente anonimo nel 1955, condanna la guerra con parole che sembrano preconizzare l’enciclica che il futuro papa Giovanni XIII scriverà nel 1963, la Pacem in terris: ogni guerra è sempre «criminale in sé e per sé», mostruosamente sproporzionata, «trappola per la povera gente», «antiumana e anticristiana»; agli obiettori va riconosciuta l’attenzione alla pace come «un’adorazione in ispirito e verità». In un precedente articolo sulla rivista «Adesso», fondata dallo stesso Mazzolari nel ‘49, definisce gli obiettori profeti.

L’anno seguente, nel messaggio natalizio del dicembre 1956, il papa Pio XII usa, invece, ben altre parole. Guardando ai carri armati sovietici nella piazza di Budapest, dichiara: «Un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge».

La guerra è follia

«Ci sembra conforme ad equità – si troverà scritto nella costituzione conciliare Gaudium et spes del 1965 – che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana». Dal messaggio natalizio di Pio XII a queste parole passeranno nove anni. Dentro la Chiesa il cambiamento sarà epocale.

Ci sarà il papato giovanneo e la Pacem in terris con quell’«alienum est a ratione» (è follia, è impensabile) riferito alla guerra.

La Gaudium et spes raccoglierà il testimone di una nuova attenzione all’obiezione di coscienza al servizio militare tra i cattolici.

Nel 1961, a Firenze, il sindaco Giorgio La Pira proietta il film Non uccidere di Claude Autant Lara, la cui circolazione è stata vietata in Italia dalla commissione censura. Il film racconta una storia realmente accaduta in Francia nel dopoguerra: un tribunale militare, nello stesso giorno in cui condanna Jean Bernardo Moreau, un obiettore di coscienza cattolico, assolve un sacerdote tedesco che durante la guerra ha obbedito all’ordine di uccidere un partigiano francese.

In maniera ben più accesa rispetto al caso Pinna, il mondo cattolico si divide tra chi approva la censura e chi la contesta.

Don Milani

Gozzini, Balducci, Milani

Nel 1962, all’obiettore raccontato dal cinematografo se ne sostituisce uno in carne e ossa, Giuseppe Gozzini, il primo in Italia a richiamarsi esplicitamente al cattolicesimo e alle parole di papa Giovanni XXIII.

All’indomani della condanna di Gozzini, su «La Nazione» interviene l’assistente diocesano della gioventù femminile dell’Azione cattolica, don Luigi Stefani, affinché «i giovani cattolici fiorentini non vengano tratti in errore da un gesto arbitrario che mette il suo protagonista al di fuori delle norme di ubbidienza alle legittime autorità dello stato e quindi contro i principi della morale cattolica». Gli risponde, il 13 gennaio 1963, in un’intervista sul «Giornale del Mattino», padre Ernesto Balducci, sollecitato dagli operai cattolici della Nuova Pignone: secondo Balducci, il rischio di un conflitto apocalittico fa sì che gli obiettori meritino una «silenziosa ammirazione». Per queste parole, il sacerdote viene processato. All’assoluzione in primo grado, segue nel 1964 la condanna in appello per apologia di reato che verrà poi confermata dalla Cassazione. La sentenza suscita scalpore: il «magistrato teologo», come viene definito dal settimanale «Il Mondo», si incarica di fornire quella che a suo dire è l’interpretazione della Chiesa sull’obiezione di coscienza (senza però citare la Pacem in Terris) e accusa Balducci di ricorrere alla frode nel modo in cui presenta la posizione della Chiesa sul tema.

Nel 1965 è don Lorenzo Milani a intervenire in difesa degli obiettori contro il pronunciamento dei cappellani militari toscani in congedo. Questi hanno definito l’obiezione «insulto alla Patria e ai suoi caduti», «estranea al comandamento cristiano dell’amore» ed «espressione di viltà».

In una lettera che diventerà celebre, don Milani stravolge quella forma di religione della patria, proponendone una alternativa. «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri». Anche lui viene processato, ma la sua morte, che lo coglie il 26 giugno 1967, interviene prima della sentenza.

Viene invece condannato Luca Pavolini, il direttore del periodico comunista «Rinascita», per aver diffuso la lettera.

Una politica impreparata

Nel suo percorso di avvicinamento all’obiezione di coscienza, la Chiesa cattolica è preceduta da quella valdese.

Già nel 1958, infatti, il Sinodo ha approvato un ordine del giorno di appoggio a «ogni iniziativa che, per il rispetto dovuto ai diritti insopprimibili della persona umana, tende a dare uno stato giuridico agli obiettori di coscienza». È il frutto di un dibattito cominciato negli anni Quaranta.

Il mutamento che attraversa il mondo cristiano è specchio di quello che investe la società. L’antimilitarismo entra nella musica cantautorale. I Cantacronache, i Gufi o Fabrizio De André celebrano con irriverenza il rifiuto della morte eroica e della retorica del valore militare.

Anche i pacifisti riprendono il loro impegno: nel 1961 Capitini li ha radunati in una marcia di 20 chilometri da Perugia ad Assisi. L’anno successivo ha fondato il Movimento nonviolento che si è dotato di un braccio operativo, i Gruppi di azione nonviolenta: a guidarli è stato chiamato Pietro Pinna. Le loro azioni dimostrative nonviolente, spesso chiuse dall’intervento repressivo della polizia, hanno portato la richiesta del riconoscimento dell’obiezione di coscienza nei centri cittadini, attraverso sit in, marce, digiuni.

Intanto un democristiano, Nicola Pistelli, e due socialisti, Lelio Basso e Luciano Paolicchi, nel 1964 hanno presentato alla Camera tre progetti di legge, ma la politica non è ancora pronta.

inizio anni 70 – La foto immortala una manifestazione antimilitarista in via Garibaldi. Non ci sono altre indicazioni. Sul retro è segnalato il nome dello studio fotografico.

Il Sessantotto

Il Sessantotto irrompe nella società italiana raccogliendo istanze maturate nel corso del decennio e rimaste irrisolte. Anche l’obiezione di coscienza ne è coinvolta. Muta il lessico: da una tensione spirituale si passa a una dimensione politica. Nei nuovi movimenti antimilitaristi, nelle dichiarazioni degli obiettori, il rifiuto del servizio militare a favore di un servizio civile da destinare ai più deboli è visto come parte della lotta di classe.

Cambia inoltre la forma dell’obiezione: a partire dal 1971 sorgono gruppi che presentano collettivamente il rifiuto del servizio militare con una dichiarazione congiunta. Divulgano la dichiarazione nelle piazze, decidono il momento della consegna alle autorità, si «auto distaccano» in servizi a favore degli emarginati attendendo l’arresto. Sono cattolici, anarchici, libertari, radicali con un linguaggio comune.

Alle manifestazioni non partecipa più una manciata di giovani, ma centinaia, talvolta migliaia.

A partire dal 1967, tutti gli anni, una marcia antimilitarista sfila da Milano a Vicenza (in seguito sarà da Trieste ad Aviano) passando davanti al carcere di Peschiera del Garda per manifestare solidarietà agli obiettori detenuti.

Alla mobilitazione tradizionale del Movimento nonviolento, orfano di Capitini, morto nel 1968, si affiancano nuovi soggetti, su tutti il Partito radicale. Non mancano i momenti di tensione: durante alcune manifestazioni, i pacifisti sono aggrediti da militanti di estrema destra o dalle forze dell’ordine e sottoposti a processo. Rispetto ad altre iniziative di piazza, in queste il grado di violenza rimane basso e unilaterale.

Attenzione crescente

Anche nel mondo cattolico prorompe dalle nuove generazioni una richiesta di rinnovamento.

Gli orrori della guerra nel Vietnam generano un’attenzione crescente verso il tema dell’obiezione e della nonviolenza che viene incanalata in particolare dal movimento di Pax Christi (nato in Francia nel 1945, arrivato in Italia nel 1954 per desiderio di mons. Montini, futuro Paolo VI), guidato dal 1968 dal vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi.

Tale sensibilità coinvolge anche le gerarchie della Chiesa, le quali già si confrontano con le esperienze radicali della «teologia della liberazione» – della quale diventa simbolo Camillo Torres – che contempla la lotta armata contro l’oppressione.

I pronunciamenti a favore dell’obiezione di coscienza si moltiplicano: Paolo VI vi fa cenno nella Populorum progressio, vescovi come Carraro a Verona e Pellegrino a Torino esprimono solidarietà agli obiettori.

Nel 1971 il Sinodo dei vescovi invita le nazioni a «favorire la strategia della nonviolenza» e a «regolare mediante le leggi l’obiezione di coscienza».

La legge

Il 14 dicembre 1972 la Commissione Difesa della Camera approva finalmente la legge che la riconosce. La mobilitazione della società civile ha coinvolto deputati dei diversi partiti, riuniti dall’indipendente di sinistra Luigi Anderlini in una Lega per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Episodio determinante, tuttavia, è il digiuno dei due militanti radicali Marco Pannella e Alberto Gardin che dura 38 giorni coinvolgendo larghe componenti della società civile e ottenendo la solidarietà di personalità della cultura francese e tedesca, tra cui tre premi Nobel. Il clamore mediatico spinge infine la maggioranza ad acconsentire al varo della legge.

Per obiettori e movimenti il successo, però, è amaro. Azione nonviolenta titola «Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Il provvedimento, infatti, manifesta le tracce di una certa diffidenza: il servizio civile dura otto mesi in più rispetto al servizio militare, l’obiettore rimane sottoposto al ministero della Difesa e alla giustizia militare, non sono riconosciute le motivazioni politiche, ma solo quelle religiose o filosofiche. Soprattutto, la domanda per il servizio civile è sottoposta al vaglio di una commissione.

Di fatto continueranno ad andare in carcere quegli obiettori che contesteranno l’impostazione della legge rifiutando il servizio civile o autoriducendolo, e gli obiettori non riconosciuti dalla commissione.

People carry a big peace flag during the march for peace from Perugia to Assisi on April 24, 2022 in Assisi. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

Un’altra difesa possibile

Nonostante i suoi limiti, la legge 772 rappresenta comunque una cesura: il servizio civile entra nella storia dell’Italia repubblicana, veicolando un’altra idea di difesa della patria: quella non armata. È una conquista ottenuta da un piccolo gruppo: fino al 1972, infatti, gli obiettori sono stati appena 708, dei quali 622 testimoni di Geova.

In un primo momento, l’inerzia del Parlamento che tarda ad approvare un regolamento attuativo del servizio civile permette che questo sia realizzato, in autogestione, dalla neonata Lega degli obiettori di coscienza e da alcune associazioni. Con la definitiva istituzionalizzazione del servizio civile nel 1977, il ruolo degli enti emerge con maggiore ampiezza: entrano in campo organizzazioni come Caritas e Arci.

L’obiezione di coscienza acquisisce allora quella dimensione di massa tanto attesa. Al tempo stesso, però, si riscopre diversa, legata più a una matrice solidaristica che ai principi di antimilitarismo e nonviolenza.

Nonostante le sue palesi contraddizioni, la legge 772 rimane in vigore fino al 1998, quando una nuova legge riconosce l’obiezione come un diritto. La parificazione etica e temporale del servizio civile è ottenuta grazie alla protesta degli autoriduttori che suscita una sentenza della Corte costituzionale.

Infine, nel 2001, il servizio civile diventa volontario.

Una volta esauritasi la spinta dell’obbligo militare, questa storia è forse diventata improvvisamente lontana. Sembra tuttavia tornare, a parlarci, di fronte all’immane dramma che sta funestando l’Ucraina, provocato dalla guerra offensiva di Putin. Ripropone infatti alcuni interrogativi che hanno travagliato la coscienza di quei giovani che desideravano bandire la guerra dall’umanità: la possibilità di una guerra giusta nell’era degli armamenti atomici, il rapporto tra autorità e coscienza, la possibilità di una difesa nonviolenta della patria.

Marco Labbate*

* È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino.