Quando abitare è missione

testo di Luca Lorusso |


Cresciute entrambe con i missionari di Bevera (Lc) e passate per Guayaquil, oggi vivono la missione in Italia. Sono due famiglie che mostrano un volto diverso di Chiesa attraverso «l’abitare» un oratorio per giovani e una canonica per bisognosi.

Abitano a Monza, nell’oratorio di San Rocco, da quattro anni. Il loro «vicino di pianerottolo» si chiama don Luca Magnani, un giovane sacerdote diocesano.

Sono Corinna Melighetti e Mattia Longoni, del ‘78 lei, del ‘77 lui, laici missionari della Consolata legati alla casa Imc di Bevera (Lecco) con un’esperienza di tre anni in Ecuador alle spalle.

Insieme ai loro figli, Pietro di 10 anni, Letizia di 8 e Benedetta di 5, fanno parte del gruppo delle Famiglie missionarie a km0 che, nella diocesi di Milano, conta 27 nuclei famigliari in canonica: sposi che annunciano il Vangelo attraverso il loro stesso essere famiglie cristiane (si veda il dossier MC di dicembre 2019).

«Fin dal principio, la cosa chiara del progetto è stata di non avere incarichi precostituiti – ci dice Mattia -: no portinai, no custodi, ma nemmeno famiglia per i giovani. Ci è stato chiesto semplicemente di abitare qui nell’oratorio, in modo che il nostro contatto con le persone non si sviluppi solo nelle riunioni, ma soprattutto nel nostro vivere quotidiano: portando i bambini a scuola, facendo la spesa…».

A causa del Covid-19 incontriamo Corinna e Mattia solo per via telematica. «Io sono originaria del bergamasco», ci dice lei, insegnante di religione in due licei di Monza. «Lì ho dei parenti e conosco persone che sono mancate per il virus. Anche a Monza. È una cosa che toglie il fiato».

Mattia è avvocato e lavora per l’Asst (Azienda socio sanitaria territoriale) della zona Brianza Nord: «Francamente non ce l’aspettavamo – dice -. Nessuno si aspettava una cosa così lunga».

Casa accogliente

Trecento chilometri più a Est, a Bavaria, frazione di Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso, un’altra famiglia di laici missionari della Consolata «originaria» di Bevera, vive da due anni l’esperienza dell’abitare una struttura parrocchiale. In questo caso con uno scopo preciso: accogliere temporaneamente persone con disagio abitativo.

Pur essendo brianzoli, Chiara Viganò, del 1973, e Riccardo Colombo, del 1972, vivono a Nervesa dal 2006. Prima dell’attuale esperienza, infatti, hanno abitato dodici anni in comunità con i missionari a casa Milaico, a soli 5 km da dove sono ora.

Anche la loro famiglia ha fondamenta che poggiano sulla spiritualità missionaria della Consolata e su un’esperienza in Ecuador. Sono stati dal 2001 al 2002 nella stessa missione di Guayaquil nella quale poi sarebbero stati i Longoni dal 2007 al 2010: «Quando eravamo là – racconta Chiara -, è venuto Mattia a fare un campo estivo, e mi ha detto: “Mi piacerebbe venire qui”».

Chiara e Riccardo hanno tre figli: Paola di 17 anni, Silvia di 15 e Marco di 11. Chiara lavora come commessa in un minimarket vicino a Milaico, Riccardo insegna matematica al liceo del collegio vescovile di Treviso.

Raggiungiamo anche loro tramite videochiamata: «L’idea della “Casa accogliente Giovanna” dove viviamo, chiamata così in memoria di una catechista, è di ospitare persone in difficoltà che possano fermarsi per un certo tempo, risolvere la loro difficoltà e poi ripartire – spiega Chiara -. All’inizio pensavamo di ospitare i migranti che uscivano dai centri di prima accoglienza». «Poi invece – interviene Riccardo -, il primo caso è stato di una famiglia tunisina: una coppia con una bambina, e un cugino. Loro lavoravano e abitavano in affitto, ma il padrone li aveva sfrattati. Il secondo caso era un italiano senza fissa dimora. Oggi i nostri ospiti sono due italiani che non trovano casa perché disoccupati, e poi un ghanese e un togolese che, pur lavorando, non trovano chi dia loro una casa in affitto».

La Consolata nel cuore

«Noi ci siamo conosciuti nel 2000 a Bevera – racconta Corinna -. La missione è stata sempre il filo conduttore della nostra storia. Ci siamo sposati nel 2005, e nel 2007 siamo partiti per Guayaquil, per aiutare nella scuola professionale della missione nel quartiere El fortin.

A Bevera c’era padre Ernesto Viscardi, un missionario capace di aprirti gli orizzonti e di invitarti a prendere in mano la tua vita».

«Io mi sono avvicinato alla Consolata – interviene Mattia -, perché sentivo il bisogno di “fare qualcosa”, di mettere le mie mani a disposizione. Quando l’ho spiegato a padre Ernesto, lui mi ha detto: “Benissimo, se vuoi questo, vai dagli alpini!”. Mi ha aiutato a scoprire che la vocazione missionaria non è segnata dalla logica del fare, ma da quella dell’essere, dello stare.

Quando poi io e Corinna siamo partiti, ci siamo detti: “Portiamo a Guayaquil la nostra gioia di cristiani attraverso il nostro essere coppia, il nostro volerci bene”».

«A dire la verità, sono cose che capisci piano piano – aggiunge Corinna -, e noi le abbiamo capite con più chiarezza alla fine della nostra presenza a Guayaquil, quando è nato Pietro. Fino a quel momento, infatti, eravamo, sì, attenti alle persone, però eravamo iperattivi: il professore la mattina, il bidello al pomeriggio, l’animatore, il catechista. Invece, quando abbiamo sperimentato la fragilità dell’essere genitori di un bimbo appena nato, allora abbiamo capito la debolezza di cui parla san Paolo: più sono debole più sono forte. Molte persone si sono date da fare per noi, e ci siamo scoperti davvero fratelli. È stato un dono bellissimo».

«Un altro aspetto bello dei tre anni in Ecuador è stato quello della fraternità missionaria – aggiunge ancora Mattia -. Eravamo in un quartiere della periferia urbana, sempre sotto tiro. È stato bello sentirsi fraternità con i padri della Consolata, sia nello spalleggiarci, che quando eravamo in disaccordo con loro. Quando penso a questo, ricordo sempre il vangelo dell’invio dei 72 discepoli: quel “non portate niente con voi”, vuol dire “spogliatevi di ogni cosa, di ogni proposta e programma, perché le persone vedano in primo luogo l’intesa che c’è tra di voi”.

In Ecuador abbiamo capito che, al di là dei programmi e delle cose che fai, la gente, per prima cosa, vede come vivi, il rapporto che c’è tra i missionari. E qui a Monza, oggi, questo lo viviamo in pieno, è il nostro primo obiettivo. Fare squadra con i preti della comunità pastorale e con le persone della parrocchia, è l’aspetto che ci dà più gioia».

Missionari in Italia

Anche per Chiara e Riccardo, quello che vivono ora è frutto del cammino iniziato a metà anni ‘90 dai missionari di Bevera. Dopo un’esperienza di Riccardo in Kenya nell’estate 1996, i due hanno avviato una riflessione sul laicato missionario, e così, dopo essersi sposati nel ‘99, sono partiti per l’Ecuador.

Al loro rientro nel 2002, Riccardo è tornato a fare l’ingegnere ambientale, mentre Chiara aiutava a Bevera per l’animazione missionaria nelle scuole.

«L’esperienza in Ecuador ci aveva segnato – racconta Riccardo -, e volevamo ripartire. Dato che nel frattempo erano nate Paola e Silvia, ci siamo resi disponibili per andare dove c’era bisogno, e dove c’era posto per una famiglia». Così, nel 2005, padre Franco Gioda, allora superiore dell’Imc in Italia, ha proposto ai Colombo la casa Milaico: una partenza vera e propria, sebbene entro i confini nazionali.

Vita di comunità a Milaico

«Nel maggio 2006 siamo arrivati a Nervesa – racconta Chiara -. Paola aveva tre anni, Silvia uno e mezzo, Marco sarebbe nato nel 2008». L’obiettivo era di far tornare Milaico un punto di riferimento per l’animazione missionaria sul territorio: «Abbiamo iniziato con campi estivi di due giorni, adesso si fanno settimane intere, e l’estate di Milaico è piena. Oltre ai campi estivi, poi, Milaico propone attività tutto l’anno: la preghiera del martedì, la preparazione dei campi in missione per i giovani, attività nelle parrocchie, il gruppo laici…».

La caratteristica originale di Milaico, fin dalle sue origini nel 1996, è sempre stata la vita comunitaria e la corresponsabilità tra laici e religiosi: «L’idea era quella di creare un clima famigliare. Volevamo una casa a misura di famiglia, magari un po’ più disordinata di una normale casa di religiosi, ma dove le persone si sentissero a casa loro». In dodici anni, i missionari che hanno fatto comunità con Chiara e Riccardo sono stati diversi, tra questi, i padri Renato Martini, Godfrey Msumange, Ermanno Savarino, Osorio Citora Afonso, Piero Demaria, Juan Carlos Araya Carmona, Handino Daniel Mathewos, Moreno Noé João. «Nel 2012 sono arrivate anche Cristina Martignago con la figlia Noemi, che tutt’ora vivono lì. La comunità è vissuta mantenendo una certa indipendenza, e allo stesso tempo condividendo i tempi, gli spazi, e i soldi con la cassa comune».

Cultura dell’accoglienza

Prima del trasferimento a Bavaria, già da un po’, Chiara e Riccardo avevano maturato la decisione che l’esperienza di Milaico per loro dovesse concludersi: «Iniziava a essere un po’ faticoso – confessa Chiara -. Ma soprattutto c’era il rischio che Milaico diventasse troppo a misura Colombo. Era giusto mettere uno stop. Nel novembre 2016, poi, ci era capitato di accogliere alcuni profughi a Milaico per alcuni mesi. Da quel momento ci siamo resi conto che nei dintorni tanti avevano problemi di casa. Allora abbiamo iniziato a riflettere con don Giovanni Kirschner, referente diocesano per la pastorale famigliare con cui collaboriamo da anni, e dopo diverse ipotesi, alla fine abbiamo realizzato questo progetto insieme alle sei parrocchie della comunità pastorale Giavera-Nervesa, alla comunità di Milaico, e grazie all’appoggio deciso della diocesi di Treviso».

Nella scelta di andare in una canonica e non in un altro luogo, la conoscenza delle Famiglie missionarie a km0 è stata fondamentale. «Sono stati Mattia e Corinna a farci conoscere la realtà di Milano – dice Riccardo -. Per me è un’esperienza profetica. Il nostro contratto di comodato è lo stesso usato da loro».

La canonica di Bavaria è una piccola costruzione di due piani più una mansarda. I Colombo vivono al primo, gli ospiti si autogestiscono nelle tre stanze e cucina al piano terra.

«Fin dall’inizio, uno degli obiettivi, oltre a offrire un’abitazione, è stato di aiutare gli ospiti a farsi delle amicizie – racconta Chiara -: cerchiamo di portare qui le nostre molte relazioni, così si crea fiducia reciproca.

Qui abbiamo solo quattro posti letto, quindi non risolviamo i problemi della provincia di Treviso, però vorremmo creare un po’ di cultura dell’accoglienza. Questo è il nostro compito».

Il primato della vita

Corinna e Mattia abitano nell’oratorio, staccato dalla chiesa e in  posizione appartata. Al piano terra ci sono diverse salette, al primo piano, oltre agli alloggi dei Longoni e di don Luca, ci sono gli spazi per i giovani: un soggiorno dove studiano o s’incontrano, una cucina, una sala, e alcune stanze con letti a castello.

Quando sono tornati dall’Ecuador, Corinna, Mattia e Pietro di pochi mesi, sono andati a vivere a Calco, paesino del lecchese. Lì sono nate Letizia e Benedetta. «Ci domandavamo se la missione fosse stata una parentesi», racconta Corinna. «Poi abbiamo avuto un incontro provvidenziale con Eugenio ed Elisabetta, una delle coppie che stavano formando il gruppo delle Famiglie missionarie a km0. Era il 2013. A giugno 2016 siamo arrivati qua».

«Siamo stati presentati alla parrocchia come una famiglia per la “pastorale del caffè” – aggiunge Mattia -, cioè dell’incontro, della relazione. Come ci insegnano i sacerdoti che ci accompagnano, il primato è quello della vita, non del programma. La sfida, quindi, è di decostruire la mentalità dei programmi, per partire dalla vita e aiutarla a crescere. Poi, una volta arrivati, avendo figli, essendo ancora abbastanza giovani, è venuto da sé che il primo contatto sia stato con la pastorale giovanile, e subito dopo con le persone della nostra età».

Il cuore dell’esperienza della famiglia Longoni, comunque, rimane l’abitare: «L’abitare dice molto di come una persona, una famiglia, una comunità vogliono essere». «L’abitare è fare casa – aggiunge Corinna -. Se io abito un luogo, faccio sì che esso diventi la “mia casa”. Gli dò un certo stile, ma poi non è solo casa mia, è la casa di tutti, dove uno può entrare, trovare un volto amico, sentirsi accolto».

«Don Luca ci dice che apprezza la nostra apertura – riprende Mattia -. È lo stile che abbiamo imparato dai missionari della Consolata: quello di non stringere amicizie a gruppetti ma in un unico grande gruppo che è la comunità, dell’attenzione a chi è in difficoltà, dell’avere la porta di casa aperta, dell’accogliere senza formalismi persone a pranzo o a cena, quando capita».

«Anche il fatto di considerarsi sempre un po’ stranieri – prosegue Corinna -, del sentirsi dentro tenendosi un passo indietro, la capacità di dire: “Non è mio”. A questo proposito mi viene sempre in mente padre Giuseppe Ramponi che ci aveva detto: “A Guayaquil ricordatevi di sentirvi come a casa vostra sapendo che non è casa vostra”. Io credo che dobbiamo essere un po’ leggeri. Sapere che niente ci appartiene, che tutto è grazia di Dio da non considerare “roba nostra”. Altra cosa bella che abbiamo imparato dai missionari è che, dovunque vai, la presenza del Signore c’è prima di te, oltre te. Che non sei tu il protagonista di tutto».

Prospettive missionarie

Corinna e Mattina sono al loro quarto anno su cinque a San Rocco. Sta arrivando il tempo di pensare al futuro: «Oggi, con i figli di 5, 8 e 10 anni, siamo nella dimensione dell’avventura – riflette Mattia -. Quando però saranno adolescenti, gestirli in una realtà del genere, francamente, non siamo certi che vada bene. Ci stiamo interrogando. C’è chi fa delle esperienze bellissime, c’è chi invece fa fatica». «Dobbiamo interrogarci sul senso che avrebbe rimanere qui, sulla necessità di prolungare, piuttosto che di offrire l’opportunità a qualcun altro di venire al nostro posto», aggiunge Corinna.

«L’esperienza delle Famiglie missionarie a km0 sta prendendo piede – continua Mattia -. Per noi questa esperienza vuol dire mostrare un volto diverso di Chiesa rispetto alla secolarizzazione da una parte e al clericalismo dall’altra. Però con altri cinque anni qui, rischieremmo di far diventare questo luogo “roba nostra”».

Tra i sogni di Corinna e Mattia, ci pare di capire, c’è quello di una nuova partenza, e quello di lasciare il testimone di San Rocco a qualcun altro, magari una famiglia della parrocchia.

Chiediamo anche a Chiara e Riccardo cosa pensano del loro futuro, benché l’esperienza attuale sia iniziata da poco. In particolare chiediamo loro se pensano di ritornare un giorno o l’altro nella loro Brianza. Mentre poniamo la domanda, passa loro vicino Paola, la figlia più grande, che, con l’accento veneto, dice decisamente di no: «Boh, chi lo sa», risponde Chiara sorridendo, «qui c’è mia figlia che dice no!». «Noi qui abbiamo cinque anni di contratto che potrebbe rinnovarsi, quindi abbiamo davanti un orizzonte di dieci anni… e poi non lo so. Si vedrà».

Luca Lorusso