Donare la vita


Su un numero di MC dei primi anni Cinquanta trovo un grido di dolore per la scarsità delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Uno dei nodi è il basso numero di missionari nel mondo, circa 15mila, rispetto agli oltre 300mila preti diocesani. C’è anche un altro grido di allarme: anche i sacerdoti diocesani sono scarsi in Italia perché, in quegli anni, c’è «solo» un sacerdote ogni 800 persone. Non viene detto qual è l’età media.

Quel grido di dolore di tanti anni fa mi colpisce e mi provoca a riflettere sull’oggi, stimolato anche dalla Giornata mondiale delle vocazioni che celebriamo l’11 maggio con il tema: «Pellegrini di speranza: dono della vita».

Oggi, in Italia, il rapporto è di un sacerdote (età media sopra i 60 anni) ogni duemila persone, mentre l’accorpamento di più parrocchie procede veloce. Non sono migliori le statistiche negli altri paesi europei e americani, mentre invece in Africa, e anche in Asia, c’è un fiorire di vocazioni alla vita consacrata.

Cosa pensare poi del fatto che anche nel nostro istituto, pur ricco di nuovi membri africani, non ci sia neppure un aspirante missionario italiano, e che gli italiani siano oramai scesi di numero a poco più di 160 (eravamo 994 nel 52), sempre più anziani?

È solo una crisi di vocazioni sacerdotali e religiose, o è un sintomo di un disagio più globale della nostra Chiesa e della società? Cosa sta succedendo?

Un missionario non è il venditore di un prodotto di successo, un influencer da milioni di like, un assicuratore, uno che ha tutte le risposte. Neppure sceglie un istituto o una congregazione per garantirsi sicurezza.

In una società come la nostra, dove tutto – moda, pubblicità, comunicazione, stili di vita – vuole portarci a centrarci sul nostro ego; dove l’io ha cancellato il noi; dove quello che conta è avere tutto adesso; dove sei bombardato da cose da fare, sentire, vedere e avere perché altrimenti non sei nessuno; dove non si vuole che la gente pensi, ma che si adegui al pensiero in voga, una proposta come quella di diventare servi per l’annuncio della bella notizia del Vangelo diventa ingombrante e, certo, non appetibile. E questo non solo per le persone consacrate, ma per ogni cristiano che è chiamato a essere missionario in virtù del battesimo.

Eppure, parlare di vocazione è davvero una notizia di vita, liberazione, fraternità e bellezza.

Dire che ciascuno di noi «è una vocazione» ci ricorda, anzitutto, chi siamo veramente: persone chiamate a vivere con amore e intelligenza le nostre relazioni fondamentali: con noi stessi, con gli altri, con il creato e con Dio. Coscienti che Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza e ci ha voluti liberi, creativi, responsabili e non robot perfettamente programmati, delle super intelligenze artificiali che eseguono i suoi ordini.

Per questo vivere la vocazione è un cammino di speranza e un cammino inedito: scopriamo ogni giorno che è solo donando che si riceve e che la vera felicità è far felici gli altri. Come ha fatto Gesù, che è diventato nostro servo per farci scoprire le dimensioni più autentiche della nostra umanità come liberi figli e figlie di Dio Padre: non di un «patriarca», ma di un «papà» che è misericordia, che ama come una mamma ama il bambino che è nella sua pancia.

Allora rispondere alla vocazione, vivere da vero cristiano o diventare sacerdote, missionario, persona consacrata, significa anche scuotersi di dosso l’intontimento e la schiavitù. È reagire all’appiattimento generale, alla rassegnazione, al vivere senza sogni e prospettive, al dominio della logica economica e consumista che divide il mondo in dominatori e dominati, ricchi e poveri, padroni e servi.

In questo contesto, tre parole riacquistano un significato profondo e rivoluzionario.

Castità: non semplice purezza sessuale, ma modo nuovo di relazionarsi con se stessi e gli altri nell’amore, nella libertà, nel rispetto più profondo, senza diventare padroni di nessuno e neppure schiavi di alcuno o di qualcosa. È relazione nuova e sana, libera e liberante.

Povertà: è vivere coscienti che non siamo i padroni del mondo ma solo amministratori, giardinieri, che lavorano insieme per il bene di ciascuno, soprattutto dei più poveri e indifesi. È relazione nuova con i beni di questo mondo, da persone libere, perché noi siamo molto più di quello che abbiamo.

Obbedienza: è fare una scelta che ti fa diventare libero servo degli altri perché sei cosciente che l’unico valore, per cui vale la pena dare tutto per costruire un mondo bello, è l’Amore come l’ha vissuto lo stesso Gesù Cristo che ha obbedito al Padre suo fino a donare la sua vita per noi. È relazione sana con Dio, e quindi con se stessi, senza esaltarsi e neppure sottovalutarsi.

Gigi Anataloni

Ordinazione diaconale di Gabriel Kwedho, SebastienNtoto Ntoto, Matthew Kirema e Joseph Mwaniki per le mani di Mons Virgilio Pante, vescovo di Maralal, il 30/09/2011 a Torino santuario Allamano. – AfMC / Gigi Anataloni

Gruppo sacerdoti novelli ordinati da mons Carlo Re il 20/06/1948: Benozzo Giuseppe, Balest Settimo, Chiuch Enrico, Zabotti Giovanni, Bona Candido, Barbanti Luigi, Ferraroni Livio, Mellino Francesco, Kaltenhauser Bruno, Sevéga Spirito, Lorenzini Livio, Berghi Giovanni – AfMC




Il diplomatico dei Papi


La vita di un nunzio può essere avventurosa. L’ambasciatore del Papa si può trovare a vivere in passaggi fondamentali della storia. È successo al monsignore originario di Cuneo, uomo di rara intelligenza e sensibilità. Come ci racconta il suo biografo.

Monsignor Antonio Riberi è stato un diplomatico che ha svolto un ruolo importante sia nella Chiesa che nel mondo. È stato al servizio di quattro papi (Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI), e si è confrontato con il colonialismo inglese in Africa, con il comunismo in Cina e con la dittatura franchista in Spagna. Rimane però pressoché sconosciuto, non solo al grande pubblico, ma anche agli specialisti. Di lui si sa a malapena che è stato espulso da Mao Zedong.

Origini

I genitori, da Limone Piemonte in provincia di Cuneo, si sono trasferiti nel Principato di Monaco dove Antonio nasce il 15 giugno 1897. L’essere figlio di migranti lo aiuterà molto nella sua attività. Il migrante ha due patrie: quella che gli ha dato i natali che quella che gli dà il pane, quindi è portato ad apprezzare, ringraziare e valorizzare la seconda patria.

Inoltre, il Principato di Monaco è uno stato troppo piccolo per avere mire colonialiste, e abbastanza ricco, grazie al casinò e alle transazioni finanziarie, da non aver bisogno di adottare una politica colonialista. Monsignor Riberi è stato quindi meno condizionato dall’ideologia colonialista e, molto naturalmente, quando si troverà in Africa apprezzerà le religioni africane, così come in Cina valorizzerà la cultura locale.

Primi anni

I genitori sono molto impegnati nel lavoro e perciò lasciano il piccolo Antonio presso i nonni paterni a Limone.

Egli frequenta il seminario vescovile di Cuneo e il 29 giugno 1922 viene ordinato sacerdote. L’essersi formato a Cuneo, allora provincia giolittiana per definizione, dove sta nascendo la prima industrializzazione, gli permette di venire a contatto con le problematiche del mondo del lavoro e di coltivare una profonda sensibilità sociale che evidenzierà in seguito occupandosi delle missioni presso le miniere della regione del Copperbelt in Africa, della riforma agraria in Cina e del nuovo sindacalismo in Spagna. È inviato a Roma presso la Pontificia accademia ecclesiastica dove incontra Giovanni Battista Montini che diventerà suo amico e consigliere per tutta la vita.

Nel 1925 si laurea in Diritto canonico e, contemporaneamente, in Filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana. Dal 1925 al 1930 è segretario della Nunziatura in Bolivia. Si trasferisce poi a Dublino dove, fino al 1934, è segretario della Nunziatura di Dublino con il nunzio Paschal Robinson.

Al fianco di quest’ultimo il giovane diplomatico impara il mestiere: intrattenere buoni rapporti con il governo, non intervenire troppo nelle faccende interne della gerarchia ecclesiastica locale, aprire le porte a chiunque voglia portare il suo contributo, curare una rete di amici per poter sentire il polso della situazione, ascoltare, suggerire più che controllare i fratelli nell’episcopato.

In Irlanda monsignor Riberi conosce il vescovo Joseph Shanahan, religioso spiritano, missionario in Nigeria, e ne adotta il metodo: collaborazione con il governo coloniale, massima importanza alle scuole, formazione del clero locale, rispetto per le religioni indigene e per l’islam, liberazione delle donne.

Sull’isola Riberi conosce pure Frank Duff, fondatore della Legio Mariae che, secondo lui, coglie l’intima essenza dell’Azione cattolica e rinnova il fervore dei primi secoli del cristianesimo. Riberi la promuoverà come alternativa all’Azione cattolica tradizionale, anche perché quest’ultima è appena ai suoi inizi in Africa, mentre in Cina, dopo la guerra contro il Giappone e la guerra civile, non è più un movimento nazionale.

Missionari della Consolata con il vescovo Carlo Re e Monsignor Antonio Riberi, Delegato apostolico in Kenya.

Gli anni del Kenya

Nel 1935 monsignor Riberi è nominato Delegato apostolico per l’Africa inglese (Kenya, Uganda e Tanzania, ndr) con sede a Mombasa (Kenya). Il primo problema che il missionario incontra quando arriva in terra di missione è la necessità di comperare terreni per costruire la chiesa, la casa per i missionari, una falegnameria, un dispensario, una scuola, un lebbrosario. La missione deve essere tendenzialmente autosufficiente e, quindi, deve provvedere a tutte le spese. Deve quindi comperare altri terreni per piantagioni di caffè, cotone, tabacco da vendere sui mercati internazionali e ricavarne così un reddito adeguato. La terra appartiene al governo coloniale e monsignore Riberi consiglia ai missionari il modo migliore per impostare le pratiche burocratiche.

Un altro tema chiave sono le scuole, forse lo strumento migliore per l’evangelizzazione. Il governo inglese non istituisce un sistema scolastico proprio, ma contribuisce con sussidi alle scuole delle missioni. Però vuole scuole per pochi futuri funzionari del livello più basso dell’amministrazione, perché teme il formarsi di un’élite culturale. Le missioni invece cercano di fornire istruzione possibilmente a tutti.

Il governo coloniale, inoltre, non desidera che il diploma di scuola secondaria dia accesso alle università inglesi, perché questo favorirebbe un cambio di mentalità negli africani e li renderebbe potenziali oppositori politici. Riberi si batte per fare sì che questo avvenga, anzi, propone a tutti gli istituti missionari di comperare una casa a Londra per inviarvi i migliori studenti.  Un altro punto di divergenza sono i programmi scolastici che dovrebbero essere solo di tipo tecnico amministrativo escludendo la dimensione catechetico-religiosa.

Nonostante questi problemi, il Delegato apostolico riesce a garantire i finanziamenti senza grosse difficoltà.

Il clero locale

Il problema cruciale per la giovane chiesa keniana è la formazione del clero locale. Il capolavoro di monsignor Riberi è la consacrazione del primo vescovo africano dei tempi moderni, il 29 ottobre 1939: l’ugandese Joseph Kiwanuka. La decisione di consacrare vescovo un sacerdote africano non è facile. I missionari stranieri, e gli stessi confratelli africani, seppure in teoria d’accordo nell’inculturare la Chiesa, pensano che non sia ancora giunto il momento di affidare al clero locale una diocesi. Pensano ancora a una chiesa africana con leadership europea strutturata secondo il modello occidentale. I preti africani sono considerati di seconda classe, nonostante le pressanti sollecitazioni da Roma per un trattamento paritario tra clero missionario e clero locale.

Dal 1938, i venti di guerra costringono Antonio Riberi a riorganizzare le missioni. Elabora un piano per assicurare che esse possano continuare il lavoro, ma il 6 agosto 1940, il ministro degli Esteri inglese chiede al Papa di richiamarlo, in quanto italiano e quindi di nazionalità nemica.

Dal 12 novembre 1941 all’8 giugno 1946 monsignor Riberi lavora presso la Pontificia commissione soccorsi.

Mons Riberi Delegato Apostolico in visita al Vicariato di Nyeri, Kenya

Nella Cina nazionalista

Quando Riberi è nominato internunzio in Cina presso il governo del presidente Chiang Kai-sek, al suo arrivo il giornalista che lo intervista si meraviglia della sua conoscenza della lingua cinese.

I rapporti con il presidente della Repubblica di Cina non sono facili. Per il monsignore sono fondamentali alcune riforme, in particolare quella agraria. Poi sottolinea anche l’importanza di applicare la Costituzione appena approvata, ma Chiang è di tutt’altro parere.

Il Papa ha appena istituito la gerarchia ecclesiastica cinese. Il primo compito dell’internunzio è, quindi, di intronizzare i vescovi nelle loro diocesi. È un’impresa complicata data la guerra civile in corso che costringe a continui cambiamenti di programmi per l’impraticabilità delle comunicazioni.

Monsignor Riberi vuole dotare la gerarchia di uno strumento che permetta di dare unità d’azione alle diocesi cinesi poiché vi operano molteplici istituti missionari di nazionalità diverse, con teologie, pratiche di apostolato e sensibilità diverse, e istituisce il Catholic central
bureau. In esso un ruolo fondamentale è svolto dal dipartimento legale. Parte delle proprietà delle missioni cattoliche cinesi non è legalmente riconosciuta, motivo per cui l’internunzio deve regolarizzare i contratti per evitare che i terreni vengano messi all’asta e quindi manchino alle missioni le risorse necessarie.

La Cina comunista

Il 21 aprile 1949 le truppe comuniste entrano nella capitale Nanchino. Da quel momento gli ambasciatori non sono più riconosciuti. Di conseguenza non godono più dei privilegi diplomatici. Ogni ambasciatore cerca di lasciare la Cina e rientrare in patria. Monsignor Riberi invece rimane, e tenta di incontrare i dirigenti comunisti per garantire alla Chiesa la possibilità di continuare la sua attività. Chiede alla Santa Sede di riconoscere il governo comunista, ma essa non ritiene opportuno compiere tale passo.

Nel novembre 1950 viene pubblicato il manifesto di Guangyang e qualche mese dopo quello di Chongqing. In essi si afferma che la Chiesa deve rompere ogni relazione con i paesi imperialisti e praticare le tre autonomie: deve essere autonoma dal punto di vista finanziario, amministrativo e apostolico. Ciò implica tagliare i ponti con la Santa Sede. Ma una Chiesa nazionale cinese indipendente non sarebbe più in unione con il Papa e tutta la Chiesa.

Il 17 gennaio del 1951, un gruppo di cattolici, tra cui il segretario di Riberi, incontra Zhou Enlai (numero due della rivoluzione) per discutere la questione delle tre autonomie. Si cerca un accordo, vengono redatte tre bozze, ma nessuna è considerata soddisfacente.

Nell’aprile 1951 inizia una violenta campagna stampa contro lo stesso Riberi. Il 26 giugno viene messo agli arresti domiciliari e sottoposto a interrogatori di 10-12 ore consecutive.
Il 4 settembre è espulso dalla Cina, accusato di essere un alleato di Chiang Kai-sek, di aver organizzato la lotta contro i comunisti, di aver promosso l’organizzazione reazionaria della Legio Mariae. L’8 settembre arriva a Hong Kong. Vi rimane fino al 24 ottobre 1952, quando si trasferisce a Taiwan dove resta fino al 1959.

il cardinale Antonio Riberi a Roma nel 1967.

Ritorno in Europa

Il 31 agosto 1959 Riberi torna a Dublino in qualità di nunzio e vi rimane fino al maggio 1962. È un periodo breve. Non ha la possibilità di incidere molto su quella Chiesa, ma la prepara per il Concilio Vaticano II.

Il 9 giugno 1962 è nunzio a Madrid. Il problema principale da risolvere in Spagna è l’adeguamento del Concordato del 1953 alle direttive del Concilio Vaticano II, per superare il nazionalcattolicesimo. Con molta gradualità monsignor Riberi favorisce il rinnovamento dell’episcopato, sia dal punto di vista anagrafico che teologico. Alla Chiesa interessa soprattutto garantire la libertà religiosa che viene assicurata con la legge approvata il 24 febbraio 1967, e abolire il «privilegio di presentazione». Dopo la scoperta delle Americhe il Papa aveva concesso la facoltà di scegliere i vescovi all’imperatore portoghese e a quello spagnolo. Francisco Franco lo aveva ereditato e poteva presentare alla Santa Sede una terna di nomi tra cui scegliere un nuovo vescovo. Tale privilegio sarà abolito il 19 agosto 1976.

Il 4 luglio 1967 Riberi riceve la berretta cardinalizia da Francisco Franco, secondo il privilegio che spettava al capo di Stato spagnolo. Quando ritorna a Roma, si diffondono voci sulla sua candidatura alla Segreteria di Stato, ma improvvisamente muore il 16 dicembre.

I funerali solenni sono celebrati nella cattedrale di Cuneo dall’arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, assistito dai vescovi di Cuneo, Fossano, Mondovì e Saluzzo. Sono presenti le massime autorità e una folla immensa.

Giovanni Giorgio Demaria




(La Chiesa è) Un salone di bellezza


Il missionario prima o poi deve partire. E lasciare così la sua gente. Ma si porterà nel cuore mille storie. Padre Sandro è appena rientrato dal Mozambico, dove ha costruito una chiesa e, soprattutto, una comunità. Lo abbiamo incontrato.

Padre Sandro Faedi cammina veloce. Parla veloce. Agisce. È un uomo operativo, oltre che di grande intelletto. Ma è anche un organizzatore nato. Missionario della Consolata dal 1967, è tornato in missione in Mozambico nel 2013 dopo una prima esperienza tra il 1998 e il 2008. Prima ancora era stato missionario in Venezuela dal ‘74 al ‘98.

Negli ultimi quattro anni della sua presenza nel Paese lusofono ha lavorato a Tete, capoluogo dell’omonima provincia, nel Nord Ovest, con il vescovo, monsignor Diamantino Guapo Antunes, anch’egli missionario della Consolata.

Tete è una città di 450mila abitanti, fondata dai portoghesi nel XVIII secolo a ridosso del grande fiume Zambesi. All’inizio degli anni duemila fu scoperta una miniera di carbone a Moatize, a circa 20 chilometri. Da allora aspiranti minatori sono arrivati dalla provincia e da tutto il Mozambico, per lavorarci.

La chiesa in cosruzione

Un nuovo quartiere

La parte destra del fiume che era pietrosa e, in parte, selva, è stata occupata dai nuovi arrivati dove è cresciuto un quartiere che conta oggi 150mila abitanti, e continua a espandersi.

Diverse imprese multinazionali stanno sfruttando il carbone della miniera. Inizialmente sono state Rio Tinto, Vale, adesso è Vindal, un consorzio indiano. Intanto, il prezzo del carbone è sceso e, inoltre, la qualità del sito non è quella sperata.

Dalla miniera, i treni portano il materiale al porto di Beira, e da qui, via nave, raggiunge l’India, dove è usato in prevalenza nelle acciaierie.

«Intorno al 2010 c’è stato un boom di arrivi – ci dice padre Sandro che incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata – seguito poi da una diminuzione. Molti avevano iniziato a lavorare e si erano costruiti una casetta di mattoni. Poi sono rimasti senza lavoro.

In questa vasta area c’era una parrocchia dedicata ai Martiri d’Uganda, e tenuta dai missionari Comboniani. Questi avevano costruito varie cappelle nel quartiere. Una, in particolare, era intitolata a san Daniele Comboni. Ogni tanto i padri celebravano messa in queste cappelle interne».

Ricorda padre Sandro: «Monsignor Diamantino ha avuto l’idea di farne una parrocchia e ha chiesto a me di seguirne la fondazione.

Ho subito pensato che la zona fosse a mia misura perché sono vecchio, e non si tratta di quelle parrocchie africane disperse su territori enormi. È concentrata, ha circa 50mila abitanti, una casa a ridosso dell’altra, in una zona pietrosa. Questo, tra l’altro, rende problematico lo scolo dell’acqua. Si trattava di un quartiere piuttosto povero e avrei dovuto aiutare a costruire la comunità».

«Padre, facciamo la chiesa»

Padre Sandro prende in mano la parrocchia proprio quando inizia la pandemia da coronavirus. La comunità aveva a disposizione solo una piccola cappella, venti metri per dieci.

«La domenica la cappella si riempiva. Poi si è sparsa la voce della presenza di un prete, e arrivava sempre più gente. Allora abbiamo iniziato a celebrare la messa sotto un grande baobab. Intanto le scuole erano chiuse e io ho approfittato per visitare tutte le famiglie. Con due animatori, armati di mascherina, andavamo casa per casa. Sono piccole abitazioni, la gente vive fuori: la fontana è all’esterno, così come la cucina. Mi sono fatto conoscere».

«La gente ha cominciato a dire: “Padre cosa facciamo? Non ci stiamo in questa chiesa. Quando finisce il coronavirus facciamo una chiesa nuova”. Intanto, dentro la cappella pioveva.

Abbiamo fatto il disegno, con il vescovo. Io volevo una chiesa rotonda, senza colonne nel mezzo, per vedere la gente, e affinché loro vedessero il celebrante. Doveva essere capiente, almeno per cinque o seicento persone».

Dopo quasi due anni di lavoro, la nuova chiesa, una costruzione di 1.100 metri quadrati, rotonda con un diametro di 38 metri, era pronta. E al suo interno stavano comodamente 850 sedie di plastica.

la chiesa piena di fedeli durante un giorno di festa.

Una grande partecipazione

Il missionario ci spiega come ha finanziato l’opera. «Iniziai a dire alla gente: “Di chi è la chiesa? Di padre Sandro, che poi, quando partirà, prenderà mattone su mattone e se la porta via?”. Rispondevano: “No padre non è così”. Allora abbiamo creato alcune commissioni, e abbiamo deciso che ogni famiglia si tassasse con 500 meticais al mese (circa 7,5 euro all’epoca, ndr). Chi poteva li dava, chi poteva darne di più meglio. Ogni mese raccoglievamo».

Padre Sandro diceva ai suoi parrocchiani: «Così domani potrete dire ai vostri figli: la chiesa l’ho fatta io, perché ogni mese ho contribuito».

I soldi raccolti non sono bastati a pagare la costruzione, anche se contribuirono quasi al 18%. Gli altri fondi sono stati trovati presso amici, finanziatori vari e la Santa Sede.

«Ho visto pagine molto belle. Persone che, con sacrificio, hanno partecipato.

Appena cominciata la costruzione, arriva una signora anziana, con i piedi e le mani gonfie. Avevo già pensato di darle qualcosa per aiutarla. Invece mi dice: “Anche io vorrei contribuire per la chiesa”, e mi consegna 500 meticais.

Un’altra signora che compiva 80 anni mi dice: “Padre Sandro, i miei figli vivono tutti a Maputo. Mi hanno chiesto che regalo volessi. Datemi i soldi, ho detto loro. Per che cosa? Per la chiesa. 20mila meticais, 300 euro. Il salario minimo mensile sono settemila.

Un altro: “Padre ho risparmiato 40mila per la mia vita, ma chiedo perdono al Signore, e li do alla chiesa”. Tra i ricchi ricordo solo un indiano, che mi ha donato 200 sacchi di cemento. Oltre a tante altre storie, che io non conosco, di persone che hanno dato, con generosità. Così abbiamo fatto la chiesa».

il coro Comboni durante una performance nella nuova chiesa parrocchiale.

Costruire la comunità

«Mentre costruivamo la chiesa in muratura, dovevamo fare la Chiesa delle persone, la cosa più importante».

Padre Sandro è soddisfatto quando racconta di questa esperienza. Parla di una comunità cristiana molto viva. «Ho organizzato la parrocchia in tre grosse comunità. Ognuna di esse costituita da nuclei (gruppi) di famiglie, con un piccolo spazio dove si riuniscono una volta al mese per la vita del gruppo e la catechesi».

I giovani non facevano parte nel nucleo. In esso si riunivano le persone adulte, i genitori. «In parallelo, abbiamo creato il gruppo giovanile, composto di una sessantina di persone, dei quali più di trenta adolescenti. Poi c’è il gruppo degli accoliti. Questi sono i ragazzi dal battesimo ai 22 anni. Si tratta di un cammino di formazione, una vita di gruppo tra di loro».

E ancora: «Poi abbiamo 36 catechisti, ed è prevista una formazione anche per loro».

Altri gruppi della parrocchia sono la Legio Mariae e l’Apostolato della preghiera. «Il primo è un po’ esigente – continua padre Sandro -, vogliono che le coppie siano sposate in chiesa. Perché poi devono essere apostoli. Nel secondo c’è la famiglia allargata: venite come siete. Molte signore e signori».

La messa della domenica dura due ore e mezza, anche tre. Ci sono infatti sempre feste che allungano la funzione. Inoltre, è molto partecipata.

«Perché tre comunità?», chiediamo a padre Sandro. «Sono tre per ragioni di territorio. È più facile, per le persone, ritrovarsi. Ogni comunità ha due donne come animatrici e un animatore, e poi un consiglio. Per tutte le questioni relative ai membri della comunità, sono interpellati loro, che conoscono le persone e il territorio. Se qualcuno si vuole sposare, o battezzare il figlio, il nucleo conosce e valuta la situazione. Così come se c’è qualche necessità particolare, è segnalata al nucleo che, se è il caso, ne parla anche al parroco. Ad esempio, se c’è un malato da visitare».

Nella parrocchia è attiva anche la Caritas, che fa distribuzione di alimenti ogni mese. Il cibo è raccolto dalla stessa gente. I bisognosi sono indicati dal nucleo delle comunità, che li ha visitati a casa, e ha verificato le necessità.

padre Sandro con il vescovo di Tete, monsignor Diamantino Guapo Antunes

Un’organizzazione di persone

Ogni comunità è, dunque, composta da nuclei, e le persone del nucleo fanno capo al responsabile di comunità, che poi riferisce al consiglio parrocchiale. Il sistema pare molto strutturato.

«C’è poi la “vice parroca” – continua padre Sandro -. Io dico la messa, animo, da dietro, ma la macchina va avanti grazie a lei. Questa signora è una vedova, insegnante in pensione, figlia di catechisti. Conosce bene il suo ruolo e il mio ruolo. Lei era già animatrice quando sono arrivato io, poi abbiamo fatto le elezioni due volte, ed è sempre stata rieletta.

Quando ci sono problemi, io sono sempre uno straniero, la lingua la conosco poco. Lei va e cerca di risolvere. Devo dire che in questo quartiere ho trovato persone che avevano già un’esperienza profonda di vita cristiana. E questo è stato fondamentale».

«Ci sono tante attività: le formazioni, poi l’esame dei catecumeni, oppure fanno la maglietta per la tale festa. E non mi chiedono mai un centesimo. A livello economico facciamo la colletta la domenica e la raccolta all’offertorio. Abbiamo due persone incaricate dei soldi. È un sistema molto trasparente, non mi preoccupo».

È un tipo di organizzazione che padre Sandro aveva già visto altrove in Mozambico, ma che funziona solo se ci sono le persone giuste. Lo ha messo in piedi in questa nuova parrocchia.

«Si tratta di una chiesa ministeriale. Ovviamente organizziamo formazioni, ogni mese per i catechisti. È sempre importante formarli, motivarli. Faccio venire persone da altre parrocchie, come quella dei Comboniani, oppure mando i miei parrocchiani a formare i loro».

Inoltre, «Quando viene il vescovo per celebrazioni varie, a pranzo è invitato nella casa di qualcuno. Così conosce le persone. È meglio questo metodo rispetto a fare grandi pranzi in parrocchia. E costa di meno.

Abbiamo fatto anche l’asilo infantile, con 70 bambini. C’è la casa delle suore di San Vincenzo de Paoli, con 120 bambini orfani. Da loro mangiano, fanno i compiti, si lavano. Poi vanno a scuola e la sera a casa».

Faedi padre Sandro

Il missionario deve partire

Padre Sandro ha dovuto lasciare la parrocchia l’anno scorso: «La parrocchia era matura. Lasciarla non è stata la mia volontà, ma quella dei superiori. Ho trascorso quattro anni con quella comunità. Sono partito con molta tristezza. È molto doloroso, perché, per i missionari, andare via dalla missione vuole dire non tornare più. Non sei un funzionario, che fai andare avanti la macchina e quando hai finito vai a casa. La parrocchia è la nostra famiglia, la gente sono i nostri figli e figlie. Con molti di loro continuo a scrivermi».

Oggi il parroco è un sacerdote diocesano. «Ho detto alla gente: guai a voi se dite padre Sandro faceva, padre Sandro diceva. Avete il consiglio parrocchiale, direte: “Padre noi facciamo così ma ci dica lei come la pensa”».

Bisogna sempre avere il dubbio, dice il missionario, «soprattutto quando vai in un paese nuovo, ogni gruppo etnico ha una cultura diversa. Magari tu fai bene per una cultura, ma non per l’altra.

Ad esempio, a Tete la cultura di base è Niungwe, ma una parte sono Chewa che vengono da fuori. Questi ultimi hanno una cultura forte, con un cristianesimo antico e radicato. I loro canti sono bellissimi, mentre quelli niungwe sono più poveri. Ma bisogna fare i canti di tutti i gruppi etnici».

La Chiesa che fa belli

«Cosa ho fatto io a Tete? Il missionario deve promuovere lo sviluppo, annunciare il Vangelo per rendere più felice la vita oggi in attesa di una vita ancora più felice domani. Mi sono preoccupato perché ci fosse il pane per i poveri, un luogo per i bambini orfani. Ma noi perché facciamo la chiesa? Perché la Chiesa fa più belle le persone. Noi in Europa siamo già tutti belli, abbiamo un cristianesimo che da duemila anni ci sta alimentando, è la nostra linfa. Il mondo africano era molto segnato da paganesimo, divisioni e tribalismi. In questo contesto annunciamo il Vangelo che dice: siamo tutti fratelli, dobbiamo fare il bene, dobbiamo essere onesti, santi, preoccuparci per gli altri, quelli che non sono della tua etnia, i tuoi vicini.

Io dico, quando siamo in chiesa, siamo in un salone di bellezza. Con Gesù nel cuore, ogni domenica, la sua Parola ci fa più belli, ci fa migliori. Andiamo a casa, non posso essere il marito arrogante, maltrattare mia moglie. Non posso essere la donna pettegola che va in giro e non fa da mangiare. Neppure il ragazzo disobbediente. Se sono impiegato sarò il migliore impiegato. Il cristianesimo ci fa belli dentro.

Il contributo della Chiesa è fare belle le persone. Domani avremo una società migliore se le persone sono più belle. Cosa è che ci fa soffrire? Quando manca da mangiare? No, quando ci maltrattiamo, quando siamo ingiusti, quando i figli sono ribelli, quando si tradiscono le relazioni. Noi ci ammaliamo per il male che abbiamo, Gesù ci salva dentro. La ricchezza di un Paese non è la ricchezza economica. Non è la ricchezza materiale che ci fa felici, ma è una società di persone coscienti di un dovere civico, che comincia da se stessi.

Il male di fuori viene da dentro. Noi non facciamo il miracolo della prosperità, ma questa è la Chiesa della bellezza. Qui dentro la gente viene per essere più bella. È il brutto che si abbellisce.

Io ho cercato di fare capire questo alla mia gente».

Marco Bello

padre Sandro con due giovani sposi della comunità.




Un viaggio indimenticabile al Catrimani


Una storia di cinquant’anni fa. Il protagonista, sedicenne, è catapultato nella missione del Catrimani, in piena foresta amazzonica, con uno dei missionari pionieri tra gli Yanomami. Da lui impara l’amore per quel popolo e il segreto dell’obbedienza.

È la fine del 1974. Abito a Bra, in provincia di Cuneo, nella stessa cittadina in cui è nato padre Giovanni Saffirio, missionario della Consolata in Amazzonia. Ho sedici anni e desidero tanto una moto da 125 cc, però i miei genitori non vogliono. Allo stesso tempo Luciana, la sorella di padre Saffirio, da tempo sta cercando un compagno o compagna di viaggio per andare in Brasile, dove Giovanni, nel 1972, ha salvato da morte certa una bambina yanomami alla Missão Catrimani sul rio Catrimani nel territorio federale di Roraima.

La bimba indesiderata

La bambina è figlia di una ragazza yanomami e di un indigeno arrivato dal Rio Orinoco, in Venezuela. L’uomo aveva fatto più di 900 km a piedi nella giungla amazzonica, ed era uno xapuri, cioè uno sciamano, ma con una brutta fama. Pertanto, la comunità yanomami non voleva che la ragazza lo sposasse. Di conseguenza, la neonata, essendo non «regolare» né accettata ufficialmente nella maloca, sarebbe morta di stenti.

Padre Giovanni, dopo estenuanti trattative, è riuscito a convincere tutti a lasciare la piccola, una volta nata, a sua sorella, che anni prima era andata a trovarlo in missione.

Arrivato il momento del parto, la ragazza era corsa nella giungla tutta sola, come abitudine del suo popolo. Padre Giovanni se ne era accorto e l’aveva seguita da lontano. Avvenuto il parto, si era fatto consegnare la bimba, e poi, di corsa, era andato nella baracca della Missão Catrimani per chiamare via radio il piccolo aereo che faceva la spola con Boa Vista. Così, già nei primi giorni di vita, Yana, questo il nome della neonata, ha avuto il battesimo dell’aria.

Tramite una delle prime donne yanomami aiutate da padre Giovanni a diventare infermiera, Abrelina, aveva organizzato dove ospitarla e crescerla a Boa Vista per il tempo che sarebbe servito a sua sorella per fare tutte le pratiche e portarla in Italia come figlia adottiva.

Un viaggio indimenticabile

Venuto a conoscenza di tutte queste vicissitudini, ricatto i miei genitori: o la moto o il viaggio con Luciana, che conosco perché frequentiamo la stessa parrocchia.

Così nei primi mesi del 1975 dico a Luciana che andrò io con lei. All’inizio non fa certo salti di gioia vista la mia età (16 anni), ma, fortuna per me, non c’è nessun altro disposto ad accompagnarla. I mesi passano velocemente e si giunge all’estate. Prepariamo i documenti, facciamo le dovute vaccinazioni e i bagagli. Luciana è contenta che io abbia pochi chili di bagaglio, perché i rimanenti li sfruttiamo per portare materiale per la missione. Per risparmiare sui costi del viaggio, andiamo da Bra al Lussemburgo in treno, poi da là in aereo fino a Trinidad e poi a Georgetown in Guyana.

All’aeroporto di Lussemburgo si unisce a noi il vescovo di Boa Vista, monsignor Servilio Conti, e affrontiamo insieme i disguidi e disagi di tre lunghi giorni di viaggio. In questo tempo Luciana ha modo di aggiornarmi sulle difficoltà dell’adozione del cui esito non è ancora certa.

Giunti a Georgetown, abbiamo ancora un volo per andare a Lethem, città sul confine tra la Guyana e lo stato federale di Roraima in Brasile. L’ultimo aereo è un catorcio, un Dakota residuato della Seconda guerra mondiale con sedili in tela sul quale io non risulto prenotato. Dopo discussioni varie, chi comanda ordina di spostare parte del carico per inserire un sedile in più. Oltre i bagagli, nella cabina c’è di tutto, anche mucche squartate.

Il viaggio è terribile per vuoti d’aria, sobbalzi e due scali fuori programma. Al secondo scalo salto giù dalla disperazione per vomitare. Alla fine arriviamo a Lethem. Lì incontriamo padre Giovanni che è venuto a prenderci.

Non è una passeggiata

A fare da confine tra Guyana e Brasile è il fiume Takutu, che attraversiamo con le barche perché non esiste un ponte. Dopo tre giorni senza lavarmi e, soprattutto, dopo gli effetti dell’ultimo volo, mi sembra bello mettere le mani nell’acqua e rinfrescarmi un po’, benché sia di colore marrone. Ma padre Giovanni mi riprende subito: non è il caso di farlo in quanto potrei toccare dei pesci con aghi avvelenati sul dorso. Comincio ad avere la certezza che non sarà una passeggiata o un viaggio di piacere.

Quando arriviamo a un altro fiume, il Rio Branco, questo è in piena: a mala pena vediamo l’altra riva. Prendiamo un traghetto. Sull’altra sponda c’è la città. Mentre attraversiamo il fiume, vengo a conoscenza del fatto che qualche tempo prima un operaio del traghetto era stato ucciso da un uomo per aver sistemato il suo autoveicolo in un modo che non gli era piaciuto. Ingenuamente chiedo che fine abbia fatto l’assassino. Padre Giovanni mi spiega che è libero perché nessuno è andato a denunciare o ha protestato.

Yana

Arrivati a Boa Vista, salutato il vescovo, andiamo in periferia insieme ad Abrelina, così conosciamo la famiglia che, per due anni, ha cresciuto Yana.

La bimba ha vissuto in una cascina con mucche e maiali. Qualche mese fa ha avuto uno scontro con un maiale e si è rotta la clavicola, ma ormai è guarita e vuole sempre andare in giro per la campagna.

Io e Luciana, per alcuni giorni, rimaniamo ospiti in quella famiglia. Per noi hanno comprato dei materassi di gomma piuma, un lusso, perché loro dormono nelle amache. Così entriamo nella vita di Yana che, piano piano, si abitua a noi. Quando la prendo in braccio e la porto in giro, anche se non sa parlare, fa capire benissimo dove vuole andare… a suon di schiaffoni.

In uno di questi giri vediamo un cobra che attacca una mucca. Torniamo subito alla fattoria dove ci dicono che i serpenti sono un po’ nervosi forse perché sta per cambiare il tempo. Con nostra sorpresa ci accorgiamo che per tutte quelle notti abbiamo dormito proprio vicino a un serpente, ma questo non è velenoso: prende i topi.

Padre Giovanni, sfrutta questi giorni nella capitale per capire dove si è bloccata la pratica di adozione iniziata due anni fa.

Verso il Catrimani

Una sera viene alla fattoria per dirci che domani io e lui partiremo per la Missão Catrimani, mentre Abrelina, Luciana e Yana verranno il giorno dopo con un fuoristrada. Così noi partiamo con un vecchio camion ricevuto in dono da benefattori. Non ne ho mai visto uno che abbia come freno motore il restringimento manuale del tubo di scarico dei fumi.

Così attraversiamo la savana e tramite la transamazzonica (una strada oggi dismessa, ndr) arriviamo alla Missão Catrimani che è già notte.

Mangiamo nello spazio comune e rassettiamo la cucina, poi ci mettiamo in fila indiana per raggiungere la baracca dove dormiremo sulle amache, naturalmente tutto al buio, solo con l’aiuto di qualche pila. Io sono il penultimo e padre Giovanni l’ultimo della fila, con la torcia in mano. Siamo appena entrati nella baracca dormitorio quando sento un grido: «Elio, stai fermo. Non muoverti». A una spanna dal mio piede c’è un serpente tutto colorato ad anelli, detto dei «7 passi», se ti morde hai il tempo di fare sette passi e sei morto. Si era infilato tra un asse e l’altro. Padre Giovanni gli punta il fascio di luce negli occhi e il serpente si gira ed esce da dove è entrato. Fuori lo uccidiamo con una scopa: un’azione pericolosa. Allora chiedo a padre Giovanni perché abbiamo rischiato così per ucciderlo. Lui mi risponde che gli indigeni normalmente escono di notte a fare i loro bisogni ed era probabile che il serpente ne avrebbe morso qualcuno. Noi invece visto che abbiamo il bagno «in casa» siamo considerati un po’ come degli sporcaccioni.

Nei giorni seguenti padre Giovanni mi insegna moltissimo. La prima cosa che imparo è ubbidire.

La liberazione

Un giorno vedo padre Giovanni arrabbiato. A un certo punto mi dice: «Vieni con me». Prendiamo il famoso camion. Salgono sul cassone alcuni indigeni e partiamo. Gli chiedo per dove. Mi dice che andiamo al campo degli uomini della Camargo Corea, la ditta che sta facendo una bretella della transamazzonica.

Coloro che lavorano a queste opere, per le condizioni ambientali proibitive, non sono proprio degli stinchi di santi. Se sei in prigione e ti offri per andare a lavorare lì, ti scontano la pena.

Vengo a scoprire che una ragazza indigena è stata presa e viene tenuta con la forza nel campo come prostituta per tutto l’accampamento.

Quando raggiungiamo il luogo, padre Giovanni chiede dove si trovi la ragazza e dice che la vuole portare via. In pochi minuti veniamo circondati. Il meno armato ha il macete. Si discute animatamente. A un certo punto padre Giovanni mi dice: «Elio vai al camion, metti in moto e tieniti pronto». Sono momenti di tensione, io controllo dagli specchietti. Gli Yanomami venuti con noi saltano sul camion. Poi anche padre Giovanni con la ragazza si butta in cabina. «Veloce, parti», mi dice. Schiaccio a tavoletta l’acceleratore e per alcuni minuti non bado alle buche della strada che prendo a tutta velocità, fino a quando padre Giovanni mi dice: «Elio guidi peggio di un caboclo» (meticcio nato da madre indigena e padre bianco, ndr). Capisco che siamo fuori pericolo e torno a guidare normalmente.

Nella foresta

Altro consiglio utile di padre Giovanni è quello di stare attento a fare le foto agli Yanomami perché essi pensano che con quell’apparecchio stai rubando loro l’anima e, per reazione, potrebbero tirarti una freccia avvelenata con il curaro.

Al Catrimani in questo periodo sono arrivati dei medici e antropologi. Un giorno chiedono a padre Giovanni di accompagnarli ad una maloca «vicina» perché c’è un’epidemia di morbillo e influenza. Perciò ci organizziamo con il camion e partiamo. Arrivati a un certo punto, scendiamo tutti dal camion e procediamo nella giungla con una guida verso la maloca.

Dicono che gli indigeni vedono i sentieri tracciati nella foresta, come aveva fatto il padre di Yana, che dall’Orinoco era arrivato sino al Catrimani. Provo ad addentrarmi nella boscaglia da solo, ma dopo pochi metri non riconosco neppure il punto da dove sono partito. Invece, la guida ci indica la posizione del sentiero senza difficoltà. Arriviamo a un torrente che dobbiamo attraversare. Padre Giovanni e la guida osservano l’acqua sporca in cerca di segnali. Vogliono capire se ci sono dei piranha o altri pericoli nel torrente. Ci immergiamo e lo attraversiamo. Io porto sulle spalle uno zaino con diversi medicinali e padre Giovanni mi dice di non cadere per non bagnare le medicine. Finalmente arriviamo alla maloca e ci mettiamo a servizio dei medici.

Le strade costruite nella giungla sono il miglior sistema per eliminare la popolazione indigena. Essendo rialzate dal piano della foresta, senza sufficienti tubi o ponti per lasciar scorrere l’acqua, generano moltissime zone di ristagno dove si moltiplicano le zanzare portatrici di malaria. In più, il contatto degli operai con gli indigeni porta le nostre malattie, letali per loro che non hanno tutti i nostri anticorpi.

A proposito dei piranha

Padre Giovanni deve dar da mangiare a parecchia gente che lavora nella missione e per questo va a pescare e cacciare selvaggina, così un giorno mi invita ad andare con lui. Partiamo la mattina insieme a un cacciatore e raggiungiamo un punto del fiume Catrimani. Fatto scendere il cacciatore dal camion, ci dedichiamo alla pesca. Prima prendiamo dei pesci piccoli, li tagliamo e li mettiamo come esche su alcuni ami molto grossi legati con filo di ferro doppio a una robusta corda di plastica. Lanciamo il tutto nell’acqua. Nel caso in cui ci siano dei piranha, al secondo morso mangerebbero tutto. Perciò al primo segnale devi tirare la lenza e se l’amo ha agganciato un piranha bisogna portarlo contro la canoa e con il macete fracassargli la testa, altrimenti si rischia di finire come quello yanomami, di cui mi racconta padre Giovanni, che aveva perso un polpaccio a causa del morso di un piranha tirato fuori dall’acqua senza prima ammazzarlo.

Un giorno, sempre mentre siamo in barca sul rio Catrimani vediamo una nuvola di piums (insetti molto piccoli). Padre Giovanni mi spiega che ve ne sono di diversi tipi, anche pericolosi. Nel prosieguo della giornata soleggiata e molto calda, con qualche nuvoletta bianca qua e là, a un certo punto padre Giovanni mi dice: «Elio, metti tutto dentro il sacco impermeabile». Mi passa per la testa il pensiero che abbia un colpo di sole o che sia sotto l’effetto dei morsi dei piums, però, memore degli episodi precedenti, ubbidisco subito. Non faccio in tempo a raccogliere le macchine fotografiche e i contenitori con il pranzo al sacco, che in un minuto la barca si sta riempiendo di pioggia. Padre Giovanni che è alla sua guida, mi passa una ciotola e mi dice: «Butta fuori l’acqua dalla barca». Riusciamo a trovare riparo sotto un grande albero e aspettiamo che finisca il temporale.

Saffirio padre Giovanni

Rientro

Dopo tante peripezie riusciamo a portare a termine la parte burocratica dell’adozione e finalmente possiamo portare Yana in Italia.

Di questa esperienza mi rimarrà il ricordo molto forte di un momento di sconforto di padre Giovanni il quale si vergogna di appartenere al mondo occidentale per tutte le malefatte e i dolori provocati agli Yanomami, e per la distruzione della natura.

Passati alcuni anni, nel periodo in cui padre Giovanni sta negli Stati Uniti, ogni tanto torna dai suoi a Bra e mi racconta dei suoi studi e delle sue ricerche.

Un giorno mi dice che sono fortunato, e questo mi colpisce. Mi rendo conto in questo momento di quanti doni gratuiti ho, e do per scontati.

Ringrazio Dio per questo

Elio Operti




Costa d’Avorio. Francesco, artista della cura

 

Negli anni del mio servizio di responsabilità come superiore generale nell’Istituto Missioni Consolata, ho avuto più occasioni per incontrare Papa Francesco. Non solo insieme agli altri superiori in assemblee tra responsabili, ma anche in momenti personali nei quali si è toccato il cuore della Chiesa e la preoccupazione per diverse situazioni complicate che esigevano un discernimento profondo e ben accorto.

La prima cosa che sempre mi colpiva era la sua calma nell’affrontare temi scottanti e difficili. Papa Francesco non perdeva mai la sua serenità e la sua calma, insieme al suo sorriso. Rimaneva a riflettere silenzioso ma non dava mai segni di esagerata preoccupazione o di una sofferenza esasperata.

Una seconda caratteristica che mi ha sempre colpito era la sua grande umanità, come faceva anche il nostro fondatore, san Giuseppe Allamano, Papa Francesco rimaneva concentrato sulla persona che aveva davanti con le sue problematiche e le sue tematiche, sembrava che il mondo ed il tempo si fermassero per lui danti alla persona che incontrava.

Un terzo elemento caratteristico di papa Bergoglio era il suo essere fuori dagli schemi, sia nel parlare che nell’agire. Portava la sua parola, il suo modo di sentire le situazioni e gli avvenimenti, non parlava da papa ma da papà.

Come ho provato a dire nelle diverse occasioni nelle quali ho avuto la grazia d’incontrarlo, ogni volta ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte al mio fondatore. Non ho avuto la gioia di conoscerlo, ma da quello che ho sentito e letto di lui, mi sembrava «rivivere» nel nostro caro Papa Francesco.

Il ricordo più prezioso che porto nel cuore teneramente di Francesco, è quello di un Papa che ci ha insegnato, e ha insegnato al mondo, l’arte del prendersi cura. Prendersi cura degli altri, della natura, del mondo e di ogni situazione che ognuno vive nella sua storia.

Papa Francesco ha camminato nella nostra storia, scandendo i verbi della carità nella logica del Vangelo: una logica che invita a uscire da se stessi per accogliere l’altro, a riconoscere nell’umanità ferita il volto di Cristo, a trasformare ogni incontro in un’opportunità di amore autentico e gratuito.

Papa Francesco è stato samaritano nei pensieri e nei gesti. Ci ha ricordato che essere Samaritani non è un dono di santità ma un esercizio e un’azione quotidiana, un modo di anticipare il cielo sulla terra.

Grazie caro papa Francesco perché sei stato buon Samaritano in mezzo a noi e ci hai insegnato a essere poeti della carità, testimoni di speranza, artisti della cura e a continuare a far fiorire il mondo sotto il peso leggero del nostro amore.

Riposa in pace e, questa volta, prega tu per noi!

p. Stefano Camerlengo, Dianra, Costa d’Avorio, 23 aprile 2025




eSwatini. Il mio papa imprevedibile

 

Un giorno di maggio del 2013, dopo che papa Francesco era stato eletto vescovo di Roma, io, che ero vescovo in Sudafrica, ho pensato di scrivergli, raccontandogli come la sua elezione fosse stata accolta nella nostra parte del mondo.
Il nunzio apostolico mi assicurò che la lettera sarebbe arrivata a lui e non a uno dei suoi segretari. E fu proprio così. Circa un mese dopo ricevetti una sua risposta scritta a mano. Non me lo sarei mai aspettato.

Tanto meno quello che è successo dopo.

A luglio Papa Francesco si è recato a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù e ha chiesto di organizzare un evento speciale per chi arrivava dall’Argentina (una folla enorme, come potete immaginare!). Dato che io sono Argentino, i vescovi mi hanno invitato a unirmi a loro.
All’arrivo del papa in cattedrale, i vescovi argentini lo hanno salutato con entusiasmo (era la prima volta che lo incontravamo come Papa!). Mi sono presentato non aspettandomi che si ricordasse di me. Mi ha detto: «Hai ricevuto la mia lettera?».
È stato travolgente. In mezzo a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui, come poteva ricordarlo?

Al di là delle sue omelie, dei suoi discorsi e dei suoi documenti, si potrebbero scrivere pagine e pagine sul fatto che facesse sentire unica ai suoi occhi ogni persona che lo incontrava.

Credo che come Sacbc (vescovi di Botswana, Eswatini e Sudafrica) non dimenticheremo mai le due visite ad limina che abbiamo avuto con lui nel 2014 e nel 2023.

Il primo non lo dimenticheremo perché, accogliendoci (in due gruppi in due giorni diversi), ha esordito: «Come si dice nel calcio, il pallone è al centro, chi lo calcia per primo? Di cosa vorresti che parlassimo?».
Era uno spazio aperto per noi per parlare con il successore di Pietro di qualsiasi argomento avessimo nel cuore. Era totalmente nuovo per noi. Ricordo infatti ancora uno dei vescovi che disse dopo l’incontro: «Ho aspettato 20 anni per un momento così».

Il secondo incontro è stato segnato dal fatto di essere stato annullato. Il Papa era in ospedale dopo aver subito un intervento chirurgico importante.

Il giorno in cui è stato dimesso, alcuni di noi si trovavano all’ingresso della sua residenza proprio nel momento in cui è stato riportato dall’ospedale. Mi ha visto e mi ha chiesto se fossimo lì per la visita ad limina e quando ci saremmo incontrati. Ho detto: «L’incontro è stato cancellato. Tu eri in ospedale ma tu sei il Papa e… sei imprevedibile!». Ha salutato gli altri vescovi e poi ha detto: «Dite ai vescovi che potremmo incontrarci dopo pranzo».
Nessuno si aspettava che un uomo di 86 anni trovasse il tempo per noi dopo un intervento chirurgico importante. Eravamo solo noi e lui, nessuna segretaria, nessun protocollo, nessuno a tradurre! Era il vescovo di Roma con i suoi fratelli vescovi nel modo più informale. Non sono stati gli argomenti di cui abbiamo parlato quel pomeriggio a rimanere nei nostri cuori, ma quello che abbiamo visto anche domenica scorsa: il suo dare tutto il suo tempo e le sue energie a tutti i costi.

Attraverso momenti come questi, attraverso le sue lettere personali, telefonate, visite… si è fatto vicino a tutti noi, ha testimoniato la cura amorevole di Dio per ogni persona, ma ha anche, silenziosamente, richiamato tutti noi a prenderci cura gli uni degli altri, ad apprezzare il dono gli uni degli altri e, a noi vescovi, ha mostrato il modo in cui siamo chiamati a prenderci cura di coloro che ci sono stati affidati.

+ José Luis Ponce de León, Imc, vescovo di eSwatini




Mozambico. Francesco, papa missionario

 

È stato con sorpresa e profonda tristezza che, la mattina del 21 aprile, alla missione di Boroma, fondata dai gesuiti alla fine del XIX secolo, ho ricevuto la notizia del ritorno di Papa Francesco alla casa del Padre.

Era un grande amico del Mozambico, Paese che ha visitato nel settembre 2019. L’ondata di affetto suscitata dalla semplice figura di Francesco ha unito tutti i mozambicani, indipendentemente dal partito politico, dall’etnia e persino dall’appartenenza religiosa. Ci ha lasciato un messaggio di pace e riconciliazione e gesti di solidarietà concreta con le vittime mozambicane dei disastri naturali e dell’insurrezione terroristica a Cabo Delgado, nel Nord del Paese.

Si è detto e si dirà molto su Papa Francesco. Per me è stato un padre e un fratello per tutti. Un Papa missionario, che mi ha ispirato molto nel mio lavoro pastorale come Vescovo di Tete, cercando di rendere questa Chiesa locale, dove i Missionari della Consolata sono arrivati 100 anni fa, una Chiesa «in uscita», con le porte aperte a tutti, una Chiesa missionaria.

Ci lascia con l’impegno di continuare a essere fedeli al Vangelo nella nostra vita quotidiana, come discepoli-missionari del Signore Gesù, che è risurrezione e vita. Speranza dell’umanità.

Sono grato a Papa Francesco per il suo esempio di vita e per le sue parole ispiratrici e trasformatrici rivolte ai fedeli e al mondo: il suo invito a vivere la fede nella gioia e nell’«uscire», senza paura di abbracciare tutti, la sua preoccupazione per i più dimenticati, i più piccoli, i più bisognosi, nella consapevolezza che siamo tutti fratelli e sorelle; e anche la sua vigorosa e instancabile denuncia di un’«economia che uccide», mettendo in pericolo il pianeta, di tanti conflitti che configurano la «terza guerra mondiale a pezzi», così come dei peccati della Chiesa stessa, abusi sessuali, abusi di potere o abusi economici.

Grazie, Francesco.
Perché, come Papa, sei sempre stato un fratello.
Perché, come gesuita, sei sempre stato un missionario.
Oggi piangiamo con te, ma soprattutto ti ringraziamo.
La tua vita è stata il Vangelo condiviso.
La tua morte, un seme di speranza.

+ Diamantino Antunes (Imc), vescovo di Tete, Mozambico – 22/04/2025




Mongolia. Francesco per il cardinale missionario Marengo

 

In queste ore siamo tutti scossi. È difficile ordinare i pensieri e tradurli in parole di senso compiuto. È un grande shock, che ha bisogno di essere attraversato con fede.

Ci vorrà del tempo per capire fino in fondo la portata del pontificato di Papa Francesco. Quello che mi sento di dire adesso è che vedevo incarnata in lui una profonda paternità, che ho sperimentato personalmente in varie occasioni. Mi sentivo attratto dalla sua libertà interiore e dal suo ascolto delle mozioni interiori dello Spirito Santo.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, Papa Francesco è il Pontefice che ha canonizzato il nostro santo Fondatore e che ha dato un impulso missionario grandissimo alla vita e alle scelte della Chiesa.

Con il suo magistero e con il suo esempio ha riportato la missione evangelizzatrice della Chiesa al centro della vita reale delle comunità.

Per quanto riguarda la Chiesa in Mongolia, certamente Papa Francesco sarà ricordato nella storia di questo Paese per essere stato il primo pontefice a venire qui. Ma anche per il coraggio dei suoi discorsi profetici sul valore della fratellanza universale e dell’impegno per la giustizia, la pace e l’armonia del creato.

In queste ore sto ricevendo telefonate e messaggi dalle autorità civili e religiose della Mongolia. Uno dei consiglieri del Presidente mongolo mi ha trasmesso le condoglianze del Capo dello Stato, dicendo che Papa Francesco ha scritto a caratteri d’oro una pagina nuova nella storia delle relazioni tra Mongolia e Santa Sede.

Poco fa mi ha chiamato l’Abate primate dei buddhisti mongoli, il Hamba Nomun Khan Javzandorj, con il quale non più di tre mesi fa avevamo avuto la gioia di incontrare personalmente Papa Francesco in Vaticano. Mi ha voluto dire che, su richiesta esplicita del Presidente della Mongolia, la comunità monastica buddhista del tempio Gandantegchinlen, domani offrirà una preghiera rituale per l’anima di Papa Francesco, come già avevano fatto durante il suo recente ricovero ospedaliero.

Papa Francesco è stato capace di parlare al cuore di tutti. Abbiamo tanto da imparare e da applicare alla nostra vita di servi del Vangelo.

Cardinal Giorgio Marengo (21/04/2025)




Giubuti. La missione «un po’ più in là»


La missione in un contesto islamico è sfidante.  Si fa con l’esempio della vita di ogni giorno. E il dialogo si realizza nel silenzio. Le «figlie» di san Allamano sono a Gibuti da 20 anni. E si spingono dove nessuno va.

La prima grande, contundente esperienza per chi arriva a Gibuti, avviene quando si esce dall’aereo e si è sopraffatti da un caldo infernale. Il piccolo aereo, nel piccolo aeroporto della capitale, parcheggia vicino alla costruzione che, in pochi metri quadrati, racchiude il controllo passaporti, la raccolta dei bagagli e il controllo doganale. Eppure, in tutta questa piccolezza, c’è da scendere la scala dell’aereo e percorrere pochi metri sotto il sole rovente, prima di entrare, con grande sollievo, nella costruzione con aria condizionata. È il primo test di sopravvivenza a cui sono sottoposti tutti coloro che arrivano a Gibuti.

Lo raccontano anche le sorelle missionarie, con un ricordo vivo: lo vissero anche loro quando, nel 2004, arrivarono in questo Paese del Corno d’Africa, un lembo di terra desertica lambito dalle onde del Mar Rosso.

Le porte del Mar Rosso

La capitale di Gibuti ha accolto per diversi anni la comunità delle Missionarie della Consolata. Atterrate nel mese di settembre 2004, insieme a una comunità di Missionari della Consolata, le sorelle spesero un primo tempo per lo studio della realtà. Su orientamento del vescovo, monsignor Giorgio Bertin (francescano, oggi vescovo emerito), si inserirono poi nelle attività della Chiesa locale, prestando servizio alla Caritas, in un orfanotrofio e nell’ambito sanitario. Fin dall’inizio fu chiaro il tipo di annuncio del Vangelo possibile in una realtà musulmana: la carità e la testimonianza di vita. «Tutte le sorelle si sono subito gettate dentro queste attività con tanto amore e con tanta gioia», racconta suor Anna Bacchion, la decana della Consolata, ormai da più di 20 anni a Gibuti. E possiamo senza ombra di dubbio inserire anche lei in questo vortice di passione missionaria. Dopo i primi anni, nella città arrivarono altre congregazioni religiose, dedite in particolare all’educazione. La Chiesa cattolica, infatti, è molto impegnata nell’istruzione. Per l’alfabetizzazione utilizza uno speciale metodo chiamato Lec (lire, écrire, compter), e gestisce nella capitale alcune istituzioni educative di livello superiore, molto apprezzate dalla popolazione. Un giorno, però, nelle nostre missionarie sorse un’inquietudine: «Tutta la Chiesa si trova nella capitale. Noi siamo missionarie, non c’è nessuna presenza di Chiesa nel resto del Paese, perché non andiamo dove non c’è ancora nessuno?». Questa inquietudine alimentò un tempo di discernimento comunitario e – senza dare troppo nell’occhio – diventò il dinamismo della missione in Gibuti: l’andare un po’ più in là, dove non c’è la Chiesa. Lo stesso dinamismo che aveva spinto san Giuseppe Allamano a fondare due Istituti missionari per la prima evangelizzazione.

Ali Sabieh

Cittadina di circa 20mila abitanti al Sud del Paese, Ali Sabieh si trova al confine con l’Etiopia, da cui riceve l’acqua potabile, vari prodotti alimentari, e da cui arrivano tanti giovani in cerca di fortuna. Nel 2009 arrivarono ad Ali Sabieh suor Redenta Maree e suor Dorota Mostowska. Nel 2013 si trasferirà in questa cittadina tutta la comunità MC, lasciando a Gibuti solo una piccola casa, nella quale giungere quando si ritornava in capitale. Quando arrivarono, non c’era nessun cristiano ad Ali Sabieh. Ancora oggi, oltre alle sorelle e al sacerdote, c’è solo una famiglia cristiana malgascia che si trova lì per lavoro.

«L’evangelizzazione in Gibuti non si realizza facendo il catechismo. Si fa con la vita, amando e servendo le persone», afferma suor Grace Mugambi, da 12 anni nel Paese. E dai saluti per strada e i commenti ascoltati nell’ospedale, dove la missionaria lavora, si capisce che le sorelle offrono il Vangelo attraverso una vita di donazione, ed è ben accolto dalla gente. «Loro vogliono che diventiamo musulmane e si intristiscono perché non ci convertiamo», ride suor Grace.

Ma il dialogo con i musulmani è possibile in Gibuti?

«Realizziamo il dialogo nel silenzio: per esempio, i giovani che vengono nella nostra scuola di alfabetizzazione, molte volte non hanno speranza per il futuro. Con gli anni, costruiamo insieme possibilità, e loro riconoscono il valore di questo servizio».

Ad Ali Sabieh, oltre alla scuola di alfabetizzazione, le sorelle hanno aperto una scuola inclusiva, «La scuola per tutti», che raccoglie una ventina di bambini e ragazzi disabili. Inoltre, si offre un corso di taglio e cucito alle donne: sono piccoli gesti rivolti alle persone più emarginate, e sono atti che dicono molto alla gente.

Obock

Il sudore cola sul corpo a rivoli. L’umidità è alta e la temperatura estremamente elevata. Obock è l’ultimo «un po’ più in là» delle Missionarie della Consolata in Gibuti. Piccolo paese che si affaccia su uno stretto del Mar Rosso, dirimpetto allo Yemen.

Dal suo porto ogni notte partono barche che raggiungono il Paese della penisola arabica, mèta ambita dei migranti etiopici che, dopo aver affrontato la traversata del deserto gibutino, si affidano ora a barconi precari gestiti da organizzazioni criminali che assicurano l’arrivo in Yemen, ultima tappa prima di raggiungere l’Arabia Saudita. Ma non tutti arrivano, e spesso il Mar Rosso si converte in un cimitero di corpi, di sogni e di speranze. Vi ricorda qualcosa tutto questo?

Le sorelle sono arrivate a Obock nel 2020: anche qui gestiscono una scuola di alfabetizzazione, ma al loro arrivo le aule erano quasi deserte. Le famiglie (qui in maggioranza di etnia Afa) non sentivano la necessità di far studiare i propri figli. Come fare? Come suor Irene Nyaatha: andando a visitarle e spiegando l’importanza dell’istruzione. Tutto questo sotto il sole cocente. Ma i risultati non hanno tardato ad arrivare: la scuola Lec conta circa 70 alunni, con una percentuale bassissima di abbandono scolare. Come ad Ali Sabieh si offre anche un corso di taglio e cucito per donne e ragazze.

Il giorno della canonizzazione di san Giuseppe Allamano, il 20 ottobre 2024, le sorelle si sono riunite con tutta la Chiesa di Gibuti per celebrare la gioia della santità del Fondatore e la gioia di essere a Gibuti da 20 anni: con danze, canti e, soprattutto, con volti radiosi hanno ribadito ancora una volta che «un po’ più in là» dei nostri schemi, delle nostre comfort zone o abitudini (anche pastorali) si trovano un fratello e una sorella che attendono la Consolazione. E quando si arriva, lì si trova il Signore.

Stefania Raspo*

 *Suor Stefania Raspo, missionaria della Consolata, dopo diversi anni in Bolivia è attualmente consigliera generale e responsabile della comunicazione per l’istituto.

 Video: 20 anni di missione in Gibuti




Taiwan. Modernità e missione


Hsinchu è una delle diocesi più giovani del Paese. I cattolici sono una minoranza, ma le opere sociali della Chiesa sono riconosciute. Come le attività di aiuto ai tanti migranti. Il suo pastore è attivo e lungimirante. Lo abbiamo incontrato.

Hsinchu. C’è una certa frenesia questa mattina in Ximen street, via centrale della città di Hsinchu, a un centinaio di chilometri a sud di Taipei, la capitale di Taiwan. Nonostante il caldo umido asfissiante – si toccano i 38 gradi nelle ore centrali del giorno -, fervono i preparativi nella bella chiesa del Sacro Cuore di Gesù per la celebrazione dei dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata nel Paese. Costruita dai missionari gesuiti nei primi anni Cinquanta, la sua originale architettura ripropone tre pagode, una attaccata all’altra, rotonde, di diametro decrescente, con il tipico tetto orientale, che nulla ha da invidiare a quello del tempio alla dea Matzu (la signora del mare), che guarda la chiesa dall’altra parte della via.

Fin dalle prime ore di questo 21 settembre, i fedeli hanno iniziato ad arrivare nella pagoda principale della chiesa, mentre delegazioni di religiosi e amicim di svariate nazionalità, sono passate per un saluto ai padroni di casa.

La parrocchia è stata affidata ai Missionari della Consolata nel 2017, e vi lavorano padre Jasper Kirimi e padre Caius Moindi, entrambi keniani. Ma oggi la festa non è solo dei missionari di san Giuseppe Allamano (attualmente in sette a Taiwan, di cinque nazionalità), o della parrocchia ma, si può dire, è dell’intera diocesi di Hsinchu.

Il vescovo, John Baptist Lee Keh-mien, presiede la messa di anniversario, concelebrata da alcune decine di sacerdoti, di svariata provenienza. Molti vengono da Taipei per l’occasione, come padre Edi Foschiatto, saveriano, tra i primi ad aver aiutato i missionari della Consolata nelle loro iniziali perlustrazioni sull’isola.

Una diocesi giovane

Monsignor Lee, classe 1958, è vescovo di Hsinchu dal 2006. Dal 2020 è anche presidente della Conferenza episcopale regionale cinese, ovvero di Taiwan, ma il nome ufficiale è questo per non solleticare l’irritabilità dei dirigenti della Cina continentale. Le diocesi taiwanesi sono in tutto sei, più l’arcidiocesi di Taipei.

Alcuni giorni prima della festa, andiamo a incontrare monsignor Lee nel suo ufficio, nel palazzo a fianco alla bella cattedrale di Hsinchu. Disponibile e simpatico, durante la nostra chiacchierata intervalla il suo discorso con pacate risate.

«Taiwan è una società mediamente anziana. E tra i cattolici questa tendenza si accentua ancora di più. Nelle parrocchie i due terzi delle persone sono pensionati, e i ragazzi sono rari». La diocesi, per contro, è tra le più giovani del Paese, essendo stata eretta nel 1961: «L’evangelizzazione a Taiwan, iniziata da Sud, dalla città di Kaoshung dove arrivarono i primi missionari nel XVI secolo, è giunta fino al centro, a Taochung, da dove ha “saltato” la nostra zona, ed è passata a Nord, a Taipei. Possiamo dire che abbiamo due generazioni di cattolici qui, mentre in altre diocesi, già centenarie, le famiglie “cattoliche” sono più forti perché hanno una storia più lunga».

Bisogno di missionari

La diocesi di Hsinchu comprende la contea omonima, la contea di Miaoli e il comune speciale di Taoyuan (area dell’aeroporto internazionale), per un totale di 4.750 km2. I cattolici censiti sono circa 40mila.

«In questa zona – continua il prelato – fino a dopo la Seconda guerra mondiale non c’erano quasi cattolici. Poi, quando nel 1949 Chan Kai-shek, persa la guerra contro i comunisti di Mao, insieme al suo apparato militare e statale, ha invaso l’isola, in quest’area sono stati insediati alcuni accampamenti militari. Diversi soldati erano cattolici, da qui l’esigenza di avere dei sacerdoti. Le prime parrocchie nacquero proprio nei pressi degli accampamenti. Fino agli anni Settanta c’è stato un periodo di forte evangelizzazione, che poi si è stabilizzata». Era iniziata la crescita economica, e molti giovani andavano all’estero a studiare, «così il numero dei cattolici non è più aumentato. Oggi abbiamo dei battesimi, ma si equilibrano con i funerali».

Il vescovo mette poi l’accento sulle risorse umane a sua disposizione. Questa zona è stata, fino dai primi anni Cinquanta appannaggio dei gesuiti, come altre erano dei francescani, o di altre congregazioni. «Anni fa in diocesi c’erano in tutto duecento sacerdoti, dei quali cento erano gesuiti. Oggi posso contare su settanta preti in totale. Di questi poi, solo due sono taiwanesi, e sono professori all’università, per cui non seguono neppure una parrocchia». E continua: «I preti della diocesi sono stranieri, sia quelli missionari che quelli incardinati qui. Prevalgono i coreani, poi vietnamiti, filippini, e, più recentemente, africani di svariati paesi. Ma non abbiamo quasi vocazioni locali».

«Io sto invitando preti dall’estero e quelli che arrivano sono giovani. Questo, secondo me, ha l’effetto di attirare più ragazzi nelle parrocchie. Recentemente abbiamo due seminaristi taiwanesi. Forse riusciamo a innescare un circolo virtuoso».

Un altro tema che ha preoccupato monsignor Lee dall’inizio del suo episcopato è stato quello finanziario. Una legge di Taiwan, promulgata all’inizio del suo episcopato, aveva infatti ridotto alcune entrate economiche per la diocesi: «Ho dovuto lavorare per stabilizzare la parte finanziaria, ma adesso ci sono riuscito», dice con orgoglio.

Migranti asiatici

La Chiesa cattolica, pur essendo una minoranza tra le minoranze (vedi oltre), è riconosciuta nella società taiwanese, soprattutto grazie alle attività sociali: educazione, salute, lavoro con la disabilità e, recentemente, le attività con i migranti.

Negli ultimi anni stanno arrivando a Taiwan molti immigrati, in particolare da Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia. Sono attratti dal lavoro nell’industria (in particolare quella per la produzione di semiconduttori, di cui il Paese è grande esportatore), nelle costruzioni (si vedono in città molti cantieri per nuovi palazzi), e nell’accudimento degli anziani.

La diocesi di Hsinchu gestisce tre centri per migranti, nei quali fornisce aiuto per abitazione, questioni legali, sanitarie, per imparare la lingua cinese e assistenza spirituale.

Tra chi arriva ci sono pure i migranti senza documenti in regola per stare a Taiwan. Monsignor Lee ci dice che «ce ne sarebbero più di 10mila. Talvolta la polizia viene a cercarli in chiesa durante le messe, ma noi chiediamo di non intervenire».

La maggioranza dei migranti filippini e vietnamiti sono cattolici, mentre gli indonesiani sono in prevalenza musulmani. «Anche dopo le funzioni della domenica cerchiamo di dare loro assistenza, in particolare grazie a molti volontari. Alcuni di questi sono migranti di più lunga data, che si mettono a disposizione per aiutare. Inoltre, con i sacerdoti loro connazionali (in particolare filippini e vietnamiti), riusciamo a seguirli più efficacemente».

Parlarsi tra religioni

Il vescovo ci racconta che esiste un buon rapporto con le altre religioni presenti nel Paese, abitato da 23 milioni di persone. Buddhismo e taoismo contano le percentuali più alte di fedeli, circa 20 e 19% rispettivamente, poi ci sono le religioni popolari, le cosiddette folk religions (28%), anch’esse molto diffuse e, infine, cristiani evangelici (5,5%) e cattolici (1,3%; dati Academia sinica 2021).

«Con i pastori protestanti abbiamo un incontro ogni mese, a cui partecipano alcuni nostri preti e laici. Siamo in comunicazione con loro a livello della contea di Hsinchu. Per quanto riguarda le altre religioni, durante le feste ci invitiamo vicendevolmente. Ad esempio, alla festa della luce, che noi cattolici facciamo a Natale, invitiamo tutti i leader. Inoltre, io vengo invitato da loro, in particolare ho frequentato alcune feste taoiste. Sia loro, sia i buddhisti, va ricordato, sono di tante correnti diverse».

Fede consapevole

Come presidente della conferenza episcopale, chiediamo a monsignor Lee un commento su come i fedeli taiwanesi vivono la loro fede. «Oggi a Taiwan tutti hanno la possibilità di andare all’università, almeno per il primo livello (bachelor, laurea breve, ndr), mentre un tempo era diverso. Quando ero giovane io, solo il 20% dei miei coetanei potevano seguire gli studi.

Allo stesso modo, adesso la formazione dei cattolici è diventata un fattore importante. Prima essi non conoscevano la Chiesa, non avevano i fondamenti della Bibbia, ma non c’era molta attenzione a questo. Dal 2012 abbiamo una scuola di Bibbia, frequentata da laici. La partecipazione è in crescita e da allora sono stati formati circa 4mila fedeli in tutto il Paese.

Adesso, posso dire, i cattolici conoscono la loro religione e le basi della loro fede. La situazione della diocesi di Hsinchu è simile a quella delle altre: anche qui i credenti iniziano ad avere maggiore conoscenza della dottrina cattolica e della Bibbia».

Questo vuole anche dire che adesso, per un parroco, è più facile trovare dei laici formati che possano aiutarlo. È un grosso cambiamento dell’ultimo decennio.

«In secondo luogo – riprende il vescovo – se la fede diventa più consapevole, ho speranze che nei prossimi anni crescano le vocazioni locali. Sia per i sacerdoti che per le suore».

Contatti cinesi

Chiediamo a monsignor Lee che contatti ha la chiesa di Taiwan con quella del continente, ovvero della Repubblica popolare di Cina (Rpc).

«Molti vescovi della precedente generazione erano originari della Cina continentale, per cui avevano lì parenti e molti conoscenti. Si può dire che erano come un ponte verso il continente e le relazioni erano buone. Ma adesso non è più così. Noi siamo nati e cresciuti a Taiwan e abbiamo meno legami. Inoltre ci sono difficoltà anche dovute alla situazione politica».

Il vescovo ci ricorda che preti e suore della Rpc possono venire a studiare teologia a Taiwan: «Noi forniamo una borsa di studio ogni anno a trenta persone della Cina continentale. Da qualche tempo però, è aumentato il controllo sui religiosi da parte del governo cinese, e ne vengono circa la metà».

Ci sono poi restrizioni del governo taiwanese per lavorare nel Paese: «Possono studiare qui ma non fermarsi. Ci sono cittadini della Rpc che hanno assunto altre nazionalità, in questo caso è loro consentito di integrare le nostre diocesi».

Approfittiamo per chiedere al vescovo un commento sulle tensioni tra Taiwan e Rpc, e anche se i taiwanesi temano un’invasione da parte dei comunisti: «Sono i militari a essere coinvolti ogni giorno su questo tema. Per ora la gente non ha ancora paura. Penso anche che alcuni uomini d’affari taiwanesi siano influenzati dalla situazione, diversi di loro stanno trasferendo le imprese e business dalla Cina ad altri paesi. Non tanto perché pensino a un’invasione, ma perché mentre prima era facile fare buoni affari con la Cina continentale, oggi sta diventando sempre più difficile».

«Lavorano bene»

Torniamo ai dieci anni di presenza dei missionari della Consolata a Hsinchu.

La parrocchia di Ximen street era la base dei gesuiti per tutta la diocesi. «Quando, nel 2017, visto il ridotto numero di sacerdoti, non sono più riusciti a gestirla mi hanno chiesto di mandarvi qualcuno con una buona esperienza. Alcuni missionari della Consolata erano già in diocesi dal 2014. Stavano studiando la lingua e la cultura. Io avevo sentito dire che lavorano molto bene, hanno buone vocazioni e gestiscono tante parrocchie, quindi sanno come prendersene cura. Per questo motivo ho proposto loro la gestione del Sacro Cuore di Gesù».

Monsignor Lee si alza in piedi e ci mostra un quadro della Madonna. Maria tiene tra le mani Gesù e sembra che lo porga a un bambino in piedi di fronte a lei: «È nostra Signora di Hsinchu», ci dice con il suo gran sorriso.

Marco Bello


A casa di Peter e Jennifer

Il cattolico buddhista

Peter e Jennifer sono due parrocchiani del Sacro Cuore di Gesù, in centro a Hsinchu. Mi invitano nel pomeriggio a casa loro per bere il tè. È una casa semplice e decorosa, al piano terra di un basso edificio. Nel cortiletto antistante, vi sono molte piante tra le quali diversi bonsai. Peter è un appassionato di tè e utilizza tutto un rituale preciso per consumare la bevanda, da solo o con amici. Ci sediamo uno di fronte all’altro, tra noi un tavolo ricolmo di dolci di ogni tipo. Davanti a lui, ha una tavoletta di legno sulla quale è appoggiata una piccola teiera. A destra, fuori dal tavolo, c’è un bollitore sempre pronto.

Peter, parla un po’ di inglese, e questo facilita la comunicazione. Mi racconta la sua storia.

Peter ha lavorato per trent’anni nell’esercito di Taiwan, poi, congedato, ha cercato un altro lavoro ed è attualmente alla Tsmc (Taiwan semiconductor manufacturing company, la maggiore società di produzione di circuiti integrati del Paese) nell’ambito della sicurezza.

«Ho 67 anni. Circa 15 anni fa, al mio capo, tornato da una permanenza nella Cina continentale, è venuto un tumore ed è morto in pochi mesi. Aveva due anni meno di me. È stato un duro colpo. Ho lasciato la fede cattolica e ho iniziato a seguire le pratiche buddhiste». Sua moglie Jennifer, invece, ha continuato a frequentare la parrocchia.

Alcuni anni dopo al Sacro Cuore arriva un nuovo prete, è un africano. Jennifer lo presenta a Peter. I due diventano amici e prendono spesso il tè insieme, come facciamo noi oggi. Finché qualcosa cambia in Peter: «Decisi di tornare alla Chiesa, e domandai al missionario di confessarmi. Penso che lui sia stato mandato dal Signore per salvarmi».

«La religione che seguiamo è una specie di destino – ci dice solennemente -. In famiglia siamo in sei, tra fratelli e sorelle, e solo una sorella è cattolica».

Gli chiediamo cosa gli è rimasto del buddhismo: «Ho praticato per dieci anni. Alcuni insegnamenti del Buddha mi sono entrati dentro, ma penso che la cosa più importante sia la misericordia del Signore. Ti aiuta a discernere cosa è meglio per te».

Peter fa un confronto: «Gesù ha avuto solo tre anni per insegnare il suo pensiero, il Buddha, invece, ne ha avuti 59. Gesù ci ha insegnato a sacrificarci per gli altri, e questo non è facile. Un insegnamento molto forte». E continua: «Il missionario africano mi ha dato l’esempio con il suo comportamento». Quel sacerdote era il kenyano padre Mathews Odhiambo.

«Quando ero nell’esercito ho subito alcuni incidenti e me la sono cavata: ho sentito la protezione di Dio. Quando cercavo un lavoro, ho pregato il Signore che mi aiutasse. Sovente, mentre prego sento la sua presenza». Dicendo queste parole, Peter, il cui viso ha tratti duri, che fanno intravedere il suo passato di militare, si commuove e i suoi occhi si inumidiscono.

Cerchiamo di toglierlo dall’imbarazzo chiedendo chi è raffigurato nella statua sullo scaffale alla sua destra. Pare un guerriero con una lunga barba, al cui collo è appeso un rosario. «È il generale Guan Ye, una figura della Cina antica. Rappresenta giustizia, coraggio e lealtà. Mi ricorda in particolare di essere leale e di non avere mai paura degli altri». Non lontano dal generale, si trova una statua della Madonna, e subito sopra un bel crocefisso di legno appeso al muro in posizione dominate.

«Lo stesso fatto che noi due ci siamo incontrati, pur abitando così lontani, è un disegno del Signore – sentenzia Peter -. Anche i missionari vengono da lontano e da culture distanti tra loro, ma hanno la stessa fede. Questo è un segno importante».

Ma.Bel.