Da «Propaganda» a «Evangelizzazione»


Sotto il titolo «Euntes in mundum universum» (andate in tutto il mondo), si è svolto, dal 16 al 18 novembre 2022, presso la Pontificia università Urbaniana, il Convegno internazionale di studi per celebrare il IV centenario della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (22 giugno 1622-2022).

Nata nel XVII secolo in pieno contesto coloniale, Propaganda Fide (lett. «propagazione della fede», ndr) ha posto al centro della Chiesa l’azione missionaria che ha portato al rifiuto della colonizzazione e del razzismo ad essa correlato, e ha scelto il rispetto delle culture e delle lingue di tutti i popoli.
È stato un percorso segnato inizialmente dalla missione in stile coloniale, per giungere a quella interculturale. Un percorso che è passato dal conflitto e scontro al dialogo nell’incontro con le diverse culture del mondo.

Tutti i relatori del convegno, provenienti da nove nazioni dei cinque continenti, nelle cinque sessioni di lavoro hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide» e della sua missione evangelizzatrice nella Chiesa.

Collegio urbano di Propaganda Fide vicino all’Università Urbaniana a Roma – AfMC/Gigi Anataloni

Da «Propaganda Fide» al «Dicasterium pro Evangelizatione»

L’anniversario della bolla Inscrutabili Divinae con cui il papa Gregorio XV il 22/06/1622 istituì la «Sacra congregatio de Propaganda Fide» ha coinciso con la promulgazione della Costituzione apostolica «Praedicate Evangelium», con cui papa Francesco ha conferito una struttura più missionaria alla Curia perché sia sempre meglio al servizio delle Chiese particolari e dell’evangelizzazione. Con questo documento il papa ha, inoltre, unito la secolare e conosciuta «Propaganda Fide» con il pontificio «Consiglio per la nuova evangelizzazione» creando il nuovo «Dicasterium pro evangelizzazione».

Giovanni Battista Cavalieri Pontificum Romanorum effigies Roma: Domenico Basa : Francesco Zanetti 1580

L’anniversario ricorda quattro secoli segnati non solo dal passaggio della missione da uno stile coloniale a uno interculturale, ma anche dal passaggio dalla propagazione della fede all’evangelizzazione, come ha sottolineato padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio comitato di scienze storiche.

Dopo il concilio di Trento (1545-1563), la necessità di unire e centralizzare l’organizzazione dell’attività missionaria nel mondo aveva mosso papa Gregorio XV a fondare Propaganda Fide. Occorreva dare maggiore impulso a un’azione più unitaria e concertata in un contesto segnato dalla colonizzazione e dal sistema del «patrocinio» (per il quale l’evangelizzazione era affidata a uno stato, come Portogallo o Spagna, ndr) che non rispondeva più ai bisogni del tempo. L’intenzione era quella d’impegnarsi affinché: «L’evangelizzazione non fosse condizionata dalle grandi potenze del momento o da particolarismi religiosi» (prof. Pizzorusso, Università degli studi G. D’Annunzio, Chieti, Pescara).

«Propaganda Fide nasce dunque per coordinare le forze, per dare direttive alle missioni, promuovere la formazione del clero e delle gerarchie locali, per incoraggiare la fondazione di nuovi istituti missionari e, infine, per provvedere agli aiuti materiali per le attività missionarie». Inoltre, non certo per ultimo, avrebbe avuto la responsabilità della diffusione della fede cattolica in America, Africa e Asia.

Con la costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae, del 15 agosto 1967, san Paolo VI ha confermato la competenza generale del dicastero missionario come organo centrale della Chiesa, e nel contempo ne ha cambiato il nome in «Congregatio pro gentium evangelizatione seu de Propaganda Fide» (Congregazione per l’evangelizzazione delle genti o di Propaganda Fide, ndr). Paolo VI aveva ben capito che il nome «Propaganda» non era più adeguato: la missione della Chiesa non è «la propagazione della fede», ma «l’evangelizzazione dei popoli». Il passaggio è dalla propaganda al servizio, dall’imposizione al dono gratuito, dall’obbligo alla libertà.

Papa Francesco, con la costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 19 marzo 2022, ha istituito il «Dicastero per l’evangelizzazione», presieduto direttamente dal pontefice, composto dalla sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo e dalla sezione per la prima evangelizzazione e le nuove chiese particolari. La prima sezione raccoglie l’eredità di Propaganda Fide, dalla seconda dipendono alcune circoscrizioni ecclesiastiche delle Americhe, quelle di quasi tutta l’Africa, dell’Asia (ad eccezione delle Filippine) e dell’Oceania (ad eccezione dell’Australia). Attualmente ci sono 1.117 circoscrizioni ecclesiastiche (arcidiocesi, diocesi, vicariati apostolici, prefetture apostoliche, ecc.) sotto la competenza del dicastero missionario, con l’obiettivo di ritrovarsi come unità.

Padre Ardura ha sottolineato che la Praedicate Evangelium mette in luce un aspetto preciso: l’impegno per una nuova evangelizzazione nei territori dove è arrivato storicamente l’annuncio, ma dove non ci sono più, nelle nuove generazioni, evidenze di cristianizzazione.

Quattro secoli di missione nel mondo

Gli studiosi intervenuti hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in questi 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice, e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».

Si è trattato di offrire «una rilettura storica delle origini istituzionali di Propaganda Fide, ponendo in rilievo le istanze dei pontefici tra il XVI e il XVII secolo, soffermandosi su alcune rilevanti figure di prefetti (il capo di una congregazione è chiamato «prefetto», ndr) tra il Settecento e il Novecento, per poi porre in evidenza la feconda apertura del cattolicesimo a una dimensione universale, che in Propaganda Fide ravvisa al contempo un testimone privilegiato e un pionieristico attore».
In sintesi, come ha posto in rilievo il cardinale Luis Antonio Tagle, nel discorso inaugurale, l’obiettivo del convegno è stato quello di capire il passato e il presente attraverso le testimonianze di prima mano.

Cardinal Luis Antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC nel 2017 – AfMC/Gigi Anataloni

Gli elementi qualificanti

La professoressa Françoise Fauconnet-Buzelin ha messo in evidenza la grande importanza che ebbero «Les instructions de la S. Congregatio de Propaganda Fide», documento redatto nel 1659 che può essere definito la «magna carta» delle missioni moderne, perché condensa le linee essenziali della strategia missionaria: la proibizione ai missionari di intervenire nella vita politica e di partecipare ad attività commerciali, la necessità di fornire agli stessi una preparazione scientifica e spirituale, la creazione di un clero indigeno e l’adattamento alle culture native.

1. impegno culturale e scientifico

Pietro_da_Cortona_-_Pritratto di Urban_VIII_(ca._1624-1627)

Urbano VIII, con la bolla Immortalis Dei Filius del 1° agosto 1627 fondò il «Pontificio ateneo de Propaganda Fide», con le facoltà di Filosofia e Teologia per la formazione di base dei missionari. Il 1° settembre 1933 la Congregazione dei seminari e delle università degli studi creò il «Pontificio istituto missionario scientifico», per offrire un’ulteriore specializazzione garantita da gradi accademici nelle discipline missiologiche e giuridiche. L’università ha sede sul Gianicolo, a due passi dal Vaticano, e ospita le facoltà di Teologia, Filosofia, Diritto Canonico e Missiologia (per missionari e sacerdoti di tutte le parti del mondo) e, dal 1976, anche l’Istituto di catechesi missionaria. L’Università oggi è frequentata da circa 2mila studenti, con un corpo docente di circa 170 professori. Uno dei suoi gioielli è la Biblioteca missionaria che contiene circa 350mila volumi, e dal 1933, ogni anno, pubblica un’apprezzata «Bibliografia missionaria» che cataloga tutte le pubblicazioni sul tema a livello mondiale.

2. un collegio per la formazione

Gli stessi motivi apostolici che ispirarono l’istituzione di «De Propaganda Fide» furono all’origine dell’erezione del «Pontificio collegio de Propaganda Fide», conosciuto come Collegio Urbano, nel 1627. L’obiettivo era chiaro sin dall’inizio, ha sottolineato il padre Leonardo Sileo, rettore della Pontificia Università Urbaniana: essere una residenza per accogliere e formare al sacerdozio e alla missione giovani provenienti dai vari continenti e da differenti riti cristiani (in specie quelli orientali) con una speciale attenzione alla conoscenza e allo studio delle lingue e delle culture del mondo.

A partire da questa esperienza, Propaganda Fide ha fondato dei collegi per la formazione del clero locale anche nelle «terre di missione». Tale il caso del Collegio di Zacatecas, in Messico, che ha cominciato a funzionare nel 1707.

Propaganda Fide ha poi portato migliaia di giovani a Roma da paesi lontani per sostenere la loro formazione, senza stravolgere le culture d’origine, e farli tornare alle comunità di provenienza. Questo può essere considerato anche uno straordinario esperimento, «un contributo alla comprensione reciproca e al rispetto tra popoli e culture», iniziato secoli prima degli scambi e dei programmi «Erasmus» attivati dalle moderne istituzioni accademiche e universitarie.

3. Incontrare altri popoli e culture

Nei secoli in cui il colonialismo europeo invadeva il mondo ed esportava ovunque l’idea di superiorità dell’Europa, Propaganda Fide seguiva la strada opposta. «Non la superiorità di qualcuno – bianco, europeo e occidentale -, ma l’uguaglianza e la pari dignità di tutti», come ha detto il professor Giampaolo
Romanato del «Pontificio comitato di scienze storiche». Di questo approccio ha dato testimonianza anche il principio sempre affermato che il missionario «deve imparare la lingua locale, per quanto difficile e lontana essa sia». Perché «parlare la lingua dell’interlocutore è la via maestra affinché egli si senta trattato alla pari», e non debba sentirsi ridotto a una condizione di sudditanza.

Propaganda Fide è la prima istituzione «globale», in essa i flussi di scambio informativo che da secoli vi si attivano sono finalizzati non a gestire la «politica alta», ma ad affrontare l’esistenza quotidiana di persone e comunità.

4. Unità di dottrina, fede e liturgia

Nell’incontro con l’altro, Propaganda Fide si confrontava con la diversità delle culture, delle forme politiche, delle civiltà, delle lingue, in un tempo in cui le distanze e i pericoli nei viaggi rendevano precario lo scambio delle informazioni. Nello stesso tempo doveva promuovere l’unità cattolica di dottrina, fede, liturgia. Come ha ricordato il professor Burigana, nel parlare di «Propaganda Fide e il mondo della riforma», i missionari arrivati in Estremo Oriente, oppure nelle regioni americane più impervie come le Ande o l’Amazzonia, avvicinavano popolazioni «radicalmente diverse, con forme di civiltà e lingue a loro sconosciute». I quesiti che si ponevano rendevano evidente che «la verità del cattolicesimo romano era chiamata a confrontarsi con queste radicali diversità. Bisognava trovare soluzioni in grado di conciliare l’unità della stessa fede, e della teologia che la esprimeva, con la diversità delle lingue, e la molteplicità delle sensibilità». Salvare l’unità abbracciando la molteplicità fu il compito spesso gravoso affidato a Propaganda Fide, chiamata sempre a esercitare una grande disponibilità all’adattamento e a trovare soluzioni nuove per situazioni non previste, e neppure prevedibili, in Europa.

Un lavoro enorme che «incise anche sul Diritto canonico», con l’emergere di una specifica sezione dedicata al «Diritto missionario» che «divenne una sorta di regno dell’eccezione e della tolleranza rispetto alla normativa vigente nella Chiesa latina», ha continuato il professor Romanato.

Maggio 2022. Una delegazione dalla Mongolia incontra papa Francesco – foto Osservatore Romano

Tipografia poliglotta

L’utilizzo della stampa fu deciso nella Congregazione (assemblea, ndr) generale di Propaganda Fide tenutasi il 3 giugno 1626. Il cardinale Francesco
Ingoli, uomo di cultura e di riconosciute competenze linguistiche, era fortemente convinto che il neonato dicastero dovesse provvedere, tra i suoi compiti principali, alla stampa di libri nelle diverse lingue che fossero utili ai missionari, i quali avevano bisogno di testi della Sacra Scrittura e della Dottrina cattolica che fossero redatti nella lingua dei popoli a quali erano stati mandati. Si pubblicavano così documentazioni che davano un quadro completo dell’attività missionaria della Chiesa cattolica a metà del XVII secolo, sia per far conoscere ai missionari sparsi nel mondo quanto veniva fatto a Roma, sia per rendere partecipe Roma, e la Chiesa in generale, di quanto facevano i missionari.

La controversia dei riti in Asia

Padre Matteo Ricci

Il tema della controversia dei riti in Asia è stato affrontato dal professor Benedict Kanakappally. L’introduzione del cristianesimo in Asia a fine Cinquecento vide due modelli di evangelizzazione. Da una parte quello dei missionari (uno dei più noti è padre Matteo Ricci, di cui nel 2022 si è aperta la causa di beatificazione, ndr)) che ritenevano che il cristianesimo dovesse inculturasi e accettare espressioni linguistiche e riti (come certe manifestazioni del culto dei morti) delle culture locali, ad esempio in Cina (riti cinesi) e in India (riti malabarici). Dall’altra, quello di chi sosteneva con forza che i nuovi cristiani dovessero abbandonare tutte le tradizioni locali per abbracciare solo il modello cattolico che valeva per tutto il mondo. Questi ultimi consideravano la pratica dei riti cinesi e malabaresi una «superstizione» incompatibile con la dottrina cattolica.

I missionari avevano affrontato il problema dell’adattamento a civiltà lontane e cercato di mediare fra la propria cultura e quella locale, soprattutto in Giappone, Cina e India; tuttavia, vi fu la condanna dei riti cinesi (la prima nel 1645), poi di quelli malabaresi.

Nel 1659 Propaganda Fide inviava ai Vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, un’istruzione in cui si leggeva tra l’altro: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna, dell’Italia o di un’altra parte d’Europa? Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di nessun popolo, purché non siano immorali, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli». Propaganda Fide fu, dunque, esempio di integrazione religiosa.

La questione delle lingue

Un altro contributo di Propaganda Fide fu dato alla questione dello studio delle lingue che ha sempre cercato di diffondere tra i missionari sia che fossero essi religiosi o diocesani. Nel processo di evangelizzazione è indispensabile «la conoscenza degli idiomi delle varie parti del mondo nello sforzo di comunicare con le varie popolazioni allo scopo di ottenerne la conversione oppure di mantenerle nella fede cristiana, potendo in tal modo istruirle adeguatamente nei principi dottrinali e nella pratica di un comportamento canonicamente corretto».

Domande aperte

Il professor Romanato nel discorso conclusivo ha affermato: «C’è un punto mai smentito nella “politica missionaria” di Propaganda Fide: la pari dignità di ogni cultura, l’obbligo di usare le lingue locali e di non imporre la propria. La necessità di portare nel mondo la fede e non la cultura occidentale». Questi tratti, come si è visto durante il Convegno, hanno segnato la vicenda storica della Sacra congregazione «de Propaganda Fide» fin dalla sua istituzione.

Propaganda Fide ha avuto un suo percorso nei suoi quattro secoli di vita, ma oggi vede aprirsi davanti a sé nuove sfide.

Bisognerà, dunque, rispondere alle domande poste inizialmente dal cardinale Luis Antonio Tagle, attuale prefetto del nuovo Dicastero per l’evangelizzazione, e che propongo come domande conclusive sulle quali meditare: «Chi racconterà la storia di Gesù? Quali parole e quali strade si troveranno per raccontarla nei nuovi mondi contemporanei segnati dall’intelligenza artificiale e digitale, dall’estremismo polarizzante, dall’indifferenza religiosa, dall’immigrazione forzata, dai disastri climatici?».

Afonso Osorio Citora*

* Missionario della Consolata mozambicano, lavora al servizio del Dicastero per l’evangelizzazione.

 


«Euntes in mundum universum»

Dal 16 al 18 novembre 2022 si è svolto, presso l’aula magna «Benedetto XVI» della Pontificia università Urbaniana, sul Gianicolo a Roma, il Convegno internazionale: «Euntes in mundum universum» per celebrare il IV centenario dell’istituzione della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (1622-2022). Ogni giorno c’erano più di 500 partecipanti tra professori, studiosi e studenti. I relatori sono stati 24 provenienti da nove nazioni dei cinque continenti e hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide», cercando di rispondere alla domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».

Il Convegno è stato diviso in 5 sessioni sui seguenti temi:

  1. la Congregazione de Propaganda Fide: evangelizzazione e missione;
  2. figure chiave e configurazione istituzionale;
  3. al servizio della fede e dei popoli in tutti i continenti;
  4. dal conflitto al dialogo;
  5. l’incontro con le culture.

Af.Os.Ci.

Tythu, Kenya 1905 ca. formazione die primi catechisti kikuyu. – AfMC / Filippo Perlo




Missione donna

Scrivo queste righe durante il mese missionario. Un mese che comincia con la memoria di santa Teresa di Lisieux e si conclude con quella della beata Irene Stefani. La prima, vissuta solo 24 anni, è protettrice delle missioni, pur non essendoci mai stata; la seconda, missionaria della Consolata, è morta di peste in Kenya a 39 anni, mentre serviva i poveri. Due giovani donne innamorate di Dio, due che hanno fatto della dedizione incondizionata lo scopo della loro vita. Due donne consumate dall’amore.

A esse, voglio aggiungere suor Carola Cecchin, beatificata il 5 di questo mese. Un’altra missionaria di inizio Novecento in Kenya, detta «mamma buona». Anche lei bruciata dall’amore e «sepolta» nelle acque del Mar Rosso.

Nonostante debba tantissimo a suor Irene e ai suoi scarponi logori (ho letto la sua biografia «Gli scarponi della gloria» quando avevo 12 anni), non mi è mai venuto spontaneo pensare alla missione al femminile. Ma sempre di più è doveroso farlo, a maggior ragione in questi giorni segnati da figure femminili che, nel bene o nel male (lasciamo a voi giudicarlo), segnano la storia: la
regina Elisabetta; la leader della nuova maggioranza parlamentare in Italia, Giorgia Meloni; le donne iraniane che non si lasciano intimorire dal maschilismo violento mascherato di religione di alcuni loro connazionali. Senza contare tutte le donne che costituiscono lo zoccolo duro e la maggioranza dei membri attivi delle parrocchie.

Come scordare, poi, che noi missionari della Consolata abbiamo la nostra ispirazione e il nostro modello proprio in una donna, la madre di Gesù, che noi, con i torinesi, chiamiamo affettuosamente Consolata?

In questo nostro tempo le donne sono protagoniste. Anche se a volte mi lasciano quantomeno confuso, come nella battaglia per far riconoscere l’aborto un diritto, oppure come nell’accettazione acritica di mode, spesso determinate da stilisti uomini, che di rispetto per la dignità della donna hanno ben poco.

Sono protagoniste, purtroppo, anche della cronaca che ci racconta un crescendo di violenze contro di loro, indice di grande confusione negli uomini, impreparati a una relazione paritaria con esse. Questo disagio è ancora più evidente in paesi del Sud del mondo, dove, grazie all’educazione e a tanti progetti mirati al loro empowerment, le donne stanno scoprendo una nuova dignità con la quale gli uomini non riescono a tenere il passo, aumentando comportamenti violenti e alcoolismo e lasciando sulle donne il peso della famiglia. Peso che, con la crisi che tutti stiamo vivendo, diventa sempre più gravoso.

Un altro ambito di violenza sulle donne è quello del traffico di persone, che vede proprio in loro la «merce» primaria da buttare nel vortice della prostituzione e nel mercato della pornografia online. Questi si nutrono, come ricordato da un recente rapporto presentato al parlamento francese, di violenze estreme proprio su donne e bambini. Non ultimo, in questo scenario, è l’aumento della schiavitù, anche nei nostri paesi che si ritengono così orgogliosamente superiori agli altri (vedi pag. 56). Corollario di questa nuova schiavitù è l’utero in affitto, che pure è rivendicato come diritto da alcuni che hanno grande influenza sui social.

Il nostro paese ha incoronato capo della nuova maggioranza in parlamento una donna. Non credo che questo basti da solo a risolvere i problemi di discriminazione e violenza. Come non basta lo scrivere aggettivi che finiscono con un asterisco o senza l’ultima consonante per creare nuove relazioni di rispetto della dignità di ogni persona. Chi è stato come me in Africa, ha usato lingue inclusive, ma ha sperimentato quanto maschilismo e sessismo ci fosse nella società. Senza un reale cambio di mentalità, espedienti linguistici come l’omissione delle ultime lettere delle parole per indicare un genere «neutro» rischia di essere solo un intervento cosmetico.

Le tre sante che hanno fatto da corona al mese missionario, non hanno fatto teorie, ma hanno vissuto una mentalità nuova centrata sull’amore, facendosi serve – non padrone – degli altri, fino a dare la propria vita perché le persone che hanno incontrato potessero essere vive, libere e amate. Ci hanno mostrato la strada, quella che Gesù indica per «farsi servi» gli uni degli altri.

L’augurio è che tutti la percorriamo.




Maralal. Servire con «gioia»


Una storia da uomo tranquillo, ma costantemente in ricerca. Il che lo mette di fronte a scelte importanti. Un passo dopo l’altro diventa missionario, poi, con la forza della mitezza, continua il suo servizio a vari livelli. E non smette mai di formarsi. Fino a quando papa Francesco lo chiama.

La diocesi di Maralal occupa una superficie di 20.800 chilometri quadrati, di territorio in prevalenza desertico. Vi sono alcune montagne, sulle quali le precipitazioni rendono il clima un po’ più umido e la zona più arborata. In questo lembo di terra nel centro Nord del Kenya vivono diversi popoli, in prevalenza allevatori nomadi: Samburu, Turkana, Pokot, Rendille, Gabbra, a cui si sono uniti, specialmente nei centri principali, Somali, Kikuyu, Luo e Akamba.

Una diocesi relativamente giovane, creata nel 2001 scindendo in due quella di Marsabit. Le uniche cittadine sono l’omonima Maralal, Wamba e Baragoi. Il primo vescovo è stato monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, uomo molto attivo e presente sul territorio. Nel luglio scorso papa Francesco ha nominato padre Hieronymus Joya (pronuncia: gioia), 57 anni, come successore di monsignor Pante. Il 22 ottobre monsignor Joya è stato consacrato.

Pure lui missionario della Consolata, è originario della diocesi di Bongoma, nell’Ovest del Kenya, in particolare di un villaggio, Asinge, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Uganda. Ha un parlare pacato e riflessivo il neo vescovo, che raggiungiamo telefonicamente. Si rivela subito molto disponibile.

«Vengo da una famiglia molto cattolica», ci dice, «i miei nonni ebbero difficoltà a essere battezzati, perché durante il periodo coloniale non c’erano missioni nella nostra zona, quindi dovettero andare nella vicina Uganda. Poi i coloni decisero che la gente non poteva più passare la frontiera liberamente. Così il mio villaggio fu unito alla parrocchia di Kakamega, a circa 100 km da casa. I miei genitori furono battezzati lì. In seguito, nel 1926, fu aperta una parrocchia a Nangina, a circa 50 km dal nostro villaggio. Si andava a piedi, e talvolta occorrevano quattro settimane per andare, restare per il catechismo e poi tornare».

Nel 1948 alcuni missionari aprirono la missione di Chakol, a sette km dal villaggio. Una parrocchia ancora attiva oggi.

Monsignor Joya ci racconta che fu lì a Chakol che partecipò al catechismo e poi divenne chierichetto quando frequentava la scuola primaria. Durante l’ultimo anno il parroco chiese a lui e agli altri bambini se fossero interessati a proseguire gli studi nel seminario minore.

«Nel dicembre 1981 feci domanda con altri quattro chierichetti. Passammo un colloquio, così nel 1982 iniziammo il seminario. Avevo passato il test anche in tre scuole pubbliche, ma scelsi il seminario: forse si può dire che è qui che comincia la mia vocazione».

Il neovescovo ci racconta un aneddoto famigliare: «Anche mio padre aveva fatto il seminario, ma non aveva potuto continuare, perché era l’unico maschio di cinque figli, quindi i suoi genitori preferirono che restasse a casa per occuparsi delle questioni di famiglia. Le figlie, nella tradizione, si sposano e lasciano la famiglia di origine. Così mio padre dovette lasciare il seminario. Poi si sposò e nascemmo noi, tre sorelle e cinque fratelli».

E, sospirando, aggiunge: «Penso che sia stata la volontà di Dio, che uno dei suoi figli diventasse prete. E sono stato scelto io».

Dopo la messa con le donne di Azione Cattolica s Maralal.

La chiamata

Poi ci racconta il suo primo incontro con i missionari della Consolata: «Nel 1985 eravamo in seminario, e, con i compagni, andavamo a leggere nella biblioteca. Padre Luigi Bruno della Consolata, portava la rivista The Call, e noi la leggevamo con interesse. Era il direttore vocazionale della Consolata. Noi eravamo curiosi. Gli scrivemmo una lettera per capire meglio chi fossero questi missionari della Consolata. Lui ci rispose, ma la sua lettera fu intercettata dal rettore del seminario che ci chiese perché avevamo scritto alla Consolata e se, quindi, avevamo rinunciato a diventare diocesani».

Alla fine del periodo di studi, la scelta di fronte al giovane Joya era tra continuare per due anni la scuola superiore e diplomarsi, oppure andare in seminario a studiare teologia. Ma i suoi genitori gli dissero che non avevano abbastanza risorse e che avrebbe dovuto trovare un lavoro per aiutare a pagare gli studi alle sorelle e ai fratelli più piccoli. Nel frattempo, padre Bruno lo aveva invitato al seminario di Kisumu per una settimana di conoscenza per aspiranti missionari. Hieronymus riuscì a parteciparvi, ma poi dovette scegliere il lavoro.

Alla St. Theresa Secondary School

La strada in salita

«Andai a Kisumu, da uno zio, e iniziai a lavorare in una stazione di benzina. In questo modo misi da parte dei soldi e mi pagai il college, dove studiai marketing e strategie di vendita. Continuai gli studi anche grazie a un insegnante che mi pagò la metà dei costi d’iscrizione. Una volta finito, nel 1987, trovai subito lavoro come contabile in un hotel».

Il giovane Hieronymus non aveva problemi a trovare lavoro. Ne cambiò parecchi passando dall’ufficio vendite di una assicurazione alla gestione di un progetto che portava l’acqua potabile nella sua zona.

Intanto padre Bruno continuava a scrivergli e nel 1989 lo invitò a visitarlo a Langata, nella periferia di Nairobi, dove gli aspiranti missionari della Consolata studiano. «Andai a visitare padre Bruno, che mi disse che se l’ostacolo era finanziario, non avrebbe chiesto nulla alla famiglia. Lui avrebbe potuto aiutarmi per fare la formazione con la Consolata».

Visita a Baragoi, incontro alal grotta della Madonna.

Il bivio

«Quando tornai a casa, si era creata un’opportunità: la Henkel oil company, cercava un responsabile delle vendite per tutta la regione Ovest del Kenya. Feci il colloquio e lo passai.

A quel punto il bivio era chiaro: andare alla Henkel o entrare dai missionari della Consolata? Andai un po’ in crisi. Ne parlai con mio padre e lui disse: «Sei tu che devi scegliere, ma parla anche con tua madre». Anche lei mi disse che la decisione era solo mia. Così io decisi di andare al corso di orientamento della Consolata, che si teneva nel marzo 1990. Dopo l’orientamento fui invitato al seminario della Consolata per iniziare ad agosto».

Così l’esperto di vendite e marketing affrontò gli studi di filosofia e poi il noviziato tra il ‘93 e il ‘94. Fece la sua professione religiosa ad agosto di quell’anno e completò gli studi di teologia nel 1998. Nel frattempo era diventato diacono e venne ordinato sacerdote il 5 settembre 1998 nella sua parrocchia a Chakol. La sua prima missione fu a Loyangalani, cittadina sul Lago Turkana nel grande Nord, allora nella diocesi di Marsabit.

L’Italia a piedi

Monsignor Joya ricorda con fierezza la prima esperienza in Italia: «Nel 2000 andai in Italia per la celebrazione del Giubileo. Un gruppo di Lamon (Belluno), paese di monsignor Pante, aveva chiesto un sacerdote per essere accompagnato in un pellegrinaggio a piedi da Lamon a Roma. Percorremmo 650 chilometri in tre settimane». Fu durante quel soggiorno in Italia che poi andò a Torino, a visitare i luoghi storici del beato Allamano e il santuario della Consolata. Al ritorno in Kenya, divenne parroco a Loyangalani e fu chiamato da monsignor Ambrogio Ravasi a fare parte del consiglio presbiterale della diocesi di Marsabit.

In seguito, dal 2003, fu superiore del seminario filosofico della Consolata a Nairobi. A fine 2007 lo troviamo responsabile del centro pastorale di Maralal, che lasciò nel 2009 perché eletto vice superiore regionale (lavorando con padre Franco Cellana, superiore) e, dal 2011 al 2016, divenne superiore regionale dei missionari della Consoalta di Kenya e Uganda. Ritornato poi come formatore al seminario filosofico di Langata, ricevette l’incarico dal consiglio generale di valutare e preparare la nuova apertura in Madagascar, avvenuta nel 2018.

Riprese pure gli studi, portando a termine un dottorato di ricerca in pastorale. «La mia missione è stata nel Nord del Kenya, con i nomadi, e a Nairobi, per gli studi. Speravo, dopo il dottorato, di poter andare via da Nairobi e dal Kenya, ma… il santo padre mi ha riportato dai nomadi», dice il monsignore, chiudendo con una risata.

Una diocesi desertica

Oggi la diocesi di Maralal conta 15 parrocchie, alcune con un’estensione molto vasta. Ad esempio, a Wamba ci sono 28 cappelle sul territorio parrocchiale. Ci sono 25 preti diocesani e dieci missionari, di cui quattro della Consolata. Sono presenti anche diverse congregazioni di suore.

Monsignor Joya conosce bene il territorio e ci descrive le sfide principali con le quali dovrà misurarsi.

«Una delle sfide principali è il clima. La zona è desertica, con mancanza cronica di acqua per uomini e animali, a eccezione delle zone di montagna. C’è una stagione delle piogge, ma nella zona arida non piove quasi mai. Una situazione che crea conflitti tra comunità, in particolare tra gruppi di allevatori, che sono la maggioranza. C’è una vera lotta per l’acqua: a volte quella che viene usata è presa da torrenti, e non è pulita. Anche scavare pozzi è impegnativo, perché spesso si trovano falde di acqua salata e allora bisogna scavare a grandi profondità.

Un altro problema sono le strade. La sola strada asfaltata è attualmente quella che porta a Maralal città. Le altre sono pessime, talvolta impossibili da percorrere. A questo si aggiunge la difficoltà di comunicazione. In alcune zone si riesce a telefonare con i cellulari, ma nella maggior parte del territorio non c’è copertura.

E poi la mancanza di elettricità: a parte i centri principali, come Maralal e Wamba, dove arriva la rete nazionale, molte missioni devono usare sistemi solari o generatori.

I conflitti tribali si sommano a quelli per l’acqua e per i pascoli. Sono frequenti i furti di animali tra i gruppi. Questo causa molti problemi tra le comunità, lotte e uccisioni (come quella riferita a p. 5 di questo numero, ndr)».

A Suguta Marmar.

Territorio ad gentes

Nel territorio diocesano, che conta circa 350mila abitanti, i cattolici superano i 100mila, seguiti dai protestanti evangelici. I musulmani sono pochi, circa duemila. La maggioranza della popolazione segue le religioni tradizionali, anche quando sono battezzati. «Per questo motivo, ci spiega mons. Joya, possiamo dire che si tratta ancora di una zona di prima evangelizzazione, ad gentes».

Una delle sfide del vescovo è quella di creare altre parrocchie per servire la gente e ridurre la difficoltà dei preti nel coprire grandi distanze: «Non abbiamo risorse per supportare le parrocchie – ci dice -. E anche le altre istituzioni per l’educazione, la salute, hanno bisogno di fondi.

La diocesi ha due scuole secondarie per ragazze, che funzionano bene, due per ragazzi, il seminario minore, due scuole primarie. La maggioranza delle altre scuole primarie e secondarie sono state iniziate dai nostri missionari, ma sono passate al governo, e molte hanno dei problemi: mancanza di insegnanti, edifici deteriorati, materiali didattici insufficienti. Inoltre, molti insegnanti non vogliono andare a lavorare in aree rurali così sperdute».

La Chiesa ha anche una buona presenza nel settore sanitario: «In ogni parrocchia c’è un dispensario o un centro di salute, e c’è un grande ospedale della diocesi a Wamba, che attualmente ha diversi problemi perché mancano soldi per farlo funzionare, per pagare il personale, comprare le medicine. È il più grande di tutta diocesi. Il secondo, gestito dallo stato, è a Maralal, anch’esso non funziona molto bene per mancanza di risorse».

I progetti del vescovo

Con il vescovo Virgilio Pante a Barsaloi presso la statua della Consolata samburu

Il nuovo vescovo ha entusiasmo e tanti progetti per la diocesi: «Voglio continuare nel solco del cammino aperto dal vescovo Pante. Lui ha lavorato affinché le strutture della diocesi funzionassero bene e fossero organizzate.

Poi vorrei migliorare le strutture di gestione e amministrazione delle istituzioni della diocesi, e fare un piano su come rivitalizzare quelle che non funzionano, che possano iniziare a fornire servizi di qualità, e amministrarli correttamente.

Un altro programma è sviluppare collegamenti con i finanziatori, alcuni dei quali erano presenti sul territorio, ma poi, a causa di alcune difficoltà, hanno interrotto il supporto. Ad esempio, c’erano medici specialisti che venivano ad aiutare nell’ospedale di Wamba, ma ora non vengono più. Vorrei ricontattare le organizzazioni non profit, nazionali e internazionali che avevano programmi nella diocesi, per convincerle a tornare.

È mia intenzione chiamare congregazioni di donne e uomini, per venire a fornire servizi alle persone nelle zone più difficili».

Grazie forse alla sua formazione, il vescovo è molto sensibile alla sostenibilità economica: «Vorrei utilizzare alcune specificità delle istituzioni per produrre reddito che possa servire a tutta la diocesi». Senza dimenticare la formazione per gli agenti di evangelizzazione: i catechisti, i laici, i preti, i membri del consiglio pastorale diocesano, ma anche delle associazioni cattoliche, perché «ce ne sono molte, di donne, di giovani, in favore dei bambini in difficoltà».

Monsignor Joya sottolinea anche l’importanza del programma di animazione vocazionale, per stimolare nuove vocazioni missionarie.

Marco Bello

Nella missione di Lodokejek.




Sperimentare il centuplo


Dei tre fratelli Barbero missionari della Consolata, padre Mario è quello di mezzo. Ha accompagnato oltre la metà della storia dell’Imc, tra Italia, Kenya, Usa, Congo e Sudafrica. Suoi amori: la Bibbia, i confratelli e le famiglie del «Marriage encounter» che ha promosso nel mondo.

Padre Mario Barbero, classe 1939, entra nel nostro ufficio con la sua solita discrezione.

Il suo sorriso gentile e il suo sguardo attento non sono mutati dall’ultima volta che ci siamo incontrati a inizio 2020.

Cominciava allora, a 81 anni, una nuova avventura, ed era pronto a prendere, senza saperlo, l’ultimo volo per il Sudafrica prima della chiusura delle frontiere per la pandemia da Covid-19.

Missionario della Consolata nato a Marene (Cn), nei suoi 70 anni vissuti tra i figli dell’Allamano, ha operato in cinque paesi di tre continenti: Italia, Kenya, Usa, Congo Rd e Sudafrica.

Formatore di seminaristi, ha sempre amato lavorare con le famiglie tramite l’esperienza del Marriage encounter («Incontro matrimoniale») di cui è un entusiasta promotore nel mondo.

Padre Mario Barbero durante l’ordinazione sacerdotale di missionari della Consolata nel 2003. Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

Settant’anni di gioia

«La prima volta che sono stato in Casa Madre a Torino avevo 12 anni. Era maggio 1951, e l’Istituto missioni Consolata compiva 50 anni. Ora ne ha più di 120».

Padre Mario si siede di fronte a noi e, con la sua voce bassa e affabile, ci offre subito il quadro di quello che racconterà: una lunga esperienza personale che s’intreccia con gratitudine alla ricca storia della famiglia Imc. «Sono entrato in seminario in prima media, alla Certosa di Pesio (Cn). Ero accompagnato da mio fratello Antonio, di undici anni più grande di me, e già seminarista. Io dico sempre che, prima del Covid, nella mia famiglia c’è stato un altro virus che ha colpito tre fratelli su sei facendoli diventare missionari della Consolata».

Oltre a padre Antonio Barbero, nato nel 1928, missionario in Canada e Congo Rd, morto nel 1982, infatti, un altro fratello è stato parte dell’Imc, Tommaso (chiamato Masino), nato nel 1946, missionario in Tanzania e Kenya e mancato poco più di un anno fa, nel settembre 2021.

«Eravamo cinque fratelli e una sorella. Gli altri si sono sposati regalandomi nipoti e pronipoti. Quando Antonio aveva 12 anni, ha sentito un’ispirazione che gli diceva “fatti missionario”. Lui non sapeva cosa fosse un missionario, allora l’ha chiesto al parroco, che gli ha detto: “I missionari sono quelli che vanno in Africa, e sono di due tipi: i sacerdoti che studiano, e i fratelli che lavorano”. Mio fratello non aveva tanta voglia di studiare, e allora dice: “Va beh, sarò di quelli che lavorano”. Poi va a casa, lo dice a mio papà, e lui gli risponde: “Se vuoi lavorare, qui c’è una cascina…”. E Antonio: “Allora mi farò missionario di quelli che studiano” – ride padre Mario -. Quando poi Antonio veniva a casa una volta all’anno dal seminario, portava sempre con sé una rivista: “Missioni Consolata”».

Guardando al fratello, Mario è cresciuto pensando che anche lui sarebbe diventato missionario e, finite le elementari, è entrato in Certosa nel ‘50.

Padre Mario Barbero con un gruppo di coppie a Kinshasa, Congo RD. / © Mario Barbero.

La chiesa che cresce

Padre Mario segue il filo dei suoi ricordi più di quello delle nostre domande. Ci confida che negli ultimi tempi ha avuto modo di pensare molto alla sua vita passata. Anche il lockdown, scattato tre settimane dopo il suo arrivo in Sudafrica nel 2020, e il Covid, contratto nell’estate 2021, che l’ha costretto a trasferirsi per le cure da Pretoria a Nairobi, sono stati per lui situazioni provvidenziali che gli hanno permesso di pregare e riflettere di più.

«Quando sono guarito, ho girato un po’ il Kenya dove ero stato dal ‘76 all’88. Ho visto il grande sviluppo della chiesa: tante parrocchie, ognuna con il suo prete locale, trent’anni fa erano impensabili. Poi sono andato a Tuthu, il primo posto in cui erano arrivati i missionari nel 1902. Lì non c’era la chiesa. Adesso ci sono tanti preti. Oggi più della metà dell’Imc è composta di africani che vanno nel mondo».

Dopo la convalescenza, è tornato in Sudafrica, ma un nuovo problema di salute l’ha fatto rientrare in Italia.

«Da quando sono arrivato a Torino a inizio 2022, sono andato diverse volte al santuario della Consolata e ho pensato all’Allamano: io non credo che avesse immaginato tutto quello che sarebbe successo. Mandando i suoi missionari, ha allargato le dimensioni dell’Africa, l’ha fatta diventare missionaria».

Fratelli

Il volo dei ricordi fa attraversare a padre Mario decenni e continenti avanti a indietro.

Tornando alla sua famiglia, ci dice che lui è il quinto dei sei fratelli, e che l’ultimo era proprio Tommaso, il terzo che si sarebbe fatto missionario. «Ha fatto più di 40 anni di Tanzania e Kenya. Poi è stato gli ultimi 7-8 anni in Italia per problemi di salute.

Ultimamente ho pensato tanto a lui. Aveva un forte zelo missionario, una grande sensibilità. Ha fondato missioni nelle quali, prima delle strutture, pensava alla formazione dei vari ministeri della gente. Negli anni che ha trascorso qui in Italia, quando ci sentivamo, mi diceva tutte le volte: “Ti penso sempre, ogni volta che celebro messa mi sento unito a te”.

Quando sono diventato prete, la sera prima di essere ordinato, mi sono confessato con mio fratello Antonio, che mi ha detto: “Da domani saremo fratelli due volte. Non solo di sangue, ma anche di sacerdozio”. Ed è stato così anche con Masino.

Quando Antonio era malato, gli ultimi sette mesi li ha passati in Casa Madre a Torino. Masino, che allora era in Spagna, l’ultimo mese gli è stato vicino. Era il 1982. Tre giorni prima che mancasse, io sono venuto dal Kenya e mi ha ancora riconosciuto. Quando è morto io e Masino eravamo uno di qua e l’altro di là a tenere il suo polso. Eravamo sereni, perché lui ci aveva preparati. Era tranquillo, e continuava a pensare allo Zaire.

Quella notte, accanto ad Antonio c’era Maria Stocco, un’infermiera che aveva desiderio di andare in Africa. Antonio le aveva detto “vai a prendere il mio posto”, e lei, dopo la sua morte, è partita. Quando nel 2005 io ero in Congo, sono andato a predicare gli esercizi spirituali ai nostri missionari nel Nord, a Isiro. Lei era ancora lì. Dall’82. Antonio aveva fatto nove anni di Congo. Lei ne ha fatti quasi trenta».

Incontro matrimoniale in Usa con il team mondiale, nel 2000

Il Concilio da vicino

«Più divento vecchio e rifletto sulla mia storia, più vedo che il Signore mi ha messo accanto tante persone di tutti i tipi, preti, suore, laici, famiglie che hanno reso possibile la mia missione», continua padre Mario.

«Finito il noviziato nel 1959, sono stato a Roma dieci anni. Ho fatto filosofia, teologia e poi la specializzazione in Bibbia. Ma soprattutto sono stato a Roma nel tempo del Concilio. Dieci giorni dopo la sua conclusione, sono stato ordinato prete.

È stata un’epoca stupenda. Alcuni dei nostri professori erano nelle commissioni teologiche che lavoravano ai testi. In casa nostra, poi, avevamo otto vescovi che ci aggiornavano su cosa succedeva in San Pietro.

Io vedo il Concilio come una grande benedizione.

Quando sento persone che dicono che la chiesa è stata rovinata dal Concilio, penso che non hanno idea di cos’era la chiesa prima e di cos’è la chiesa oggi.

Quando si parla di crisi della chiesa, c’è uno sguardo solo occidentale. In Africa al tempo del Concilio c’erano una cinquantina di vescovi neri, adesso sono centinaia. Quando sono arrivati i nostri primi missionari a inizio Novecento, l’Africa avrà avuto sì e no due milioni di cattolici, oggi sono 250-300 milioni. Mai c’è stato uno sviluppo così rapido della chiesa. Eravamo abituati ad avere tanti cardinali italiani e adesso ci si stupisce che il papa li nomini in altri paesi. Ma la gran massa di cattolici non è qua, e perché non avere la voce di quelle chiese? Anche di quelle che vivono in minoranza e perseguitate? Sono questi piccoli gruppi che conservano la forza della Parola di Dio che è Gesù che si diffonde».

In team di formatory al Consolata Seminary di Nairobi nel 1977

 

Il Kenya

La prima destinazione di padre Mario è stata a Torino per insegnare Bibbia. «Sono stato formatore e insegnante qui dal ‘69 al ‘75. Insegnavo al Cottolengo, dove c’era la sede della scuola di teologia per diversi istituti, anche il nostro. È stato bello. Facevo anche animazione missionaria. Alcuni di quei giovani (tra cui il direttore di MC, ndr) sono poi diventati preti, altri sono diventati padri di famiglia».

Il primo mandato missionario fuori dall’Italia è arrivato nel 1976. «Sono stato 12 anni in Kenya. Dal ‘76 al 1982 ho insegnato al Consolata seminary di Nairobi. Poi sono stato eletto superiore regionale. In quegli anni si è dato molto sviluppo alla formazione dei missionari africani. Il primo keniano Imc è stato Anthony Ireri Mukobo che ora è vescovo di Isiolo. Anche l’attuale vescovo di Marsabit, Peter Kihara Kariuki, è stato tra i primi che erano entrati nel 1976.

L’anno scorso il Consolata seminary ha compiuto 50 anni. Dei ragazzi passati da lì, 152 sono diventati missionari della Consolata, ora sparsi nel mondo. Altri sono diventati preti diocesani, altri ancora padri di famiglia».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale in Togo nel 2008

Marriage Encounter

È stato in Kenya che padre Mario ha incontrato il programma per famiglie Marriage encounter.

«Nel 1978 sono arrivate in Kenya alcune coppie missionarie dall’Irlanda invitate dal cardinale Maurice Michael Otunga di Nairobi.

Incontro matrimoniale forma gli sposi a vivere meglio il loro amore. È basato sul dialogo. Vi partecipano anche preti e suore.

Io non sapevo cosa fosse. Mi hanno invitato. C’erano tre coppie e un prete che davano degli spunti di riflessione. Per me è stata una scoperta bellissima. Dopo ogni conferenza c’è una domanda, e ognuno è invitato a riflettere e a scrivere una risposta personale. Poi marito e moglie si trovano insieme (io mi trovavo con un altro prete). Si dialoga, ci si scambia gli scritti. È una cosa semplicissima. È incredibile cosa può fare il semplice scriversi e parlarsi. Le coppie, dopo i due giorni d’incontro, sono tornate a casa avendo scoperto molte cose, tanti sogni che non si erano mai detti.

È stata una grazia per me. Scherzando, dico sempre che la mia seconda ordinazione da prete è stata il 27-29 di ottobre del ‘78.

Dopo quel weekend, mi sono fatto coinvolgere, e ho anche contagiato mio fratello Masino che allora era in Spagna. Quando è tornato in Tanzania, lo ha impiantato anche lì, dove adesso ci sono migliaia di coppie di Incontro matrimoniale.

La stessa cosa è successa nel Nord Italia: non potevo tenere questa esperienza per me, e ho coinvolto i miei amici più cari.

Allora in Italia c’era già qualcosa a Rimini. Qui a Torino invece è nato da Mario e Annamaria Tenna che hanno invitato i loro amici, poi il loro parroco, e da lì si è allargato in Piemonte e in Italia. In questo momento la coppia responsabile di Incontro matrimoniale in Europa è italiana.

Quando sono andato negli Usa, Incontro matrimoniale c’era già, e mi hanno subito coinvolto. Per 12 anni ho girato una volta al mese per tutto il paese. Quello che mi ha colpito è che funziona ovunque. L’ho vissuto con i keniani, con gli italiani, poi con gli americani, sia ispanici che inglesi, poi in Congo».

Padre Mario Barbero durante un incontro matrimoniale a Johannesburg in Sudafrica nel 2003

Gli USA e Retrouvaille

Quando padre Mario parla delle coppie incontrate grazie al Incontro matrimoniale ha gli occhi che brillano.

Negli Usa è andato subito dopo il Kenya: prima nella casa di
Somerset, vicino a New York, come superiore regionale Imc dal 1988 al ‘94, poi, fino al 2001, a Washington Dc, di nuovo dedicato alla formazione dei seminaristi. In quegli anni, il suo coinvolgimento in Incontro matrimoniale gli ha fatto conoscere una nuova esperienza nata in Canada, quella del Retrouvaille.

«Nel 1994 mi hanno invitato a un weekend del Retrouvaille, parola che significa ritrovarsi, un programma specifico per le coppie separate o divorziate che, a un certo punto, cercano di aggiustare le relazioni. È stata una cosa incredibile. Per me, anche come prete, l’esperienza del perdono vissuta nel programma
Retrouvaille è la più forte.

Quando sono tornato nel 2001 in Italia, la Cei era interessata a farlo approdare anche qui, così il programma è partito nel 2002.

Gli animatori di questo percorso sono coppie che hanno sperimentato il fallimento in prima persona e poi si sono riconciliate. Quando portano la loro testimonianza, sia del fallimento sia della ripresa, ha un grande impatto su chi li ascolta.

In Italia abbiamo fatto oramai oltre 200 di questi weekend».

Congo

Nel 2001 padre Mario è partito dagli Usa destinato al Congo Rd. «Sono passato dall’Italia per rinfrescare il francese, e sono poi andato in Congo nel 2002, a Kinshasa, dove sono rimasto fino al 2007 per fare il formatore dei nostri seminaristi e il professore in un altro centro. Insegnavo anche nel seminario diocesano.

Anche in quel paese ho lavorato con Incontro matrimoniale: lì era già presente, ma da qualche tempo non andava più molto bene, perché le coppie non riuscivano più a pagare il contributo richiesto per i weekend. Fatto sta che ha ripreso, e ora va ancora avanti. Quasi tutti i giorni ricevo ancora messaggi da là».

Padre Mario Barbero (il primo a destra) negli Usa con le due coppie responsabili di Marriage Encounter a livello mondiale e Usa / © Mario Barbero.

Italia

Nel 2008, dopo aver lasciato il Congo e aver trascorso sei mesi in Sudafrica, padre Mario è tornato in Italia dove ha lavorato nell’animazione missionaria fino al 2019, prima a Bedizzole (Bs), poi a Castelnuovo don Bosco (At), infine a Rivoli (To).

«Ho fatto tanti incontri biblici e naturalmente ho lavorato con le famiglie. Poi, nel 2019 mi hanno chiesto di andare in Sudafrica e io ho accettato.

Sono partito a inizio 2020 per fare il parroco per la prima volta nella mia vita. Tre settimane dopo il mio arrivo, c’è stato il lockdown anche lì, e per il primo anno la gente non poteva venire in chiesa. In quella situazione ho riscoperto la preghiera, e facevo un video ogni settimana per i parrocchiani. È nato un bel rapporto con loro, anche se limitato.

Poi ho avuto il Covid, e sono stato mandato in Kenya per curarmi. Dopo tre mesi, sono tornato per altri tre mesi, quando mi è venuta una forte sciatalgia e ho iniziato ad avere difficoltà a camminare. Allora sono ripartito per l’Italia nel febbraio del 2022.

Due anni sono stati pochi, ma sufficienti per iniziare delle belle relazioni. Con alcuni mi sento ancora. È nato un affetto speciale con tante persone.

È stato bello, anche se diverso da quello che immaginavo, come spesso capita nella nostra vita. Adesso sono qui in Casa Madre e sto meglio: ho tanto tempo per pregare, riflettere, ricordare».

Padre Mario Barbero a un incontro matrimoniale a Kinshsa nel 2004

Famiglia e missione

Data la sua esperienza, chiediamo a padre Mario qual è secondo lui la missione delle famiglie.

«Innanzitutto, la loro vita famigliare, il parlarsi tra di loro e la formazione dei figli.

Ora che rifletto molto sulla mia vita, mi rendo conto che, pur avendo studiato tanto, le cose più importanti me le hanno insegnate mio papà e mia mamma.

La famiglia è presente in tutte le realtà. Io sono stato fortunato ad avere una famiglia unita, ma anche nelle famiglie nelle quali magari c’è una separazione, i genitori ti accolgono, ti tirano su. Questa è la cosa principale: il primo impegno di una famiglia è quello di avere cura della famiglia. Tutto il resto viene da lì.

Mentre ero a Washington ho fatto un dottorato, e nel 2001 ho scritto la mia tesi su Priscilla e Aquila: una coppia che ha lavorato con san Paolo e ha fondato con lui la chiesa di Corinto e di Efeso. È stato il mio coinvolgimento con le coppie che mi ha fatto scoprire il Marriage encounter anche in san Paolo».

Bibbia

L’altro grande amore di padre Mario è la sacra Scrittura. Gli chiediamo allora, per concludere la chiacchierata, un brano che gli sta particolarmente a cuore.

«Quando Pietro chiede a Gesù: cosa ne avremo noi a seguirti? E Gesù risponde che avremo il centuplo. Ecco, io il centuplo l’ho sperimentato: prima con l’Imc, dove mi sento bene con tutti i miei confratelli; poi con Incontro matrimoniale, che mi ha aperto migliaia di case».

Luca Lorusso

Nel Consolata Seminary di Nairobi con un gruppo di studenti nel 1983


Fratelli due volte

Antonio Barbero

I tre fratelli Barbero all’ordinazione di padre Masino

Nato il 12-2-1928 a Marene (Cuneo), tredicenne fu accolto nell’Istituto Missioni Consolata e ricevette l’ordinazione sacerdotale il 20-6-1954. Per sei anni svolse attività di insegnamento e di formazione in Italia. Nel 1961 partì per il Canada: quattro anni di intensa pastorale giovanile. Rimpatriato svolse ancora attività formative nelle case Imc d’Italia, poi nel 1972 raggiunse la missione dello Zaire come superiore del gruppo della nascente delegazione: dieci anni di lavoro missionario ardito e intelligente (cfr. dossier in MC 6/2022). Missionario ottimista e guida saggia, sembrava, talora, spregiudicato, invece di fatto il suo comportamento si rivelava stimolante ma equilibrato. La sua arte era semplice ma non sempre facile: ascoltare, riflettere, rispondere, sorridere; un’arte che faceva sempre presa nel cuore dei giovani. Morì a Torino il 9 febbraio del 1982.

Tommaso (Masino) Barbero

Nato l’8-10-1946 a Cervere (Cn), fece la professione temporanea il 2-10-1966 alla Certosa di Pesio, e quella perpetua il 2-10-1969 a Rosignano. Fu ordinato diacono il 16-2-1972 a Torino e sacerdote il 25-3-1972 a San Lorenzo di Fossano.
Dopo i primi due anni tra Cork (in Irlanda) e Biadene (Treviso), partì per il Tanzania dove rimase tra il 1974 e il 1979. Fece animazione missionaria a Saragoza, in Spagna, tra il 1979 e il 1983. Tornò in Tanzania come vice parroco a Kisinga e come parroco a Ng’ingula tra il 1983 e il 1988.
Tornato in Europa, nel 1989 partì per il Kenya. Fu rettore dell’Allamano House a Nairobi fino al 1992, poi fondatore e parroco di Kahawa (Nairobi) fino al 2000, viceparroco e poi parroco a Likoni-Mombasa fino al 2005, direttore della casa di ritiri Bethany House a Sagana tra il 2005 e il 2008, e poi direttore del Centro pastorale di Maralal fino al 2013. Contemporaneamente fu due volte consigliere regionale del Kenya: nel 2005-2008 e nel 2011-2013. Rientrato in Italia nel 2014, lavorò a Platì, Rivoli, Cavi di Lavagna e Torino. Morì il 16 settembre del 2021.

Antonio Giordano e Luca Lorusso

Archivio:

– Padre Mario dal 2015 pubblica mensilmente la rubrica «Bibbia on the road» sul sito di Amico.
South Africa Fifty, Dossier MC giugno 2021.
Amoris Laetitia famiglia missionaria, MC dicembre 2016.

Padre Masino all’inaugurazione dei saloni per le attività parrocchiali a Kahawa West, Kenya.




Murang’a 2, i nuovi orizzonti della missione


Sommario

 

Murang’a: 118 anni dopo, guardando al futuro

Riunione di famiglia

Missionarie, missionari e laici della Consolata hanno tentato qualcosa di mai fatto prima. Un incontro di quattro giorni, a livello mondiale, che ha coinvolto circa cinquecento persone in 33 paesi. È stato reso possibile dalla tecnologia oggi disponibile. Non è stato solo un ritrovarsi, ma un rivedere la propria storia, fare una lettura del presente per pensare la missione del futuro.

A Fort Hall, oggi Murang’a, nel cuore del Kenya, tra il primo e il tre marzo del 1904, i primi 10 missionari della Consolata si riunirono, in quelle che sarebbero state poi chiamate le «Conferenze di Murang’a». I missionari erano arrivati in Kenya in diversi gruppi, il primo dei quali, partito l’8 maggio del 1902, era composto dai padri Tommaso Gays e Filippo Perlo e i fratelli coadiutori Luigi Falda e Celeste Lusso.

L’obiettivo delle conferenze era quello di darsi una metodologia di missione, delle regole, ma il motivo degli incontri era anche l’esigenza di fermarsi, ritrovarsi e stare insieme, dopo i primi due anni di esperienza missionaria.

Tra il 13 e il 16 giugno scorso si è tenuto il Convegno internazionale della famiglia Consolata, chiamato «Murang’a 2». L’evento ha visto la partecipazione di circa 500 persone, tra missionari (Imc), missionarie (Mc) e laici (Lmc), da quattro continenti, con traduzioni in sei lingue. Collegati in teleconferenza, i partecipanti hanno potuto assistere a presentazioni, riunirsi in gruppi (oltre trenta) per riflessioni tematiche e pure cantare e pregare insieme.

Festa della Consolata in Korea, presentazione della nuova imamgine della Consolata in stile coreano, opera della pittrice Shim Sun-hwa Caterina

Un evento straordinario

La straordinarietà dell’evento è stata sottolineata in apertura da suor Simona Brambilla e padre Stefano Camerlengo, superiori generali dei due istituti, i quali hanno richiamato le motivazioni all’origine di questo momento di famiglia:
«Fermarsi insieme per riflettere e dialogare serenamente, per riconoscere il terreno e la metodologia comuni e arricchire il carisma alla luce dell’oggi e in prospettiva futura».

Ha detto suor Simona nella sua presentazione: «[Tra i due eventi ci sono] 118 anni di storia missionaria consolatina intensa, benedetta, ricchissima; con le sue curve, i suoi ritorni, i suoi limiti; con i suoi slanci, le sue meraviglie, la sua innegabile fecondità. Sì, come ogni avventura umano-divina. È la nostra storia, fratelli e sorelle. Di questa storia siamo eredi. Da questa storia nasciamo. Una storia che ci ha condotto fino a qui, oggi. Diverse le epoche, diverse le persone, diversi i contesti. Diversa la visione di missione, diverse le modalità comunicative, diversa la comprensione del nostro essere tra i popoli. Uno e medesimo il dono spirituale ricevuto e condiviso, che costituisce la nostra identità vocazionale».

Mentre padre Stefano ha confermato: «Come a Murang’a, più di un secolo fa, noi missionari e missionarie sentiamo il bisogno di sederci e definire insieme la strategia missionaria da adottare di fronte alle domande, alle esigenze e alle sfide poste dalla missione attuale.

Indubbiamente Murang’a ha tracciato un cammino nella storia dei nostri istituti missionari, ha elaborato una metodologia, ha indicato un percorso.

Il metodo nato a Murang’a ha messo le basi dello “stile consolatino” fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione […]».

Nella lettera di presentazione del convegno le direzioni generali dei due istituti scrivevano: «Al fine di fermarci insieme per valutare, riflettere e guardare al futuro, realizziamo il Convegno Murang’a 2 […]. Il Convegno è un’occasione per stare insieme, come famiglia, fare memoria, rileggere i percorsi realizzati, condividere esperienze, riflettere sul carisma e sulla metodologia missionaria, proiettarci in avanti».

E ancora: «Riteniamo che il tempo presente con la sua complessità ci invita ad aiutarci vicendevolmente nella ricerca e nella proposta di segni di speranza. In quanto missionari e missionarie, non possiamo tralasciare questa opportunità di ripensamento della nostra missione e del nostro agire, oltre che l’occasione preziosa di un confronto sereno con gli uomini e le donne del nostro tempo».

Suor Simona fa notare che: «A Fort Hall, nel marzo 1904 non c’erano le suore Missionarie della Consolata. Nasceranno sei anni dopo. Eppure, lo spirito di Murang’a ha indubbiamente plasmato le prime 15 sorelle arrivate in Kenya nel 1913, e i gruppi di missionarie arrivati successivamente che lo hanno accolto e vissuto in pieno».

Una grande energia

Forse non tutti gli oltre 500 partecipanti hanno seguito sempre le circa dieci ore di convegno. Ma due elementi sono da sottolineare.

Il primo è una riflessione sul cammino che gli istituti hanno fatto. Da dieci missionari, uomini e probabilmente tutti piemontesi, di Murang’a, siamo oggi a una pluralità di voci, etnie, lingue, origini, vocazioni diverse che fanno parte della stessa famiglia e incarnano lo stesso carisma. In qualche modo, durante gli incontri, sebbene fossero online e non in presenza, si poteva toccare qualcosa di grande, sentire un’energia particolare.

Il secondo riguarda l’uso della tecnologia. Questa pervade la nostra vita quotidiana e talvolta ne abusiamo o ne facciamo un uso pericoloso. In questo caso, le video conferenze, oramai diventate accessibili a tutti, ha reso possibile (anche grazie alla sapiente regia di padre Pedro Louro, segretario generale dell’Imc), un incontro senza precedenti, a livello mondiale. Anche questo ci deve fare riflettere sulle nuove frontiere della missione e sugli strumenti a nostra disposizione.

 

In questo dossier, non esaustivo, riportiamo stralci di alcuni degli interventi ascoltati al Convegno Murang’a 2, per noi significativi, ricordando che i video integrali degli incontri dei quattro giorni di lavori sono tutti disponibili sul profilo YouTube «Consolata Murang’a 2».

Marco Bello

Partecipanti alal Conferenza di Muranga, Kenya (1-3 marzo 1904). Fotografo P Filippo Perlo

Come e perché i primi 10 missionari in Kenya si riunirono

La storia e lo spirito

Perché Giuseppe Allamano ha deciso di fondare i Missionari della Consolata, con quale approccio e come è stato scelto il primo luogo di missione. Monsignor Giovanni Crippa svela i primi passi fondamentali di una storia avvincente. Fatti avvenuti oltre un secolo fa, che hanno posto le basi della famiglia della Consolata di oggi.

Giuseppe Allamano non sarà mai missionario della Consolata, ma vuole fondare un istituto a servizio del clero diocesano. Questo comporta che la comprensione primitiva dell’identità dell’istituto è molto legata a quello che i singoli missionari riusciranno a fare, tanto più che tutti i preti dell’inizio provengono dalla diocesi di Torino o da quelle vicine. È un istituto che nasce quasi con una specie di dicotomia tra la persona del fondatore e la realtà della missione. Questa, l’Allamano la considera un qualcosa di distinto da quella che è la sua autorità, il suo governo e l’identità che vuole dare all’istituto. Questi due fattori hanno avuto la conseguenza che a pochi mesi dall’apertura dell’istituto (29 gennaio 1901) il fondatore può inviare i primi missionari (8 maggio 1902), proprio perché non è preoccupato di avere un’idea, un progetto di missione: lo inventeranno coloro che partono. Rimasti cinque mesi con lui alla Consolatina, la prima casa dell’istituto, li considera già pronti.

Dove andare

La scelta iniziale del campo di lavoro era il Kaffa (Etiopia). Per una ragione sentimentale e per una contestualizzazione politica. Dell’Africa, in Italia, si conosceva solo l’Eritrea dalla quale si guardava all’Etiopia. In quest’Africa conosciuta aveva operato il cardinal Massaia, il cui incontro aveva impressionato l’Allamano. Era il missionario allora più conosciuto in Italia (cfr. le memorie del missionario cappuccino: I miei 35 anni in Etiopia). L’Allamano guardava al Kaffa per il suo istituto, pensava che avrebbe il sostegno del governo italiano e la tolleranza del governo etiope e si aspettava una facilitazione per l’ingresso. Il console italiano a Zanzibar sosteneva che non era difficile per un istituto italiano entrare in Etiopia. Ma l’impresa fallisce: se c’è un paese dove non vogliono italiani è l’Etiopia.

Il fondatore ripiega allora su un pezzo d’Africa propostogli da Propaganda fide: il Kenya, cioè la colonia inglese dell’Africa Orientale dipendente dal Vicariato apostolico di Zanzibar affidato all’epoca ai Padri dello Spirito Santo (Congregazione dello Spirito Santo o Spiritani, fondati nel 1703). La condizione posta da Propaganda fide a qualunque istituto per accedere a un territorio di missione indipendente è che esso faccia un tirocinio pastorale alle dipendenze di un Vicario apostolico. A questo punto il fondatore è costretto a fare una riflessione prima di far partire i missionari. Uno dei concetti più cari all’Allamano è quello dell’unità dell’istituto, e quando Propaganda fide gli pone la clausola, va un po’ in crisi perché ha un gruppo di missionari a cui ha inculcato il principio fondamentale dell’unità (unità di intenti, spirito di corpo), ma capisce che il Vicario apostolico potrebbe mandarli dove vuole, dividendoli. Il fondatore si accerta allora che, una volta partiti, pur lavorando alle dipendenze di altri, i suoi missionari possano avere un luogo per loro, anche se non ancora una giurisdizione ecclesiastica autonoma. L’Allamano deve mediare e i Padri dello Spirito Santo gli impongono un giuramento.

I primi quattro

Con questo accordo, l’8 maggio 1902 avviene la partenza dei primi quattro missionari: padre Tommaso Gays (28 anni), padre Filippo Perlo (26), fratel Luigi Falda (21) e fratel Celeste Lusso (18), che deve scappare perché non ha ancora fatto il servizio militare. Gays viene nominato superiore e Perlo economo. A Zanzibar sono accolti molto bene dal vescovo. Il 20 giugno partono per vedere dove potranno andare. Sanno dell’esistenza del Kikuyu solo perché alla missione di Saint Austin, nei pressi di Nairobi, è sceso un capo locale, Karoli, che ha simpatizzato con la missione, ma nessuno c’è mai stato, tanto che, nonostante la preparazione, hanno rischiato di morire assiderati nel viaggio sulle montagne.

Il 29 giugno il vescovo li lascia soli a Tuthu, a 2.220 m, senza nessuno, come casa la baracca costruita da un avventuriero inglese, e devono cominciare a guardarsi attorno e iniziare a fare missione. Per i quattro è una grande sfida; questa situazione non si ripeterà più nella storia dell’istituto.

Perlo si innamora del Kikuyu, nonostante le fatiche fisiche. Consiglia a Gays, che ha dubbi e paure, di dedicarsi a curare gli ammalati per stabilire un contatto con la gente. I fratelli riparano e migliorano la baracca.

Perlo comincia una perlustrazione sistematica del territorio, da solo in giro per il Kikuyu. Sul retro di una pagina del suo diario datata 8 agosto 1902 disegna la mappa della zona, sul verso dice di aver incontrato anche dei pastori nomadi (i Maasai), per i quali bisogna inventare un metodo missionario diverso da quello degli Akikuyu e dotarsi di un carro come quello dei nostri saltimbanchi per seguirli nei loro spostamenti. Pochi giorni dopo scrive all’Allamano: «Io qui ho bisogno di due cose soltanto: tanti missionari e tante suore».

I primi quattro partenti. Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda. Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902 (AfMC)

Attriti in famiglia

La lettera arriva quando la Consolatina è chiusa. Perché? Tra i missionari partenti e quelli rimasti a Torino c’erano stati degli attriti. Il giorno della partenza non si erano nemmeno salutati alla stazione. Qualcuno sosteneva che padre Gays era stato mandato per primo in missione perché aveva raggirato l’Allamano, che il fondatore non si fosse comportato in maniera equa nella scelta dei primi candidati alle missioni. Si borbottava e alcuni rivendicavano il diritto a partire per primi. Tornato a casa, l’Allamano ha pregato, e poi ha mandato a casa gli otto rimasti. Il giorno dopo porta le chiavi della casa al santuario della Consolata dicendo alla Madonna: «L’istituto è tuo, pensaci tu».

Grazie alla lettera di Perlo che chiede non solo missionari, ma anche suore, l’Allamano prende coscienza del suo proprio ruolo formativo (cfr. le Conferenze Spirituali: «Lo spirito ve lo do io»). Per quelli che entrano e che sono già preti, non basta aver messo un vicerettore (padre Costa), ci vuole la sua stessa presenza.

Ma perché padre Perlo chiede tanti missionari e suore? Nelle sue esplorazioni ha ispezionato tutte le località adatte ad aprire una stazione missionaria nel Kikuyu, con il criterio di realizzare un catena con tante missioni distanti una dall’altra una giornata di cammino, a partire dalla stazione ferroviaria di Limuru fino ad arrivare alle falde del Monte Kenya. L’intento è di occupare un’are continua, senza essere bloccati da missioni protestanti, perchè i colonizzatori inglesi hanno messo una regola ferrea: tra una missione cattolica e una protestante ci deve essere almeno una giornata di cammino.

Padre Filippo Perlo è appena arrivato, ma innamoratosi del luogo, ha deciso di non andarsene più. La sua grandezza è di aver inventato una metodologia missionaria.

Di per sé, i missionari della Consolata potrebbero imparare dai Padri dello Spirito Santo che hanno un’idea benedettina della missione. Questa è basata sul creare una struttura centrale che garantisca sicurezza e salute e faccia della missione un faro di civiltà. L’africano si sarebbe convertito dopo aver visto quanto è bella, grande, progredita la vita del missionario. Più la vita del missionario è attraente, più può fare un discorso di civilizzazione e di evangelizzazione. Secondo questo modello, la gente deve andare alla missione, la quale, quindi, ha bisogno di un gruppo consistente di personale e di grandi capitali.

Ciò che Perlo e gli altri non hanno. Allora inventano uno stile di missione nel quale sono i missionari ad andare verso la gente. La cosa più importante non è la struttura della missione ma il contatto con le persone. Le missioni sono solo baracche di fango e terra battuta, piccolissime, sufficienti per poter dormire una notte. Solo i magazzini per stipare il materiale proveniente dall’Italia devono essere grandi. Alla fine del 1902, le missioni sono a Limuru (procura, vicino alla ferrovia), Tuthu e Murang’a, e Tetu (che diventerà la base per creare la missione di Nyeri). Non più un’unica missione importante, ma diverse piccole missioni.

Il primo Murang’a

Per decidere come deve essere la missione e tracciare le linee orientative di una metodologia missionaria comune o – come si esprimerà padre Borda – «un regolamento particolare sulla vita e sull’azione dei missionari», tutti i sacerdoti (tranne padre Mario Arese di Limuru) si incontrano a Murang’a dal 1 al 3 marzo del 1904: il mattino è dedicato a meditazione e preghiera (Gays), il pomeriggio alle conferenze (Perlo). L’esperienza è valutata positivamente dai missionari in quanto possono rinsaldare i legami di fraternità, ricaricarsi spiritualmente e ricevere indicazioni pratiche.

Le conclusioni sono inviate a Torino e, in attesa dell’approvazione dell’Allamano, una copia viene inviata a tutte le stazioni di missione. Il 6 maggio ricevono l’approvazione dell’Allamano: «Approvo tutte le conclusioni senza eccezione, e desidero che si eseguano in ogni loro parte». Riprodotte da suor Scolastica Piano (delle suore Vincenzine del Cottolengo), ricevono il titolo di: «Conclusioni delle conferenze tenute nella stazione del Sacro Cuore di Gesù a Fort Hall il 1-2-3 marzo 1904, presenti i padri missionari: Filippo Perlo, Tommaso Gays, Antonio Borda, Gabriele Perlo, Rodolfo Bertagna, Giuseppe Giacosa, Sebastiano Scarzello, Francesco Cagliero, Domenico Vignoli e Gaudenzio Barlassina». […] «Quanto in esse è proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto di questa realtà con i principi appresi in Italia e con i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di “principianti” del Kikuyu cercò un proprio metodo di evangelizzazione. Essi avvertirono che la via della conversione dei Kikuyu era assai più lunga di quanto potesse apparire in Italia e compresero che i buoni rapporti con gli indigeni e le autorità locali erano solo la premessa di un termine a lunga scadenza» (A. Trevisiol, Uscirono per dissodare il campo, Roma 1989, 82-83).

Partecipanti alla Conferenza di Muranga (AfMC)

Elaborazione di un metodo

I missionari elaborano allora un proprio piano di evangelizzazione così formulato nel primo paragrafo delle «conclusioni»: «Dato il carattere e i costumi dei Kikuyu, i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi pare si possano ridurre ai seguenti: catechismi, scuole, visite ai villaggi, ambulatori alla missione, formazione d’ambiente. […] Con i catechismi, che richiesero quasi subito la formazione di un corpo di catechisti, si inculcavano le prime nozioni di religione naturale. Le scuole miravano a formare una élite che avrebbe coadiuvato i missionari nell’approccio con i Kikuyu. Gli ambulatori, che segnarono la prima attività a favore degli indigeni in missione, venivano intesi come mezzo per rendere credibile il missionario e assicurargli la simpatia della gente. Le visite ai villaggi, che ricordavano il metodo del Massaia, assunsero caratteristiche proprie: servivano alla conoscenza reciproca ed erano il mezzo più valido per l’enunciata formazione dell’ambiente, consistente nell’istruire la popolazione in modo che, in massa, fosse preparata a ricevere il battesimo, qualora si desse il caso di pericolo di morte» (A. Trevisiol, Ibidem 84-85).

«Per i Missionari della Consolata nel Kikuyu le conferenze tenute a Murang’a nel 1904 segnarono un punto di riferimento anche per molti anni successivi, sebbene siano state ripetute con regolarità annuale. Torino le incoraggiava e ne vagliava i risultati che venivano di volta in volta approvati. L’essenziale stava tuttavia nel tradurre in pratica le decisioni prese. Una verità tanto evidente non sfuggiva certo ad un uomo come monsignor Perlo, il quale, appena ne ebbe gli strumenti, fece pubblicare le direttive e le inviò alle singole missioni» (A. Trevisiol, Ibidem, 87).

Giovanni Crippa

Missionarie, missionari e laici, devono unire le forze

Camminare insieme

A Fort Hall c’è stata la creazione di uno spazio di condivisione, per favorire un’unità di intendimenti e azione. E la formulazione di una metodologia missionaria, valida ancora oggi,
che ha al suo centro i popoli e l’importanza delle relazioni.

Lo spirito di Murang’a si è sposato con la storia del nostro istituto (Mc). Al di là dei suoi contenuti, già il solo fatto che i missionari sentissero l’esigenza, il bisogno, il desiderio di fermarsi, stare assieme, pregare, condividere, rileggere l’esperienza, formulare una metodologia missionaria e programmare, è fatto degno di nota ed elemento qualificante di uno stile.

Oggi la parola d’ordine nella Chiesa è sinodalità. Ai tempi di Murang’a certamente non si utilizzava questo termine. Ma la sostanza del camminare insieme era ben presente. Le Conferenze di Murang’a, infatti, avevano come primo obiettivo quello di favorire una unità d’intendimenti e di azione, attraverso la creazione di uno spazio di condivisione nel quale si alternavano momenti di preghiera comune, riflessioni, scambi tra i partecipanti.

Il fondatore, nella relazione a Propaganda fide del 1 aprile 1905, scrive: «…il 1° marzo 1904 si radunarono alla stazione del Sacro Cuore di Gesù a Fort Hall tutti i missionari sacerdoti, al fine di ritemprarsi nello spirito apostolico con un corso di spirituali esercizi […] accompagnati da una serie di conferenze in cui tutti poterono comunicarsi le proprie idee ed il frutto della propria esperienza; accordarsi su lavori da iniziare; sul modo di vincere le difficoltà; sui metodi da seguire nell’evangelizzazione, affinché si potesse procedere nell’opera comune con unità d’intendimenti e di azione».

Nel suo sviluppo, l’istituto Mc ha imparato a valorizzare e qualificare sempre di più gli spazi comuni di preghiera, ascolto, condivisione, memoria, rilettura dell’esperienza, discernimento e progettazione. Le varie istanze partecipative, come i capitoli generali, gli intercapitoli, le conferenze regionali, le assemblee a vari livelli, sono divenuti, sempre più, percorsi qualificati dal discernimento spirituale. Non solo. Questo stile di sinodalità ha comportato lungo gli anni l’investimento sempre maggiore in processi di coinvolgimento delle sorelle nei vari percorsi di famiglia.

Ne ricordo solo alcuni: […] la nuova configurazione dell’istituto con il sorgere di regione Africa e regione America e le nuove aperture in Asia; la riflessione esperienziale e sistematica sul carisma, che di nuovo ha coinvolto tutte e ha trovato il momento culminante nell’intercapitolo svoltosi tra febbraio e marzo di quest’anno. E finalmente la elaborazione di una ratio missionis dell’istituto, ancora in corso, che di nuovo ha coinvolto ogni sorella al fine di «sviluppare e formulare la visione di missione secondo il nostro carisma», e che sarà presentata al prossimo capitolo generale per la revisione e la approvazione finale.

Cammini sinodali

Lo «spirito di Murang’a» si è così dilatato, approfondito e… «spalmato» nei percorsi di istituto, informando i vari cammini, ben al di là di eventi e momenti circoscritti. Vorrei anche segnalare qui cammini sinodali che hanno riguardato non solo le sorelle, ma tutta la famiglia della Consolata che, rispondendo alle proposte elaborate nell’incontro tra le due assemblee capitolari (missionari e missionarie) del 2017, ha portato avanti, coinvolgendo missionarie, missionari e laici, «una riflessione sugli elementi principali del carisma, comuni alla nostra famiglia allargata» e ha preparato la realizzazione di questo convegno, Murang’a 2. Certamente, lo spirito sinodale di Murang’a ci interpella, alla luce dell’oggi, a camminare coltivando un forte senso di comunione e di famiglia, di unità d’intendimenti e di azione sia all’interno di Imc, Mc e Lmc, sia fra i tre soggetti carismatici. Questo convegno è un passo significativo in questa direzione, ma credo che non possa e non debba rimanere un evento isolato, bensì un trampolino di lancio affinché, come fratelli e sorelle nel carisma, possiamo creare spazi e percorsi qualificati nei quali ci si ferma insieme, insieme si prega, si condivide, si rilegge l’esperienza, ci si ascolta, ci si abbevera alle fonti del carisma, si rivede la metodologia missionaria, si progetta.

Il popolo al centro

«Dato il carattere e i costumi degli Akikuyu…», il documento delle conclusioni delle conferenze di Murang’a inizia così. Al centro della riflessione c’è il popolo che i missionari hanno incontrato, il suo carattere, i suoi costumi. Ma la frase continua: «… i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi, pare si possano ridurre ai seguenti». Devo dire che questo incipit del documento mi colpisce davvero. L’intento primo dei missionari è di instaurare relazioni con il popolo. Le relazioni con la gente sono il primo obiettivo, la prima cura dei missionari. Questa espressione condensata ma potente del documento racchiude, ieri come oggi, stimoli, appelli e inviti ai missionari e alle missionarie. La missione avviene nelle relazioni, o non avviene.

Quando desideriamo la relazione con qualcuno, sorge in noi spontaneo l’interesse a conoscerlo, conoscerne l’ambiente, il carattere, i costumi, le modalità comunicative, ciò che lo fa felice, ciò che lo rende triste, i suoi valori portanti, il suo modo di percepire e leggere la vita, il cosmo, se stesso, l’altro, il creato, Dio. Tutto di lui ci interessa. Di un interesse vivo e nel contempo rispettosissimo, delicato, riverente, libero. Tutto il resto – nel caso di Murang’a: catechismi, scuole, visite ai villaggi, ambulatori alla missione, formazione dell’ambiente – è subordinato alla creazione di relazioni, nelle quali la Buona Notizia può passare.

Perché così è la missione di Dio. Perché questa è la missione del Figlio, che si incarna e diventa Dio-con-noi, per Amore. Nel cammino dell’istituto questa consapevolezza si è gradualmente approfondita. Ricordo con gioia e gratitudine quando, durante l’intercapitolo del 2008, riflettendo assieme sulla missione e guardando alla realtà delle nostre presenze e delle nostre espressioni missionarie, arrivammo a dirci che «abbiamo bisogno di riscoprire il significato profondo della missione superando il rischio di confinarla alle varie “attività missionarie”. Sembra utile e vitale riprendere il senso teologico della missione che è prima di tutto missio Dei (missione di Dio) nel suo movimento relazionale, di generazione, di vita che si incarna; missione che per noi si qualifica come consolazione».

La tentazione di investire esageratamente in attività, strutture, opere, numeri, visibilità, efficienza, strategie e di affidarci a queste cose, è sempre presente. Ma, oggi come al tempo di Murang’a, il Vangelo chiede di scorrere nel tessuto umano, nella carne e nel cuore di persone che amano e che si lasciano amare, che sanno tessere, con umiltà, rispetto ed empatia, legami autentici, che sanno entrare con delicatezza nella casa vitale dell’altro e raggiungere, per grazia, il cuore della persona e del popolo.

L’attenzione al popolo e il desiderio di tessere con esso relazioni di vicinanza, di affetto e di confidenza guidano le scelte dei missionari del tempo di Murang’a e la elaborazione di un primo metodo missionario, che si esprime nell’attenzione integrale (salute, educazione, catechismi, formazione dell’ambiente), nel promuovere un contatto diretto con la gente, nel raggiungere le persone laddove si trovano, sia fisicamente (le visite intensive ai villaggi), sia dal punto di vista esistenziale (lingua e linguaggio, visione del mondo, della persona, di Dio).

Attualmente, l’impegno di entrare in contatto con il mondo spirituale della persona e del popolo si sta aprendo all’attenzione non solo all’esperienza di Dio, ma anche, più ampiamente, all’approccio del popolo al mondo invisibile. È, questo, un tema delicato, vitale, che attinge alle profondità dell’esperienza personale e collettiva e che richiede uno studio serio e attento. Solo ultimamente, come istituto, ma anche come istituti missionari, si sono aperti spazi di riflessione su questo tema. Siamo solo agli inizi di un cammino affascinante, impegnativo, nuovo. […]

Rispetto e riverenza

Il testo di Murang’a va ancora più in là. L’indicazione «Si insegni in Kikuyu a leggere e scrivere, ed elementi di aritmetica. Più tardi anche un po’ di inglese» contiene una pista più che mai attuale e del tutto in linea con i criteri di rispetto, delicatezza, riverenza per ciò che è la storia, la cultura, il patrimonio di un popolo. La lingua materna, lo sappiamo, è molto di più di una serie di vocaboli e di regole grammaticali. Essa lascia trasparire il sistema di pensiero, e anche di affetto, di un popolo.

Nella struttura linguistica, nei vocaboli, si esprimono spesso i valori più profondi di una cultura, la sua cosmovisione, i suoi paradigmi fondamentali. Sottovalutare o svalutare la lingua di un popolo per iniziare una alfabetizzazione in una lingua veicolare diversa dalle radici culturali è un atto lontano dal rispetto e dalla riverenza che il patrimonio originario di un gruppo umano merita. La consapevolezza di questo dato si è fatta avanti, non senza fatica, nell’istituto. Anche qui, penso a alcune esperienze feconde in varie parti del nostro mondo missionario, all’interno di percorsi di etno educazione e di promozione all’insegnamento bilingue.

Simona Brambilla

La Consolazione nel testo biblico

Perché la consolazione

«Consolazione» è un termine molto presente nella Bibbia, a indicare la sua centralità. Un esempio è quello del cosiddetto «Libro della consolazione», contenuto nel testo del profeta Isaia.

Per guardare alla consolazione da un punto di vista biblico, scegliamo l’inizio del Deuteroisaia (Is 40-55: il Libro della consolazione). Il popolo di Israele è in esilio a Babilonia, dopo la distruzione di Gerusalemme e la deportazione. Alle spalle c’è dunque una tribolazione drammatica che resta sottesa, senza mai essere evocata direttamente (la distruzione di Gerusalemme non viene descritta), e su di essa scende il messaggio della consolazione; messaggio valido per ogni tipo di tribolazione, anche le nostre attuali (pandemia, guerra, crisi economiche, climatiche, migrazioni ecc.).

Nel testo si riconoscono e si rincorrono più voci: «dice il vostro Dio»/ «una voce grida»/ «io rispondo»/ «alza la voce con forza, Gerusalemme». La prima voce viene dal cielo ed è quella di Dio, poi il messaggio della consolazione si diffonde di voce in voce, dilaga come un’onda, come una musica, e questa pluralità di voci dà l’impressione al lettore di venire immerso nella consolazione che lo raggiunge e lo avvolge. Inoltre, il fatto che le voci siano molte e si moltiplichino, sembra la condizione perché la consolazione arrivi ovunque e raggiunga il «cuore di Gerusalemme», là dove ci sono macerie, dove c’è tribolazione, desolazione, fatica, scoraggiamento.

Ascoltiamo allora insieme queste voci, per cogliere cosa dicono e anche come lo dicono.

Festa della Consolata in Korea, presentazione della nuova imamgine della Consolata in stile coreano, opera della pittrice Shim Sun-hwa Caterina

Dice il vostro Dio

La prima voce in assoluto è quella di Dio. «Consolate, consolate»: il verbo in ebraico significa consolare, esortare, far prendere respiro. Dunque: tornate a respirare, perché la tribolazione vissuta è come una fatica di vivere, che addirittura rende difficile respirare. L’esortazione è ripetuta due volte e questo si collega a ciò che è detto al v. 2: «Ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Il popolo di Dio per tutto ciò che ha vissuto ha ricevuto il doppio dalla mano di Dio, ma non il doppio in termini di castigo, bensì di consolazione (consolate, consolate). La consolazione arriva in misura doppia, abbondante; Dio «non bada a spese» quando si tratta di consolare.

«La tribolazione è compiuta»: cioè, le cose cambiano. È finita. La parola ebraica tradotta con «tribolazione» significa «servizio» ed è usata per indicare sia il servizio militare sia quello culturale che i leviti prestano nel tempio. Le tribolazioni della vita dunque, cioè la vita reale, con tutte le sue fatiche, a volte sono come una guerra, ma anche come una preghiera. La vita reale «è sacrificio a Dio gradito», vale come la liturgia, è in se stessa relazione con Dio.

«Parlate al cuore di Gerusalemme»: chi deve parlare al cuore di Gerusalemme? Nella LXX (versione dell’Antico Testamento in lingua greca, ndr): i sacerdoti; nel Targum: i profeti; ma di per sé il testo non esplicita di chi debba essere la voce. Perché la voce della consolazione può arrivare da chiunque, così che molte volte la consolazione arriva inaspettata, un po’ a sorpresa, non da chi ci aspetteremmo. La consolazione poi deve arrivare al cuore che nella Bibbia non è il luogo delle emozioni, ma il centro più intimo della persona, lì dove decidiamo di noi stessi, il motore delle nostre scelte. La consolazione per questo non è qualcosa di superficiale, ma un’esperienza profonda e potente, capace di rimettere in piedi una persona e di farla ripartire (cfr. i discepoli di Emmaus: il cuore lento a un certo punto inizia ad ardere, si accende, e loro si alzano e ripartono nella direzione giusta). Da notare che «il cuore di Gerusalemme», che riceve questo messaggio di consolazione, non è a Gerusalemme, ma a Babilonia. Il cuore di Gerusalemme è dove c’è il popolo di Dio, le persone, non le macerie, gli edifici, le strutture. Dobbiamo consolare le persone, solo così si riedifica Gerusalemme.

«Gridatele»: più volte si dice nel testo che la consolazione va portata ad alta voce. È un messaggio che deve arrivare forte e chiaro, richiede consapevolezza e determinazione, perché chi sta male spesso alza un muro difensivo, si chiude in se stesso, avvolto da una barriera che va riconosciuta. Chi sta male deve essere raggiunto.

Una voce grida

A questo punto nel testo interviene di nuovo una voce angelica: «Nel deserto preparate una via», perché il Signore sta tornando a casa, a Gerusalemme, come noi, si sposta con noi, però arriva prima (del ritorno del popolo si parlerà al capitolo 55), così che, quando arriveremo noi, troveremo che tutto è già preparato (come nel cenacolo il giorno dell’ultima cena: i discepoli vanno per preparare, ma la sala è già pronta). La strada del ritorno passa attraverso il deserto, luogo di morte, inospitale, che però può trasformarsi fino a far emergere una strada, una via. C’è sempre una strada, anche nel deserto, anche nella guerra, anche nella tomba (cfr. finale del vangelo di Marco).

«La gloria»: è la visibilità di Dio (più che una strada, dobbiamo preparare gli occhi). Sarà possibile renderci conto della sua presenza, del suo essere visibile e tangibile nelle nostre storie devastate. «Ogni uomo»: letteralmente ogni carne. È la vita umana nella sua espressione meno nobile, più materiale, prosaica. È la nostra vita reale a fare esperienza di consolazione, che si dà nella carne: si vede, si tocca, si respira.

E io rispondo: che cosa dovrò gridare?

La terza voce è quella del profeta, che raccoglie il messaggio della consolazione, ma interrompe la musica, prende una stecca, pone un’obiezione. Dice: ogni uomo è come l’erba, cioè, la vita umana è fragilissima. Che senso ha? Non si fa neanche in tempo a portarlo il messaggio della consolazione. «…ma la parola del nostro Dio dura sempre»: la voce precedente risponde all’obiezione del profeta e dice: è vero, la vita umana è fragilissima, ma la Parola dura, sorge, resiste (verbo qum in ebraico), si alza. La consolazione non poggia sulla consistenza umana, che non c’è, ma sulla roccia della Parola. Ci sarà perché lo dice Dio.

Gerusalemme

Il participio è femminile e dunque concorda con Gerusalemme: è Gerusalemme il soggetto, è lei che porta liete notizie. L’ultima voce presente nel testo di Isaia è quella della stessa Gerusalemme, che, consolata, diventa capace di consolare, di «alzare la voce» a sua volta e raggiungere «le città di Giuda». Il cuore di Gerusalemme evidentemente è stato raggiunto, consolato, e questo cuore diventa capace di parlare, di portare la buona notizia della consolazione.

La consolazione è una «buona notizia»: nel testo greco della LXX il participio è euanghelizòmenos: tu che porti il vangelo, la buona notizia. La consolazione, che si diffonde dallo stesso luogo che prima era stato desolato e deserto, è detta con il linguaggio a noi caro della evangelizzazione. Questo significa, per noi, che l’evangelizzazione e la consolazione si danno insieme, l’evangelizzazione deve essere consolante, altrimenti non è una buona notizia. Un annuncio che mette ansia non è vera evangelizzazione, non è parola che viene dal cuore di una Gerusalemme consolata. Il messaggio della consolazione di cui si fa portatrice Gerusalemme è questo: «Il Signore Dio viene con potenza […] come un pastore egli fa pascolare il gregge […] porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». La potenza del Signore sa fare camminare insieme un popolo in cui ciascuno ha esigenze diverse che vengono rispettate, conosciute e accolte, perché è vero che la vita umana è fragilissima, come obietta il profeta, ma siamo presi in braccio e condotti dolcemente dalla potenza di Dio.

Laura Verrani

Monsignor Virgilio Pante, ora vescovo emerito di Maralal, Kenya.

Alcune indicazioni per il futuro

Il coraggio di sognare

Il sogno è una cosa seria, fa alzare lo sguardo sul domani. I sogni ci svegliano, ci indicano un cammino diverso. E poi, i sogni sono da condividere. Murang’a 2 è un sogno che si è realizzato. Si è fatta una riflessione sulla missione e sulle opzioni concrete per rispondere alle sfide missionarie di oggi e del futuro.

Senza tenerezza, senza cuore, senza amore non ci sarà profezia né testimonianza credibile. Andiamoci piano a snobbare i «sognatori» le «sognatrici»: sono capaci di sorprendere chi li crede ingenui e illusi. Uno per tutti: «Mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa…”».

Il sogno è una cosa seria, non va scambiato con l’astrazione inconcludente di chi si chiama fuori dalla storia per costruirsi un mondo a parte. Il sogno vede una realtà nuova, e si sottrae alla rassegnazione per alzare lo sguardo sul domani. È solo sognando che si può contemplare ciò che ancora non esiste e che tutti, attorno, ti spingono a credere inutile, faticoso, irrealizzabile. È l’inaudito che diventa credibile.

Chi non sogna più smette anche di sperare, si accontenta del menù passato da una vita al ribasso. I sogni sono importanti. Tengono il nostro sguardo largo, ci aiutano ad abbracciare l’orizzonte, a coltivare la speranza in ogni azione quotidiana. I sogni ti svegliano, ti portano in là, sono le stelle più luminose, quelle che indicano un cammino diverso per l’umanità.

I sogni di futuro sono veramente tali solo se in grande, e condivisi: diversamente si trasformano in miraggi o delirio di onnipotenza. Per questo hanno bisogno di Dio e del noi, garanzie di autenticità. Osare ci dà la consapevolezza che ci si può ritrovare nello spazio libero dei sogni e delle speranze grandi.

Il convegno Murang’a 2 è un sogno realizzato: 500 partecipanti, 31 gruppi di lavoro, 6 lingue, da 33 paesi.

A Murang’a, dieci missionari molto giovani, alla prima esperienza in terra sconosciuta, pieni di problemi, hanno deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro. Murang’a 2 lo facciamo perché il mondo va come va e noi siamo qua. […]

Fare bene il bene, ovvero ricerca della qualità della vita

La «qualità della vita» viene indicata dall’Allamano come «principio ispiratore» della nostra vita e missione: e soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che, stimolati dal convegno, vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.

Discrezione e semplicità

Più che le parole è la vita del beato Fondatore che ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare il centro dell’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo del protagonista, che è semplice, accogliente, aperta alla dimensione comunitaria.

Esprime questo «stile allamaniano» il missionario e la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretendere niente, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità.

Basta ricordare quanto di Allamano disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».

L’amore alla gente

Dice don Dario Berruto, collaboratore del santuario della Consolata: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”».

Cappella Casa Regionale delle MdC ad Addis Abeba, Etiopia: professione perpetua di sr Secondina missonaria della Consolata tanzaniana (foto Domenico Brusa).

Missione da vivere insieme come fratelli e sorelle

I nostri istituti stanno facendo una grande riflessione sulla missione, e stanno anche realizzando delle opzioni concrete per rispondere alle sfide missionarie di oggi, interrogandosi sul nostro modo di essere missionari e missionarie per il futuro. Ognuno e ognuna dovrebbe sentirsi coinvolto e coinvolta in questo cammino. Per questa ferma decisione di ritornare alla missione e qualificarla maggiormente, non ci sono ricette, né modelli collaudati e approvati.

L’augurio è che questo tempo di «purificazione» sia di rinnovamento profondo e segno di entusiasmo ritrovato nella missione. Che possiamo camminare e passare da una missione assunta in comune a una missione condivisa. Accogliamo con spirito disponibile e aperto il messaggio di papa Francesco ai consacrati nella lettera apostolica che presentava l’anno dedicato alla vita consacrata: «Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare nelle piccole dispute della casa, non restate prigionieri dei problemi. Essi si risolvono se voi andate fuori ad aiutare gli altri e a risolvere i loro problemi e annunciare la buona novella. Voi troverete la vita donando la vita, la speranza donando speranza, l’amore amando» (cfr. papa Francesco, Lettera apostolica a tutti i consacrati per l’anno dedicato alla vita religiosa, 30 novembre 2014-02 febbraio 2016). […]

Passi verso il futuro

Per soddisfare le nuove esigenze della missione, noi missionari e missionarie abbiamo bisogno dei seguenti passi:

  • Inserirci nella Chiesa locale e vivere in comunione con i pastori, con gli altri religiosi, religiose, laici.
  • Ritornare al posto naturale dove noi dovremmo essere: tra i non cristiani, nella prima evangelizzazione, nel mondo dei poveri e delle nuove povertà. Da esse rileggere il nostro carisma.
  • Ripensare l’identità della vita consacrata in relazione al laicato, con i membri di altre religioni, con i non credenti, con l’uomo e la donna, con persone di diverse generazioni.
  • Imparare a perdere il protagonismo. Accettare di essere minoranza nella Chiesa e nella società pluralista.
  • Accettare le sfide della nuova cultura con discernimento, audacia, dialogo e provocazione evangelica.
  • Rileggere il carisma guidati da alcuni criteri: la riflessione comunitaria, la capacità di essere segni, di farsi capire, di provocare, di porre interrogativi, di collocare alternative radicali.
  • Prendere decisioni pratiche per la rivitalizzazione e la ristrutturazione delle nostre presenze nei diversi paesi, perché siano significative e interpellanti, povere, libere, liberatrici e fraterne, con un progetto e un’azione missionaria. […]

Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra limitazione e povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.

Stefano Camerlengo

Gruppo di missionari e suore della Conolata durante una celebrazione nel giorni del convegno nel santuario dell’Allamano in Torino (foto Gigi Anataloni)

Come conciliare le proprie radici con le esigenze attuali

La storia profonda e il «grido di oggi»

Esiste una storia profonda, che dà a missionarie e missionari della Consolata uno spirito unico, un’identità. Questa storia si incontra con il grido del nostro tempo. Stiamo vivendo un cambio epocale, che suppone un cambiamento di approccio.

Il nostro istituto possiede quella che viene chiamata una «storia profonda», una struttura narrativa, uno spirito unico, incarnato. Questa «storia profonda» è condivisa e tutti noi la riconosciamo come la nostra identità di gruppo, sapendo che nessuno di noi la può esprimere in modo definitivo. Questa storia, questa unicità, è un dono di Dio. È una condizione necessaria per il carisma, ma la storia non è il carisma.

La storia profonda che condividiamo e che fa parte di noi, si incontra con le grida del nostro tempo. Permettetemi di usare questa immagine presa in prestito da un autore e scrittore marianista, padre Bernard Lee, che illustra bene l’incontro efficace tra la storia profonda e il grido della nostra epoca. Da un lato abbiamo una bella campana tibetana che rappresenta la nostra storia profonda di Imc. Dall’altra parte, abbiamo un ding-dong di legno che rappresenta i bisogni pressanti, le grida del nostro tempo e del luogo in cui operiamo. Ora suoniamo il gong. Il suono è il nostro carisma, l’incontro concreto e storico del dono di Dio per noi con i bisogni del nostro tempo.

Il nostro Fondatore ha suonato il gong portando il dono di Dio a rispondere al bisogno di ad gentes e ai poveri per la trasformazione della società. Il suono del gong ha rimbombato per generazioni, in tutto il mondo. Risuona in noi. L’abbiamo portato avanti. Suona ancora oggi.

Pensiamo solo alle nostre attuali presenze nel mondo. La congregazione è fiorita in Italia, Kenya e poi nei quattro continenti dove siamo oggi presenti. Il nostro gong risuona ancora in 33 paesi del mondo. Tutto continua a fiorisce. Però, le situazioni in cui viviamo richiedono un nuovo suono del gong basato su una lettura profonda e comunitaria dei segni dei nostri tempi e delle grida della nostra epoca. In altre parole, la nostra identità si riconosce nelle parole, nelle espressioni, negli esempi, nei ricordi che accendono un fuoco nel cuore delle persone. Ogni volta che li sentiamo, qualcosa risuona in noi. I nostri cuori sono aperti e ci riconosciamo. Tuttavia, dobbiamo essere profondamente inseriti nella nostra cultura, nel nostro mondo, riconoscerne i bisogni urgenti, sperimentarne le passioni e le voglie essenziali (senza assecondare la cultura acriticamente).

Dobbiamo «suonare il gong», come i nostri fratelli a Murang’a per abbracciare la realtà odierna e trasformare gli ambienti. Dal tempo di Murang’a a oggi, sono cambiate tantissime cose ma non l’amore che viene trasmesso agli uomini e le donne di tutti i tempi. E sarà sempre così.

Contatti con tante realtà umane

Torino, Casa Madre. I due superiori generali (sr Simona Brambilla e padre Stefano Camerlengo) con il cardinal Giorgio Marengo (foto Gigi Anataloni)

Guardando la storia profonda del nostro istituto, «una famiglia di consacrati per la missione ad gentes» (Cost. 4), possiamo dire che il suo cammino lo ha portato a contatto con le più diverse realtà umane, sociali, politiche, economiche e culturali. Il dialogo permanente con la realtà e lo sviluppo della sua missione nella Chiesa e nel mondo lo hanno reso dinamico e ne hanno favorito la crescita verso la internazionalità e la interculturalità.

La situazione attuale nel mondo globalizzato è forse la più profonda crisi di senso della storia dell’umanità. Diciamo che la gente è sofferente e disorientata. Non sorgono leader alternativi e credibili che possano convincere le persone a scegliere una nuova direzione. Le strutture, l’organizzazione, i metodi di lavoro, lo stile di vita non rispondono adeguatamente alle necessità e alle sfide di una società che è cambiata e sta cambiando radicalmente. Questa società è produttrice di nuove forme di povertà e di esclusione. Si tratta, insomma, di un cambio epocale, che esige da noi un modo nuovo di comprendere la persona umana e le sue relazioni con il mondo e con Dio, e ci porta a un nuovo paradigma. Per rispondere a questa sfida importante e trovare quel nuovo paradigma è necessario dare intensità alla preghiera, alla vita comunitaria e alla missione. (Cfr. V Conferenza generale di Aparecida, Documento finale, 44, 2007).

Siamo invitati a rivedere con onestà i criteri sui quali fondiamo e organizziamo le nostre attività. Un nuovo volto di vita, che implica il riconoscimento di nuove proposte di senso, il ritorno alla Parola di Dio e al carisma della fondazione, la risposta ai segni dei tempi, la capacità di dialogo, la valorizzazione dell’incontro soprattutto con i poveri e con i laici. […]

Missione e vita condivisa con i laici

La conferenza di Murang’a ci richiama all’incontro reale con i laici nel campo della missione e della vita, dell’azione e della spiritualità. I nostri primi missionari erano laici, suore e sacerdoti. Ci rincontriamo con loro che sono la fonte comune di acqua viva con la quale innaffiamo il campo della missione e di vita e spiritualità. L’unione e la vicinanza ai laici possono fare molto bene allo sforzo di rivitalizzazione tanto per i laici che per noi religiosi consacrati.

Non è un processo facile e richiede molta chiarezza nell’aspetto teologico, spirituale, apostolico, e a volte anche giuridico. Richiede anche un nuovo atteggiamento da parte dei religiosi consacrati e dei laici, e non sempre si è preparati a fare bene questo passo. L’unione fa la forza e aumenta il dinamismo.

James Bhola Lengarin


Hanno firmato il dossier:

  • Monsignor Giovanni Crippa, missionario della Consolata, è vescovo di Ilhéus, Brasile.
  • Suor Simona Brambilla, superiora generale delle Missionarie della Consolata.
  • Laura Verrani, teologa, si occupa di catechesi biblica nella diocesi di Torino e in altre realtà ecclesiali.
  • Padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
  • Padre James Bhola LEngarin, È primo consigliere generale e vice superiore generale dei Missionari della Consolata, responsabile per l’Asia.
  • Marco Bello, Giornalista redazione MC, Ha curato e coordinato questo dossier.

Murang’a 2 su YouTube:

Le registrazioni video integrali dei quattro giorni di convengo, e altri contenuti, sono disponibili sul YouTube tramite la ricerca: «Consolata Murang’a 2».




Mongolia. Giovane Cardinale di una piccola chiesa


Dal 2003 è in Mongolia, paese che ama e che continua a stupirlo. Qui, con altri missionari e missionarie della Consolata, ha fondato una nuova parrocchia. Da agosto 2020 è prefetto apostolico di Ulaanbaatar. Poi l’annuncio di papa Francesco.

Nato il 7 giugno del 1974, cresciuto a Torino tra le parrocchie di sant’Alfonso, Regina delle Missioni e gli scout, Giorgio Marengo decide di entrare nei Missionari della Consolata dopo la maturità al liceo Cavour. Segue il percorso di formazione e viene ordinato a Torino, nel 2001, all’anniversario dei 100 anni dell’Istituto. Nel 2003 è nel primo gruppo di missionari in partenza per la Mongolia.

L’ordinazione episcopale arriva ad agosto 2020. Poi, a sorpresa, il suo nome compare nella lista dei nuovi cardinali, resa nota da papa Francesco lo scorso 29 maggio. Viene quindi nominato nel concistoro del 27 agosto. È il cardinale più giovane, ed è il primo tra i Missionari della Consolata e della chiesa in Mongolia.

Ci accoglie con un grande sorriso, e la disponibilità che lo contraddistingue, nonostante i tanti impegni di un periodo frenetico.

Come descriverebbe la Mongolia in poche parole?

«È un paese affascinante, molto bello, con tanti contrasti, a cominciare da quelli climatici. C’è il deserto freddo più grande del mondo, d’estate +40°, d’inverno

-40°. L’impatto dell’uomo è poco visibile. È il secondo paese meno popolato del mondo (su una superficie 5,2 volte l’Italia, vivono 3,3 milioni di persone).

È difficile da definire, ma possiamo parlare di due Mongolie, quella della capitale e poi tutto il resto. Entrambe rappresentano la Mongolia, ma in maniera diversa. Ulaanbaatar è una capitale evoluta, tecnologica, con molte costruzioni moderne, lo stile di vita è urbano. Negli ultimi dieci anni si è trasformata. La Mongolia dell’interno è quella tradizionale, dell’allevamento, delle grandi distese, delle tradizioni, dell’isolamento, del vuoto.

Un forte elemento identificativo è la storia. Ovvero Gengis Kahn e il ruolo dominante dei mongoli nel XIII secolo, quando hanno costituito l’impero più grande di sempre. Questo ha plasmato la coscienza comune. Sono un popolo molto fiero.

Oggi sono un paese sovrano e democratico in mezzo a due superpotenze, la Federazione Russa e la Cina popolare. La Mongolia è un paese che mantiene la sua identità, e vuole confermare la propria sovranità, su base democratica e di rispetto dei diritti e della libertà.

È stata per settant’anni una repubblica popolare, non formalmente membro dell’Urss, ma totalmente allineata alla politica sovietica. Questo ha implicato questioni molto gravi, compresa la repressione del buddhismo, la cancellazione della libertà religiosa, grosse sfide alla cultura, l’imposizione del cirillico al posto della scrittura mongola, l’ateismo di stato. Quei 70 anni hanno impattato, ma oggi, dopo 30 anni dalla fine del regime, la democrazia è affermata».

La Chiesa cattolica ha compiuto 30 anni nel paese. Come è stato l’inizio?

«All’indomani delle prime elezioni democratiche nel ‘92, quando si è costituito il primo governo multipartitico, questo ha voluto dimostrare al mondo l’impegno di tutelare la libertà di religione e di culto. Inoltre, il paese aveva molto bisogno di aiuto dall’estero perché, come è sempre successo nel post-comunismo, subito c’è stata una fase di grande crisi economica. Così il governo mongolo ha chiesto alla Santa sede di ristabilire relazioni diplomatiche. Di solito accade il contrario.

La Santa sede si è subito attivata e, per motivi storici, ha proposto alla congregazione del Cuore immacolato di Maria (Scheut) di andare in Mongolia. Intanto padre Jeroom Heyndrickx, noto
sinolgo, aveva già compiuto una prima esplorazione nell’ottobre 1991, così nel luglio 1992, sono stati mandati tre missionari, i padri Robert Goessens, Gilbert Sales (belgi) e Venceslao Padilla (originario delle Filippine). Questi hanno cominciato a inserirsi, creato contatti, e hanno fatto una grande attività di promozione umana, facendo arrivare tanti aiuti in un paese che allora era in ginocchio.

Con grande capacità relazionale, soprattutto di Padilla, si sono costituite le prime realtà ecclesiali, da un nucleo che si ritrovava nell’appartamento in affitto nel quale i missionari vivevano. Si sono create relazioni stabili con gente interessata a questioni di fede e dieci anni dopo, la Santa Sede ha eretto la Prefettura apostolica. Padilla è stato ordinato prefetto e poi vescovo nell’agosto 2003.

Noi Missionari della Consolata ci siamo inseriti nel luglio 2003, quando era ancora un’esperienza pionieristica.

Il cambiamento più grande è stato tra il 2003 e il 2010, quando c’è stato un grosso boom economico, legato ad aiuti e investimenti. La Mongolia ha accelerato la trasformazione interna, e questo si è riflettuto un po’ anche sulla realtà ecclesiale».

Veglia pasquale ad Arvaiheer con battesimi dei neofiti.

Ci racconta i primi passi della Consolata?

«I primi tre anni ci siamo dedicati a imparare la lingua, nella capitale Ulaanbaatar, iniziando a guardarci intorno per vedere dove installarci. La presenza missionaria si concentrava nella capitale, e noi volevamo metterci a disposizione di qualsiasi altra realtà che non fosse stata ancora raggiunta. Mons. Venceslao Padilla ci disse di fare noi il discernimento, e così facemmo, sempre in comunione con lui. Dopo una serie di viaggi esplorativi la Provvidenza ci ha portati in una zona del centro Sud, vicino al deserto del Gobi. Così ci siamo stabiliti nel 2006 ad Arveiheer, capoluogo della provincia. Eravamo due padri e tre suore. Abbiamo cominciato tutto da zero. È stata una bellissima esperienza di vita, di missione, di fede. Perché lì la chiesa non c’era mai stata.

Avevamo bisogno delle autorizzazioni delle autorità locali, e abbiamo vissuto in affitto condividendo la vita della gente di realtà diverse. Poi il governo ci ha dato il permesso e si è avviata la missione».

Come è organizzata oggi la Chiesa cattolica in Mongolia?

«Abbiamo dieci luoghi di culto riconosciuti dallo stato, di cui otto parrocchie e due cappelle (cinque in capitale e dintorni, due nel Nord e una ad Arveiheer). Sono il fulcro della vita cristiana. Abbiamo 22 sacerdoti di cui due sono mongoli, 35 suore, alcuni laici missionari, per 11 congregazioni e 24 nazionalità. I catechisti, sui quali si è investito e si continua a investire, sono i principali protagonisti dell’evangelizzazione, grazie al fatto che sono membri di questo popolo e che possono esprimere con lingua e categorie culturali locali i contenuti essenziali della fede e accompagnare le persone nel loro percorso, con un discorso di comunità e fraternità.

Il 71% delle nostre attività sono di tipo sociale: promozione umana e sviluppo, educazione, sanità, assistenza, promozione e diffusione della cultura mongola. La chiesa è impegnata in settori di utilità comune, non specificamente religiosi. Quest’anno, oltre al sinodo stiamo celebrando i primi 30 anni della chiesa in questo paese e ci siamo fermati a riflettere. Io sono dell’idea che, probabilmente, le priorità non sono più quelle di 20-30 anni fa. Forse dobbiamo gradualmente riorientare le nostre energie verso obiettivi più attuali.

Ho scritto la mia prima lettera pastorale e ho proposto tre parole fondamentali: profondità, fraternità e annuncio.

Profondità, perché il seme è stato gettato, la testimonianza della prima generazione di missionari è stata feconda, accolta. Se abbiamo una comunità cristiana è perché le persone che la compongono hanno veramente accolto il Signore nella loro vita. Adesso però c’è bisogno che questa vita embrionale di fede raggiunga le fibre più profonde della persona e delle comunità, che non sia qualcosa di superficiale che poi è soggetta all’abbandono, ma si approfondisca continuamente.

Fecondità, perché questa piccola comunità rischia, come accade ovunque, di frazionarsi nelle otto parrocchie, anche a causa delle tendenze centrifughe delle varie congregazioni.

Annuncio, per non dimenticarci che, se siamo lì è perché con discrezione e con umiltà vogliamo condividere la nostra fede, e quindi non aver paura di continuare ad annunciare Cristo».

Cosa vuole dire essere una chiesa di minoranza?

«Essere una minoranza è una grazia, perché ci riporta al messaggio delle parabole: un po’ di lievito, un pizzico di sale, una candela, un seme caduto nel terreno. Il Signore quando ha parlato del Regno di Dio ha sempre fatto riferimento a immagini del poco nel tanto, quindi io l’ho vissuta così e continuo a viverla come una grazia. Ci porta a questa dimensione dell’autenticità messa alla prova per il fatto che non è per nulla scontato essere cristiani, ed essere accettati come tali. Usiamo spesso il parallelo con gli Atti degli apostoli.

Essere minoranza può avere, da una parte, il rischio di portarci a dire: stiamo bene tra di noi, siamo piccoli, siamo poveri. Questo non è il nostro caso. Dall’altra, quello di porci l’obiettivo di diventare noi maggioranza, cioè raggiungere una situazione in cui sia socialmente accettabile e auspicabile diventare cristiani. Ritengo che l’esperienza dell’Occidente sia importante, fondamentale, ma non è l’unica, e nella storia ha rappresentato una piccola sezione in ordine di tempo e di spazio. È importante il fatto di non dare nulla per scontato nell’esercizio della fede, perché è un continuo provare a metterla in circolo nella vita concreta, in una società in cui i punti di riferimento sono altri. È una provocazione sana, che ci fa rimanere umili, attenti, che ci fa dire: questa strada non funziona, allora ne proviamo un’altra.

L’importante è curare l’autenticità del messaggio e della vita di fede, aiutando le persone a viverla con coraggio e serenità, perché diventare cristiano per un mongolo è una scelta impopolare, che lo espone anche alla derisione sociale.

Come aiutare queste persone ad appropriarsi della fede, ad approfondirla in modo che poi diventi sorgente di una nuova interpretazione della realtà, in armonia con l’identità culturale, ma anche capace ogni tanto di provocare, è una delle grandi sfide.

Anche se in Italia è generalmente accettato, il messaggio del Vangelo è comunque sempre controcorrente, non è mai assimilabile a una cultura o società».

Com’è la relazione con le altre religioni?

«Essere minoranza ha come aspetto bello che ti fa percepire la ricchezza delle tradizioni religiose diverse. Per noi sono il buddhismo di matrice tibetana, che nel paese oramai si chiama buddhismo mongolo, poi lo sciamanesimo, come anche l’islam praticato nell’Ovest, nella comunità kazaca, e anche delle altre tradizioni religiose recenti, il bahaismo o le altre denominazioni cristiane non cattoliche.

C’è un rapporto con tutti, ma il migliore lo abbiamo con il buddhismo, rappresentato dalle loro istituzioni e dai loro leader, con cui abbiamo un cammino trentennale continuo. Il 28 maggio scorso il Papa ha ricevuto in udienza due autorità del buddhismo mongolo, uno è l’abate del secondo monastero della Mongolia.

Esiste una rete di incontri interreligiosi che, fino a un anno fa, erano annuali e ora sono quasi mensili: a turno uno dei leader religiosi ospita gli altri, si mangia, si discute di temi comuni. L’orizzonte di questi incontri è da una parte conoscitivo (solo se ci si conosce bene ci si rispetta, ci si apprezza), e dall’altra pensare quali obiettivi raggiungere insieme».

Come si diventa cattolici in Mongolia?

«Quando siamo andati ad Arveiheer non c’era nessun cristiano. È stato interessante vedere come la grazia si fa strada. È una storia di relazioni, di amicizia con i missionari e le missionarie, attraverso la quale le persone vengono in contatto con un mondo che si apre loro e che magari all’inizio è legato a una loro necessità. Da notare che la campagna ha conosciuto lo sviluppo dieci anni dopo la capitale. Per cui quando siamo arrivati c’era molta povertà. Quando abbiamo avuto il permesso di svolgere le nostre attività, la curiosità e l’amicizia ha portato le persone per la prima volta a mettere la testa dentro la nostra gher, a vedere cosa vuol dire la preghiera dei cristiani. O a vedere questi poveri stranieri imbranati che cercavano di rendersi utili con una mentalità di non sfruttamento degli altri e, possibilmente, di aiuto. Questo faceva sorgere dei punti di domanda, e le persone, gradualmente, senza correre, chiedevano di approfondire.

C’è sempre una specie di pre catecumenato, che è un periodo fluido di contatti, di relazione, di amicizia, fino a quando la persona formula la sua richiesta, che noi vogliamo sia scritta: io voglio iniziare un percorso di fede. Si propone la catechesi e il catecumenato dura due anni. Stiamo lavorando per preparare il materiale catechetico di base. Poi c’è l’iniziazione, il battesimo.

Oggi i cristiani in Mongolia sono di prima ma anche di seconda generazione. A chi è battezzato ed è riuscito a conservare la fede anche nella vita famigliare, si propone di far fare il cammino della catechesi anche ai loro figli. Non abbiamo mai insistito, abbiamo sempre aspettato che la gente si proponesse».

Quale ruolo può avere la chiesa mongola tra le chiese asiatiche?

«In Asia ci sono tante esperienze interessanti e anche diversificate tra di loro. È un arricchimento reciproco. Il blocco del Sud Est asiatico è erede di un’epopea missionaria dell’800 in cui i missionari erano provenienti da nazioni coloniali, un tema che in Mongolia non c’è. Non c’è mai stata sovrapposizione di poteri politici ed ecclesiastici. Lì c’è una cristianità più radicata, antica. Noi siamo la chiesa più giovane d’Asia.

Nella Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (Fabc, fondata nel 1971), c’è un clima molto fraterno. I vescovi di tutta l’Asia si incontrano, condividono, dialogano, cercano vie comuni.

Da aprile sono entrato a fare parte della neonata conferenza episcopale dell’Asia centrale. Nell’autunno 2021 la Santa Sede l’ha istituita raggruppando le cinque repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan e la Mongolia.

A parte le Filippine e la Corea, dove ci sono le due chiese più affermate, per il resto, in tutta l’Asia siamo minoranza. In certi paesi ha buoni rapporti con lo stato, in altre parti è una chiesa sofferente».

Quali sono le sfide della Chiesa in Asia?

«Riuscire a essere un faro per i diritti là dove esistono regimi non morbidi, un agente di coesione e pace sociale, di promozione del dialogo: è una sfida grande in tutta l’Asia. Anche nei paesi di tradizione più affermata. Le comunità cattoliche in tutto il continente sono dei baluardi di umanità, fede, spiritualità, rappresentano una bella testimonianza.

L’ateismo puro in Asia non esiste, è esistito imposto dal comunismo, ma il tema non è Dio o non Dio, piuttosto quale Dio. Non c’è mai stato l’illuminismo quindi la cesura tra ragione e fede, tra uomo religioso e uomo scientifico non è mai esistita. In Asia si deve portare avanti un discorso di dialogo, per dire con quali valori comuni, noi seguaci di tradizioni religiose diverse, possiamo promuovere il bene di questi paesi. Poi c’è il discorso più teologico: io ho collaborato con il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso che organizza periodicamente un colloquio buddhista-cristiano».

Secondo lei, perché un cardinale in Mongolia?

«Bisogna chiederlo a papa Francesco. Conoscendolo, per lui queste esperienze di chiesa in situazioni di minoranza e marginalità sono preziose, e allora forse vuole che siano conosciute di più e rappresentate».

Quali sono i progetti futuri?

«Vorremmo riuscire a vivere la progettualità da un punto di vista più unitario, comunionale: non solo le singole congregazioni con i loro progetti, ma unire le forze per ottimizzare le cose già meravigliose che i singoli missionari stanno facendo.

Abbiamo rilevato un edificio in capitale, e vorremmo creare la Casa della misericordia, un luogo di accoglienza e consolazione, per rendere la chiesa un porto sempre accessibile a chiunque, con qualunque necessità».

Marco Bello

Cura dei bambini, il pasto

 




Argentina. Nella terra del sole


I Missionari della Consolata sono andati ad aprire una nuova presenza nella periferia di San Juan, zona centro occidentale dell’Argentina, dove tra insediamenti informali, povertà educativa, violenza ed emarginazione, portano il Vangelo.

La provincia di San Juan, insieme a quella di Mendoza e San Luis, forma la regione di Cuyo, nella zona centro occidentale dell’Argentina dove le Ande fanno da confine naturale con il Cile.

Lo scorso gennaio 2022, i Missionari della Consolata vi hanno iniziato una nuova missione stabilendosi a La Bebida, cittadina alla periferia Ovest della capitale provinciale. Una nuova apertura che porta l’Imc per la prima volta in questa provincia e che vuole essere in particolare sintonia con le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale del 2017, con il progetto continentale e la decima conferenza regionale Argentina.

Missione sognata

La decisione di fare questo passo è stata la conseguenza di un discernimento compiuto con molta preghiera, tramite il confronto con il materiale e le informazioni a nostra disposizione, e grazie al dialogo con diversi vescovi argentini.

Il progetto continentale della Consolata in America, ai numeri 138 e 139, dice: «Sentiamo che le periferie esistenziali sono una grande sfida per il nostro essere e diventare missionari […]. Assumere questa opzione ci porta a passare da una pastorale della conservazione a una pastorale decisamente missionaria nel metodo e nello stile».

Il desiderio di aprire nuove strade con un percorso diverso da quello fatto finora, evidenzia la dimensione delle periferie esistenziali e dello stile di vita.

I vescovi delle diocesi di Mendoza, Catamarca e La Rioja, ci avevano invitati a integrarci nelle loro diocesi. Il nostro superiore regionale, padre Mauricio Guevara le ha visitate, ma alla fine ha scelto la diocesi di San Juan. Camminando per le strade dei quartieri periferici della città e incontrando la precarietà della gente, infatti, è stato colpito dalla grande sfida che rappresentava.

In questo momento la nuova missione tanto sognata e desiderata è già realtà.

Semplicità di vita e mezzi

La comunità missionaria è formata da padre Sang Hun Im Marcos (del 1978), originario della Corea del Sud; padre James Macharia Kirira (del 1987), keniano, e il sottoscritto, padre Manolo García Candela (del 1956), dalla Spagna. Ci accompagna, inoltre, con il suo servizio fino alla sua ordinazione sacerdotale, il diacono Pablo Ezequiel Sosa Martín, del 1989, argentino, originario di Mendoza.

Senza averlo premeditato, in questo momento la comunità rappresenta i quattro continenti nei quali l’Istituto è presente. Consideriamo importante e valorizziamo anche questo aspetto multiculturale.

Le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale Imc, al numero 139, dice: «Lo stile delle nuove aperture deve realizzarsi nella semplicità della vita e dei mezzi, coinvolgendo per quanto possibile la Chiesa e le comunità locali». Noi siamo arrivati a San Juan quasi solo con quello che indossavamo (pochi bagagli personali e alcune scatole che riempivano appena un furgone).

Una volta arrivati, siamo partiti da zero per attrezzare la casa con un minimo di comfort. La gente del posto si è occupata del resto: l’accoglienza, il cibo e l’igiene durante i primi giorni.

La temperatura è molto alta a San Juan, i raggi del sole sono forti per molte ore al giorno, ma il calore che emana dal cuore delle persone li supera.

Questa è stata la nostra prima impressione.

Abbiamo trovato una popolazione diversa da quella di altre aree in cui abbiamo lavorato. Persone molto amichevoli, rispettose e accoglienti, anche nelle espressioni e nel modo di parlare. Tutto è totalmente inedito per noi, e sappiamo di avere molto da imparare.

Periferia esistenziale

Il centro abitato in cui ci troviamo si trova nel dipartimento di
Rivadavia. È una zona periferica della città di San Juan. La nostra missione copre un territorio di 49 km2 abitato da una popolazione di trentamila persone distribuite in un gran numero di quartieri.

Quella di San Juan è una zona sismica, e le scosse di terremoto si sentono di frequente.

Il punto di riferimento della missione è la parrocchia che ci è stata affidata, dedicata alla Madonna del Rosario di Andacollo, una devozione di origine cilena.

La parte occidentale del territorio arriva fino alle colline pedemontane e alla prima catena montuosa.

A Sud si stanno formando numerosi quartieri, diversi insediamenti costituiti da famiglie che si costruiscono dei piccoli ripari alzando muri d’argilla e che vivono in condizioni precarie. Alcuni di questi insediamenti sono senza acqua ed elettricità.

Le persone aspettano che il governo assegni loro una casetta con i servizi minimi, ma l’attesa può durare anni.

Tra i problemi che si vivono negli insediamenti spontanei, uno riguarda la distanza delle baracche dalle scuole. Lontani dai mezzi di trasporto pubblici e da tutto in generale, in questo tipo di ambiente nascono e crescono violenza, criminalità, rapine, spaccio di droga.

Da subito siamo stati informati del fatto che eravamo giunti in una zona difficile, conflittuale e insicura. Però non ci siamo spaventati, né ci spaventiamo.

Abbiamo chiaro che dobbiamo raggiungere le famiglie. Il nostro atteggiamento è quello dell’ascolto, perché le persone qua hanno molto da raccontare. E noi vogliamo essere con loro per accompagnarli e camminare e celebrare la fede insieme. Soffrire i dolori insieme e godere delle stesse gioie.

È sorprendente per noi scoprire che tra loro alcuni sono stati feriti, maltrattati o emarginati anche da ministri della chiesa.

Siamo giunti a questa missione come se fosse un ospedale da campo, pronti a curare le ferite, riconciliare, accompagnare, ascoltare, perché ciascuno trovi gioia e pace con se stesso, con gli altri e con Dio.

Papa Francesco ci incoraggia con le sue parole: «Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, che esce dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, per sostenere la speranza, per essere segno di unità… costruire ponti, rompere muri, seminare riconciliazione» (Fratelli tutti, 276).

Questa terra di San Juan ci ricorda la terra di Gesù, la Palestina, sia per il suo terreno arido, sia perché esistono le condizioni necessarie affinché l’uva delle viti dia un buon vino e gli ulivi abbondanti producano l’olio che dà lustro al viso (cfr. Salmo 103,15). Le viti e gli ulivi sono i simboli della gioia e della pace, quella pace di cui, secondo Isaia, il messaggero è portatore.

La nostra comunità si presenta come annunciatrice e portatrice di pace. «È bello vedere i piedi del messaggero di pace scendere dalla montagna».

Manolo García Candela




«P» come missione


A fine giugno a Roma, c’è stata la seconda conferenza nazionale sulla cooperazione italiana (vedi pagina 71) che ha articolato i suoi temi attorno a cinque «P»: persone, pace, prosperità, pianeta e partnership. Mi sono domandato quante e quali sono le «P» di cui si occupa la missione.

Sempre a giugno, la settimana prima, per quattro giorni la famiglia della Consolata (consacrate, consacrati e laici) si è radunata online in un convegno con oltre 600 partecipanti da 33 nazioni diverse, in sei lingue e quasi quaranta gruppi di lavoro. Lo scopo era quello di fare memoria e attualizzare la cosiddetta «conferenza di Murang’a», tenuta in Kenya nel 1904 dai primi dieci Missionari della Consolata presenti in quel paese, per pregare e riflettere insieme sul senso e il metodo della loro azione missionaria in quel contesto. Da quell’incontro di quasi 120 anni fa era emerso, tra le altre cose, che al centro della missione c’era la persona.

Ecco la prima «P» della nostra missione. La persona di Cristo che si fa Parola per comunicarsi e che è la ragione stessa della missione, e la persona dell’«uomo» incontrato nella sua concreta unicità, nella sua diversità di età, sesso, cultura, tradizione religiosa, stato sociale. Con una preferenza: la persona più piccola e più povera, quella che conta meno, che sta ai margini, che è trafficata, sfruttata, aggredita, ignorata, invisibile. Chi non può accedere alla scuola, non gode dei servizi sanitari, fa fatica a mangiare un pasto al giorno, non ha diritto di voto, non ha un riparo sicuro, e per questi motivi è visto come pericolo, nemico, minaccia.

Se la persona sta al cuore della missione, ne consegue che deve essere la missione ad andare alle persone, non viceversa. Come ha fatto Gesù che è venuto e continua a venire incontro all’umanità, e come hanno fatto i nostri primi confratelli (e facciamo oggi) che hanno dato uno stile itinerante all’annuncio: non le persone chiamate a raggiungere i missionari, ma i missionari che raggiungono le persone.

Da questo principio discendono poi tante altre «P»: pace, perseveranza, pazienza, perdono, partecipazione, piccolezza, povertà. Parole che si coniugano bene con altre più moderne come pianeta, partenariato, prosperità, ma ne escludono altre come potere, plagio, privilegi, paletti.

E scopri che la missione ha bisogno anche dei piedi. Piedi che indossano sandali: segno di un andare libero, per scelta e senza costrizioni, senza sandali di scorta, per condividere la precarietà, la provvisorietà e la povertà di chi si incontra.

Due altre «P» hanno un legame profondo con la «missione»: preghiera e pane. La preghiera è il suo motore. Con la preghiera rimani legato al Mandante, lo ascolti, ti verifichi, ti lasci trasformare, ti ricarichi quando sei in crisi. Con il pane nutri e sei nutrito, fai stare bene gli altri e te stesso. Lo spezzi e scopri che ce n’è in abbondanza per tutti. Se poi tieni sempre presente che il vero Pane è Lui, Gesù, che si spezza e ci invita a spezzarlo ogni giorno per vivere nell’oggi la sua passione, morte e resurrezione, allora davvero rimani ancorato al senso della missione.

Ce ne sarebbero molte altre di «P» che si sposano con la «missione». Ma per me centrale rimane la «P» di «persona», che non è mai una categoria o un gruppo anonimo, un numero o un’etichetta, ma un volto, un nome, una storia, un incontro, un bisogno, una lacrima o un sorriso. È un paio di occhi che ti penetra nel cuore. È Anthony, ad esempio, un bambino vissuto solo due ore per un difetto cardiaco. È Sharon, rapita dall’Aids a sette anni.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, persona è ciascuna di quelle innumerevoli incontrate, spesso con nomi per noi impronunciabili, nelle foreste dell’Amazzonia, nelle baraccopoli delle grandi città (anche europee), nelle immense steppe dell’Asia, nei villaggi abbarbicati sui monti della Cordigliera andina, nei campi profughi a confini dell’Ucraina o in quelli del Marocco, nelle riserve indiane degli Stati Uniti.

Mettere la persona al centro è una scelta di coraggio. Coraggio che richiede cuore e fantasia per non restare imprigionati nelle pastoie della nostra onnipresente burocrazia e del vizio, ormai consacrato, di regolamentare tutto, fino all’ultima virgola, seppellendo le persone sotto montagne di carte.




Giacomo Camisassa 100


La beatitudine di essere secondo

Con la Madonna e la missione nel cuore

Braccio destro del beato Giuseppe Allamano per 42 anni, Giacomo Camisassa è stato un uomo e un prete schivo che non amava far parlare di sé, ma che ha lasciato un segno unico e irripetibile nella Chiesa torinese e nella vita dei Missionari e Missionarie della Consolata. Nato il 26 settembre 1854, quest’anno ricorrono i cento anni dalla sua morte, avvenuta il 18 agosto 1922.

Giacomo Camisassa in Kenya con missionari e suore Vincenzine

ll 18 agosto 2022 ricorre il centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei nostri due Istituti missionari, fraterno amico e strettissimo collaboratore del fondatore Giuseppe Allamano, il quale ben difficilmente avrebbe messo mano all’opera della fondazione senza di lui.

Desideriamo riscoprire la figura di questo vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere «la beatitudine di essere secondo» coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con l’Allamano che egli considerava «padre».

Tra l’Allamano e il Camisassa ci fu un’intesa straordinaria, che portò a una stretta collaborazione che si rivelò un dono particolare di Dio, proprio in vista di quanto avrebbero realizzato assieme.

Il segreto della loro profonda amicizia ci pare che si possa trovare nella loro spiritualità. L’Allamano ricevette da Dio la vocazione di fondare i due Istituti missionari. Il Camisassa ricevette la vocazione di essere il collaboratore indispensabile nella realizzazione della missione dell’Allamano. Non è fuori posto pensare che, senza l’apporto continuo e attento del Camisassa, l’Allamano non avrebbe realizzato quanto invece portò a termine in tutte le sue iniziative. Il ruolo specifico del Camisassa non consistette solo nella stima e nel rispetto verso l’Allamano, ma anche nella capacità di capirlo, di interpretare le sue idee e di collaborare stando sempre al proprio posto. Non ci furono momenti nei quali il Camisassa volle sostituirsi all’Allamano, mai.

Tra il Camisassa e l’Allamano la fiducia era totale. Si comunicavano idee, sentimenti, intuizioni, impressioni, informazioni, situazioni e notizie, anche sul personale, sicuri della reciproca confidenzialità.

L’Allamano ebbe l’abilità di scegliersi un collaboratore che lo completasse. Aveva potuto conoscere le qualità del Camisassa durante il periodo del seminario, trovandolo adatto e affine, pur nella diversità.

Durante i 42 anni di convivenza al Santuario della Consolata, il Camisassa fu sempre il «Vicerettore» ed economo. Giuseppe Allamano, il Rettore, l’aveva richiesto come «coadiutore» e tale il Camisassa rimase per tutta la vita. Un binomio inossidabile ed esemplare di vita e di apostolato, che niente riuscì a spezzare, nemmeno le varie proposte di promozioni a incarichi più autorevoli, quali l’episcopato in diocesi piemontesi.

La profonda sintonia tra il Camisassa e l’Allamano maturò nella continua ricerca del dialogo, cibo quotidiano per sostenere i loro molteplici impegni apostolici e per crescere nella mutua comunione.

Il Camisassa non aveva segreti per l’Allamano.

L’Allamano e il Camisassa si erano impegnati a «dirsi sempre la verità», e lo fecero. Un mezzo che avevano appreso dagli anni del Seminario e che non tralasciarono mai era la cosiddetta «correzione fraterna».

Cento anni dopo la morte del Camisassa, siamo qui a commemorare la sua straordinaria figura di uomo di Dio, uomo di comunione, uomo di acuta intelligenza e profondissima umiltà, uomo di alacre operosità e intensa vita interiore, che ebbe una parte essenziale e insostituibile nella nascita e sviluppo dei nostri Istituti. In comunione,

suor Simona Brambilla
 e padre Stefano Camerlengo

(Testo adattato e ridotto dalla lettera dell’8 dicembre 2021, Anno del Camisassa nel centenario della sua morte, dei due superiori generali ai Missionari e Missionarie della Consolata e loro amici e benefattori)

12/11/1916. Visita del cardinal Giovanni Cagliero – nel mezzo tra l’Allamano e il  Camisassa – alla Casa Madre dei Missionari in Torino.


«Non dimenticate quest’uomo!»

Giacomo Camisassa, il gregario ideale

Ricordare una persona, nel senso etimologico, è «riportarla al cuore», ravvivandone una riconoscente memoria. Giacomo Camisassa, sacerdote di Torino, fu un uomo di Dio, lavoratore instancabile e umile, con grandi capacità di relazione. La sua amicizia con il beato Giuseppe Allamano segnò la vita di entrambi e dei due istituti missionari di cui fu confondatore.

«Non potremmo certo dimenticarlo e dimenticare il bene che fece per l’Istituto, per il quale tutto si sacrificò fino all’ultimo respiro della sua preziosa e santa vita» (Beato G. Allamano, lettera circolare ai Missionari, 20 giugno 1923).

Personalità armoniosa

Prima foto di Giacomo Camisassa. Risale al 1884.

Prima di raccontare la vita del Camisassa e il bene da lui realizzato, è utile riflettere sul fatto che la sua fu una personalità armonica e armoniosa, nella quale maturità, responsabilità, equilibrio e stabilità si seppero intrecciare mirabilmente. Le numerose doti, le molteplici attività intraprese, la grande capacità di relazioni, la vita cristiana vissuta in modo missionario e lo spirito di fede per essere in sintonia con il progetto di Dio su di lui, si fusero in una grande unità e caratterizzarono la solidità della sua personalità.

Per essere veramente ben compreso, ogni atto della sua vita va letto alla luce della totalità della sua esistenza. Che egli fosse un «lavoratore» indefesso e geniale tutti l’ammettono facilmente. Anzi, monsignor Gaudenzio Barlassina, allora vescovo della Prefettura apostolica del Kaffa in Etiopia, commemorandolo nel primo anniversario della morte, mise in guardia coloro che del Camisassa coglievano soltanto questa dimensione: «Quelli che lo guardano con un occhio solo, non vedono in lui che una meravigliosa operosità. Ma noi, che abbiamo avuto agio di rimirarlo con due, abbiamo potuto scorgere e contemplare la sua eccelsa virtuosità, non inferiore alla capacità tecnica, alla sua costante attività».

Uomo concreto

Il canonico Camisassa, di costituzione robusta e tendente all’obesità, fornito di rara intelligenza e di ferma volontà, era un uomo eminentemente pratico e sempre in moto. Fu un artista della tecnica e dell’esecuzione delle opere materiali.
Architetti, ingegneri, pittori, decoratori, marmisti, muratori, ditte industriali, impresari, appaltatori, notai, ragionieri, avvocati, professionisti in genere, trovavano in lui l’esperto.

Con facilità e sveltezza abbozzava prospetti, stendeva relazioni, redigeva progetti, scriveva articoli, faceva bilanci, saldava parcelle, rivedeva conti, calcolava l’ampiezza di un locale e le sue giuste proporzioni in comodità, estetica, igiene, solidità, economia. Esaminava il materiale da impiegarsi, la portata della tubatura dell’acqua e della conduttura del gas, il telaio di una finestra, la serratura di una porta, la qualità di una stoffa, la foggia di un vestito, l’arredamento di una camera, l’imballaggio di una cassa. Le sue erano giornate piene, costruttive, in cui non si perdeva tempo e si verificavano pochi sbagli.

«L’Allamano aveva in grande stima il canonico Camisassa e un alto concetto delle sue virtù e dei talenti di lui. Lo trattava paternamente con modi rispettosi e squisitamente educati; aveva riposta in lui la sua piena fiducia e colla massima tranquillità attendeva da lui ogni più valido aiuto; di lui si serviva come Iddio deve servirsi degli Angeli, come la Madonna a Nazareth, per le proprie faccende doveva servirsi di Gesù adolescente» (Tommaso Gays, 16 febbraio 1942, 16° anniversario della morte del veneratissimo Padre Fondatore).

Uomo di Dio

Era un uomo di fede perché tutto compiva sotto gli occhi di Dio e nulla altro temeva. Era questo il segreto della sua inalterabile calma, anche in mezzo alle contraddizioni e alle prove.

Il denaro per lui fu sempre e unicamente il mezzo per procurare la maggior gloria di Dio. Visse e morì povero. La prebenda canonicale (Prebenda: una specie di rendita che gli era dovuta per il suo ruolo di canonico della diocesi di Torino, ndr), quando l’ebbe dal 1892, la donò sempre per il bene dei missionari e per i restauri del santuario. Avrebbe potuto esser ricco, invece visse poveramente.

«Era assolutamente schivo dagli onori che evitava. Era alieno da qualunque parata e con studio spontaneo si eclissava ovunque vi fosse da fare bella figura» (padre Borda Bossana – Testi citati nella lettera dei superiori generali dell’8 dicembre 202).

Era cortese, affabile e, «a tavola era molto parco nel cibo; durante il pasto non beveva mai, solo in fine beveva un bicchiere di vino, diceva, per digerire». «In contrario al suo aspetto serio e chiuso, quando alcuno aveva occasione di parlargli, allora egli manifestava la grande bontà del suo cuore», perché «in lui batteva un cuore sempre pronto alle necessità altrui, anzi a niuno secondo per finezza di discernimento delle miserie della povera umanità» (da testimonianze di vari confratelli).

Gentile e cortese con i sani, lo era maggiormente con gli infermi. «Quando alcuno della casa era malato se ne interessava tosto, riferiva al Rettore e disponeva per tutto quanto occorreva con larghezza di cuore. Ammirai in lui delicatezza e cuore. Aveva proprio un cuore di padre; per rimettermi bene in salute mi aveva procurato un liquore da prendersi giornalmente a bicchierini, che mi fece tanto bene; infatti, poco dopo ripartivo per l’Africa» (fratel Anselmo Jantet).

Chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno fondamentale e unico della sua vita e del suo sacerdozio.

Coloro che volessero vedere nel canonico Camisassa puramente l’uomo dell’azione esteriore, sbaglierebbero. Fu uomo di azione senza dubbio, ma soprattutto un sacerdote.

Tenera e sentita fu la sua devozione a Maria: «Mi abbandono tra le braccia di Dio ed in quelle di Maria». Viene spontanea la conclusione che è di tutti quelli che l’hanno conosciuto: la sua attività fu manifestazione del suo zelo e della sua pietà, prova ed effetto della sua santità.

Il certificato di battesimo di Camisassa Giacomo Francesco. Secondo questo certificato il battesimo fu fatto il 27 settembre 1954 alle ore 7 di mattina e la nascita avvenne alle ore 11 di notte del 26.

La giovinezza

Giacomo Camisassa nacque a Caramagna (Cuneo) il 27 settembre 1854, quintogenito di Gabriele Camisassa e Agnese Perlo. Era il tempo in cui il Piemonte vide fiorire una meravigliosa schiera di santi e di anime apostoliche e contemplative: Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Maria Mazzarello, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Luigi Orione, Leonardo Murialdo, i fratelli Luigi e Giovanni Maria Boccardo, Pier Giorgio Frassati, Callisto Caravario, Guglielmo Massaia, Giuseppe Marello, Ignazio di Santhià, Maria Cristina di Savoia, e molti altri.

Fattosi più grande, frequentò le scuole elementari del comune con assiduità e impegno, dando sempre prova di spiccata inclinazione allo studio, di chiara intelligenza e di esemplare condotta. Imparò presto il catechismo, e, come chierichetto, a servire bene la messa e tutte le altre funzioni religiose. Gli piaceva cantare e fu, per tutta la vita, un grande innamorato della musica sacra.

Da ragazzo lavorò come apprendista nella bottega di un fabbro, e nel 1868 entrò nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, iniziato dopo tante peripezie e contrarietà da Don Bosco con l’aiuto di san Giuseppe Cafasso, zio materno dell’Allamano. Frequentò poi il seminario di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, studiò teologia nel seminario di Torino, dove incontrò Giuseppe Allamano che, nonostante fosse appena tre anni più vecchio di lui, divenne la sua guida spirituale per cinque anni, dal 1873 al 1879.

Fu ordinato sacerdote nel 1878 e, in seguito, completati i suoi studi, fu aggregato fra i dottori delle Facoltà di Teologia e di Diritto di Torino.

Promotore di sinodalità

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi le cose con verità. La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, nel rispetto vicendevole dei loro ruoli e nella condivisione di ideali, rimane un esempio mirabile.

Oggi ci si può meravigliare quando si scopre che l’Allamano e il Camisassa si diedero del «lei» per tutta la vita. Se da una parte questo era un uso più comune e normale allora rispetto a oggi, dall’altra non era assolutamente necessario comportarsi in tal modo tra amici.

Tutto nacque da un vero atto di fede nella volontà di Dio espressa dal comando di monsignor Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino dal 1871 al 1883, che aveva assegnato prima l’Allamano alla formazione in seminario e poi nel settembre 1980, con il Camisassa, al Santuario della Consolata e all’annesso Convitto ecclesiastico. Ne seguì un lungo cammino di vera comunione di intenti, di progetti, di azione che produsse una incredibile mole di opere al santuario prima e all’Istituto dopo.

«Insieme sulla scia della volontà di Dio», così termina la lettera che l’Allamano scrisse al Camisassa informandolo del suo nuovo incarico come rettore del santuario della Consolata e invitandolo a essere suo aiutante come economo e vicerettore: «Faremo d’accordo un po’ di bene, eserciteremo la carità […], procureremo di onorare il culto della nostra madre Consolata; in questo nuovo ufficio avrà campo di esercitare il santo ministero, sia nel predicare che nel confessare».

«Ci siamo promessi di dire sempre la verità», disse l’Allamano in un’altra circostanza, svelando uno dei segreti per camminare insieme sulla scia della volontà di Dio.

L’Allamano iniziò il suo servizio al santuario il 2 ottobre 1880, raggiunto il giorno dopo dal Camisassa.

Ma la realtà più bella, nata dallo spirito di collaborazione tra i due, fu l’eredità di testimonianza che essi ci hanno lasciato, mostrandoci come si deve lavorare nella Chiesa e nell’Istituto, qual è lo spirito che lo permea, come cioè si deve evangelizzare. La loro collaborazione e amicizia aveva una solida base in Dio. «Erano 42 anni che eravamo insieme; eravamo una cosa sola; ci siamo sempre amati in Dio», confessò il fondatore alla morte dell’amico (Sr. Chiara Strapazzon, Deposizione, vol. 11, p. 854).

Sebbene essi avessero personalità e doti molto differenti, seppero tuttavia allacciare una relazione profonda e costante, nel rispetto della diversità, nel desiderio della complementarità. Crebbero come persone, come sacerdoti, come uomini di Dio. La pratica del dialogo fu fondamentale per rinsaldare e rendere efficace l’amicizia che legò il Camisassa al Fondatore.

Il canonico Camisassa (al centro) con un gruppo di sacerdoti del Convitto ecclesiastico.

Dirsi tutto

Una bella pagina del volume dei fratelli Giuseppe e Gian Paola Mina, dal titolo «La beatitudine di essere secondo» (Giuseppe e Gian Paola Mina, La beatitudine di essere secondo, Emi, Bologna 1982; riedizione riveduta e ridotta con ampio apparato fotografico, Editrice Velar, Golle [Bg] 2021), che è la biografia del Camisassa, presenta efficacemente la realtà di comunione tra l’Allamano e il suo più stretto collaboratore: «Dopo pranzo, nell’ufficio dell’Allamano, i due amici prendono una tazzina di caffè insieme e parlano. Più che un parlare, è un comunicarsi gli eventi grandi e piccoli, per un bisogno di confronto, sempre tesi come sono l’uno e l’altro alla ricerca della verità per scoprire i segni dei tempi […]. Dopo la cena, si ritrovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme […]; non ritengono sprecato quel tempo speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Pregano, vivono nella stessa direzione. L’uno è sicuro dell’agire dell’altro e ciascuno conserva mirabile autonomia».

Ogni idea, ogni proposta, ogni progetto veniva esaminato, vagliato, controllato da ambedue insieme: nulla fu mai fatto o da uno solo di essi o indipendentemente uno dall’altro.

Frutto di questo dialogo fu la nascita e la crescita dei due Istituti missionari. A noi è rimasto uno spirito, una eredità. «Unità di intenti» era, infatti, l’ideale proposto dal fondatore ai suoi missionari.

Il santuario della Consolata da Via Consolata

Nell’abbellimento del Santuario

Il 3 ottobre 1880 arrivò al santuario don Giacomo Camisassa, chiamato dall’Allamano per coadiuvarlo. Qui fu vicerettore ed economo del santuario e del Convitto ecclesiastico a esso connesso (Fondato nel 1817 per i sacerdoti appena ordinati, che per due anni approfondivano la teologia – soprattutto quella morale – e la pratica pastorale. San Cafasso vi aveva insegnato fino al 1860. Nel 1876 il vescovo Gastaldi lo chiuse per contrasti sull’insegnamento della morale. L’Allamano lo fece riaprire nel 1880 nei locali annessi al santuario – ndr).

Nei 42 anni successivi (1880-1922) alla Consolata, l’Allamano e il Camisassa diedero inizio a tutta la serie di attività che avrebbero riempito la loro vita e li avrebbe resi grandi agli occhi di Dio e della Chiesa: riapertura del Convitto ecclesiastico, restauri del santuario, sviluppo della devozione alla Consolata, beatificazione di san Giuseppe Cafasso presentato quale modello del clero, fondazione di due Istituti missionari.

Insieme decisero di intraprendere i restauri necessari al santuario in vista anche della celebrazione dell’ottocentesimo anniversario del 1904, ma toccò al Camisassa seguire puntualmente i molteplici lavori. Il santuario allargato e ristrutturato fu benedetto il 20 giugno 1904, con la partecipazione di un legato pontificio, cardinali, arcivescovi e vescovi.

Insieme all’Allamano, fondò e diresse la rivista «La Consolata» (1899), per far conoscere la vita del santuario, i lavori di restauro e, in seguito, la vita e lo sviluppo dell’Istituto e delle missioni.

Nel 1892 il Camisassa fu anche nominato canonico della cattedrale di Torino.

Rivoli (To), 8 maggio 1902- Allamano e Camisassa con i primi quattro partenti. Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda. Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale IMC a Roma, n. 245

Nella fondazione dell’Istituto

Nel 1897 il cardinal Agostino Richelmy, compagno di seminario di Giuseppe Allamano, fu nominato arcivescovo di Torino. Lo speciale rapporto di fiducia e confidenza con il nuovo vescovo, consolidò l’idea della fondazione dell’Istituto missionario che l’Allamano coltivava da tempo, e il 29 gennaio 1901 nacque l’«Istituto della Consolata per le Missioni Estere» del quale Giuseppe Allamano non volle mai essere chiamato «fondatore», convinto profondamente che fondatrice fosse solo la Consolata.

Il Camisassa, dunque, chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno centrale della sua vita e del suo sacerdozio. Sentì che il programma dell’Allamano era pure il suo, non solo per un dovere di contratto, ma per un obbligo di elezione divina.

Ambedue si dedicarono alla preparazione dei futuri missionari. Nel 1902, l’8 maggio, partirono per il Kenya in Africa i primi quattro, due sacerdoti e due laici, seguiti poi da altri quattro il 15 dicembre. Altri sei, affiancati da otto suore Vincenzine del Cottolengo, arrivarono a destinazione in Kenya il 17 giugno 1903.

Il terreno in Via Circonvallazione(514-516) di 12.000 mq venne acquistato dall’Allamano nel 1905. I lavori iniziarono il marzo 1905 o poco dopo. La nuova Casa Madre venne inaugurata il 23 ottobre 1909. E’ da considerarsi come il memoriale del patto vicendevole intercorso tra l’Allamano ed il Camisassa. – Disegno e direzione sono dell’Ing. E.Ruffoni. Ditta: Fratelli Faia – La facciata é di 90 m – I due fabbricati minori erano adibiti a parlatori, museo, ì segheria … – Nella parte di mezzo avrebbe dovuto sorgere, col tempo, la ì nuova chiesa. Così secondo un “vivo desiderio del Fondatore”. (La Consolata – ottobre 1909, pp.160-161).

Nella costruzione della Casa Madre

Quando la prima casa dell’Istituto in corso Duca di Genova (l’attuale corso Stati Uniti) a Torino, denominata «la Consolatina», non fu più sufficiente a ospitare gli aspiranti missionari che vi studiavano, vivevano e lavoravano, l’Allamano acquistò un terreno di 12mila m2 in via Circonvallazione 514-516 angolo corso Oporto (ora corso Francesco Ferrucci, dal 12 al 18). Nel marzo 1905, sotto la guida del Camisassa, si iniziarono i lavori di quella che sarebbe diventata la Casa Madre.

In Kenya, durante uno dei molti viaggi da una missione all’altra.

Nel provvedere per le missioni

Tutta l’organizzazione materiale delle prime missioni (preparazione del corredo per i missionari, spedizione di casse, progetti per la costruzione di case, fornitura di attrezzi di lavoro, ecc.) dipendeva da Giacomo Camisassa.

Come già per il Santuario aveva studiato progetti, trattato con impresari, tenuto sedute con architetti, assistito a lavori, scelto i materiali, cercato persone idonee, concluso contratti, sempre attento alla perfezione della riuscita; così fu per il compito che assolse per le missioni.

Il canonico Allamano non era fatto per questo genere di preoccupazioni e di occupazioni. Il primo a riconoscerlo e manifestarlo fu egli stesso, come scrisse padre Sales: «Era solito dichiarare che non si sarebbe deciso al grave passo – di fondare l’Istituto – se non si fosse trovato al fianco un uomo della tempra e dell’abilità del Camisassa».

Il Camisassa, di fatto, era il dinamismo in persona, con una competenza spiccata per le «cose pratiche».

Testimonia padre Antonio Borda Bossana, membro del secondo gruppo partito per il Kenya: «Il salone del Convitto sopra la sacrestia divenne un bazar di ogni cosa necessaria alla vita dei missionari. È lui (il Camisassa, ndr) che pensava a tutto e tutto provvedeva, lui che si recava nei negozi a scegliere e contrattare le merci. L’economo e i preti addetti al Santuario alle sue dipendenze erano tutto il giorno di corsa per eseguire le sue commissioni, massime quando s’approssimava il tempo di spedizione delle merci».

Incontro con un capo che gli presenta il figlio per farlo ammettere nella scuola detta «Collegio dei principini» per la formazione dei giovani leaders del futuro.

Nella visita alle missioni del Kenya

Dieci anni dopo la partenza dei primi missionari, e poco dopo la fondazione delle Missionarie della Consolata nel gennaio 1910, i missionari in Kenya reclamavano una visita del fondatore perché conoscesse bene la situazione, valutasse risultati, chiarisse problemi per poi affrontare insieme il cammino da fare. L’Allamano non era in condizione di lasciare il Santuario e la sua salute non gli permetteva un viaggio così impegnativo. Mandò così il suo più fedele collaboratore che partì da Torino l’8 febbraio 1911. Giunto in Kenya a marzo 1911 vi restò fino ad aprile 1912, rientrando a Torino il 26 di quel mese. Scopo del viaggio: aumentare l’entusiasmo dei missionari, rinsaldare la loro buona volontà, approfondire la loro spiritualità e confortarli con la sua presenza, sostenendoli nelle difficoltà e negli insuccessi. A sessant’anni circa, era arzillo come un giovane, con il largo cappello di sughero, in abiti rurali, pronto al lavoro e sempre fresco, come nulla gli mancasse.

Nonostante la lentezza della posta a quei tempi, tenne costantemente informato l’Allamano sulle sue attività, creando una fitta corrispondenza e chiedendo i suoi consigli su situazioni difficili.

Parlando del programma della visita all’Africa del Camisassa, l’Allamano avrebbe ricordato che: «Vi andò per parlare ai missionari, sia in privato nelle singole stazioni, sia in pubblico durante i Santi spirituali esercizi, ed intendersi con essi sulle Costituzioni, Regolamento, esercizi di pietà, vita comune, ecc., secondo un formulario che avevamo preparato di comune accordo».

Il Camisassa diede grande impulso e aiuto ai lavori materiali. In diverse sue lettere autografe ai missionari si notano, tracciati a penna, rapidi schizzi di macchinari o di attrezzi di lavoro. Prima di spedire il materiale in Africa, a volte progettato sulla base delle indicazioni dei missionari stessi, il Camisassa si preoccupava di istruire per lettera gli interessati che lo avrebbero adoperato. Sono particolarmente dense di questi disegni le lettere che scrisse nel 1911, durante la sua visita alle missioni del Kenya, perché poteva constatare di persona le necessità e controllare i lavori.

Camisassa a Gaighanjiru con (da sx) suore vincenzine, padre G Perlo, fratel Umberto Arossa, suora cottolenghina, padre Angelo Bollani, canonico Camisassa, padre T Gays, padre G Cavallero, fratel Bezzole Luigi, padre Vignoli e suor Scolastica del Cottolengo

Nella segheria installata nella foresta di Tuthu, sotto la guida del coadiutore Benedetto Falda, si costruirono diverse case prefabbricate, che furono le prime abitazioni in legno per il personale delle missioni.

Provvide a realizzare gli altarini portatili perché i missionari potessero sempre celebrare la messa, anche durante i viaggi. Nell’archivio dell’Istituto è conservata copia del disegno, opera sua, di un altare portatile composto da 22 pezzi smontabili e facili da assemblare per la celebrazione.

La più bella conclusione a questo punto siano le due lettere scritte dal Camisassa e dall’Allamano al termine della visita in Africa.

Scrisse il Camisassa: «Le accoglienze cordialissime da parte vostra eran cose che poteva già aspettarmi ben conoscendo quanto affetto avete sempre nutrito verso la mia povera persona, quale debole cooperatore di quell’anima santa che tutti siam fortunati di chiamare col dolce nome di Padre».

Scrisse l’Allamano: «Il felice ritorno del sospirato Vice Superiore fu un momento di gioia per me e per tutti nell’Istituto. […] Vi rinnovo i ringraziamenti per le festose accoglienze che gli avete fatte e per la docilità con cui avete accettato quanto egli credette di dirvi pel vostro maggior bene».

Confondatore

Non c’è dubbio che gli Istituti fondati dall’Allamano ritengono, con ragione, il Camisassa loro «confondatore», come era già denominato quando l’Allamano era vivo, il quale per primo, volle dargli il più ampio riconoscimento chiamandolo confondatore egli stesso, vale a dire: «Fondatore con lui, fondatore unitamente a lui».

In due documenti ufficiali datati 2 ottobre 1909, si parla di «due fondatori» e sono firmati da entrambi i canonici Allamano e Camisassa.

Il primo è la supplica al Papa per ottenere l’approvazione dell’Istituto, di modo che divenisse di diritto pontificio. Essa incomincia: «Beatissimo Padre, i sottoscritti fondatori dell’Istituto della Consolata […]» (cfr. Lett., V, 278).

Il secondo è la petizione alla Congregazione dei religiosi, per lo stesso motivo.

«Aveva l’arte di nascondersi»

L’umiltà fu la sua virtù prediletta. Nascondeva costantemente se stesso per mettere gli altri in luce. Mai parlava di sé e di quanto faceva. Pochi lo conoscevano di nome, pochissimi di vista (Da Giuseppe Ronco, Il confondatore aveva l’arte di nascondersi, in https://giuseppeallamano.consolata.org). «Ho sempre ammirato in lui una umiltà profonda, si faceva uno studio di nascondersi sempre dietro l’ombra del Rettore. La sua preoccupazione era di scomparire, di essere ignorato» (mons. Rostagno).

Sperimentava la beatitudine di essere secondo.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare da queste sue affermazioni proferite durante la malattia e dopo la morte dell’amico: «Per lui ho offerto la vita, ma vale niente»; «Senza di me potete fare, ma senza di lui, no»; «Tocca a me fare i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Ciò che colpisce non è solo la collaborazione, ma anche lo stile con cui questa collaborazione venne attuata per così tanti anni. Uno stile indicato dalle parole dell’Allamano già citate: «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». Si comprende allora perché diceva: «Non dimenticate quest’uomo!» (Padre Aquileo Fiorentini, Missionari di Gesù Cristo per la gioia del mondo, come Paolo e i suoi collaboratori, Bollettino ufficiale 125, gennaio 2009).

Con il gruppo dei futuri catechisti.

Tessitore di fraternità

Conosciamo bene l’attaccamento sincero e il servizio incondizionato che il Camisassa dedicò ai due Istituti missionari, con particolare attenzione a quello delle suore.

La nuova casa dei missionari fu inaugurata il 23 ottobre 1909, mentre il 29 gennaio 1910, si diede inizio alle suore «Missionarie della Consolata».
Si preoccupò che anche le suore avessero una casa e si prese cura della sua costruzione. Il 4 settembre 1922 la comunità delle Missionarie della Consolata poté entrare nella propria Casa Madre.

Nella Lettera Circolare del 26 agosto 1922, il fondatore, comunicando ai missionari la dolorosa notizia della morte del Camisassa, così si esprimeva: «Egli viveva per voi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Le sue ultime parole, che disse nel suo testamento, furono di unione fra i missionari e le missionarie». La sua vita fu la testimonianza più bella di quell’unione. Il suo amore era per tutti senza distinzione.

Fu un umile maestro di vita che si prodigò per il bene dei due Istituti, affinché vivessero in comunione. Il suo servizio fu caratterizzato dalla sincerità, dalla fiducia e dalla correzione fraterna, dal vivere l’unità di intenti nella collaborazione e corresponsabilità, quello che oggi chiameremmo lo spirito della sinodalità.

Il beato Allamano e il canonico Camisassa con i sacerdoti convittori.

La morte

Il 18 agosto, verso sera, come svegliandosi da un sogno, il canonico Giacomo Camisassa si guardò intorno e fece cenno a suor Virginia Barra, che lo assisteva, di dargli il suo Crocifisso, lo stesso fece con padre Carlo Francesco Sciolla che la aiutava. Legò insieme i lacci dei due Crocifissi e li tenne sul cuore mentre guardava intensamente il padre e la suora. Cercò di parlare e dire qualcosa, ma non riuscendo lo aiutarono: «Significa che i padri e le sorelle devono restare uniti nell’amore reciproco?». «Sì; sì; questo è tutto…», rispose. Poi, continuando a tenere lo sguardo sui presenti, disse: «È il padre (Allamano, ndr) che vi ha legati». «E lei desidera che noi rimaniamo sempre così uniti; è giusto?». «Sì, è il mio desiderio, ma è il padre che lo vuole». Continuò a baciare i Crocifissi, stringendoli al cuore.

In quel momento, l’Allamano entrò nella stanza. Non capì cosa stesse accadendo e, così, chiese loro di sciogliere i Crocifissi. Il malato dimostrò di soffrire per questo.

Appena venne a conoscenza di ciò che era capitato, l’Allamano disse: «Se solo avessi saputo, non avrei mai chiesto di slegare i due Crocifissi. Li avrei tenuti com’erano a testimonianza delle sue intenzioni».

Scrisse ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne».

Più tardi scrisse ancora: «Quell’azione fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a essa: è sacra».

Erano circa le 20, una sera calda e umida. Tutti erano a cena, tranne suor Emerenziana e suor Ambrosina che assistevano il malato che era preso dalla smania di alzarsi per «andare all’Istituto». Nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi barcollanti e cadde: era morto.

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922,

«Era maturo per il cielo»

«Carissimi e carissime in N. S. G. C. (Nostro Signor Gesù Cristo, ndr)

Mi trema la mano, il cuore si gonfia e gli occhi versano lacrime nell’indirizzarvi questa breve lettera. Il nostro caro Vicerettore e Vice Superiore non è più tra noi e non lo rivedremo che in Paradiso. Spirò placidamente la sera del 18 corr. mese, con tutti i conforti religiosi e le cure più affettuose. Quale perdita per il santuario e più per l’Istituto e le Missioni! Vedevamo necessaria la sua esistenza e pregammo la nostra SS. Consolata a prolungargli per qualche tempo la vita. Molti, io pure, hanno offerto la propria vita perché fosse conservata quella del nostro caro.

La SS. Consolata non credette di esaudire le comuni preghiere. Era maturo per il cielo. Aveva compiuto la sua santa e laboriosa giornata e poteva dire con san Paolo: Cursum consummavi, in reliquo reposita est mihi corona justitiae (ho terminato la corsa, … mi resta solo la corona di giustizia, ndr). Pronunciate con me il fiat all’imperscrutabile volontà di Dio, e sia in suffragio della bell’anima.

In tanto dolore ci consolarono le prove di stima e di affetto che tutta Torino diede a Lui umile e da molti sconosciuto. La sepoltura fu un trionfo. Egli viveva per noi e per le nostre Missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Pregate per Lui ed anche per me desolatissimo che nel nome della SS. Consolata vi benedico».

Così scrisse l’Allamano ai missionari e missionarie per dare l’annuncio della morte di Giacomo Camisassa, per la quale soffrì molto (Lettera n. 1580, da Candido Bona (a cura di), Quasi una vita, lettere scritte e ricevute dal beato Giuseppe Allamano, Vol IX/1 p. 448). Allora confessò umilmente che, in quel momento, aveva come «perduto tutte due le braccia». «Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

La morte del Camisassa fu un colpo molto sentito, così per dodici mesi consecutivi, nel giorno 18 di ogni mese si celebrò in Casa Madre una messa solenne. Nella nona ricorrenza, il 18 maggio 1923, la santa messa fu cantata da monsignor Gaudenzio Barlassina, tornato dal Kaffa, in Etiopia. Il venticinque luglio, festa di san Giacomo, tutte le comunità di Casa Madre andarono al cimitero a celebrare una santa messa e a visitarne la tomba.

«Proruppe in un pianto dirotto»

Il canonico Nicola Baravalle così espresse la propria ammirazione per l’Allamano, con il quale aveva collaborato molti anni: «Ricordo quella sera nella quale eravamo tutti addoloratissimi, sia per la perdita del grande canonico Camisassa, come per la ripercussione che tale dipartita avrebbe avuto sul Servo di Dio. Assistette all’agonia ed alla morte senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato, proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio. Rialzatosi, prese le disposizioni del caso; restò per qualche tempo impressionato, ma non ebbe più una lacrima, e non ritornò più sul fatto. Solo si rese più appartato, dovendo supplire a quanto faceva il Camisassa».

Anche le Missionarie della Consolata colsero le reazioni dell’Allamano dopo la morte del suo amico. Nel breve incontro alla Consolata del 3 settembre 1922, l’amanuense annotò, tra parentesi «(Andiamo noi alla Consolata perché pioveva)», e poi al termine delle poche righe: «(Ritornando a parlare del Sig. Vicerettore) Sì, non mi sembra vero che non ci sia più, ma penso che c’è il suo spirito. Pensate a far tutto come voleva lui, e pregate per lui».

I suoi figli e figlie, anche quelli lontani, compresero perfettamente e condivisero lo stato d’animo del loro padre. A nome di tutti loro, così scriveva dal Kenya il vicario apostolico monsignor Filippo Perlo all’Allamano: «[…] il suo buon esempio non può non apportare anche a noi conforto e incoraggiamento. Grazie anche per questo».

L’urna con i resti del Camisassa sullo sfondo, a sinistra, della tomba di Giuseppe Allamano nella chiesa santuario dedicato al beato Allamano in Torino.

Uno accanto all’altro

Dal 2001, le spoglie mortali del Camisassa riposano accanto a quelle dell’Allamano. L’urna di zinco è contenuta in un elegante cofano di legno. Dietro il cofano, in lettere d’oro, si possono leggere queste parole: «Un amico fedele è un balsamo (Si 6,15). Tale è stato Giacomo Camisassa per l’Allamano. Di lui ha detto l’Allamano: “Ci siamo sempre amati in Dio”. “Abbiamo promesso di dirci sempre la verità e lo abbiamo sempre fatto”. “Viveva per noi e per le nostre missioni”. “Ha sempre e solo lavorato per amor di Dio”. “Non dimenticate quest’uomo”». L’Allamano e il Camisassa, che ora riposano l’uno accanto all’altro, sono meta di filiali visite da parte dei Missionari e delle Missionarie della Consolata e di molta gente.

Giuseppe Ronco

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922, davanti al santuario della Consolata


Apostoli con la parola e il lavoro

Lettera a fratel Benedetto Falda nella segheria della missione di Tuthu

Torino, 8 marzo 1904

Carissimo fratel Benedetto,
ho ricevuto ieri la tua lettera del 3 febbraio scorso. Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere sapere che l’andamento alla segheria procede benissimo e tu sei sempre felice del tuo lavoro. Persuaditi che quello è un vero apostolato, tanto quanto il sacerdote che predica. L’impressione che il lavoro fa sugli Akikuyu, il movimento febbrile delle macchine, onora presso di loro il lavoro e sveglia la brama di imitarvi, d’imparare affin di migliorare le loro condizioni di vita. […]

Sai, Benedetto, perché ti dico queste cose? Perché tu e quanti sono con te vi persuadiate che, come coadiutori, siete veri missionari, anche facendo il falegname, il muratore, il contadino o altro. Per fare bene la vostra parte dovete lavorare con spirito di fede, volentieri, allegri, concordi e sempre intenti al pensiero che Dio vi vede, intenti a dare il buon esempio.

Con spirito di fede: col pensiero che Dio vede, fare le cose come se aveste accanto Gesù e dovesse esaminarvi se fate bene e se vi approvi.

Volentieri: cioè, come foste mai stanchi; mai perdere tempo!

Allegri: sempre col sorriso sulle labbra, mai di cattivo umore. Qualche volta può darsi che non lo siate, ma non fatelo trasparire. E poi, mai tratti duri con gli Africani!

Concordi: trattarvi a vicenda con carità, aiutandovi scambievolmente; insomma essere un cuore solo, un’anima sola, come veri fratelli nel Signore Gesù.

Buon esempio: gli indigeni hanno occhi semplici, ma tutto vedono, tutto osservano, fanno ciò che voi fate. […] Guai se scandalizzaste uno di loro! Applicate le parole di Gesù al vostro ambiente. […] Finisco!

Voglio solo aggiungere che il Signor Rettore, leggendo la tua lettera, è rimasto molto contento, gioisce quando gli dici che i tuoi ti vogliono bene. Ciò significa che si vanno affezionando a te, a tutti. Sì, cerca di affezionarteli, per poter dire, anche sul lavoro, brevi parole di esortazioni, su Dio che premia i buoni… Sono parole e, dice il Signor Rettore, che, se dette con fede, ti fanno apostolo. Così dice il Rettore: «essere apostolo con la parola e con il lavoro».

Can. G. Camisassa

La turbina installata a Tuthu da fratel Benedetto con materiali e istruzioni fornite dal Camisassa.

Un uomo dalla fede adamantina

Testimonianza di fratel Benedetto Falda sul Camisassa, Torino, 2 giugno 1944

Rev.mo Padre Gays,
In referenza alla sua domanda di mettere in carte quel che ricordo del nostro amatissimo Can. Camisassa, mi permetto di scriverle quel che più mi si impresse nella mia mente.

Conobbi il Rev.mo Sig. Vicerettore, così nominato da tutti i confratelli all’Istituto, dal primo giorno che ebbi la fortuna di essere posto a contatto col Rev.mo Nostro Fondatore. Mi ricordo che mi colpì la sua affabilità, non dico paterna, ma fraterna, anzi, quasi di compagno. Essendo in quei giorni preoccupato di cercare un meccanico per inviare in Africa con le nuove macchine mi ebbe subito caro e mi pose a parte dei suoi progetti condivisi completamente da me, entusiasta dei suoi ideali che feci miei.

Lettera autografa del Camisassa al fratel Luigi Falda.

Stante la scarsità del tempo (4 mesi in tutto, per la mia preparazione e quella delle macchine) si occupò personalmente a farmi avere conoscenze per aver occasione di impraticarmi di segheria di cui ero affatto digiuno. Ebbi modo di constatare con quale praticità e facilità e accuratezza trattava gli affari […] dal trattare con l’ingegnere per l’amplificazione del Santuario [al dare] ordini all’economo, don Gunetti, per riguardo al vino in cantina e […] vedere se le lime che io avevo comperato erano del giusto taglio per affilare le seghe di acciaio […]. Aveva tracciato progetti d’impianti che poi ai disegni che ne facevo, correggeva colla medesima cura e competenza, come correggerà le bozze del Periodico, andando fino alle minuzie, non con pedanteria, ma con la competenza che lo rendeva atto a correggere anche i disegni dei marmi dell’impresario Catella.

Quell’che più mi impresse si fu che la sua attività lo faceva avaro del tempo […].

Quando arrivai in Missione, ebbi campo di mettere in pratica i consigli praticissimi che Egli mi aveva dato alla partenza, ma pochi mesi dopo il mio arrivo colà mi scriveva una lettera, mi pare del mese di settembre (1904), che la S. V. R. ricevette da me qualche mese fa. In quella mi ammoniva amorevolmente che io mi tenevo troppo riservato nello scrivere e mi diceva: «Come va che dopo tanto combinato per quel macchinario, non mi fai parola? Riguardo allo spirituale scrivi sovente al Sig. Rettore, ma pei lavori voglio da te lettere particolareggiate e lunghe e frequenti». […]

Dopo qualche mese, mi giunsero disegni e particolari di una casa a due piani, che voleva come modello, fosse eseguita per l’abitazione dei Missionari. Ma i particolari erano così minuziosi e copiosi ed eseguiti con tale perizia, che pensavo dove avesse fatto gli studi per essere così pratico di falegnameria e di accorgimenti propri solo a tecnici provetti. Nell’1908, nella mia venuta a Torino, ebbi agio di osservare la costruzione della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora chiamato via circonvallazione, ndr), lavoro colossale che egli concepì e diresse con una diligenza e competenza non comune. […]

Lo rividi nel 1911-1912 nel Kenya, nella sua visita che fece colà. […]

Per il lavoro di Missione, poi, aveva un culto speciale – interessandosi della vita nostra di Missione come se non avesse avuto altro scopo nella sua vita. […] E nelle sue lettere non si riservava solo di parlarmi di lavori, ma conservai per lungo tempo una sua lunga lettera di quattro pagine in cui mi animava nel proseguire con lena nel servizio della Missione, con parole tanto infiammate di amore per Dio e per le anime che ne fui tocco al cuore!

Lo rividi nel 1920 nella mia venuta in Italia; dopo 18 anni, mi accorsi che il lavoro e gli anni cominciavano a contare sulla sua forte fibra, ma il suo sguardo e la sua parola era[no] ancora quelle di tanti anni addietro, tutto vivezza e tutto slancio per quel che riguardava l’Istituto, che certamente considerava come parte sua creatura […]. Ebbi per Lui sempre un’affezione speciale e un’ammirazione illimitata; lo considerai sempre un uomo dalla fede adamantina […]. Credo che il suo motto fosse «Tutto per la gloria di Dio». Gradisca, Rev.mo Padre i miei più affettuosi saluti nel Signore.

 Coad. Benedetto Falda


Date essenziali

27 settembre 1854
Nascita di Giacomo Camisassa a Caramagna Piemonte (Cn) – Italia.
(data registrata in comune; nel registro del battesimo risulta invece nato alle ore 23 del giorno 26 settembre, ndr)

Ottobre 1868
Entra all’Oratorio di don Bosco, a Torino, per i corsi ginnasiali.

22 ottobre 1871
Veste l’abito chiericale nella chiesa parrocchiale di Caramagna.

15 giugno 1877
Ordinato sacerdote nel duomo di Torino, da mons. Lorenzo Gastaldi.

8 luglio 1879
Si laurea in Teologia, a pieni voti.

3 ottobre 1880
Su invito del can. Giuseppe Allamano, diventa economo nel Santuario della Consolata.

15 giugno 1887
Il card. Gaetano Alimonda, lo nomina uno dei sette membri della Facoltà di Diritto canonico e civile.

7 luglio 1892
Nominato «Canonico onorario».

20 ottobre 1895
Viene confermato membro aggiunto della Facoltà legale, col titolo di «avvocato».

Gennaio 1899
Esce il primo numero del periodico «La Consolata», ideato e fondato dal Camisassa.

10 maggio 1902
Accompagna, fino a Marsiglia, la spedizione dei primi quattro Missionari della Consolata per il Kenya.

19 giugno 1905
È nominato «Canonico effettivo».

8 febbraio 1911
Inizia la visita alle missioni del Kenya.

26 aprile 1912
Rientra a Torino dal viaggio in Kenya, dopo una sosta a Roma.

18 agosto 1922
Muore presso il Santuario della Consolata.

15 novembre 1976
La sua salma viene trasferita nella cappella mortuaria dell’Istituto (Camposanto generale di Torino).

5 ottobre 2001
Le spoglie mortali del Camisassa vengono solennemente collocate accanto al sepolcro dell’Allamano, nella chiesa santuario di Casa Madre a Torino.

Preghiera per l’anno del Camisassa

Foto classica del canonico Giacomo Camisassa

Grazie, Signore, per aver donato
alla nostra famiglia missionaria
la presenza discreta, operosa e benedicente
del canonico Giacomo Camisassa.

Egli, uomo di Dio,
uomo di comunione e collaborazione,
in sintonia con il beato Giuseppe Allamano
sostenne la nascita e lo sviluppo
degli Istituti missionari della Consolata.

Donaci, Signore, di imparare dal nostro Confondatore
l’arte della vera amicizia fraterna,
la silenziosa operosità,
l’umiltà di chi cerca Dio con tutto il cuore
e la dedizione entusiasta alla missione
nella quale Dio, nella sua bontà, ci coinvolge.

Lo chiediamo a Te, Signore Gesù,
il Figlio missionario del Padre,
che vivi e regni con Lui e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen!

 

 


Hanno firmato questo dossier:

Giuseppe Ronco, missionario della Consolata. Ha servito due periodi in Zaire – Rd Congo (1973-1977 e 1985-1987). Formatore dei teologi a Rivoli (1977-1985). In Canada, a Montréal, dal 1987 al 2007. A Roma dal 2007 al 2018. Ora è in Casa Madre a Torino. Per questo dossier si è avvalso anche di lettere e comunicazioni interne dei superiori generali delle missionarie e dei missionari della Consolata.

A cura di Gigi Anataloni, direttore di MC dal 2010.

Foto di questo dossier

Dall’Archivio fotografico Missioni Consolata (AfMC) a Torino. Quelle scattate in Kenya sono di monsignor Filippo Perlo.

Testi

Nei dossier ci sono molte citazioni di testimonianze di Missionari e Missionarie della Consolata e altri sacerdoti della diocesi di Torino. Gli originali sono nell’archivio generale dei Missionari della Consolata a Roma, spesso frutto delle ricerche e degli studi del compianto padre Francesco Pavese.

P Pavese a Tuthu con la ruota idraulica che faceva funzionare la segheria di fratel Benedetto Falda .

 




Sussurrare


Il 10 luglio la piccola Chiesa cattolica in Mongolia compirà trent’anni. È la data in cui è «rinata» in quel paese dove pure il cristianesimo era arrivato oltre un millennio fa. È una Chiesa piccola, quella mongola, neanche 1.500 cattolici e due preti nativi, ma è giovane e bella e piena di speranza e vitalità. In più, proprio in questi giorni, ha ricevuto un dono inaspettato: il suo vescovo, monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, compare nella lista di coloro che verranno nominati cardinali nel prossimo Concistoro del 27 agosto. Sarà il più giovane.

Quella mongola è una Chiesa di periferia che «sussurra il Vangelo al cuore dell’Asia», come scriveva padre Giorgio nel giugno 2018 su MC. «La missione sta nel mettere in comunicazione il “cuore” con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”, prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un “paradigma” missionario».
E continuava: «Il verbo “sussurrare” allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.

Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto».

Sussurrare non è una strategia, né una tattica, ma un modo di essere e di relazionarsi con gli altri. Richiede confidenza, rispetto, familiarità, fiducia. È vicinanza e intimità. Per questo, forse, può diventare un verbo di grande rilevanza oggi, quando invece i messaggi, se messaggi sono, vengono urlati, imposti, lanciati come bombe. Più «urlati» sono, più like ricevono, più visualizzazioni contano, più «veri» appaiono per chi li riceve. Senza lasciare spazio per la riflessione, l’approfondimento e il confronto.
Sussurrare diventa anche una sfida per quei politici che lanciano slogan per dire tutto e il contrario di tutto con l’occhio agli indici di ascolto e ai consensi elettorali. È una provocazione per i grandi della terra che pensano di comunicare con quindici metri di tavolo tra loro o di conquistare il mondo a suon di cannonate.

Papa Francesco, quando parla di una «Chiesa in uscita», dimostra di avere a cuore la sfida del «sussurrare il Vangelo». Non più una chiesa di potere, ma una «famiglia». Una vera «parrocchia» (che etimologicamente vuol dire «vicinato»), cioè comunità di vicini, i quali si parlano, si ascoltano, si incontrano, hanno cura gli uni degli altri e dell’ambiente. Persone che reagiscono al terribile anonimato della nostra società che mette gli uni contro gli altri nello stesso palazzo, che isola le famiglie, che proibisce ai bambini di giocare nel cortile – se mai c’è – e costringe a far festa con amici e famigliari nei ristoranti o nei centri commerciali, perché l’appartamento è troppo piccolo per accogliere tutti e, soprattutto, si rischia di disturbare. Una società che non permette più nemmeno di piangere i propri cari nell’intimo della casa, e incoraggia invece ad affidarsi alle efficentissime (e falsamente personalizzate) «case del commiato» che offrono, tutto incluso, anche il servizio religioso.

La logica del sussurro contesta il rumore, l’esibizione, la pubblicità, la fretta. Ama il silenzio, l’incontro personale. Il sussurro non usa la forza, non fa tappare le orecchie, ma apre il cuore. È vicinanza e rispetto. Non giudica. Sussurrare è come il vento tra le foglie. È esserci senza imporsi, senza mettersi al centro, rispettando i tempi dell’altro, senza pressioni e ricatti.

Il sussurro è il modo con cui Dio ci parla, con una Parola che va al cuore. «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20)».