2 Istituti, 1 Missione


Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore generali delle missionarie e dei missionari della Consolata, eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano.

Suor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a fine anni Ottanta sceglie la missione ad gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale. I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto.

Padre Stefano Camerlengo, marchigiano Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19 marzo del 1984 a Wamba, Congo RD, nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile, l’amore, la dedizione alla missione, e un’apertura mentale plasmata dal pensiero del beato Allamano.

Quando ha scelto di diventare missionario/a? Cosa l’ha spinto/a a lasciare tutto per dedicarti a Dio e alla missione? E perché proprio in questo Istituto?

SUOR SIMONA – Ho deciso quando avevo circa 22 anni e lavoravo come infermiera professionale in un ospedale. Il contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni!

PADRE STEFANO –  La storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere la mia vita con i più poveri, da questa spinta iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo, ringrazio i miei confratelli missionari che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari della Consolata perché sono stati i primi missionari che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo come la mia vera famiglia.

Mi racconti l’emozione più grande che ha provato girando il mondo e incontrando tante realtà in questi anni.

SUOR SIMONA – C’è un’emozione che provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne, vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci ornano con pannocchie di mais e un aguayo (panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre sorelle ci decorano le mani con impasto di henna… e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio, è un dare e un ricevere.

PADRE STEFANO –  In questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare tanti paesi, tante comunità e tanti missionari, la cosa che più mi emoziona è la forza della debolezza. Mi meraviglia sempre e mi fa cadere in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra tantissimi problemi, possono cambiare la storia di un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla notte del mondo. Un’altra emozione forte te la danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini, la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti riempie il cuore e ti fa camminare.

Infine, mi piace ricordare che, come missionario, mi sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario.

Come vede il futuro dell’Istituto. Quali sono secondo lei i punti di forza e quali, qualora ci fossero, le debolezze?

SUOR SIMONA – Un punto di forza è senza dubbio la vivacità del nostro carisma, la missione rivolta ai non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È sempre se stesso e proprio per questo capace di rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca.

Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la «mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro casa nella fruttuosa convivialità delle differenze.  Siamo in cammino, un cammino non facile ma che assolutamente vale la pena di percorrere. Non si può pensare la missione se non a partire dalla comunione.

Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il bene, senza rumore».

PADRE STEFANO –  Personalmente non sono eccessivamente preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono più attento alla qualità dell’Istituto. Mi guida una frase della grande santa Edith Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di forza della nostra famiglia missionaria sono diversi. Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto», la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità. Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di «spirito di famiglia».

Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento…

Si parla di crisi di vocazioni, secondo me dovremmo parlare di crisi di valori e d’identità in Europa. Cosa ne pensa?

SUOR SIMONA – Sì, la crisi di vocazioni mi sembra un segno, un aspetto di qualcosa di molto più vasto. E non solo in Europa. Certamente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa stiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro carisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un tesoro inesauribile; la vocazione a essere Missionaria della Consolata è vocazione alla gioia. E allora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono convinta che il discernimento vocazionale debba essere un processo molto serio, approfondito e esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per questo non spero in grandi numeri, ma nel coltivare in profondità la chiamata di quelle giovani donne che portano nel loro cuore «il Dna della Consolata», donne a cui possiamo proporre una vita che è davvero bella e intensissima. Non ho detto facile, ho detto bella, che è molto diverso.

PADRE STEFANO –  Circa la crisi vocazionale in Europa non ho molte letture sociali e psicologiche da fare, ma appare evidente la crisi di valori che blocca ogni ideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una crisi della gratuità e della donazione: siamo in una società dove tutto ci è dovuto e in cui io non devo niente; senza la gratuità non si capisce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’altro. L’assenza di gratuità provoca anche una mancanza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi. Quando si è troppo piegati su se stessi non si può più dare spazio agli altri; quando i miei problemi sono più grandi e importanti di tutto, non posso chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si perde la compassione non ho più passione per la vita e per la fede e vivo male.

Quali sono le realtà del suo Istituto che secondo lei hanno bisogno di maggiore attenzione e sacrificio?

SUOR SIMONA – Accennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con «lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo.

PADRE STEFANO –  Ce ne sono diverse perché siamo sempre in cammino e dobbiamo cercare di migliorare, di andare avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre aspetti che oggi sono più urgenti.

La formazione:

oggi più di ieri siamo chiamati a curare la formazione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non possiamo realizzare una buona missione. I giovani di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé vivono profonde contraddizioni e fragilità.

Inoltre, c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche parole, oggi dobbiamo studiare molto per capire come funziona la realtà e che cosa possiamo fare per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti della teologia e della prassi missionaria meritano grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare continua. Continua appunto, per significare che non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il nostro pane quotidiano e la base su cui fondare tutto il nostro servizio alla gente nella missione.

La vita comunitaria:

è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali per verificare la qualità della nostra vita evangelica.

L’economia:

la crisi economica, se da un lato è positiva perché ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda. Il futuro della vita consacrata e della missione ce li giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci invita a maggiore sobrietà e condivisione con la gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo deve prendere in considerazione la difficoltà reale di reperire fondi per realizzare la missione e per dare un minimo di stabilità alle comunità.

Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che ci attende su questi temi, ma merita la pena porre mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità dipenderà la fecondità della nostra missione e della nostra vita.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Come pensa possano aiutare i laici e cosa potrebbero fare per l’Istituto?

SUOR SIMONA – Abbiamo diversi tipi di rapporto coi laici… ci sono gli amici, i benefattori, i volontari, e ci sono i «Laici missionari della Consolata», ai quali ci lega un particolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel senso che i Lmc condividono con noi suore e con i confratelli missionari il dono dello stesso carisma, vissuto secondo le modalità proprie della vocazione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicuramente essi ci offrono è quello dell’essere parte di una unica famiglia, con tutte le possibilità di dialogo, confronto e crescita nella comunione che questa appartenenza comune ci dona.

PADRE STEFANO –  Prima di parlare dei laici nell’Istituto e della loro importanza, vorrei sottolineare un atteggiamento che, reputo, dovrebbe essere alla base di tutto, e cioè la simpatia per il mondo, per la società in cui viviamo. La nostra missione comporta anche una simpatia con la società alla quale desideriamo portare la bella notizia del Vangelo, una simpatia che ci permette di entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi per incontrarli e per condividere il Vangelo. La simpatia ci conduce ad avere una visione positiva del contesto e della cultura nella quale siamo immersi, scoprendo nella nostra realtà le opportunità inedite della grazia che il Signore ci offre per la nostra missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di dialogo fecondo e costruttivo. Con questo atteggiamento di simpatia possiamo valorizzare anche la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e servizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei laici è fondamentale nella missione, essi sono l’espressione di un carisma che non appartiene a un gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma più è donato e più è credibile, fecondo e visibile. Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono chiamati a rispondere generosamente al Signore che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla conservazione, all’esercizio e alla professione della fede ricevuta e della missione condivisa.

Animazione missionaria. Come l’Istituto la sta portando avanti e cosa pensa dei nuovi metodi di comunicazione come i social network (Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto?

SUOR SIMONA – Beh, questa per noi è una domanda che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che anche nell’animazione missionaria la dimensione della comunione sia essenziale: comunità aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera, di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione.

Vediamo la necessità di aperture missionarie nel mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando come fare per esserci di più e meglio, in questo mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto, siamo nei «lavori in corso».

PADRE STEFANO –  Per una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è un’autentica animazione. Ma la missione è fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno fare nulla autonomamente. Personalmente credo che non ci sia cosa migliore del Vangelo come metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione affinché la Parola e la missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su questo abbiamo già un problema, perché oggi noi facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fantasia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le mani di fango» per condividere con gli ultimi la loro situazione e allora saper narrare il Vangelo dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La strada dell’animazione missionaria oggi è quella della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo a domande che nessuno pone.

Per rispondere alle esigenze della missione attuale è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione missionaria comporta una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale, altrimenti siamo come «cembali squillanti». La missione è sempre nel segno della speranza: speranza fondata in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il Vangelo e per i poveri.

Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo, perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra presenza costruttiva nella storia attuale e guida della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».

Che questo sia il nostro cammino e la nostra strada!

Romina Remigio




La «mia» Irene

23 Maggio 2015, a Nyeri, beatificazione di suor Irene Stefani.
Nyaatha, la mamma misericordiosa, sarà proclamata beata dal cardinal John Njue di Nairobi, legatissimo alle missionarie della Consolata e ai missionari a cui deve la sua educazione. La cerimonia si svolgerà nel campus della Dedan Kimathi University di Nyeri. La prima beatificazione in assoluto in Kenya, dove da secoli si attende il riconoscimento della santità dei 149 martiri di Mombasa, massacrati nel 1631.



Suor Irene Stefani, nata Mercede, una delle prime missionarie della
Consolata, ha dato la sua vita per amore di Cristo, consumandosi fino
all’ultimo. Condivido con voi alcuni pensieri molto personali.

Ho incontrato suor Irene che ero ancora un ragazzino appena dodicenne. Bazzicando attorno all’altare come fedelissimo chierichetto, mi sono imbattuto in un giovane missionario scherzoso e dinamico che, saputa la mia passione per i libri, me ne ha passati «a gogò». Erano «I racconti della brughiera», «I romanzi del brivido» e le vite di missionari e missionarie in Africa, letture che integravano la mia passione per l’avventura, alimentata sui libri di Vee, Salgari e compagni. Un libro spesso, copertina azzurra con due scarponi bene in vista mi prese gli occhi e il cuore. «Gli scarponi della gloria» di suor Giampaola Mina raccontavano di una bresciana e valsabbina come me, una che, come me, aveva bevuto le acque del fiume Chiese. Lessi quel libro di un fiato, e poi lo rilessi ancora e ancora. Lo conservo tutt’ora, foderato con la classica carta marron del tempo. Un incontro per la vita. Due anni dopo entravo anch’io in seminario.

La «mia» Irene è una ragazzina di un paese di montagna adagiato vicino a un piccolo lago da cui esce il fiume Chiese. È un paese di confine. Poco più in là c’è il Trentino che a quei tempi era sotto l’Impero Austroungarico. Da lì i garibaldini erano partiti nella terza guerra d’indipendenza nel loro tentativo di liberare Trento. Una grande rocca domina Anfo, collegata a una serie di fortificazioni sulle montagne vicine. Migliaia di soldati vanno e vengono. La ragazzina si chiama ancora Mercede. È abituata agli scarponi e al lavoro duro. La famiglia è numerosa, il papà nonostante abbia una locanda e commerci in vino, non naviga nell’oro. Questo tempra il carattere della ragazza sana e robusta, formata al lavoro, alla disciplina, alla fede e alla preghiera. Attiva in parrocchia, si lascia contagiare da quel giovane prete missionario, padre Angelo Bellani, che ha l’Africa nel cuore e sta partendo per il Kenya. Ventenne, nel 1911, Mercede va a Torino e diventa suora alla scuola dell’Allamano: uno che vuole che i suoi missionari siano prima di tutto dei santi. Parte per l’Africa a fine 1914. E si trova gettata nel vortice della guerra, la «grande guerra» che insanguina anche Kenya e Tanganika, opponendo inglesi e tedeschi, mentre anche al suo paese, Anfo, vicino al fronte, la chiesa è trasformata in ospedale militare. Lei e le sue sorelle missionarie sono buttate in quel mare di sofferenza che sono gli ospedali militari dove i soldati di ultima categoria, i forzati dei trasporti, i portatori (carriers appunto) muoiono a migliaia. Si parla di 500mila arruolati a forza e 200mila morti. L’esperienza più dura per lei è a Kilwa Kivinje, un posto sperduto a 300 km a Sud di Dar-es-Salaam, un porto di trafficanti omaniti che razziavano schiavi nell’interno del Tanganika. I morti sono talmente tanti che ogni sera vengono accatastati sulla spiaggia perché la potente marea dell’Oceano Indiano dia loro sepoltura. La montanara è instancabile e senza paura. Un angelo per i carriers. Li conosce per nome, li cura, li consola, dono loro il suo splendido sorriso, li accompagna fino alla fine.

Con personale del campo, dott. Elliot al centro

La foto più bella di lei è stata scattata proprio a Kilwa. Il fotografo l’ha bloccata nel pieno dell’azione. L’ha chiamata a posare mentre era impegnata a curare qualcuno. In mano ha una garza, al collo il crocefisso. Interessante quel crocefisso. Non è in posizione da cerimonia, ma da lavoro. Così, col cordino stretto alla gola, poteva essere facilmente gettato dietro le spalle perché non impedisse di chinarsi sugli ammalati e curae le ferite o pulie i corpi martoriati. E quel sorriso che oltre alla bellezza del viso irradia tutta la gioia e la serenità di una donna cui non pesa dedicarsi agli altri perché ha il cuore pieno di Gesù. Ho sempre amato quella foto. L’ho capita di più quando grazie alle nuove tecnologie ne ho fatto emergere i dettagli e ho guardato Irene negli occhi. Una vera missionaria, pronta al servizio del suo Signore che la chiama nei poveri, negli ammalati, nelle persone meno amate. È una donna coraggiosa, conosce la paura, ma l’amore le da tutto il coraggio necessario per gesti di grande gratuità e libertà. Così, nel buio della notte africana, alla luce delle stelle, sulla spiaggia dove una catasta di morti attende l’onda impietosa dell’Oceano che ruggisce contro la barriera corallina, Irene cerca tra i corpi il suo Othiambo (colui che è nato la sera tardi) dato per morto, ma ancora vivo, per farlo rinascere Omondi (nato all’alba) in Paradiso.

È lo stesso coraggio che qualche anno dopo, sulle colline di Gekondi, la spinge alla ricerca degli anziani portati a morire in foresta, in pasto per le iene o altri caivori come il leone o il ghepardo. La foresta. Incute timore di giorno, tanto più di notte. Foresta sono le pulci che ti mangiano le gambe, le formiche caivore su cui è meglio non mettere i piedi, i serpenti, le iene, i mille rumori che ti mettono i brividi. Ma niente ferma la sua passione per chi soffre, chi è ridotto a scarto, sia esso un anziano morente o un bambino abbandonato.

È lo stesso coraggio che trasforma la maestrina in paladina dell’educazione delle ragazze, che va a stanare nei villaggi e sostiene quando lottano pacificamente con i loro genitori che si rifiutano di mandarle a scuola.

L’icona di suor Irene sono i suoi scarponi. Non si portano per stare in casa, in salotto, nella quiete della cappella, nell’intimità del convento. Gli scarponi sono strada, sentirnero, sassi, fango. Sono arrampicarsi sulle erte colline, passare tra le ruvide erbacce, percorrere piste infangate, calpestare le spine. Sono essere in strada per amore, sulle orme di Cristo, alla maniera di Cristo, alla ricerca del suo volto nascosto negli umili, nei poveri, nei sofferenti.

Per questo ho amato questa missionaria dal cuore grande. E mi ha colpito la sua obbedienza. Ha chiesto al padre il permesso per diventare missionaria. E alla sua superiora quello di offrire la sua vita. Le due decisioni fondamentali della sua esistenza. Chiede il permesso non per debolezza, ma per vera umiltà. L’umiltà di chi è cosciente di non essere padrona assoluto della propria vita, ma solo serva per amore. E vuole donare tutto. Fino alla fine.

Gigi Anataloni

Suor Irene Stefani, suor Cristina Moresco, crocerossine al campo di Voi nel 1916, con padre Benedetto Pietro (con bicicletta) e il dottor Tisbone e il suo assistente nell’ospedale da campo per i carriers a Voi, nel 1916

Cenni biografici

La biografia di suor Irene è di una semplicità sconcertante. Il 22 agosto 1891, di sabato, quinta di 12 figli, nasce ad Anfo, un paesino del bresciano sulle sponde del lago d’Idro. Battezzata il giorno dopo, è educata alla fede da genitori ferventi cattolici. Una volta cresciuta, diventa zelatrice dell’Apostolato della preghiera e insegna catechismo in parrocchia.

Nel 1905 padre Angelo Bellani, missionario della Consolata, visita Anfo prima della sua partenza per la missione del Kenya. Tra le ascoltatrici attente c’è anche la nostra, quattordicenne, che aveva già manifestato il desiderio di farsi missionaria.

Nel 1907 le muore improvvisamente la mamma, Annunziata. Nel 1909 il padre si risposa e Mercede si trova bene con Teresa, la nuova mamma. Memore dell’incontro con padre Bellani, alla notizia che a Torino sono nate le suore missionarie della Consolata, Mercede chiede al padre il permesso di farsi missionaria. Vinte le sue resistenze con l’aiuto del parroco, don Capitanio, il 19 giugno 1911, ventenne, parte per Torino. Veste l’abito da suora e prende il nuovo nome di «Irene» nel 1912; conclusi i due anni noviziato nel gennaio 1914, si dedica poi alla preparazione per l’Africa e lo studio delle lingue. Il 28 dicembre parte per il Kenya e il 31 gennaio 1915 arriva a Mombasa, dove, salutando la sua nuova terra, esclama «Tokumye Yesu Kristo!», ovvero «Sia lodato Gesù Cristo!», l’unica frase, per il momento, che conosce in lingua kikuyu.

Appena il tempo di inserirsi e di imparare la lingua locale ed è inviata con altri missionari e missionarie negli ospedali militari dove si curano i carriers, i portatori a servizio dell’armata inglese in guerra con i tedeschi che controllano il Tanganika. Prima a Voi, in Kenya, e poi a Kilwa Kivinje, Lindi e Dar-es-Salaam in Tanzania, per quattro anni (1915-1919) Irene si spende come crocerossina (insieme a quarantacinque altri missionari e missionarie della Consolata e Vincenzine del Cottolengo) in quelle anticamere della morte dove venivano curati migliaia di giovani africani arruolati a forza.

Nel 1920 la troviamo a Gekondi (pron. Ghecondi), nella regione centrale del Kenya, dove si butta nell’insegnamento nella scuola per ragazze e nella visita ai villaggi. Infaticabile e scattante, visita i malati, consola i morenti, recupera i bambini abbandonati, convince i genitori a lasciare che le loro figlie vadano a scuola, segue un gruppo di ragazze desiderose di consacrare la vita a Gesù, e tanto di più. La gente comincia a chiamarla «Nyaatha» (mamma misericordiosa).

Nel settembre 1930, dopo l’annuale settimana di preghiera e ritiro a Nyeri, chiede alla sua superiora il permesso di offrire la sua vita per la missione. Nel frattempo, a Gekondi scoppia la peste. Suor Irene ne è contagiata assistendo un ammalato. Muore il 31 ottobre 1930, a 39 anni. Sepolta prima nel cimitero dei missionari al Mathari, alla periferia di Nyeri, è stata poi posta in un’urna di marmo rossastro nella chiesa della parrocchia del Mathari stesso. Dopo la beatificazione sarà trasferita nella cattedrale di Nyeri, dedicata alla Consolata. (Gi.A.)

Tomba originale di suor (beata) Irene Stefani

Tomba suor Irene nella chiesa del Mathari

Continua