Sementi nella terra buona

Sommario

Mandimba: prima chiesa dei Missionari della Consolata nel Niassa (1926) – padre Calandri e il sig. Regina davanti alla chiesa

Dall’Oceano Indiano all’Atlantico

Il vescovo di Tete sul centenario Imc in Mozambico

Si celebrano 100 anni di presenza della Consolata. I semi che furono piantati hanno dato molti frutti. E hanno fecondato anche l’Angola. Le crisi non sono finite, e le sfide permangono. Ma si affrontano insieme. 

L’Istituto Missioni Consolata è presente in Mozambico dal 1925. È la realizzazione di un sogno apostolico iniziato da un manipolo di missionari e generato da un carisma che aveva appena 24 anni.

Fu a Tete, più precisamente alla missione di Miruro, nella zona più occidentale del Mozambico, al confine con lo Zambia, e a mille chilometri dalla costa sull’Oceano Indiano, che san Giuseppe Allamano inviò i primi missionari della Consolata in questo Paese nell’ottobre 1925, pochi mesi prima della sua morte. Furono anche gli ultimi che inviò personalmente in Africa.

Come Missionari della Consolata abbiamo un ricco patrimonio di esperienza e di servizio in Mozambico. Siamo conosciuti e rispettati e cerchiamo di essere costruttivi e collaborativi nei confronti della Chiesa locale, difendendo i suoi interessi e lavorando insieme per soddisfare i suoi bisogni.

Quali sono i frutti di questo cammino? Li vediamo nella Chiesa cattolica locale, che è cresciuta come un albero con molti rami.

Sono le 42 parrocchie, missioni che i missionari della Consolata hanno fondato in cento anni, che mostrano il vigore delle loro radici e che manifestano la maturità umana e cristiana che hanno ricevuto dai loro fondatori.

Sono i 225 evangelizzatori, padri e fratelli, che dal 1925 a oggi hanno gettato il seme, coltivato l’albero, curato i vari rami e lasciato la loro impronta ovunque siano andati, attraverso la formazione, la promozione e l’inculturazione, generando così migliaia e migliaia di cristiani che oggi illuminano la Chiesa locale. I loro nomi sono incisi a lettere d’oro negli annali delle missioni che hanno fondato, delle scuole e centri di salute che hanno gestito, delle cappelle o dei centri catechistici che hanno costruito e, soprattutto, degli uomini e delle donne che hanno formato e valorizzato.

Treno in Mozambico anni ’30

Anche in Angola

La ragione della presenza dei missionari della Consolata in Mozambico è, e continuerà ad essere, l’evangelizzazione. Per questo la nostra opzione è quella di scegliere sempre di lavorare nelle situazioni maggiormente «ad gentes», lasciando al clero locale e ad altri missionari le missioni parrocchiali già consolidate.

Negli ultimi dieci anni, abbiamo consegnato dieci parrocchie alle diocesi e abbiamo ripreso l’evangelizzazione nelle zone più periferiche del Mozambico, nei distretti di Marávia e di Zumbo, nella diocesi di Tete. Ci siamo spinti anche in Angola, nelle diocesi di Viana, Caxito e Luena. Abbiamo creato quasi dal nulla cinque nuove parrocchie missionarie: Fingoè e Zumbo in Mozambico; Kapalanga, Funda e Luacano in Angola (per l’Imc, le missioni in questo secondo Paese, dipendono amministrativamente dal primo, ndr).

In alcune di queste regioni, in particolare nella diocesi di Tete (Mozambico) e nella diocesi di Luena (Angola), i missionari cattolici erano assenti da più di cinquant’anni, per cui l’evangelizzazione sta ripartendo quasi da zero. È un lavoro pastorale portato avanti senza mezzi, ma con grande vicinanza alla gente e tanta passione.

La celebrazione del centenario della presenza dei Missionari della Consolata in Mozambico e Angola coincide con altri due importanti eventi. Il Giubileo della speranza e il 50° anniversario dell’indipendenza nazionale di entrambi i Paesi (1975-2025). Nel contesto attuale, segnato da forti tensioni sociopolitiche e da una crisi economica e sociale (si veda articolo pagina 43), i Missionari della Consolata, oggi come in passato, devono essere testimoni di speranza e consolazione.

Mozambicani e angolani conoscono la sofferenza, il lutto e l’afflizione, ma non hanno mai permesso che la vendetta o la repressione fossero il criterio per regolare le relazioni umane, né che l’odio e la violenza avessero l’ultima parola. La ricerca di una pace e di una riconciliazione durature – una missione a cui tutti sono chiamati – richiede un lavoro duro, costante e senza compromessi, e necessita di un Paese più equo e inclusivo, verità e giustizia elettorali e opportunità per tutti, soprattutto per i più giovani. È un processo costante, in cui ogni nuova generazione è coinvolta e nessuno può essere escluso a causa delle proprie scelte politiche.

La cultura dell’incontro

Per questo, il percorso deve essere quello di una cultura dell’incontro: riconoscere l’altro, rispettare le differenze, rafforzare i legami, costruire ponti. In questo senso, è fondamentale mantenere viva la memoria come percorso che apre al futuro, che porta alla ricerca di obiettivi comuni, di valori condivisi, di idee che favoriscano il superamento di interessi settoriali, corporativi o di partito, affinché la ricchezza della nazione sia messa al servizio di tutti, soprattutto dei più poveri. Queste sono le basi di un futuro di speranza, le basi della pace e della riconciliazione.

Quello che viviamo è un tempo decisivo di scelte e di conversione. Tutti sono chiamati a partecipare e a dare il meglio di sé. In umiltà, generosità, integrità, altruismo. In nome del bene comune.

Come in passato, i Missionari della Consolata, pur essendo sempre meno numerosi in un territorio immenso e in due Paesi, dall’Atlantico all’Oceano Indiano, devono continuare a dare il loro umile contributo. Per farlo, devono saper osare e fare sempre meglio. I missionari sono l’avanguardia profetica della Chiesa, non hanno paura, non si rilassano. Il missionario innova, aprendo nuovi cammini per l’annuncio del Vangelo. Oggi, il grande rischio che corrono l’istituto e la Chiesa è l’autoreferenzialità: pensare a se stessi, alla propria sopravvivenza economica e istituzionale. Come ci ricordava papa Francesco, dobbiamo continuare a uscire, andare nei luoghi di prima evangelizzazione. Dobbiamo servire la Chiesa locale dove questa ancora non riesce a svolgere la sua missione per mancanza di risorse umane e materiali.

Inoltre, dobbiamo essere servitori della misericordia di Dio e della consolazione. Testimoniare la presenza di Dio anche tra le ferite di Mozambico e Angola. Dobbiamo guardare al futuro se vogliamo avere un avvenire, credere in ciò che siamo stati, in ciò che siamo e in ciò che saremo.

Diamantino Guapo Antunes

Missionari accampati vicino a un villaggio nella zona di Mandimba. Padre Calandri in piedi in mezzo alla gente, padre Amiotti seduto sotto la tenda.

Cronologia: Dall’indipendenza alla guerra civile

Prima del secolo XV. Il territorio dell’attuale Mozambico è abitato da popolazioni bantu provenienti dall’Africa centrale. Sulle coste gli arabi creano diversi sultanati e commerciano attraverso l’Oceano indiano. Diffondono l’islam nella regione.

Secoli XVI-XVII. I portoghesi arrivano sulle coste e vi costruiscono alcune fortezze (Sofala, e Ilha de Moçambique) nel tentativo di controllare le rotte verso l’Asia. Sono interessati a minerali preziosi, avorio e commercio degli schiavi. L’interno del territorio è percorso da avventurieri portoghesi senza controllo da parte del governo coloniale. Penetrano fino ai regni africani più interni per appropriarsi delle loro ricchezze.

Secolo XIX. L’attenzione degli europei si concentra sullo sfruttamento delle colonie africane. È un periodo di dispute tra il Portogallo e le altre potenze coloniali, in particolare la Gran Bretagna. Il primo vuole unire i territori mozambicani con quelli dell’Angola. Ma il progetto fallisce.

1891. Firma del trattato anglo-portoghese di divisione dei territori di quest’area. Per consolidare la sua presenza il Portogallo si fa più presente nell’interno e sottomette i regni africani.

1910. Con la proclamazione della Repubblica in Portogallo, in seguito alla rivoluzione, le leggi sulla colonia si fanno restrittive per le congregazioni religiose. Vengono nazionalizzati i loro beni e sciolte le comunità. Continua l’opera di occupazione dell’interno, che termina intorno al 1920. Aumenta lo sfruttamento e l’esportazione di prodotti come zucchero e sisal (agave), con incremento dello sfruttamento di mano d’opera locale.

1925, 30 ottobre. Arrivo dei primi missionari della Consolata. Prendono in consegna la missione di Miruru al confine con lo Zambia (2 marzo 1926).

1928, 20 maggio. Padre Pietro Calandri fonda la prima missione cattolica nel Niassa, Nossa Senhora Consolata, a Massangulo.

1960. Vari gruppi iniziano a organizzarsi per ribellarsi al governo coloniale. 

1963. I diversi gruppi indipendentisti si uniscono, sotto l’impulso di Eduardo Mondlane, nel Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico, di matrice marxista). Un anno più tardi inizia la guerriglia per l’indipendenza.

Prandelli P. Guerrino saltato su una mina sulla strada vicino a Esperança il 17 ottobre 1972, aveva 29 anni

1974. Un colpo di stato in Portogallo mette fine al governo di Salazar e Caetano.

1975, 25 giugno. Dopo un breve periodo di transizione, viene proclamata l’indipendenza della Repubblica popolare del Mozambico. Il primo presidente è il carismatico capo della ribellione Samora Machel. Il Mozambico appoggia le lotte d’indipendenza in Zimbabwe e Sudafrica.

1977. Nasce il movimento Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico), composto da conservatori e dissidenti al regime. È finanziato prima da Rodhesia e poi dal Sudafrica, e sceglie la via della lotta armata. Inizia una sanguinosa guerra civile che contrappone la ribellione Renamo al governo Frelimo.

1978. Il governo del partito unico Frelimo considera la Chiesa un ostacolo alla trasformazione rivoluzionaria della società mozambicana. Le strutture ecclesiastiche sono nazionalizzate e clero e missionari hanno libertà limitate.

1992, 22 marzo. Ventitrè catechisti sono assassinati dai guerriglieri della Renamo al centro catechetico di Guiúa, gestito dai missionari della Consolata. Oggi è in corso la causa di beatificazione per martirio.

1992, 4 ottobre. Joaquim Chissano (governo) e Afonso Dhlakama (Renamo) firmaro a Roma l’accordo generale di pace. Il successo è dovuto anche alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio. Nelle successive elezioni il Frelimo mantiene il potere.

2017. Iniziano attentati di matrice islamista nella provincia di Cabo Delgado (Nord).

2024, ottobre. Elezioni presidenziali: viene dichiarato vincitore il candidato del Frelimo, Daniel Chapo.  Contestazioni e proteste in tutto il Paese, che sono represse, causando numerose vittime.

 Ma.B.

Granada Serna P. Ariel Colombiano, ucciso a Mecanhelas in Mozambico il 15 Febb 1991

O Niassa o niente

L’arrivo e I primi anni della Consolata in Mozambico

Questa è la storia di come un gruppo di missionari contribuirono a portare il Vangelo in una zona interna dell’Africa. Dei legami che si crearono, delle vicende personali. Di fede, coraggio e perseveranza. Non sempre le cose andarono per il meglio. Ma il seme attecchì.

Siamo a inizio 1925. La direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata, della quale è ancora superiore Giuseppe Allamano, decide di tentare un’apertura in Mozambico. I missionari sono installati in Kenya (dal 1902), in Etiopia (dal 1916) e in Tanzania (dal 1919). Nello stesso blocco di Paesi, proseguendo verso Sud, c’è proprio il Mozambico e, in particolare la regione chiamata Niassa, il Nord del Paese. Qui non c’è alcuna presenza di missionari cattolici, ma solo di alcuni anglicani.

Monsignor Filippo Perlo, vice superiore (che diventerà superiore generale il 16 febbraio 1926, alla morte di Allamano), contatta il vescovo, monsignor Rafael de Assunção, per offrire la disponibilità all’invio di personale nel Niassa. L’intero Mozambico, sotto il governo coloniale portoghese, è una prelazia (entità pastorale che precede la diocesi).

Il vescovo accetta, ma non vuole italiani nel Niassa, bensì li invia nella regione di Zumbo (attuale provincia di Tete), all’estremo Ovest, al confine con lo Zambia. Qui indica la missione di san Pietro Claver a Miruru.

Purtroppo, il momento storico non è propizio. L’attività missionaria nella colonia è in crisi, gli ordini religiosi sono stati espulsi nel 1911. Inoltre, c’è nazionalismo, anticlericalismo, e rivalità tra il clero secolare e quello religioso.

Quel fatidico 30 ottobre

Il 29 agosto 1925 sono designati i primi otto missionari che dovranno tentare l’avventura. Cinque sono già in Kenya (Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto), e altri tre giungeranno dall’Italia (Lorenzo Sperta, Paolo Borello e il seminarista Secondo Ghiglia). Questi, partiti da Torino, ricevono il crocifisso dalle mani di Giuseppe Allamano. E sono gli ultimi ad avere tale privilegio.

Il gruppo si forma a Mombasa, dove i tre dall’Italia arrivano in nave attraversando il canale di Suez: la gioia d’incontrarsi è grande. Poi si procede via mare fino al porto di Beira, nella zona centrale del Mozambico, dove sbarca il 30 ottobre 1925. La distanza da percorrere via terra è enorme: oltre mille chilometri.

Padre Sperta si ammala e, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya. Gli altri sei procedono in convoglio fino a Chupanga dove passano il primo Natale in Mozambico. Il 28 dicembre partono con un battello per risalire il grande fiume Zambesi, fino alla città di Tete.

Il viaggio è complesso. È stagione secca, il che rende la navigazione difficoltosa. Arrivano a Tete il 10 di gennaio, poi, in cinque, continuano con un vecchio camion verso Miruru. Intanto, padre Peyrani si ferma a lavorare nella città.

La pista è stretta e sconnessa e comincia la stagione delle piogge. Il camion si blocca su una salita.

I cinque non sono molto distanti dalla missione di Boroma e la raggiungono a piedi. Lì si fermano circa un mese, anche per cercare portatori per proseguire con i bagagli. Da Boroma, infatti, si può procedere solo camminando, però mancano circa 400 chilometri alla destinazione. Partiti il 4 febbraio, si scontrano con pioggia, zanzare, fitta vegetazione, febbre, dissenteria. Giungono a Miruru il 2 marzo 1926.

Trovano la missione (fondata dai Gesuiti portoghesi nel 1881, espulsi nel 1910, passata ai Verbiti tedeschi che vengono cacciati nel 1915)  in uno stato di semi abbandono. Di 15 scuole-cappelle ne restano solo due. Intanto, padre Peyrani a Tete partecipa alla pastorale nella parrocchia di san Tiago Maior, lavorando nella formazione religiosa e scolastica della popolazione.

La cappella di Mandimba, con visita di autorità portoghesi

Obiettivo Niassa

Padre Calandri, che era andato in Kenya con padre Sperta, torna in Mozambico con padre Giuseppe Amiotti. Hanno la consegna di andare nel Niassa, ma il vescovo Rafael non dà loro il permesso, quindi il viaggio viene fatto con grande discrezione. Partono in convoglio il 22 giugno da Beira e vanno a Blantyre (Niassaland, attuale Malawi). Da lì in auto rientrano in Mozambico a Mandimba, città di frontiera nel Sud Ovest del Niassa. È il 4 luglio, e sono accolti dalle autorità locali portoghesi. Il giorno successivo celebrano la prima messa cattolica nella regione. Intanto, padre Chiomio, di stanza a Miruru, li raggiunge l’8 luglio. Ha coperto l’intera distanza a piedi.

I tre padri esplorano la regione del Niassa, piuttosto selvaggia, dove ci sono solo alcune missioni anglicane della University mission to central Africa, la più importante delle quali fondata nel 1882.

Niassa: P Calandri.

Padre Chiomio si separa dal gruppo, visita altre aree, poi raggiunse la costa per tornare in Kenya.

L’area è amministrata dalla «Compagnia del Niassa» una compagnia commerciale portoghese, presente ancora prima della colonia, mentre l’occupazione militare portoghese era avvenuta solo nel 1912.

Calandri e Amiotti montano un rudimentale campo nei pressi di Mandimba, e costruiscono una cappella in bambù: la prima chiesa cattolica nel Niassa (si veda la foto di copertina del dossier).

Il vescovo, però, viene a sapere che i missionari stanno operando senza il suo permesso, e ricorda loro di non averli autorizzati a entrare in quel territorio, imponendo loro di lasciarlo. Ma i nostri non demordono. Allora il vescovo toglie loro la possibilità di esercitare il ministero pastorale.

I due padri studiano la lingua locale e accolgono un gruppo di bambini meticci abbandonati. La decisione dell’istituto di entrare in Niassa senza permesso del vescovo crea difficoltà e ritarda la missione. Ha, inoltre, l’effetto di creare sfiducia del prelato nei confronti dell’Imc, e di aumentare l’opposizione di alcuni settori politici coloniali all’arrivo di missionari non portoghesi.

Nelle due realtà, missione di Miruru e accampamento di Mandimba, distanti circa 900 km, quasi senza strade, i missionari vogliono proseguire con il lavoro di evangelizzazione.

Il 18 settembre 1927 arrivano i primi rinforzi: padre Alfredo Ponti e un gruppo di missionarie della Consolata.

Via libera, dall’alto

Finalmente, nell’aprile 1928, dopo diversi contatti tra il vescovo e i superiori dell’istituto, si chiarisce la situazione, e monsignor de Assunção autorizza la fondazione di una missione nella zona di Mandimba. Padre Calandri si sposta più a Nord, a

Massangulo dove il 20 maggio fonda la prima missione cattolica del Niassa: Nostra Signora Consolata. È la regione del popolo Ayao.

Il territorio è selvaggio, ricoperto di foresta e abitato da leoni. Il missionario vive in una tenda e deve proteggere quattordici bambini che accoglie.

Il 31 dicembre 1928 arrivano fratel Guseppe Benedetto da Miruru, e padre Angelo Lunati dall’Italia con un gruppo di missionarie della Consolata.

Padre Amiotti ha ricevuto il gruppo a Porto Amélia (l’attuale Pemba) e lo ha condotto fino al Niassa.

Il contesto si rivela subito ostile all’evangelizzazione. La zona è in prevalenza musulmana, e i responsabili islamici temono di vedersi sottrarre fedeli, per cui minacciano chiunque si avvicini alla neonata parrocchia. I primi battezzati tra gli Ayao sono, infatti, alcuni orfani.

Nubi su Torino

Intanto l’Imc attraversa un periodo turbolento. Nel settembre del 1929, a Torino, il superiore generale, monsignor Filippo Perlo, pioniere della presenza in Kenya, deve lasciare il posto a un visitatore apostolico.

I nuovi superiori vorrebbero chiudere la presenza in Mozambico, ma padre Calandri si oppone fermamente. Riesce a negoziare la chiusura di Miruru, ma il mantenimento di Massangulo, ponte per l’evangelizzazione del Niassa. L’istituto lascia la provincia di Tete nell’ottobre 1930, e vi ritornerà solo nel 2013.

Viste le difficoltà nell’evangelizzazione, lo strumento scelto è quello dell’educazione. Vengono aperte scuole con collegio, per accogliere bambini anche da zone lontane.

Vi lavoravano i padri Lunati, Calandri, Amiotti e fratel Benedetto. Amiotti rientra in Italia nel maggio 1932. Padre Calandri è instancabile, ma anche tutti gli altri fanno miracoli.

Nel giugno 1933, a Torino si installa una nuova direzione generale. Il superiore è padre Gaudenzio Barlassina, il pioniere dell’Etiopia (cfr MC giugno 2023), e due consiglieri sono ex del Mozambico. Si dove decidere cosa fare della missione nel Niassa. Ma su questo, occorre interagire con il vescovo.

Calandri vuole spingersi a Est dai Macúa e a Nord dagli Anyanja. Queste sono popolazioni non islamizzate, e dunque più aperte ad accogliere l’evangelizzazione.

Il vescovo, monsignor de Assunção, continua a subire pressioni da settori nazionalisti della società coloniale portoghese e tarda a dare il permesso per nuove missioni.

Calandri allora, scrive direttamente a Propaganda fide, a Roma, spingendo per un’estensione dell’evangelizzazione del Niassa, e portando come argomentazioni la difficoltà del contesto di Massangulo e le ritrosie del vescovo. Anche i superiori a Torino, intanto, continuano i contatti con la Santa Sede, finché Barlassina ottiene rassicurazioni dal Segretario di stato vaticano. Poco tempo dopo, il vescovo viene trasferito a Capo Verde e sostituito da monsignor Teodosio Clemente de Gouveia.

Inaugurazione del ponte sul fiume Lugenda presso Mandimba nel Niassa

Il lavoro missionario

In questi anni il lavoro missionario è caratterizzato da un’intensa evangelizzazione. Il metodo consiste nella vista dei villaggi, la supervisione dei catechisti, la formazione dei catecumeni, l’assistenza ai sacramenti dei battezzati. Si dà priorità alla catechesi degli adulti.

Monsignor Diamantino Antunes, studioso della presenza Imc nel Paese, scriverà: «I primi missionari furono instancabili nella loro dedizione apostolica: sopportavano con tenacia le situazioni avverse, appresero le lingue (macúa, ciyao, cinyanja, xitshwa e cindau) stabilendo così un contatto diretto e continuo con la popolazione. Senza grandi metodologie pastorali, formarono una valida generazione di cristiani». E inoltre: «Nei diari e nelle relazioni inviate ai superiori è visibile l’esistenza di un forte sentimento di comunione tra le comunità cristiane, disperse nel territorio, e la missione».

Anno di grandi decisioni

Fatta la scelta di restare in Mozambico e, quindi, nel Niassa, si tratta di espandersi. La direzione generale decide di inviare il consigliere padre Vittorio Sandrone, con esperienza di Mozambico, nel Paese, per rendersi conto e pianificare le mosse da fare. Nell’agosto 1936 Sandrone prende possesso della missione di Massangulo. Allo stesso tempo, padre Calandri è richiamato in Italia, dove presenta ai superiori la situazione socio economica e religiosa del Niassa.

Sandrone cerca il consenso del nuovo vescovo per aprire missioni verso Mepanhira e il popolo Macúa.

È solo questione di tempo. A inizio 1938, padre Sandrone riceve la tanto agognata lettera da monsignor Gouveia, che lo incoraggia a perseguire l’attività nella regione. Ritorna alla direzione generale a Roma, e lascia padre Gabriele Quaglia come responsabile della futura espansione. A luglio viene aperta Mepanhira, da dove si assiste una vasta area, che comprende le attuali Mecanhelas e Cuamba. Il 7 di agosto il vescovo visita la missione di Massangulo e presenta a padre Quaglia le sue idee sull’evangelizzazione del Niassa. Adesso occorrono missionari.

Mandimba, 2 ottobre 1927, padre Calandri insegna in una prima scuola all’aperto

L’accordo con il Portogallo

Un passaggio storico importate avviene il 7 maggio 1940: il Portogallo, potenza coloniale, e la Santa sede, firmano un accordo per definire le relazioni tra Mozambico e Vaticano, in particolare l’attività missionaria.

Il territorio missionario, fino a questo momento unica prelazia del Mozambico, viene diviso in tre diocesi: Lourenço Marques (l’attuale Maputo), Beira e Nampula. Questo accordo apre anche il cammino per la presenza Imc in Portogallo, che sarà utile per formare i missionari da mandare in Mozambico, ma anche per trovare nuove vocazioni tra i portoghesi. Dopo i primi contatti nel 1940 con il Vaticano su questa possibilità, il 10 giugno 1943, il primo missionario della Consolata in Portogallo è padre Giovanni De Marchi, che si installa a Fatima, dove apre il seminario dell’istituto.

Nel 1940 la direzione generale nomina padre Domenico Ferrero superiore delegato per il Mozambico. Ferrero è arrivato alla missione di Massangulo l’11 dicembre del 1939 per sostituire padre Quaglia, superiore ad interim, dopo la partenza di Sandrone.

Nel giugno 1941 Ferrero spedisce alla segreteria di Stato Vaticano una relazione sulla situazione missionaria in Niassa: «Nella comunicazione – scriverà monsignor Diamantino – il padre mette in rilievo la dedizione dei missionari e dei catechisti, quanto la corrispondenza pronta e sincera della popolazione in determinate zone all’annuncio del Vangelo. In particolar modo dove l’influenza musulmana è meno forte».

Sono gli anni della Seconda guerra mondiale e le comunicazioni tra Mozambico e Torino si fanno difficili. Padre Sandrone, vice superiore generale, tiene i contatti epistolari con padre Ferrero.

Tra il 1938 e il 1939 sono arrivati nove nuovi missionari e tre suore, sbarcati a porto Amelia il 21 novembre 1939, a guerra già iniziata. Hanno poi percorso 800 km in camionetta per giungere a Massangulo. Tutti i missionari e le missionarie della Consolata non sono comunque sufficienti per le missioni che si vogliono aprire.

Tra il 1940 e 45 è impossibile mandare nuovo personale e quelli in Mozambico rimangono isolati.

Verso Sud

Nel giugno 1945 il cardinale Teodosio Clemente de Gouveia, in visita a Roma, si incontra con padre Gaudenzio Barlassina. È in quell’occasione che invita i missionari della Consolata a lavorare nella sua arcidiocesi di Lourenço Marques (Maputo). Una regione molto grande che unisce i distretti di Lourenço Marquez, Gaza e Inhambane. Il cardinale dice che non ha personale missionario sufficiente, e che «la penetrazione protestante è molto forte […] mentre la presenza cattolica è ridotta ad alcune scuole cappelle, molte delle quali in decadenza».

Padre Barlassina accetta confermando che l’istituto può assumersi la responsabilità dell’evangelizzazione nella parte Nord del distretto di Inhambane.

Subito undici missionari sono designati per il Mozambico, cinque dei quali per il Sud.

La direzione generale invia padre Gabriele Quaglia a Sud, che porta anche padre Giovanni Tolosano. I due vanno a Lourenço Marques a incontrare il vescovo, che nomina Quaglia responsabile dell’arcipretato di Vilankulo.

Per barca e poi in camionetta vanno verso Inhambane e si incontrano, il 2 di agosto, a Massinga con gli altri due padri appena giunti dal Portogallo.

Padre Quaglia scrive poi una lunga lettera al superiore generale, nella quale descrive il territorio e la popolazione. La realtà religiosa, culturale e socio economica è molto diversa da quella del Niassa, ponendo sfide differenti. L’evangelizzazione è legata alle scuole e a chi le frequenta. I cattolici, pochi, sono giovani, ma mancano le famiglie a supporto. Per questo la priorità pastorale deve essere la formazione di catechisti e l’apertura di cappelle, compito che si presenta difficile.

È così che, nel luglio 1946, questo gruppo di missionari fonda le missioni di Massinga e Nova Mambone. Nel 1947, un altro gruppo di missionari apre la missione di Mapinhane, che assiste la popolazione fino a Vilankulo, e nel 1948 Maimelane, fino ad arrivare alla periferia della capitale con la missione di Liqueleva.

Un nuovo territorio

Territorio arido, per mancanza di piogge e terra arenaria, è abitato da una diversità di etnie e composto da tre zone climatiche differenti: la costa, le colline dell’interno, la piana del rio Save.

La zona servita dalla Consolata si trova tra i due grandi poli missionari di Beira e Inhambane, gestiti dai Francescani. «Le enormi distanze – scriverà monsignor Diamantino -, le difficoltà di trasporto, il clima, la scarsità di personale missionario aveva impedito una efficace azione evangelizzatrice. Le visite dei padri alle missioni di frontiera erano rare e l’apostolato era fatto dai pochi catechisti delle scuole cappelle disperse sul territorio».

I protestanti sono presenti e ben organizzati. I cattolici sono pochi. La maggior parte della popolazione pratica religioni tradizionali.

I primi frutti della Consolata in quella zona sono lo sviluppo della missione di Mapinhane, il battesimo di alcuni catecumeni, l’ingresso di tre seminaristi di Massinga e l’apertura di scuole. I missionari studiano la lingua locale e preparano il catechismo portoghese-xitshwa.

Tuttavia l’apostolato nel sud è molto difficile. La popolazione adulta mostra indifferenza e quasi ostilità. Le visite nelle case sono difficili per la diffidenza. I cattolici vivono dispersi, lontano dalle missioni. La frequenza dei sacramenti è bassa. Gli stessi professori-catechisti talvolta mostrano disinteresse a partecipare agli incontri di formazione. L’opera di evangelizzazione si realizza quasi esclusivamente a scuola, ma ci sono pochi alunni e professori scarsi. Sono frequenti i cicloni che causano l’abbandono dei villaggi, la gente migra in città, ma anche in Sudafrica per lavorare nelle miniere. Le scuole restano quasi vuote. Nel marzo 1948 un ciclone nel Nord di Inhambane distrugge molte strutture delle missioni.

Scuola creata e gestita dai Missionari della Consolata nel Niassa

Cambio di generazione

Segue un periodo di grande diffusione dell’evangelizzazione con la nascita di nuove diocesi e di molte missioni. Si sviluppano le infrastrutture con chiese, scuole, collegi, ospedali, maternità e seminari.

Nel 1965 è ordinato il primo missionario della Consolata mozambicano, padre Amadio Dide.

Il 12 agosto del 1967 muore a 74 anni padre Pietro Calandri, pioniere dell’evangelizzazione del Niassa, mentre il 26 ottobre del 1973 è la volta di padre Domenico Ferrari, altra figura emblematica dell’Imc in Mozambico. Padre Gabriele Quaglia si è spento nel novembre 1956.

Periodo di guerre

Irrompe la guerra di liberazione, iniziata nel 1964, che porta all’indipendenza del Paese il 25 giugno 1975. È un periodo difficile, alcuni missionari sono accusati di connivenza con la ribellione ed espulsi.

Anche il governo di stampo marxista-leninista del Frelimo considera la Chiesa un ostacolo e vuole ridurla alla gestione del culto e controllare i suoi membri. Molte scuole, ospedali e altre opere diocesane sono confiscate e nazionalizzate. Alcuni missionari sono arrestati, espulsi, talvolta uccisi (come i padri Guerino Prandelli nel 1972 e Ariel Granada nel 1992).

Il Paese vive una cruenta guerra civile (1977-1992) che colpisce tutto il paese, causando insicurezza, sofferenza e distruzione. Al Frelimo al governo, si oppongono i guerriglieri della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana).

Anche la vita parrocchiale viene ridotta al minimo. Il nuovo apostolato è la presenza, la condivisione nella sofferenza, il martirio e la riconciliazione. La Chiesa emerge come forza in grado di dare speranza al cammino per la pace. La Conferenza episcopale chiede ufficialmente pace e riconciliazione alle parti in lotta. Il papa Giovanni Paolo II visita il paese nel 1988.

Il 4 ottobre 1992 viene firmata la pace a Roma. Un ruolo importante nella mediazione lo gioca la comunità di Sant’Egidio. Il Paese è da ricostruire, come infrastrutture e come popolazione. 

Marco Bello

Trasporto a mano attraverso il ponte del fiume Lugenda nel Niassa

Formare le coscienze

I Missionari della Consolata in Mozambico oggi

Dopo cento anni, gran parte del lavoro missionario è stato fatto. La presenza Imc si è ridotta, ma ha ancora un ruolo fondamentale. In un Paese di grandi fragilità, occorre «costruire» le persone.

Durante questi cento anni, il lavoro dell’Imc in Mozambico è stato importante. La Chiesa locale si è costituita tramite il lavoro dei missionari. Il missionario è colui che va, apre la strada e poi crea certe strutture ecclesiali. Una volta che c’è la Chiesa, si ritira e lascia al clero locale la responsabilità di continuare il lavoro, per andare in qualche altro posto. Noi missionari della Consolata abbiamo fatto questo, specialmente in Niassa e Inhamabane, due regioni che abbiamo evangelizzato da zero.

La nostra presenza ha creato la Chiesa locale. Oggi nel Niassa c’è un numero sufficiente di sacerdoti e abbiamo lasciato ai preti diocesani molte missioni.

In Niassa siamo presenti ancora in tre luoghi: Lichinga, il capoluogo, Massangulo, in mezzo ai musulmani, e a Maúa, missione di promozione umana ed evangelizzazione.

A Tete siamo presenti a Fingoé (non lontano dalla prima missione di Miruru del 1925), nella parrocchia di Tete (vedi MC maggio 2025) e a Ucanha.

A Inhamabane siamo rimasti con due presenze, abbiamo lasciato il centro catechetico di Guiúa (luogo del massacro dei catechisti nel 1992). Siamo a Vilankulo e a Nova Mambone, impegnati nella promozione umana, continuando l’attività di padre Marchiol nelle saline, e dando lavoro a un centinaio di famiglie.

Nel Sud siamo a Maputo in periferia, dove c’è la parrocchia di Liberdade, mentre in città gestiamo la parrocchia vicino alla casa provinciale e poi il seminario a Matola. Qui una ventina di ragazzi studiano (propedeutico e filosofia) per diventare missionari della Consolata.

Pensiamo, infatti, che sia molto importante che nella Chiesa locale ci sia anche una dimensione missionaria. Ovvero che la Chiesa non deve solo pensare a se stessa, ma che qualsiasi Chiesa «missionata» deve a sua volta diventare missionaria.

Oggi, noi missionari della Consolata nel Paese siamo in tutto 24, mentre qualche tempo fa erano un centinaio. Veniamo da varie parti del mondo, tra cui Portogallo, Italia, Brasile, Colombia e poi Kenya, Uganda e Tanzania, oltre a Mozambico.

Molti mozambicani sono in altri Paesi, missionari in Corea del Sud, Colombia, Brasile, Kenya, Italia e Portogallo.

Abbiamo tre vescovi che guidano la Chiesa locale. 

L’arcivescovo di Nampula, Inácio Saure che è anche l’attuale presidente della Conferenza episcopale; il vescovo ausiliare di Maputo, Osório

Citora Afonso, anche lui mozambicano; e il vescovo di Tete, Diamantino Guapo Antunes che è portoghese.

La missione oggi

Quest’anno ricorrono i 50 anni dall’indipendenza, conquistata dal partito Frelimo che è diventato il padrone del Mozambico. La situazione sociale non è migliorata, anzi, il Paese è attualmente nel bisogno, nonostante abbia molte risorse, sia come materie prime che come potenzialità naturalistiche. C’è una grande contraddizione, perché esiste un piccolo gruppo di straricchi, e il resto della popolazione che vive in una povertà vergognosa. Cinquant’anni di questo partito non sono riusciti a realizzare una giustizia sociale, a riequilibrare il potere economico e le possibilità delle persone.

La povertà non è diffusa solo nei villaggi, dove mancano i servizi essenziali, ma anche nelle periferie delle città, dove tanti giovani cercano di sopravvivere facendo qualsiasi lavoro, talvolta illegale.

è Un Paese sotto il domino dell’ingiustizia e della corruzione, con un popolo giovane senza futuro, perché chi finisce gli studi non ha possibilità di svolgere lavori se non quelli governativi. Le fabbriche sono tutte concentrate nella capitale. A Tete ci sono miniere del carbone che occupano molte persone.

La Chiesa ha ancora un ruolo di supplenza dello Stato, ad esempio per quello che concerne l’educazione di qualità. Infatti le scuole pubbliche hanno un livello molto basso. Quelle private sono buone ma costose. Ha, inoltre, un ruolo è di promozione umana, promozione della donna, educazione delle persone, formazione al lavoro; dimensioni che aiutano le persone ad avere un presente e un futuro.

Contadini al lavoro nelle campagna del Niassa

La bellezza del bene

La Chiesa ha un ruolo prioritario nella formazione delle persone e delle coscienze. Questo è molto importante in un Paese corroso dalla corruzione, dove tutto è denaro, tutto si compra, con una società che si sta sgretolando. È stato creato un colonialismo di partito, un popolo che ha paura, che è senza sogni.

Promuovere la bellezza del bene, della bontà, della fraternità, della giustizia sociale è parte della nostra missione, a tutti i costi.

La nostra catechesi, le nostre omelie la domenica, i nostri incontri di formazione sono importanti anche per questo.

I missionari devono essere consapevoli di questo ruolo. Siamo stranieri e, in quanto tali, non possiamo parlare molto. Dobbiamo essere prudenti in quello che diciamo perché altrimenti ci mandano a casa. Ma dobbiamo aiutare il clero locale e i catechisti ad avere coscienza del proprio ruolo profetico. Incoraggiare i pastori e gli animatori locali a guardare con gli occhi del Vangelo, al Regno di Dio. 

Dimensione missionaria

In Mozambico molti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata. I seminari sono pieni e talvolta manca il posto. È stato fatto un secondo seminario filosofico, a Nampula, in aggiunta a quello di Matola. Ogni anno vengono ordinati due o tre sacerdoti per ogni diocesi. Anche le congregazioni femminili sono numerose, alcune storiche, altre nuove che arrivano da fuori, in particolare dal Brasile. Anche l’Imc ha, ogni anno, dai tre ai cinque ragazzi che vanno in noviziato,  in Tanzania o in Kenya.

Il nostro compito è risvegliare anche nel clero locale la dimensione missionaria: che il sacerdote diocesano non pensi solo alla sua diocesi, ma guardi lontano, anche gli altri. Si tratta di una Chiesa giovane segnata da molte precarietà e necessità. Ad esempio Tete è una diocesi grande quanto tutto il Nord Italia, ma conta solo venti sacerdoti che non arrivano dappertutto.

L’importante è che, nella Chiesa mozambicana in crescita, aumenti questo impegno dell’ad gentes, e i nostri seminaristi missionari sono quelli che danno questa tonalità.

Sandro Faedi

Missionaria della Consolata in visita a una famiglia

Instabilità contagiosa

Il grande Paese sta vivendo molteplici crisi interne

Le recenti elezioni sono state contestate. Il partito al potere dall’indipendenza non vuole lasciare. E le proteste popolari hanno causato vittime. Intanto, al Nord, continua la guerra contro i gruppi armati. Con un alleato scomodo.

Come i tifoni che, periodicamente, colpiscono le coste, così la rivolta si è abbattuta sulla politica mozambicana. Una ventata che ha spazzato per mesi il Paese, portando instabilità, tensioni, morte. Al momento, è tornata la calma, ma la brace del malcontento continua a covare sotto la cenere e il fuoco potrebbe riaccendersi in qualsiasi momento.

Tutto è iniziato in autunno: il 9 ottobre 2024 si sono tenute le elezioni presidenziali. Il candidato del partito al governo (il Frelimo), Daniel Chapo, è stato dichiarato vincitore con il 65,2% dei voti. Tuttavia, l’opposizione, guidata da Venancio Mondlane, ha contestato i risultati, denunciando irregolarità nel processo elettorale. Queste contestazioni hanno portato a diffuse proteste nel Paese, che sono state represse violentemente dalle forze di sicurezza, causando numerose vittime.

Nonostante le tensioni, il 23 dicembre, il Consiglio costituzionale ha confermato la vittoria di Chapo e il suo insediamento è avvenuto il 15 gennaio. Le proteste post elettorali hanno avuto gravi conseguenze, con circa 300 morti nei tre mesi successivi alle elezioni. Fino a qui la cronaca, ma i fatti sono molto più complessi. A partire proprio dall’uomo nuovo, cioè Venancio Mondlane. Ex membro della Renamo, lo storico partito di opposizione mozambicana, Mondlane si è inizialmente candidato con una coalizione di piccoli partiti, chiamata Cad, la quale sarebbe stata poi esclusa, per cavilli formali, dalle elezioni legislative, lasciando, tuttavia, la candidatura presidenziale di Mondlane in piedi. «È stato a quel punto – spiega  Luca Bussotti, docente all’Università Tecnica del Mozambico – che Mondlane, ritrovatosi senza partito, si è associato a Podemos, ma senza mai farne parte. Oggi, le due strade si sono divise. Podemos è stato il primo partito a riconoscere la vittoria del Frelimo e di Chapo, prima e più della Renamo e dell’Mdm (Movimento democratico del Mozambico), mentre Mondlane ha continuato per la sua strada di opposizione a un esecutivo che ritiene illegittimo».

Popolo al potere

Le manifestazioni di oggi non sono però iniziate con la crisi post elettorale. Il movimento che si è formato, e che ha poi dato origine all’onda lunga capeggiata da Venancio Mondlane, «Povo no Poder», ha avuto inizio dopo la morte del rapper Azagaia, nel marzo 2023.

«Con la morte di Azagaia – continua Bussotti -, i suoi seguaci hanno perso quel timore che ha caratterizzato da sempre il rapporto fra cittadini e autorità in Mozambico, e sono usciti allo scoperto. Le elezioni comunali dell’ottobre del 2023 sono state una prova generale di quelle politiche di un anno dopo. Anche in quel caso, i partiti di opposizione, soprattutto Renamo, avevano conquistato molte amministrazioni, fra cui Maputo.

Tuttavia, i consueti brogli elettorali hanno consegnato quasi tutti i comuni al Frelimo e ai suoi candidati, ignorando la volontà popolare».

Una situazione che si è andata sommando a forti tensioni etniche che si sono accumulate negli anni del governo di Felipe Nyusi. «Sotto Nyusi – continua Bussotti – si è accentuata l’esclusione sistematica di fasce maggioritarie della popolazione, anche etnicizzando (a favore della minoranza Makonde) i privilegi economici e le opportunità di formazione e lavoro, restringendo sempre di più la sfera pubblica, con uno Stato al culmine della sua inefficienza».

Il Frelimo dall’indipendenza

Questi fenomeni hanno creato una miscela che ha fatto implodere il Paese, ma il Frelimo ha mantenuta salda la presa sul potere. Anche se è ormai difficile dire quale sia il seguito della formazione che governa il Mozambico dal giorno dell’indipendenza (1975). «Al di là del risultato delle ultime elezioni, evidentemente fraudolento, come la stessa Unione europea e il Consiglio costituzionale mozambicano hanno scritto nei rispettivi report – continua Bussotti -, quel che vediamo quotidianamente sono manifestazioni organizzate da Venancio Mondlane, che riscuotono sempre un enorme seguito, come non se ne vedeva dai tempi di Samora Machel o di Afonso Dhlakama, tanto per fare un paragone. È un governo completamente delegittimato, quello, appunto, del Frelimo, guidato da Daniel Chapo. Ciò che, per il momento (a partire dallo scrutinio dei voti) ha salvato il Frelimo è stato, da un lato, il controllo totale delle istituzioni di giustizia, a cominciare da quelle elettorali, e la fedeltà in primo luogo della polizia e, in parte, dell’esercito. Se uno di questi due elementi fosse venuto meno nel momento del conteggio dei voti, adesso staremmo a raccontare una storia diversa».

Il 23 marzo 2025, il presidente Chapo e Mondlane si sono incontrati per discutere su come riportare la stabilità nel Paese. Sebbene i dettagli specifici dei loro colloqui non siano stati resi pubblici, questo incontro è stato interpretato come un gesto distensivo volto a favorire il dialogo e la riconcilia- zione nazionale. «Si tratta sicuramente di un passo positivo per abbassare i toni, per cercare di contenere la crisi – osserva Marco Di Liddo, direttore di CeSi (Centro studi internazionali) -. Anche perché il Mozambico ha a che fare con una guerriglia di tipo islamista nel Nord e, quindi, non può permettersi che altre faglie di instabilità diventino più marcate. Però, c’è ancora distanza tra le parti e ci vorrà tempo affinché si arrivi a un contenuto politico e un piano di pace degno di questo nome, cioè applicabile».

Accampamento delle Missionarie della Consolata durante i loro spostamenti.

Jihadisti nel Nord

In Mozambico si trascina un’altra crisi, quella in corso nella Provincia settentrionale di Cabo Delgado dove, dal 2017, è in atto un conflitto tra le forze armate, sostenute da reparti dell’esercito ruandese, e i miliziani islamisti legati allo Stato islamico.

Cabo Delgado è una Provincia da sempre emarginata. La popolazione locale gode poco o nulla dell’enorme ricchezza di materie prime del suo territorio. Anche politicamente, la provincia non è coinvolta nelle decisioni che la riguardano. Ciò ha portato a una radicalizzazione dei gruppi islamisti che hanno sfruttato il malcontento locale per reclutare combattenti e promuovere la loro agenda. Il conflitto ha causato una grave crisi umanitaria, con centinaia di migliaia di sfollati e un impatto devastante sulle infrastrutture e sull’economia locale.

«Cabo Delgado – spiega Bussotti – è un’altra situazione complessa, niente affatto conclusa, e non legata esclusivamente al radicalismo islamico, ma che ha origine in conflitti etnici mai risolti, quali quello fra i Makonde (minoritari ma al governo), da un lato, e gli Amakhuwa (l’etnia più numerosa in Mozambico, ma quella più emarginata dai giochi che contano) e i Kimwani, questi ultimi musulmani».

Concorda Marco Di Liddo: «L’elemento religioso e il problema etnico sono due lati della stessa medaglia. È fuorviante pensare che l’insorgenza nel Nord del Mozambico sia solo un movimento islamista, essa affonda invece le sue radici in un malcontento profondo delle popolazioni locali che si sentono tradite dal Frelimo, perché le autorità hanno cacciato le famiglie dalle loro terre ancestrali per lo sfruttamento delle miniere, i pescatori hanno visto le loro attività ridotte a causa dell’industria estrattiva. Inoltre, la provincia ha infrastrutture (strade, ponti, uffici pubblici) insufficienti. Tutto ciò, messo insieme, crea una bomba a orologeria perfetta per quel tipo di narrativa politica, per quel proselitismo violento che è il fondamentalismo islamico».

Ingerenza ruandese

Le truppe ruandesi sono sempre più numerose, e la tendenza è che Paul Kagame, il presidente del Rwanda, mandi sempre più effettivi di agenzie private di sicurezza appartenenti a società controllate dal suo partito, piuttosto che militari dell’esercito ruandese. Il caso più emblematico è quello dell’Isco security (controllata della Crystal Venture), che ha firmato un contratto di esclusività con la Total per proteggere l’investimento sul gas ad Afungi. Un contratto che ammonta a venti miliardi di dollari.

L’alleanza tra Kigali e Maputo ha anche un forte impatto sui rapporti tra il Mozambico e il Rwanda. «Il Rwanda di Kagame sta avendo un forte ruolo nella crisi nell’Est del Congo – sottolinea Bussotti -. Ciò ha irritato la comunità degli Stati dell’Africa australe (Sadc) e, in particolare, il Sudafrica. Proprio Pretoria ha chiesto di interrompere l’asse privilegiato Maputo-Kigali, visto che Kagame sta finanziando un gruppo terrorista come quello dell’M23».

Oggi, a Cabo Delgado lo scenario che si sta delineando è a macchia di leopardo. Ci sono isole felici, dove si riversano i grandi investimenti delle multinazionali, come quello della Total ad Afungi, o della Montepuez Ruby Mining a Montepuez. Il resto del territorio è, invece, in balia delle scorribande della milizia jihadista, i cui membri principali sono i giovani Amakhuwa e Kimwani, in rotta con uno Stato che li ha emarginati da qualsiasi percorso inclusivo, da un po’ di tempo spalleggiati dall’Isis, che ha rivendicato diversi degli ultimi attacchi.

Questa instabilità può danneggiare fortemente l’Europa che, negli ultimi anni, è diventata un partner fondamentale per il Mozambico. «Se l’Europa non interviene per cercare di stabilizzare la situazione, la relazione rischia di liquefarsi – conclude Di Liddo -. L’assenza di un ruolo importante del vecchio continente potrebbe ingenerare nei mozambicani la percezione che gli europei si interessano al Mozambico soltanto per i giacimenti di gas, le pietre preziose, le materie prime critiche. Gli europei poi devono tenere presente che le crisi politiche mozambicane hanno sempre avuto forti ripercussioni sui Paesi vicini: Malawi, Sudafrica, Zambia, Zimbabwe. Preservare la stabilità mozambicana significa quindi tutelare la stabilità dell’Africa australe. L’Europa però mi sembra più concentrata sulle crisi in Ucraina e in Medio Oriente. Questo, a mio avviso, è un errore strategico».

Enrico Casale

padre Amiotti incontra gruppo di persone mentre ancora in Kenya prima della partenza per il Mozambico

Hanno firmato il dossier

  • Diamantino Guapo Antunes
    Missionario della Consolata in Mozambico, è vescovo di Tete. Ha scritto «A semente caiu em terra boa», edizioni Missioni
    Consolata, 2003, sulla storia dell’Imc in Mozambico.
  • Sandro Faedi
    Missionario della Consolata, ha lavorato molti anni in Mozambico e Venezuela. Oggi è in missione a Fatima, in Portogallo.
  • Enrico Casale
    Giornalista, specialista di Africa e collaboratore di lunga data di MC.
  • Marco Bello
    Giornalista, direttore editoriale di MC.

Le foto del dossier provengono dall’Archivio fotografico Misssioni Consolata Torino (AfMC)), diverse sono di padre Amiotti




Rifugiati, la crisi non rallenta

Il numero di rifugiati e sfollati nel mondo è aumentato per 12 anni consecutivi e oggi è pari a oltre due volte la popolazione dell’Italia. Sette rifugiati su dieci sono ospitati negli Stati confinanti il Paese d’origine, quasi sempre Paesi a basso o medio reddito.

Lo scorso 7 aprile, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr, riferiva che, a due anni all’inizio della guerra in Sudan, le persone costrette a fuggire dal Paese erano circa 12,7 milioni, di cui 8,6 milioni sfollati all’interno dei confini sudanesi e quattro milioni nei Paesi confinanti o vicini: Egitto, Sud Sudan, Chad, Libia, Uganda, Etiopia e Repubblica centrafricana@. Sul totale mondiale dei rifugiati, riportava l’agenzia, uno su 13 è del Sudan, che diventa così il Paese con il maggior numero di profughi al di fuori dei propri confini in tutta l’Africa. Fra le persone costrette a fuggire ci sono anche cittadini non sudanesi che erano già rifugiati da altri Paesi accolti in Sudan.
I livelli di insicurezza alimentare erano molto alti, fra il livello 3, che indica crisi, e il livello 4, di vera e propria emergenza, con una zona nella parte meridionale del Sudan dove la situazione era già in fase 5, quella della catastrofe umanitaria@.

La guerra nel Paese, raccontava Enrico Casale su MC dello scorso aprile@, è scoppiata nel 2023 «a causa di tensioni legate alla transizione politica del Sudan verso un governo civile», in seguito all’instabilità politica generata dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir, arrivato al potere nel 1989 con un colpo di Stato e deposto trent’anni dopo. Il conflitto vede opporsi l’esercito sudanese e le Rapid support forces (Rsf), eredi delle milizie Janjaweed responsabili delle atrocità nella regione sudanese occidentale del Darfur all’inizio di questo secolo.

123 milioni di profughi

Quella del Sudan è una delle peggiori crisi umanitarie in corso, ma il numero di profughi nel mondo sta aumentando da 12 anni consecutivi: se nel 2012 gli sfollati globali erano circa 43 milioni, alla fine di giugno dell’anno scorso erano triplicati: 122,6 milioni, provenienti da 179 Paesi@. Questo mese esce il nuovo rapporto Unhcr che fornirà dati più consolidati; intanto, quelli a disposizione dicono che una persona su 67 sul pianeta è costretta a lasciare il luogo in cui vive per sfuggire a persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico.

Sul totale di quasi 123 milioni, oltre la metà sono sfollati interni al paese d’origine, 38 milioni sono rifugiati, 8 milioni sono richiedenti asilo – cioè persone che hanno richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale, ma la cui situazione non è ancora definita – e poco meno di 6 milioni sono persone non incluse in queste due categorie ma probabilmente bisognose di protezione internazionale.

Due terzi dei rifugiati vengono da soli quattro Stati: Siria, Venezuela, Ucraina e Afghanistan; circa sette su dieci sono ospiti di Paesi a basso e medio reddito confinanti con quello di origine. I minori, cioè le persone sotto i 18 anni di età, sono 47 milioni.

Questi numeri provengono da tre fonti: Unhcr, Unrwa (United nations relief and works agency for Palestine refugees in the Near East) e l’Idmc (Internal displacement monitoring centre) della Ong umanitaria Consiglio norvegese per i rifugiati.

Unhcr e Unrwa sono entrambe agenzie Onu, ma hanno mandati diversi e complementari. In particolare, l’Unrwa – che ha sotto il suo mandato circa 5,9 milioni di palestinesi – fornisce ai rifugiati servizi in cinque ambiti, fra cui sanità e istruzione, in attesa di una soluzione alla loro situazione, mentre l’Unhcr offre assistenza solo temporanea ma ha l’autorità di reinsediare i rifugiati palestinesi e cercare per loro soluzioni durature. Secondo l’Unhcr, però, ogni anno viene reinsediato meno dell’1% dei rifugiati@.

Boa Vista e rifugiati venezuelani

Anche la crisi venezuelana non registra miglioramenti: la situazione di mancanza di servizi di base, violenza, criminalità e violazioni dei diritti umani è tale che quasi un venezuelano su quattro ha lasciato il Paese. Secondo la piattaforma R4V, cogestita da Unhcr e Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), i rifugiati e migranti venezuelani nel mondo sono poco meno di 7,9 milioni, di cui 6,7 distribuiti in 17 Paesi dell’America Latina. I primi tre Paesi ospitanti sono Colombia, che ha 2,8 milioni di venezuelani sul proprio territorio, Perù (1,7 milioni) e Brasile (627mila)@.

Il Brasile si è dato una legislazione sulla migrazione che facilita molto l’accoglienza, attribuendo agli stranieri – almeno sulla carta – gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, senza grandi distinzioni legate allo status di rifugiato o migrante, e mettendo a disposizione rifugi, assistenza umanitaria e ricollocamento delle persone nei vari Stati brasiliani nell’ambito della Operação acolhida, operazione accoglienza. Ma le difficoltà restano tante: secondo l’analisi dei bisogni di rifugiati e migranti fatta da R4V nel 2024@, i minori immigrati che non erano iscritti al sistema scolastico formale erano circa il 17% nel Paese, ma un’ulteriore verifica condotta nello stato di Roraima, principale punto di ingresso dei migranti dal Venezuela in Brasile, alzava il dato al 54%. Quanto alla nutrizione, se a livello nazionale era il 22% delle famiglie immigrate intervistate a segnalare insicurezza alimentare moderata o grave, in Roraima la percentuale era di cinque punti più alta. La popolazione indigena – Warao, Pemon, Taurepang, E’ñepa, Kariña e Wayuu – ha difficoltà ancora maggiori: l’analisi cita il caso di un rifugio della Operação acolhida dove i bambini che non frequentavano la scuola erano 86 su cento.

Donna Warao che lava la sua roba a Boa Vista

Le difficoltà concrete

A Boa Vista, in Roraima, un’équipe dei missionari della Consolata assiste i migranti e rifugiati venezuelani che vivono negli insediamenti informali, cioè fuori dai centri governativi. Padre Juan Carlos Greco, missionario di origine argentina membro dell’équipe, ha lavorato anche nove anni in Venezuela con gli indigeni Warao.

«Non è facile capire chi è rifugiato e chi migrante», spiega Juan Carlos: spesso non dipende solo dal motivo per cui una persona ha abbandonato il proprio Paese – cioè se è o no in fuga da una persecuzione – ma dai documenti di cui dispone all’arrivo. «Immagina che marito e moglie arrivino con in tasca una carta d’identità venezuelana: a entrambi viene riconosciuto il diritto ad avere la residenza in Brasile e diventano così migranti residenti. Ai bambini con meno di 12 anni, il Venezuela non rilascia una carta di identità, perciò, se la coppia ha una figlio di quell’età è senza documenti e le autorità, per poterlo accogliere, devono riconoscergli lo status di rifugiato. Infine, se a questi genitori arriva un nuovo figlio mentre sono in Brasile, lo Stato brasiliano non può attribuire al nuovo nato la cittadinanza venezuelana, perciò lo riconosce come cittadino brasiliano. Ecco allora che hai famiglie con genitori migranti residenti, figli grandi rifugiati e figli piccoli cittadini brasiliani».

Alle questioni burocratiche si aggiungono poi altre difficoltà: ci sono persone – continua Juan Carlos – che sono venute dal Venezuela perché sono malate o disabili e nel loro Paese non possono più curarsi. Ma nelle loro condizioni non riescono a lavorare e possono solo “stare in un rifugio in attesa di un miracolo”». Spesso, poi, il cibo servito nei rifugi crea ulteriori problemi, perché è avariato o cucinato in modo scorretto e causa intossicazioni alimentari. «Prima, a fornire il cibo era la Caritas brasiliana, ma ora ha chiuso per mancanza di fondi: questi venivano infatti in larga parte dagli Usa, ma il governo statunitense a gennaio ha sospeso gli aiuti»@.

A volte, pur di lavorare, i migranti entrano in contatto con organizzazioni criminali. «Una donna warao aveva un marito, non indigeno, che si è messo nel traffico di droga ed è stato ucciso da due sicari in moto a colpi di arma da fuoco. Lui è morto sul colpo, la moglie, ferita al costato, è morta pochi giorni dopo. Il bambino di cinque mesi, che lei teneva in braccio, è stato ferito a una mano ma si è salvato. Ora lui e i suoi sette fratelli sono orfani e hanno solo i nonni ultrasessantenni che possono prendersi cura di loro. Il governo ancora non ha concesso loro la bolsa familia», cioè l’aiuto finanziario per le famiglie povere, «perciò per ora aiutiamo noi con latte in polvere e un po’ di cibo». Adesso sei dei bambini vanno anche a scuola: il nonno accompagnava quattro di loro usando Uber, ma non aveva i soldi per rientrare a casa e poi tornare a prenderli, perciò li aspettava fino alle 5 del pomeriggio fuori dalla scuola. «Qualcuno lo ha notato e, toccato dalla sua situazione, gli ha procurato un piccolo aiuto finanziario per coprire i costi di trasporto».

Malindza Refugee Reception Centre 2022
The eSwatini Council of Catholic Women (ECCW) visited the Refugee Centre for a time of prayer and to share their gifts (09 July 2022)

eSwatini e Sudafrica, emergenze vecchie e nuove

Oltre al Sudan, ci sono altre realtà in Africa che vivono da anni una situazione di emergenza. Il Centro di accoglienza per rifugiati di Malindza, nel Regno di eSwatini, ospita ad esempio molte persone provenienti dalla zona dei Grandi Laghi, che comprende fra gli altri la Repubblica democratica del Congo, dove il conflitto nella zona orientale va avanti da anni.

Il Centro è sotto mandato Unhcr, in collaborazione con il governo di eSwatini e con la Ong World Vision come partner. «Fino a dicembre scorso», spiega monsignor José Luis Ponce de León, vescovo di Manzini e missionario della Consolata, «a Malindza gli ospiti erano circa 400, la metà bambini. Poi, con lo scoppio della violenza in Mozambico, centinaia di persone hanno attraversato il confine». Caritas eSwatini ha reagito fornendo coperte, materassi e cibo. «Visitando il campo insieme ad alcune suore mozambicane», continua monsignor Ponce de León, «ci siamo resi conto che, sebbene arrivassero dal Mozambico, i profughi non erano mozambicani, ma di altre parti dell’Africa che erano scappati dai loro Paesi e si erano stabiliti lì».

Anche a Pretoria, in Sudafrica, un missionario della Consolata, padre Daniel Kivuw’a, collabora con la Chiesa locale per assistere migranti e rifugiati provenienti da diversi paesi africani. «Ad alcuni», spiega padre Daniel, «soprattutto a quelli provenienti da Paesi con un conflitto in corso – Rd Congo, Sudan e, ultimamente, il Mozambico – il governo ha concesso lo status di rifugiato». Ma le difficoltà per i migranti in Sudafrica continuano a essere legate all’ostilità della popolazione locale, che non è nuova ad atti xenofobi violenti e al rischio di cadere vittima del traffico di esseri umani e agli elevati livelli di corruzione. «Molti migranti», continua Daniel, «faticano a ottenere documenti perché non hanno denaro per pagare i funzionari dell’immigrazione. Se sono donne migranti, poi, rischiano anche di subire abusi sessuali».

Chiara Giovetti




Noi e Voi. Ricordando Francesco

Fino in Mongolia

Visita di papa Francesco in Mongolia — foto Apostolic Prefecture of Ulaanbaatar

In queste ore siamo tutti scossi. È difficile ordinare i pensieri e tradurli in parole di senso compiuto. È un grande shock, che ha bisogno di essere attraversato con fede.

Ci vorrà del tempo per capire fino in fondo la portata del pontificato di papa Francesco. Quello che mi sento di dire adesso è che vedevo incarnata in lui una profonda paternità, che ho sperimentato personalmente in varie occasioni. Mi sentivo attratto dalla sua libertà interiore e dal suo ascolto delle mozioni interiori dello Spirito Santo.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, papa Francesco è il Pontefice che ha canonizzato il nostro santo Fondatore e che ha dato un impulso missionario grandissimo alla vita e alle scelte della Chiesa.

Con il suo magistero e con il suo esempio ha riportato la missione evangelizzatrice della Chiesa al centro della vita reale delle comunità.

Per quanto riguarda la Chiesa in Mongolia, certamente papa Francesco sarà ricordato nella storia di questo Paese per essere stato il primo Pontefice a venire qui. Ma anche per il coraggio dei suoi discorsi profetici sul valore della fratellanza universale e dell’impegno per la giustizia, la pace e l’armonia del creato.

In queste ore sto ricevendo telefonate e messaggi dalle autorità civili e religiose della Mongolia. Uno dei consiglieri del Presidente mongolo mi ha trasmesso le condoglianze del Capo dello Stato, dicendo che papa Francesco ha scritto a caratteri d’oro una pagina nuova nella storia delle relazioni tra Mongolia e Santa Sede.

Poco fa mi ha chiamato l’Abate primate dei buddhisti mongoli, il Hamba Nomun Khan Javzandorj, con il quale non più di tre mesi fa avevamo avuto la gioia di incontrare personalmente papa Francesco in Vaticano. Mi ha voluto dire che, su richiesta esplicita del Presidente della Mongolia, la comunità monastica buddhista del tempio Gandantegchinlen, domani offrirà una preghiera rituale per l’anima di papa Francesco, come già avevano fatto durante il suo recente ricovero ospedaliero.

papa Francesco è stato capace di parlare al cuore di tutti. Abbiamo tanto da imparare e da applicare alla nostra vita di servi del Vangelo.

Cardinale Giorgio Marengo,
Mongolia, 21/04/2025

L’odore delle pecore

Ringrazio Dio di aver incontrato personalmente papa Francesco.

È stato un grande regalo nella mia vita: un modello di umiltà e povertà francescana da imitare.

Il 16 aprile 2015, durante la visita ad limina di noi vescovi del Kenya, ho avuto la gioia di fare a papa Francesco un regalo speciale. Gli ho detto: «Io lavoro nella diocesi di Maralal, in mezzo ai pastori e perciò ti offro, a nome loro, questa mia mitria di pelle. Ora anche tu, come buon pastore, potrai avere l’odore di pecora, come sempre vai dicendo ai tuoi preti».

Prima di mettergliela sulla testa, lui stesso volle annusarla e poi commentò: «Questa non è pecora ma capra!». Gli risposi: «Sì, è vero. Vedo che te ne intendi. Ma in Kenya le pecore e le capre vanno al pascolo insieme».

Sette mesi dopo, egli fece visita in Kenya (25-27 novembre 2015), e mi fece una bella sorpresa che dimostrava il suo cuore sempre attento ai piccoli favori. Al suo arrivo, nell’aeroporto di Nairobi, sceso dall’aereo, mentre passava davanti alla fila dei vescovi, mi feci coraggio e gli chiesi: «Santità, Lei non si ricorda di me? Sono quello che le ha regalato la mitria di pelle di capra, a Roma». «Mi ricordo, sì – rispose – e la tua mitria me la sono portata dietro da Roma e domani la vedrai sulla mia testa durante la Messa».

Il giorno dopo, all’inizio della Messa, sull’altare si girò leggermente verso di me e mi fece un sorriso come per dire: «Vedi, io mantengo le promesse». Che cuore umano e pieno di calore! Tutt’oggi tengo caro ancora due cosette: il rosario che mi regalò, e che recito tutti i giorni, e un quadretto con la foto in cui lo abbracciai (che coraggio!).

Abbiamo un altro santo che intercede per noi. Un santo che ha baciato i piedi ai presidenti africani, supplicandoli di costruire la pace.

+ Virgilio Pante,
 vescovo emerito di Maralal, Kenya, 23/04/2025

Papa missionario

È stato con sorpresa e profonda tristezza che, la mattina del 21 aprile, alla missione di Boroma, fondata dai gesuiti alla fine del XIX secolo, ho ricevuto la notizia del ritorno di papa Francesco alla casa del Padre.

Era un grande amico del Mozambico, Paese che ha visitato nel settembre 2019. L’ondata di affetto suscitata dalla semplice figura di Francesco ha unito tutti i mozambicani, indipendentemente dal partito politico, dall’etnia e persino dall’appartenenza religiosa. Ci ha lasciato un messaggio di pace e riconciliazione e gesti di solidarietà concreta con le vittime mozambicane dei disastri naturali e dell’insurrezione terroristica a Cabo Delgado, nel Nord del Paese.

Si è detto e si dirà molto su papa Francesco. Per me è stato un padre e un fratello per tutti. Un Papa missionario, che mi ha ispirato molto nel mio lavoro pastorale come Vescovo di Tete, cercando di rendere questa Chiesa locale, dove i Missionari della Consolata sono arrivati 100 anni fa, una Chiesa «in uscita», con le porte aperte a tutti, una Chiesa missionaria.

Ci lascia con l’impegno di continuare a essere fedeli al Vangelo nella nostra vita quotidiana, come discepoli missionari del Signore Gesù, che è risurrezione e vita. Speranza dell’umanità.

Sono grato a papa Francesco per il suo esempio di vita e per le sue parole ispiratrici e trasformatrici rivolte ai fedeli e al mondo: il suo invito a vivere la fede nella gioia e nell’«uscire», senza paura di abbracciare tutti, la sua preoccupazione per i più dimenticati, i più piccoli, i più bisognosi, nella consapevolezza che siamo tutti fratelli e sorelle; e anche la sua vigorosa e instancabile denuncia di un’«economia che uccide», mettendo in pericolo il pianeta, di tanti conflitti che configurano la «terza guerra mondiale a pezzi», così come dei peccati della Chiesa stessa, abusi sessuali, abusi di potere o abusi economici.

Grazie, Francesco.
Perché, come Papa, sei sempre stato un fratello.
Perché, come gesuita, sei sempre stato un missionario.
Oggi piangiamo con te, ma soprattutto ti ringraziamo.
La tua vita è stata il Vangelo condiviso.
La tua morte, un seme di speranza.

+ Diamantino Antunes,
 vescovo di Tete, Mozambico, 23/04/2025

Padre dei poveri

Il mio primo incontro con papa Francesco è avvenuto alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro nel 2013. Da poco più di un anno ero stato nominato vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di San Salvador da Bahia e, per la prima volta, partecipavo a un grande evento che mostrava il volto giovane di una Chiesa desiderosa di essere presenza nel mondo.

Ho poi avuto altre occasioni per incontrarlo e godere della sua paternità, fede e semplicità.

«Dio sempre ci sorprende», era solito dire papa Francesco. E la Chiesa è rimasta sorpresa con l’elezione di un uomo «venuto dalla fine del mondo» che ha sempre cercato di mettere al centro della nostra attenzione tutto quello che era considerato periferico.

Cosa ci lascia in eredità papa Francesco?

Successore dell’apostolo Pietro, ha dedicato la sua vita all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo. Fin dall’inizio del suo pontificato, egli ha esortato la Chiesa a «uscire», impegnandosi ad annunciare la gioia del Vangelo (Evangelii gaudium), invitando ogni battezzato a partecipare attivamente alla missione evangelizzatrice.

Buon Pastore, ha camminato «davanti, in mezzo e dietro al gregge», con il popolo santo di Dio, soprattutto con i fratelli e le sorelle più poveri che vivono nelle periferie geografiche ed esistenziali.

Profeta del nostro tempo, difensore della dignità umana, ha denunciato la «cultura dell’indif-
ferenza» verso la sofferenza delle persone più vulnerabili e scartate della società.

Ha invocato la pace in un mondo segnato dalle guerre e ha richiamato l’attenzione della società sulla necessità di prendersi cura della nostra Casa Comune.

Padre dei poveri, ha mostrato nei piccoli gesti il volto misericordioso di una Chiesa dalle porte aperte, chiamata a essere «ospedale da campo», testimone di un Dio che non si stanca mai di amare e perdonare.

Sono grato al Signore per averlo conosciuto e incontrato, per la sua testimonianza che ci invita a essere una Chiesa più vicina, più umana e più fedele al Vangelo.

+ Giovanni Crippa,
vescovo di Ilhéus, Brasile, 22/04/2025

Imprevedibile

Un giorno di maggio del 2013, dopo che papa Francesco era stato eletto vescovo di Roma, io, che ero vescovo in Sudafrica, ho pensato di scrivergli, raccontandogli come la sua elezione fosse stata accolta nella nostra parte del mondo.

Il nunzio apostolico mi assicurò che la lettera sarebbe arrivata a lui e non a uno dei suoi segretari. E fu proprio così. Circa un mese dopo ricevetti una sua risposta scritta a mano. Non me lo sarei mai aspettato. Tanto meno quello che è successo dopo.

A luglio papa Francesco si è recato a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù e ha chiesto di organizzare un evento speciale per chi arrivava dall’Argentina (una folla enorme, come potete immaginare!). Dato che io sono Argentino, i vescovi mi hanno invitato a unirmi a loro.

All’arrivo del papa in cattedrale, i vescovi argentini lo hanno salutato con entusiasmo (era la prima volta che lo incontravamo come Papa). Mi sono presentato non aspettandomi che si ricordasse di me. Mi ha detto: «Hai ricevuto la mia lettera?».

È stato travolgente. In mezzo a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui, come poteva ricordarlo?

Al di là delle sue omelie, dei suoi discorsi e dei suoi documenti, si potrebbero scrivere pagine e pagine sul fatto che facesse sentire unica ai suoi occhi ogni persona che lo incontrava.

Credo che, come Sacbc (vescovi di Botswana, eSwatini e Sudafrica), non dimenticheremo mai le due visite ad limina che abbiamo avuto con lui nel 2014 e nel 2023.

La prima non la dimenticheremo perché, accogliendoci (in due gruppi in due giorni diversi), ha esordito: «Come si dice nel calcio, il pallone è al centro, chi lo calcia per primo? Di cosa vorresti che parlassimo?».

Era uno spazio aperto per noi per parlare con il successore di Pietro di qualsiasi argomento avessimo nel cuore. Era totalmente nuovo per noi. Ricordo infatti ancora uno dei vescovi che disse dopo l’incontro: «Ho aspettato 20 anni per un momento così».

Il secondo incontro è stato segnato dal fatto di essere stato annullato. Il Papa era in ospedale dopo aver subito un intervento chirurgico importante.

Il giorno in cui è stato dimesso, alcuni di noi si trovavano all’ingresso della sua residenza proprio nel momento in cui è stato riportato dall’ospedale. Mi ha visto e mi ha chiesto se fossimo lì per la visita ad limina e quando ci saremmo incontrati. Ho detto: «L’incontro è stato cancellato. Tu eri in ospedale ma tu sei il Papa e… sei imprevedibile!». Ha salutato gli altri vescovi e poi ha detto: «Dite ai vescovi che potremo incontrarci dopo pranzo».

Nessuno si aspettava che un uomo di 86 anni trovasse il tempo per noi dopo un intervento chirurgico importante. Eravamo solo noi e lui, nessuna segretaria, nessun protocollo, nessuno a tradurre! Era il vescovo di Roma con i suoi fratelli vescovi nel modo più informale. Non sono stati gli argomenti di cui abbiamo parlato quel pomeriggio a rimanere nei nostri cuori, ma quello che abbiamo visto anche domenica scorsa: il suo dare tutto il suo tempo e le sue energie a tutti i costi.

Attraverso momenti come questi, attraverso le sue lettere personali, telefonate, visite… si è fatto vicino a tutti noi, ha testimoniato la cura amorevole di Dio per ogni persona, ma ha anche, silenziosamente, richiamato tutti noi a prenderci cura gli uni degli altri, ad apprezzare il dono gli uni degli altri e, a noi vescovi, ha mostrato il modo in cui siamo chiamati a prenderci cura di coloro che ci sono stati affidati.

+ José Luis Ponce de León,
 vescovo di Manzini, eSwatini, 23/04/2025

Buon samaritano dell’Umanità!

Negli anni del mio servizio di responsabilità come superiore generale nell’Istituto Missioni Consolata, ho avuto più occasioni per incontrare papa Francesco. Non solo insieme agli altri superiori in assemblee tra responsabili, ma anche in momenti personali nei quali si è toccato il cuore della Chiesa e la preoccupazione per diverse situazioni complicate che esigevano un discernimento profondo e ben accorto.

La prima cosa che sempre mi colpiva era la sua calma nell’affrontare temi scottanti e difficili. papa Francesco non perdeva mai la sua serenità e la sua calma, insieme al suo sorriso. Rimaneva a riflettere silenzioso ma non dava mai segni di esagerata preoccupazione o di una sofferenza esasperata.

Una seconda caratteristica che mi ha sempre colpito era la sua grande umanità. Come faceva anche il nostro fondatore, san Giuseppe Allamano, papa Francesco rimaneva concentrato sulla persona che aveva davanti con le sue problematiche e le sue tematiche, sembrava che il mondo e il tempo si fermassero per lui danti alla persona che incontrava.

Un terzo elemento caratteristico di papa Bergoglio era il suo essere fuori dagli schemi, sia nel parlare che nell’agire. Portava la sua parola, il suo modo di sentire le situazioni e gli avvenimenti, non parlava da papa ma da papà.

Come ho provato a dire nelle diverse occasioni nelle quali ho avuto la grazia d’incontrarlo, ogni volta ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte al mio fondatore. Non ho avuto la gioia di conoscerlo, ma da quello che ho sentito e letto di lui, mi sembrava «rivivere» nel nostro caro papa Francesco.

Il ricordo più prezioso che porto nel cuore teneramente di Francesco, è quello di un Papa che ci ha insegnato, e ha insegnato al mondo, l’arte del prendersi cura. Prendersi cura degli altri, della natura, del mondo e di ogni situazione che ognuno vive nella sua storia.

papa Francesco ha camminato nella nostra storia, scandendo i verbi della carità nella logica del Vangelo: una logica che invita a uscire da se stessi per accogliere l’altro, a riconoscere nell’umanità ferita il volto di Cristo, a trasformare ogni incontro in un’opportunità di amore autentico e gratuito.

papa Francesco è stato samaritano nei pensieri e nei gesti. Ci ha ricordato che essere samaritani non è un dono di santità ma un esercizio e un’azione quotidiana, un modo di anticipare il cielo sulla terra.

Grazie caro papa Francesco perché sei stato buon samaritano in mezzo a noi e ci hai insegnato a essere poeti della carità, testimoni di speranza, artisti della cura e a continuare a far fiorire il mondo sotto il peso leggero del nostro amore.

Riposa in pace e, questa volta, prega tu per noi.

 Stefano Camerlengo,
missionario a Dianra, Costa d’Avorio, 23/04/2025

Su MCnotizie tutti i testi dei Missionari della Consolata che hanno avuto un rapporto speciale con papa Francesco.




Superiore Generale: “Cristo ha vinto la morte e ci ricorda che la speranza è viva”

Testo da consolata.org


Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza per la potenza dello Spirito Santo” (Rm 15,13).

“Rallegriamoci ed esultiamo perché ‘Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!’ (1Cor 5,7-8). Sostenuto da questa certezza, mentre viviamo l’anno dedicato al nostro santo patrono, San Giuseppe Allamano e celebriamo il giubileo della speranza, desidero rivolgere a tutti voi l’augurio che la risurrezione di Cristo possa ravvivare la speranza, ne esprima tutte le sue potenzialità per la nostra missione di consolazione”.

Queste le parole del Superiore Generale, padre James Bhola Lengarin, IMC, all’inizio del suo Messaggio di Pasqua 2025 inviato a tutti i missionari, missionarie e laici della Consolata, parenti, amici e benefattori.

Il Padre Generale prosegue: “Lasciamoci avvolgere dal dinamismo della Pasqua, sperimentando la misericordia di Dio e la forza della risurrezione di Gesù che riempirà di gioia i nostri cuori così da poterla condividere con gli altri”.

La stessa riflessione è rafforzata in un video realizzato dall’Ufficio per la Comunicazione.

“La speranza radicata nella Pasqua del Signore va testimoniata nella missione attraverso gesti che comunicano la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, che trasformano la “Consolazione” in semi di speranza per ogni persona, nessuno escluso, perché tutti hanno il diritto di sperare in una vita migliore”, afferma padre James Lengarin.

Di seguito il testo integrale del Messaggio di Pasqua del Superiore Generale

ItalianoIngleseSpagnoloPortogheseFrancese

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Grazie al comandante

Caro padre, seguo sempre con attenzione la sua rubrica, chi le scrive spesso fa riflettere e le sue risposte sono uniche. Mi fa cosa gradita in questo mio scritto, ringraziare la preziosa opera che un mio caro concittadino, Giovanni De Marchi, ha sempre fatto in Etiopia. Con tenacia e senso di altruismo, dopo aver raggiunto l’età del pensionamento da comandante di stazione dei Carabinieri a Borgo Valsugana, ha dedicato tutte le sue energie ad aiutare padre Paolo Angheben in terra d’Africa (insieme nella foto qui sotto). Un sostegno economico veramente importante che ha raccolto qua in Valsugana e soprattutto l’essere stato presenza attiva con i suoi innumerevoli viaggi in Etiopia in aiuto «al padre» come di suo chiamava padre Angheben, venuto a mancare pochi anni fa per Covid (+18/05/2021).

Il suo aiuto è continuo anche ora e, nel suo piccolo, rimane quella bellissima goccia di solidarietà concreta e spirituale che con costanza trasmette ai suoi fratelli. I bambini che ha aiutato vent’anni fa ora sono uomini, molti hanno studiato e sono cresciuti con dignità e il merito va a persone che hanno sostenuto con belle iniziative.

Grazie Giovanni, sei una di queste persone.

Armando Orsingher, 21/01/2025, Borgo Valsugana (Tn)

Al caro Giovanni, che ha lo stesso nome di padre Giovanni De Marchi (1914-2003), il pioniere del ritorno dei Missionari della Consolata in Etiopia nel 1970, grazie della tua passione contagiosa per quella terra e la sua gente. L’Etiopia è stata il primo amore di san Giuseppe Allamano.


Accolto nella «tierra sin males»

Il padre Antonio Gabrieli, missionario della Consolata, è deceduto a Buenos Aires all’alba del 7 febbraio 2025, all’età di 76 anni. Ha dedicato 56 anni alla vita religiosa e 51 al sacerdozio, lasciando un’eredità di fede, impegno e dedizione missionaria.

L’Argentina, dove arrivò per la prima volta come missionario nel 1983, divenne la sua casa. Durante le sue quattro decadi di missione e servizio pastorale nel Paese, ricoprì numerosi ruoli: parroco, vicario, formatore, maestro dei novizi, superiore di comunità, consigliere e superiore regionale.

Nelle ultime settimane di vita, padre Antonio ebbe accanto non solo i fratelli missionari, ma anche le sue due sorelle che viaggiarono dall’Italia per stargli vicino. L’8 febbraio è stato sepolto nel cimitero «Giardino della Pace» a Luján, in Argentina, lasciando un profondo patrimonio di fede e servizio missionario.

Fratello tra i fratelli

Padre Antonio Gabrieli – testimonia padre José Auletta – è stato «un fratello tra i fratelli, un missionario che ha sempre svolto il suo servizio con moderazione, rispetto e un distinto trattamento umano verso tutti coloro che lo cercavano. […] Mi ha sempre incoraggiato e sostenuto nel lavoro di accompagnamento ai popoli indigeni dell’Argentina, riaffermando così la sua fedeltà al carisma missionario. Mi ha segnato profondamente la sua vicinanza alla gente, in particolare ai fratelli Guaraní, che oggi lo ricordano con affetto e gratitudine».

Padre Antonio Gabrieli a Maralal, giugno 1999

La serenità e la forza del padre Gabrieli – ricorda Auletta – furono evidenti anche negli ultimi giorni della sua vita. «Pochi giorni prima della sua partenza, durante il ritiro annuale di gennaio, mi colpì la sua pace nell’affrontare la malattia che lo affliggeva. Oggi, con profonda gratitudine, facciamo memoria di questo fratello che è partito verso la tierra sin males, il cielo nuovo e la terra nuova. Il nostro caro padre Antonio Gabrieli lascia un’eredità di fede, impegno e amore per gli altri». […]

Breve biografia

Padre Antonio Gabrieli, figlio di Paolo e Patroni Maria, nacque il 13 luglio 1948 a Darfo, Brescia (Italia) e fece il noviziato con i missionari della Consolata, emettendo la sua prima professione religiosa il 2 ottobre 1968. Ordinato sacerdote il 22 dicembre 1973, visse i suoi primi anni di missione in Italia, come formatore nelle case di Gambettola e Bedizzole, e nell’animazione vocazionale a Porto San Giorgio.  Dopo aver raggiunto l’Argentina tutta la sua vita la spese in quel paese eccetto il periodo tra il 1993 e il 1999, quando ricoprì l’incarico di consigliere generale dei Missionari della Consolata per il continente americano.

Quando celebrò i 50 anni di ordinazione disse che l’Argentina «è la mia terra e la porto nel cuore». Tutto il Paese e ognuna delle città dove ha prestato il suo servizio missionario: San Francisco, Martín Coronado, Jujuy, Mendoza, Yuto, Merlo e Buenos Aires.

padre Julio Caldeira, da Consolata.org, 11/02/2025

Padre Antonio è stato un caro amico con cui ho condiviso l’animazione missionaria a cavallo tra gli anni 70 e gli 80: lui nella comunità di Porto San Giorgio (Ap) e io in «Amico», la rivista per gli animatori missionari. Ci siamo poi incontrati durante il capitolo generale del 1999 a Sagana in Kenya. A lui dedico le due foto di quei giorni, in particolare la seconda, quando ha presieduto la messa che i capitolari hanno celebrato nella missione di Maralal e l’avevano vestito come un anziano samburu.


Far rivivere l’ospedale di Wamba

L’associazione Oscar Romero, nata nel 1990 e operante nelle parrocchie, nelle scuole e sul territorio del magentino e del castanese (zona ovest di Milano), […] dal 2004 è attiva nell’aiutare la popolazione del nord del Kenya, con la creazione di posti di lavoro, la fornitura di sistemi per la potabilizzazione dell’acqua che utilizzano impianti a osmosi per la desalinizzazione dei pozzi salati e con la costruzione di impianti fotovoltaici, allo scopo di sfruttare la luce solare per produrre elettricità.

Uno dei punti fermi è far in modo che i progetti, realizzati e sostenuti grazie alle donazioni raccolte, nascano sul posto, siano avallati dal vescovo e dalle autorità civili locali e siano portati avanti dagli abitanti delle popolazioni locali.

Proprio su questi punti si basa l’obiettivo per il quale l’associazione si sta attualmente adoperando: la riapertura dell’ospedale di Wamba, che per la sua organizzazione e localizzazione geografica rappresenta un servizio di fondamentale importanza per la salute della popolazione locale.

Wamba è un villaggio nel distretto del Samburu orientale nella diocesi di Maralal, in Kenya. L’ospedale è stato fondato nel 1969, ed è rimasto attivo per oltre 40 anni, con una capacità di circa 200 posti letto, e in grado di assistere i pazienti da tutto il Kenya, la maggioranza dei quali provenienti dalle diocesi di Maralal, Marsabit, Meru, Wajir, Nanyuki e Nyahururu.

Esteso su 40 ettari di terreno, offriva ricovero e sostegno ad una popolazione di oltre 40mila individui, destinati altrimenti a rimanere isolati da ogni contatto civile, umano e sanitario.

La riapertura e la riattivazione di questa struttura sono fortemente volute sia dall’attuale vescovo, il missionario della Consolata monsignor Hieronymus Joya della diocesi di Maralal, che dall’intera popolazione. Questo perché l’ospedale, è in grado di fornire un servizio di assistenza completo e necessario, con i suoi reparti femminile, maschile, pediatrico, maternità, laboratorio, radiologia, fisioterapia, farmacia, cucina e servizio biancheria. Tra le sue strutture ci sono anche tre sale operatorie, le case per i medici e una scuola di formazione infermieristica che attualmente (a partire dal mese di gennaio 2025) sta formando 50 infermieri e infermiere per inserirli nei reperti dell’ospedale di Wamba e altri centri sanitari dove si richiede questa importante figura professionale.

La riattivazione è pensata come riapertura «modulare», iniziando dai servizi più urgenti di maternità e medicina d’emergenza, per arrivare alla riapertura totale, e si manifesta come un’importante sfida su molteplici fronti:

❤ dare nuova energia: grazie alla costruzione di un impianto fotovoltaico in grado di fornire elettricità all’intera struttura;

❤ dare nuova luce: grazie alla sostituzione delle vecchie lampade obsolete con nuove lampade a led, che permettono di risparmiare;

❤ dare nuovo cibo: grazie all’attivazione di un forno per la panificazione e una panetteria interni, ma che serviranno anche il resto della comunità;

❤ dare nuova speranza: grazie alla formazione e all’addestramento del personale, per un’efficace assistenza sanitaria e creazione di nuove opportunità d’impiego.

Lo scorso mese di gennaio alcuni membri dell’associazione Oscar Romero di Magenta sono stati in visita a Wamba, raccogliendo le necessità e il forte desiderio espresso dalla popolazione locale di avere un centro sanitario quale Wamba Hospital sul loro territorio. Anche la gente del posto si sta muovendo per una raccolta fondi attraverso attività ed eventi. Un’iniziativa che, in modo particolare, sta coinvolgendo tutto il Samburu County è il «Run for Wamba», (vedi foto qui accanto) grazie alla quale la gente, che ha aderito in massa, ha la possibilità di avvicinarsi alla situazione di necessità, donando ciò che può. Tale numerosa partecipazione dimostra la corresponsabilità e comprova l’importanza che la popolazione locale dà alla riapertura dell’ospedale.

In questa situazione di emergenza sanitaria e umana, la riapertura dei reparti diviene un’ impor- tante priorità per la nostra associazione, che assieme ad altri gruppi e associazioni si sta prendendo a cuore questa impellente necessità, contribuendo a dare nuova vita a questo importante centro sanitario.

Il primo passo per la riapertura sarà l’installazione di un impianto fotovoltaico con un sistema di accumulo a batteria per dare energia ai reparti di medicina, maternità e i laboratori per le analisi medico specialistiche. Questo permetterà di avere un notevole abbattimento dei costi dell’energia elettrica, che incide in modo importante sulla gestione dell’ospedale. Le batterie di accumulo garantiranno la continuità energetica per la catena del freddo (ad esempio dei vaccini) e altre necessità. Un secondo passo sarà l’apertura di un forno per la panificazione per uso interno all’ospedale e, a seguire, una rivendita di pane rivolta all’esterno, attraverso un negozio, aperto proprio sulla strada principale della cittadina, e collegato strutturalmente all’ospedale.

L’associazione Oscar Romero di Magenta oltre alla sensibilizzazione verso situazioni di emergenza simili a quella dell’ospedale di Wamba, è impegnata in Italia attraverso eventi pubblici e all’interno delle scuole, nel percorso di educazione civica e dal 2004 organizza viaggi solidali in Kenya. Il viaggio è fatto da piccoli gruppi di 5-6 persone che, ospitate nelle diverse comunità dove i progetti sono attivi o in corso, potranno prendere visione delle diverse problematiche esistenti. Al viaggio non mancherà la visita delle bellezze che il Kenya, con le sue immense distese dei parchi naturali, può offrire attraverso emozionanti safari.

Angelo Riscaldina per associazione Oscar Romero
Magenta, 25/02/2025 – romero.magenta@gmail.com

Pubblichiamo ben volentieri quanto avete scritto su Wamba, un ospedale che conosco bene, dove sono stato curato quando ero nella missione di Maralal: una struttura ricca di vitalità e capace di essere a servizio dei poveri, delle donne, degli orfani, e scuola di eccellenza per tanto personale sanitario. Un centro di cura dove medici come il dottor Silvio Prandoni hanno dato il meglio di sé.

 




Un povero che ha arricchito molti


Nel marzo 2007 ero in Kenya, a Nairobi. Da lì, poco tempo prima, dopo 43 lunghi anni di servizio, era partito per rientrare in Italia un missionario settantasettenne. Scrissi allora un editoriale per la rivista che curavo laggiù, The Seed (Il seme). Il titolo era «Gone poor, having made rich many…» (Partito povero, dopo aver reso ricchi molti). Il missionario in questione era padre Giuseppe Quattrocchio. Un gran lavoratore, un prolifico scrittore, un affascinante cantastorie che aveva dovuto ritirarsi dal lavoro in missione nel Meru per una lesione alla spina dorsale. Era arrivato a Nairobi nel 1973. Da lì aveva servito in maniera incredibile tutte le missioni del Kenya trovando per loro ogni cosa di cui avessero bisogno, dalle puntine da disegno ai pezzi di ricambio di qualsiasi macchinario, dalle medicine agli articoli religiosi. Dal suo botteghino per gli amici e visitatori delle missioni, aveva promosso una bellissima iniziativa per far conoscere il Kenya con le sue serie di diapositive e libretti sui vari gruppi etnici, tradotti in diverse lingue e diffusi in tutti i luoghi turistici del Paese.

Padre Giuseppe, missionario che nel suo servizio aveva maneggiato fior di milioni per il bene di tanti (educazione, salute e sviluppo), era rientrato in Italia con un vecchio vestito, regalo di qualche benefattore, e una grossa valigia strapiena di oggetti di artigianato locale da regalare in Italia ai suoi molti amici, assieme a pochi oggetti personali. Lui che aveva cambiato la vita di tante persone, partiva più leggero di quando era arrivato, lasciando tutto quello che aveva, anche la sua inseparabile bicicletta Graziella con la quale era conosciutissimo in tutta Nairobi. Aveva dato tutto.

In quel testo ricordavo anche i nomi di diversi altri missionari che avevano fatto come lui ed erano rientrati in Italia per i loro ultimi giorni andando via poveri, dopo aver reso ricchi tanti.

Padre Giuseppe. Quattrocchio il 16 febbraio 2022, alla festa di San Giuseppe Allamano

Lo scorso 22 gennaio quello stesso padre Giuseppe ci ha lasciato alla vigilia del suo 95° compleanno. È tornato a casa, quella del Padre, dove è arrivato ricco di tutto l’amore che ha vissuto avendo dato tutto con passione, gioia, competenza e umiltà. Al suo funerale, celebrato nel giorno di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, ho ricordato che è stato anche un fior di giornalista  e che questa rivista, per la quale aveva lavorato dal 1954 fino alla sua partenza per il Kenya a fine 1963, a lui deve molto.

E anche stavolta, per il suo ultimo viaggio, è partito dopo aver dato tutto portando con sé solo il suo grande amore per la Missione. Mi fa specie ricordare lui, e insieme anche tanti altri missionari e missionarie che hanno dato la vita, in questi tempi nei quali chi fa notizia è quel gruppo elitario di miliardari che pensano di essere i padroni del mondo. Questi, per diventare sempre più ricchi, sfruttano senza ritegno le persone e le risorse del pianeta, manipolano l’informazione, fomentano guerre, chiudono gli occhi davanti ai poveri, ai migranti e agli schiavizzati e si fanno belli come salvatori della patria.

La testimonianza di uomini come padre Giuseppe è una realtà bellissima, carica di speranza. Con la loro vita diventano contestazione di un mondo disumano e ci dimostrano come il «dare tutto», come ha fatto Gesù, è l’unica via per costruire vera umanità.

 





Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo

Autonomia e responsabilità

Cari amici,
leggo da quasi 50 anni Missioni Consolata e da tanto tempo cerco di dare una mano a molte vostre iniziative con il «Verbania Center». Quando vedo le foto di tanti amici (molti purtroppo non ci sono più) mi commuovo.

Non entro nel merito della linea editoriale della rivista (che, a volte, non condivido), ma l’apprezzo come fonte documentata e seria.

Mi è spiaciuto leggere che nell’articolo di Francesco Gesualdi sull’«Autonomia dell’egoismo» (MC 11/2024) l’autore non abbia citato un punto essenziale: la responsabilità.

Se è facile scrivere quello che ha scritto, forse dovremmo anche verificare come oggi vengano spesi i soldi in molte regioni soprattutto del Sud che sprecano risorse immani e che – se mai saranno «responsabilizzate» – non miglioreranno mai. È sacrosanta la solidarietà, ma «aiutati che il ciel t’aiuta». Ho fatto il parlamentare per tanti anni e il sindaco della mia città (Verbania) a cui, per abitante, vanno un quarto dei trasferimenti erariali di Catania e un ottavo di quelli di Bolzano.

È giusto continuare così? Un cordiale saluto.

Marco Zacchera
24/12/2024

Non sono in grado di esprimere opinioni circa ciò che dice rispetto alla diversità dei trasferimenti erariali fra Verbania, Catania e Bolzano perché non ho studiato i tre casi. Quanto al richiamo al dovere di responsabilità da parte degli amministratori, sono d’accordo. Va garantita in ogni caso, e il legislatore deve introdurre gli strumenti giuridici affinché chi sbaglia paghi. Ciò che mi premeva mettere a fuoco nell’articolo è il nesso che è stato creato fra autonomia e possibilità, per le regioni ricche, di trattenere il denaro sul loro territorio, a detrimento della solidarietà interregionale e quindi dell’equità. Se qualcuno pensa che ho detto delle falsità rispetto a questo aspetto sono disposto a esaminare le critiche. Altrimenti siamo sul terreno del contenuto sgradito perché non coincidente con le proprie convinzioni politiche e sociali e va annoverato come tale.

Francesco Gesualdi
30/12/2024

Alla risposta di Francesco, mi permetto di aggiungere una notizia apparsa su Avvenire del 28 gennaio, a firma di Cinzia Arena. «L’Italia a due velocità ha redditi e tenori di vita sempre più distanti. A dirlo l’Istat nel suo Report sui conti economici territoriali relativo al 2023. Nelle regioni del Sud il reddito disponibile delle famiglie per abitante è poco più della metà di quello di chi vive nelle regioni più ricche».


Una scelta controcorrente

Spett. Redazione,
colgo l’invito a scrivere alla rubrica «Noi e voi». Da anni apprezzo la rivista MC per la vastità e la profondità dei temi trattati, difficilmente rintracciabili su altri mezzi di informazione. Un aspetto sicuramente unico è la totale assenza della pubblicità e sono convinto che questa scelta stia alla base della libertà di espressione. È una scelta controcorrente. Oggi la quasi totalità delle fonti di informazione (giornali, radio, tv, social, ecc.) afferma che senza i soldi della pubblicità non è possibile sopravvivere. L’argomento è molto più complesso di quanto io possa conoscere, ma sono convinto che dall’abuso della pubblicità ci si debba difendere. È una nostra responsabilità. Gradirei un vostro commento e magari un approfondimento con un servizio dedicato.

Luigi Veronesi
Milano, 27/11/2024

Caro Luigi,
grazie per quanto scrivi, per il tuo apprezzamento e per il tuo incoraggiamento.

Abbiamo fatto la scelta di non avere pubblicità per essere coerenti con il nostro tipo di pubblicazione e per rispetto dei nostri lettori e sostenitori. Questo pur rendendoci conto che la maggior parte delle pubblicazioni possono offrirsi a un prezzo accessibile grazie alle pubblicità che vengono pagate collettivamente dai consumatori dei prodotti pubblicizzati.

La nostra rivista è inviata agli amici e sostenitori delle nostre missioni e dei nostri missionari e si sostiene grazie a voi e alle vostre offerte. Strumento per dire grazie del supporto, vuole anche essere uno spazio per condividere un cammino e un impegno, quello di costruire un mondo secondo le regole dell’amore e non quelle del consumismo, del potere o dello sfruttamento. La nostra rivista non è fine a se stessa, ma esiste per essere voce dei nostri missionari e ancor più di ogni persona con la quale essi vivono. Per esserlo, cerca di informare accuratamente per coinvolgere nella corresponsabilità, aiutando a capire la realtà, a vederla con gli occhi dei poveri, a conoscere la bellezza della vita e della cultura di altri popoli. Lo scopo è quello di partecipare insieme a un mondo interconnesso dove ognuno è soggetto attivo di cambiamento in modo libero e gratuito. Questo rapporto di fiducia, libertà e gratuità è lo stile che caratterizza la nostra rivista fin dalla sua fondazione.

In un mondo dove si va di fretta, dove le notizie si consumano e si svendono ai like o al numero delle visualizzazioni, dove sono spesso talmente mescolate alla pubblicità che fai fatica a distinguere l’una dalle altre, la nostra scelta è quella dell’approfondimento, della documentazione ragionata, della ricerca faticosa delle verità. «Slow pages», pagine lente, ci definiamo, non show pages guarda e fuggi.

Non so quanto ci riusciamo, ma la risposta di voi lettori è sempre di grande incoraggiamento. Grazie.

Non diamo neppure per scontato che le cose saranno sempre così. Ci rendiamo perfettamente conto che le nuove generazioni non sono molto interessate alla carta stampata.

Per noi la solidarietà con i poveri e il sostegno alla missione non sono un’operazione commerciale, ma un gesto bello che nasce da un cuore libero.


Lettere e informazione

Buona giornata a voi.
Mi ricollego alla nota apparsa in queste pagine sul numero di Novembre 2024 inerente alla contrazione significativa di lettere da parte dei lettori di MC per condividervi un pensiero più generale: questa vostra osservazione, a mio modesto avviso, è sintomo di un problema di carattere più ampio, che sintetizzo di seguito.

Da un mondo, di pochi decenni fa, nel quale l’informazione era da scoprire e da ricercare, talvolta anche con fatica, si è passati a uno attuale nel quale l’informazione abbonda, a prescindere dalla affidabilità, qualità e, soprattutto, utilità effettiva della medesima.

Il tempo di ciascuno di noi, da impiegare a discrezione personale e connessa responsabilità, dovrebbe cominciare dalle cose importanti, nell’interesse dell’evoluzione della nostra società, del rispetto della nostra coscienza, dei nostri affetti nonché dei nostri impegni lavorativi o di altre attività socialmente utili: la famiglia, i nostri cari, le necessità primarie nostre e degli altri, nonché tutto ciò che serve per costruire un’attività quotidiana seria, che valorizzi l’umanità.

Dalla concretezza di tali contenuti si passa oggi sovente alla superficialità, in quanto la finezza della tentazione alla comunicazione «spiccia» è sempre più diffusamente legata ai tempi stretti e si manifesta in una pletora di dispositivi e app che l’assecondano: vale a dire che si passa dalla sostanza all’apparenza
(valutata in like e numero di
followers, ndr).

Cosa fare? Ricordare e ricordarci che esiste la sostanza, che passa attraverso il documentarsi, capire a fondo i problemi, sapere e saper fare.

Un contadino dei miei luoghi, comunque a ridosso di una grande città, non molto tempo fa notava in un breve dialogo: «Molti ragazzi (ma anche adulti, dico io) passano oggi il tempo a scriversi cosa fanno e cosa hanno fatto: ma, alla fine, cosa hanno fatto?».

È, dunque, importantissimo il ruolo di MC, giacché scarseggiano anche le guide etiche della società, con l’effimero così saturante la nostra quotidianità, con tanti granelli che lasciano il tempo che trovano: le guide sono le persone devote alla fede – a partire dai religiosi nelle loro varie declinazioni (sacerdoti, frati, diaconi, filosofi etici), ma anche laici – con le loro parole e i loro scritti; ci riportano con i piedi per terra, nei fatti, pur con gli occhi al cielo, negli obiettivi, così da non appiattirci su una moltitudine di messaggi che, come la sabbia, fanno scivolare il nostro tempo tra le dita.

In sintesi: nulla di nuovo sotto il sole se leggiamo i tempi correnti con le virtù cardinali; si tratta semplicemente di usare la prudenza nella tentazione moderna di leggere e trasmettere l’effimero (spesso via chat) e tenere il timone dritto sugli obiettivi importanti della vita, per i quali naturalmente MC fornisce un ottimo viatico.

Complimenti ed auguri.

Bruno Dalla Chiara
15/01/2025

Grazie Bruno per la tua riflessione che offre un contributo davvero interessante.

P.Giovanni Saffirio illustra le figure di alcuni quaderni ad alcuni indios del Catrimani.


Padre Giovanni Saffirio

Quando arrivò, all’inizio del 1968, ricordo che stava facendo il primo tirocinio a Boa Vista nella sede della Prelazia di Roraima, e poiché ero là, lo invitai a venire con me alla fazenda Santa Adelaide, a sud della città, sulla riva del Rio Branco, per svagarsi un po’ dal lavoro che consisteva specialmente nel produrre certificati di battesimo, di matrimonio, e simili. Per questo consultava libroni usati per questo fine, anche quelli compilati dai Benedettini prima dell’arrivo dei Missionari della Consolata nel 1948. Un tirocinio che anch’io avevo fatto.

Quando arrivammo alla fazenda, ci vennero incontro i familiari del vaqueiro, e padre Giovanni si affrettò a presentarsi dicendo: «Sou o Padre mais noivo da Prelazia». Naturalmente vi fu una risata generale. Confondere noivo (fidanzato) con novo era realmente facile.

Non saprei proprio come parlare di padre Saffirio. Potrei dire che aveva un’innata capacità di fare disegni e scritte che aveva maturato anni prima già nel seminario. La mise in pratica anche nella elaborazione di alcune pubblicazioni ciclostilate della Prelazia di quell’epoca.

Quando mi avvisarono che era stato destinato all’attività con gli Yanomami, suggerii che invece di mandarlo per la prima esperienza al Rio Ajarani, una presenza tra gli indios iniziata da padre Bindo Meldolesi, come avevano pensato, lo mandassero a passare un po’ di giorni al Catrimani, con me, perché avrebbe sofferto di meno, dato che lì avevamo almeno una baracca.

E così fu fatto. Si trattava di inserirvi un nuovo missionario, e con una certa urgenza, perché io ero da solo, padre Bindo non se la sentiva più e padre Giovanni Calleri era assente per via della spedizione di soccorso agli indios minacciati dalla strada Perimetrale Nord che era in costruzione.

Al Rio Ajarani ci andai io, e fu l’ultima volta prima che ci arrivasse la Perimetrale Nord. Mentre ero là, e ci rimasi due mesi, seppi dalla Voz da América che padre Calleri e la sua spedizione tra i Waimiri-Atroari era stata massacrata. Era il primo novembre 1968.

Al Catrimani, tra gli Yanomami, padre Giovanni finì per restarci vari anni, anche se quasi mai eravamo insieme. Ci alternavamo. Naturalmente aveva imparato la lingua yanomae. Era una persona generosa, schietta e amante dell’allegria. Dopo vari anni di dedizione, si gettò nello studio dell’antropologia, nella quale forse sperava di trovare nuove idee e lumi che potessero aiutarlo a risolvere i dubbi che si erano accumulati sulle finalità del suo darsi da fare, apparentemente con pochi risultati pratici. Per questo nel 1977 andò negli Stati Uniti per fare un master e un dottorato in antropologia a Pittsburgh con il famoso professor Napoleon Chagnon (1938-2019).

Ritornò a Roraima nel 1985 e vi rimase fino al 1995, alternando la permanenza al Catrimani con responsabilità di superiore e amministratore dei missionari a Boa Vista. Chiamato in Canada nel 1996, rimase in Nord America fino al 2012, quando tornò a São Manoel nello stato di São Paolo in Brasile, dove rimase fino a che ha ricevuto la sua ultima chiamata l’11 ottobre 2024.

 fratel Carlo Zacquini,
Boa Vista, 14/01/2025

Contiamo di tornare presto a raccontarvi di padre Giovanni Saffirio, che ora riposa in pace a São Paolo, in Brasile.

P.Giovanni Saffirio illustra le figure di un quaderno ad un indio del Catrimani .




Il tocco delle tue mani


Sento ancora il tocco delle tue mani ruvide sui miei piedi. Mani vive, callose, come quelle di mio padre, di mio nonno. Il tuo lavare, asciugare, accarezzare la mia pelle, ha reso più sensibili i miei timpani che vibrano alle tue parole. Tu mi dici di rimanere in te.

Eppure sai che tra poco ti porteranno via, sai che domani a questa stessa ora sarai un corpo morto, disteso nel buio impenetrabile di un sepolcro.

Lo sai, eppure mi chiedi di rimanere in te.
E mi assicuri che tu rimarrai in me.

Io sono qui, tra il calore calmo delle tue mani sui miei piedi
e la visione del tuo sangue sopra un legno.

Come rimanere in te? Come rimani tu in me?

Com’è che io e te non ci perderemo?

Aprirai una strada nella morte?

Buon cammino a piedi nudi verso la Pasqua,

da amico
Luca Lorusso

clicca qui sotto per leggere tutto:




In Missione con padre Carlo Biella. Profumi e colori della missione


Colori. Profumi. Sensazioni. Immersi nel calore del Mozambico, dei suoi raggi di sole, tra la sua polvere e la sua gente. Note del viaggio dell’agosto 2024 de «I Bagai di binari» di Cernusco Lombardone (Lc) nella missione di Uncanha, diocesi di Tete.

Tete, capoluogo della regione omonima, nel nord ovest del Paese africano, è una cittadina con poco più di 150mila abitanti. Uncanha, la missione di padre Carlo Biella, missionario della Consolata nativo di Cernusco, si trova a più di 280 km di distanza, nel mezzo di terre aride, alberi di papaia e un gran numero di piccoli villaggi.

Con il fuoristrada, acquistato grazie alla nostra parrocchia nel 2022, in nove ore raggiungiamo la meta: un piccolo villaggio, con vicino la missione con un pozzo e un pannello solare. Attorno la scuola primaria, un piccolo auditorium per le riunioni, la casa della maestra e una per la famiglia del catechista. Scopriremo presto che ogni villaggio ha il suo catechista e responsabile parrocchiale che gestiscono sia la parte spirituale che organizzativa di ogni comunità.

Attorno al pozzo incontriamo alcuni bambini figli di pastori che non frequentano la scuola, ma accudiscono animali, li abbeverano e parlano e capiscono solo la lingua locale. Un chupa-chupa li rende felici. La gioia di un gioco da noi improvvisato durante l’intervallo scolastico ha dato colore al cortile polveroso tra sorrisi, applausi, salti e abbracci, che danno un senso e un significato alla parola missione e perché no, anche alla parola chiesa, termini che anche con le più sofisticate e argute parole non si riescono sempre a spiegare.

L’accoglienza

La missione si estende a Nord-ovest verso Nhanseula e Malowera. Per raggiungere la prima sono necessarie due ore di fuoristrada su un percorso a terra battuta. Calorosa è l’accoglienza per padre Carlo e noi, suoi ospiti.

La celebrazione della messa è il momento focale. Nella chiesetta dalle mura grigie spiccano i colori di canti, balli e dei doni per noi ospiti: pollame, alimenti, farine e offerte per la parrocchia. Da parte nostra doniamo un pallone, gesto simbolico che riperemo in tutte le comunità che visiteremo nei prossimi giorni. La lingua della celebrazione è sia il portoghese che la lingua locale, il chichewa. Dopo la presentazione di ciascuno di noi, stringiamo la mano a ognuno dei presenti.

Tre ore passano veloci, poi il pomeriggio di giochi con i bambini con il pallone e senza, mentre in un campo vicino due squadre di ragazzi giocano una partita di calcio. Visitiamo la famiglia del catechista del villaggio, la cui madre è impossibilitata a muoversi. Le case sono capanne o casette circondate da pali di legno a mo’ di recinzione impedendo l’ingresso ad animali. Pollame e caprette sono libere di pascolare per l’intero villaggio. I bagni sono strutture fuori dall’abitato con un buco e una zona apposita per lavarsi con secchi d’acqua, calda solo se posta sul fuoco.

Visitiamo anche il luogo della missione originale, abbandonata – come tantissime in questo ampio territorio – durante i terribili anni della guerra di indipendenza e poi quella civile tra Frelimo e Renamo.

L’indomani visitiamo Malowera, più a Nord, a un’ora di distanza d’auto. L’accoglienza qui è ancora più calorosa, con la stretta di mano a tutti appena arrivati, un cartello di benvenuto per padre Carlo, canti e balli, e poi un momento personale di riconciliazione per una cinquantina di persone.

Tre ore di celebrazione all’aperto sotto il sole e all’ombra di alcune piante. Alle spalle il cantiere per la costruzione della nuova chiesa per rimpiazzare quella distrutta dalla guerra e dall’abbandono.

Al tramonto di una domenica diversa dalle solite ritorniamo a Uncanha lasciandoci alle spalle abbracci, sorrisi e strette di mano di persone che vivono il valore vero e intenso della comunità e dell’accoglienza.

Con la comunità di Kanyenze

L’incontro di martedì 6 agosto con la comunità di Kanyenze a 20 km circa da Uncanha, ci ha aiutato a capire meglio il compito dei missionari: portare alla gente la parola di Dio, costruendoci attorno valori importanti quali la condivisione e la preghiera, un’opportunità di crescita e vera vita.

Padre Carlo, da oltre 30 anni in Mozambico, incontra per la prima volta questo gruppo di 70 famiglie di recente stanziamento grazie a Dixon, catechista e coordinatore della comunità di Uncanha. Questa comunità è diversa dalle altre, perché qui nessuno è ancora battezzato e quindi va proprio fatta la prima evangelizzazione.

«Qui si inizia dalle basi, a spiegare da zero certi gesti – ci racconta padre Carlo – con concetti semplici come si fa con i bambini. Dire chi è Gesù, cosa si intende per Eucarestia. Per iniziare una comunità cristiana – ha aggiunto – sono indispensabili un catechista che formi e parli alla gente e un coro che anima e che è motivo di aggregazione».

La messa viene accompagnata dal coro di Uncanha e vede i consueti gesti di accoglienza e doni verso la comunità e i sacerdoti celebranti e il dono di due palloni da parte nostra per le comunità locali. L’edificio della chiesa non c’è, tanto che celebriamo la funzione all’aperto sotto una pagoda con tetto di paglia.

Bambini, per due ore fermi e poco rumorosi, e mamme sono raggruppati attorno all’altare improvvisato, con sguardo curioso; una macchia di colori che colpisce. Grazie alla traduzione di Dixon in lingua chichewa si trasmettono così quei valori indispensabili per una comunità cristiana e alcuni avvisi. Allo stesso tempo la comunità esprime la problematicità di non avere un pozzo da cui attingere acqua, indispensabile per un villaggio, in particolare quest’anno nel quale le piogge non sono state abbondanti.

È stata una conoscenza reciproca, che ha avuto il suo fulcro nella preghiera comunitaria, sperando di poter far crescere una comunità di famiglie pronte a iniziare insieme un cammino di fede e di crescita sia materiale che spirituale.

La semplicità, ritrovata novità

Altre opportunità trovano spazio nel cammino qui a Uncanha. Le attività scolastiche si sono concluse per i bambini del primo ciclo della primaria con alcune prove lunedì e martedì 5 e 6 agosto; accompagnati dalla maestra Rosa, hanno appreso i fondamentali della lingua e dell’aritmetica.

Abbiamo così l’occasione di condividere con loro momenti di gioco in aula o nello spazio esterno. Provvisti di palloncini colorati, bolle di sapone e una palla azzurra portati dall’Italia siamo riusciti a far vivere nei loro occhi la meraviglia nel vedere qualcosa di nuovo.

Vista la temperatura si può anche giocare, divisi in tre squadre, con qualche gavettone in cortile. Tutto si chiude con un momento in cerchio, sorrisi gioiosi e un lungo applauso finale. Divertiti torniamo in aula e lasciamo un chupachupa a ognuno.

Nulla di speciale per noi, una giornata divertente per loro. La riscoperta della semplicità di alcuni gesti aiuta a capire che ogni tanto fa bene «fermarci» per non farci trascinare dalla frenesia dei nostri tempi.

A Zumbo e Miruru

Il viaggio si addentra nel vivo e sabato 10 agosto si parte per un viaggio di quattro ore per Zumbo, villaggio alla confluenza del fiume Luangwa con lo Zambesi, vicino al confine con lo Zambia (è il villaggio dove i primi cinque missionari della Consolata arrivarono il 5 marzo 1926, ndr). L’occasione è la celebrazione di sei battesimi.

Con padre Carlo celebra anche don Alfredo che consegna alla comunità un ostensorio per l’adorazione dell’Eucarestia, donato dalla sua attuale parrocchia. Canti e balli animano come sempre la Messa, celebrata la domenica solo quando è presente uno dei sacerdoti.

Il giorno dopo attraversiamo il fiume per raggiungere la comunità di Bawa, fotografando lungo il fiume ippopotami e un alligatore. La comunità è in fermento perché si sta preparando ad accogliere il festival dei cori delle parrocchie nei prossimi giorni di agosto.

A Zumbo c’è grande attesa per l’arrivo del vescovo di Tete Diamantino Antunes. Martedì 13 infatti grande festa in paese: bambini e fedeli accolgono l’arrivo del vescovo tra petali e stuoie lungo la strada. Nel pomeriggio sono celebrate le cresime di 57 persone nello spazio davanti alla chiesa coperto da tetti di paglia.  Non sono mancati i doni al termine della messa e i ringraziamenti.

In questa realtà vivono le suore della Consolata (dove erano già arrivate il il 30 agosto 1927, ndr), presenti: Ana Paola, Betania e Ivonne, provvisoriamente alloggiate vicino al piccolo ospedale della cittadina. La loro ospitalità e dolcezza ha rallegrato il nostro soggiorno. È in costruzione una casa per loro in centro paese e accanto si pensa di edificare un asilo nido.

Il viaggio non è terminato

Mercoledì 14 andiamo con il vescovo nel villaggio di Miruru, isolato, distante due ore da Zumbo, nei pressi di un’antica chiesa abbandonata in stile gotico attorno alla quale si sta costruendo un villaggio, nella speranza di accogliere delle famiglie e formare una parrocchia. Si riparte da zero e si ricostruisce. Forza e volontà non mancano, si vuole riportare alla vita numerosi edifici, ormai ridotti ruderi, un tempo missione dei Gesuiti di inizio 1900, poi abbandonata per le vicissitudini storico politiche.

A pochi metri il cimitero con le tombe dei padri fondatori, purtroppo profanato di recente: per questo si è deciso di far partire da qui la processione fino all’ingresso della chiesa, ora senza tetto, dove sono state celebrate dal vescovo le cresime. Sette i cresimati con i rispettivi padrini e madrine e la richiesta da parte di dom Diamantino di tornare ad animare questo villaggio per poter così dare un senso alla costruzione di diverse strutture come una scuola, laboratori, case. Sicuramente entro Natale verrà ricostruito il tetto della chiesa.

La sera cala dopo la festa, in un’atmosfera suggestiva, sotto un cielo aperto e stellato.

L’indomani mattina un risveglio altrettanto incantevole al sorgere del sole per tornare alla base.

Ciò che resta

«In questa stupenda esperienza ciò che mi ha colpito maggiormente è stata la semplicità con cui i bambini, ma non solo, trovavano il sorriso non appena ci vedevano, specialmente quando passavamo tra i villaggi con il fuoristrada. Ci seguivano con lo sguardo, notavano noi bianchi tutti assieme e ci ricambiavano il saluto con un bellissimo sorriso e tutti pieni di gioia e anche sorpresa – ci ha raccontato Matteo, nipote di padre Carlo e uno dei responsabili in oratorio della comunità giovanile cernuschese -. Sicuramente ho portato a casa la consapevolezza di essere estremamente fortunato ad avere privilegi e comodità che prima di questo viaggio davo per scontato. Ad esempio, la mancanza di acqua corrente, principalmente durante la doccia, si è fatta sentire notevolmente, ma anche la sporadicità con cui si presentavano le varie case di cura e i rarissimi ospedali, che per fortuna non ci sono serviti, l’assenza quasi totale di strade asfaltate che hanno aumentato le ore di spostamento tra una parrocchia e l’altra. Sicuramente in queste tre settimane ho capito perfettamente perché gente come padre Carlo viene chiamata missionario: hanno da compiere una vera e propria missione, che non consiste solamente nel diffondere il più possibile il Vangelo tramite le celebrazioni e le catechesi, ma anche stare dietro a tutto quello che ci gira attorno, quindi gestire le contabilità di tutte le parrocchie, ascoltare i bisogni dei parrocchiani, costruire chiese, asili, abitazioni, pozzi, risolvere le problematiche che saltano fuori ogni giorno e adattarsi a una vita che è totalmente diversa da quella che viviamo qui».

«Scegliere un momento significativo di questa esperienza, è difficile. Condividere con queste comunità, la vita di tutti i giorni, giocare a “Giro giro tondo” con i bambini e vedere la felicità nei loro occhi, fa riflettere – è il pensiero di Nadia, del direttivo de I bagai di binari (i ragazzi dei binari), l’associazione missionaria di Cernusco -. A loro non serve molto per essere felici e sorridere, nonostante abbiano poco o quasi nulla. Per questo, continuiamo a sostenere quei progetti che, con eventi, sottoscrizioni a premi e altro, ci permettono di raccogliere fondi per sostenere queste realtà».

«Questa piccola esperienza mi ha confermato quanto sia importante aiutare chi ha bisogno, meglio sul posto, nel loro Paese d’origine – ha aggiunto Dario Vanoli, presidente de I bagai di binari -. L’aiuto concreto di chi veramente ha voglia di soccorrere chi ha bisogno è quello che serve; è bene che, chi lo fa, faccia rete e coinvolga chi ha intorno. Sono piccoli semi, segni che possono però dare tanto: un sorriso, una chiacchierata e, perché no, anche una vita che cambia. Tutto ciò è uno splendido frutto. Sono esperienze che consiglio caldamente ai giovani, perché aiutano a crescere. Grazie ancora una volta a chi ci è stato vicino e ha sostenuto concretamente le donazioni fatte a padre Carlo. Per questo è importante seguire e sostenere i nostri progetti: un aiuto concreto e diretto per queste realtà missionarie o del territorio».

Proprio perché la missione continua, ci saranno in futuro nuove avventure simili.

I bagai di binari
(ibagaidibinari@libero.it)




Taiwan. Modernità e missione


Hsinchu è una delle diocesi più giovani del Paese. I cattolici sono una minoranza, ma le opere sociali della Chiesa sono riconosciute. Come le attività di aiuto ai tanti migranti. Il suo pastore è attivo e lungimirante. Lo abbiamo incontrato.

Hsinchu. C’è una certa frenesia questa mattina in Ximen street, via centrale della città di Hsinchu, a un centinaio di chilometri a sud di Taipei, la capitale di Taiwan. Nonostante il caldo umido asfissiante – si toccano i 38 gradi nelle ore centrali del giorno -, fervono i preparativi nella bella chiesa del Sacro Cuore di Gesù per la celebrazione dei dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata nel Paese. Costruita dai missionari gesuiti nei primi anni Cinquanta, la sua originale architettura ripropone tre pagode, una attaccata all’altra, rotonde, di diametro decrescente, con il tipico tetto orientale, che nulla ha da invidiare a quello del tempio alla dea Matzu (la signora del mare), che guarda la chiesa dall’altra parte della via.

Fin dalle prime ore di questo 21 settembre, i fedeli hanno iniziato ad arrivare nella pagoda principale della chiesa, mentre delegazioni di religiosi e amicim di svariate nazionalità, sono passate per un saluto ai padroni di casa.

La parrocchia è stata affidata ai Missionari della Consolata nel 2017, e vi lavorano padre Jasper Kirimi e padre Caius Moindi, entrambi keniani. Ma oggi la festa non è solo dei missionari di san Giuseppe Allamano (attualmente in sette a Taiwan, di cinque nazionalità), o della parrocchia ma, si può dire, è dell’intera diocesi di Hsinchu.

Il vescovo, John Baptist Lee Keh-mien, presiede la messa di anniversario, concelebrata da alcune decine di sacerdoti, di svariata provenienza. Molti vengono da Taipei per l’occasione, come padre Edi Foschiatto, saveriano, tra i primi ad aver aiutato i missionari della Consolata nelle loro iniziali perlustrazioni sull’isola.

Una diocesi giovane

Monsignor Lee, classe 1958, è vescovo di Hsinchu dal 2006. Dal 2020 è anche presidente della Conferenza episcopale regionale cinese, ovvero di Taiwan, ma il nome ufficiale è questo per non solleticare l’irritabilità dei dirigenti della Cina continentale. Le diocesi taiwanesi sono in tutto sei, più l’arcidiocesi di Taipei.

Alcuni giorni prima della festa, andiamo a incontrare monsignor Lee nel suo ufficio, nel palazzo a fianco alla bella cattedrale di Hsinchu. Disponibile e simpatico, durante la nostra chiacchierata intervalla il suo discorso con pacate risate.

«Taiwan è una società mediamente anziana. E tra i cattolici questa tendenza si accentua ancora di più. Nelle parrocchie i due terzi delle persone sono pensionati, e i ragazzi sono rari». La diocesi, per contro, è tra le più giovani del Paese, essendo stata eretta nel 1961: «L’evangelizzazione a Taiwan, iniziata da Sud, dalla città di Kaoshung dove arrivarono i primi missionari nel XVI secolo, è giunta fino al centro, a Taochung, da dove ha “saltato” la nostra zona, ed è passata a Nord, a Taipei. Possiamo dire che abbiamo due generazioni di cattolici qui, mentre in altre diocesi, già centenarie, le famiglie “cattoliche” sono più forti perché hanno una storia più lunga».

Bisogno di missionari

La diocesi di Hsinchu comprende la contea omonima, la contea di Miaoli e il comune speciale di Taoyuan (area dell’aeroporto internazionale), per un totale di 4.750 km2. I cattolici censiti sono circa 40mila.

«In questa zona – continua il prelato – fino a dopo la Seconda guerra mondiale non c’erano quasi cattolici. Poi, quando nel 1949 Chan Kai-shek, persa la guerra contro i comunisti di Mao, insieme al suo apparato militare e statale, ha invaso l’isola, in quest’area sono stati insediati alcuni accampamenti militari. Diversi soldati erano cattolici, da qui l’esigenza di avere dei sacerdoti. Le prime parrocchie nacquero proprio nei pressi degli accampamenti. Fino agli anni Settanta c’è stato un periodo di forte evangelizzazione, che poi si è stabilizzata». Era iniziata la crescita economica, e molti giovani andavano all’estero a studiare, «così il numero dei cattolici non è più aumentato. Oggi abbiamo dei battesimi, ma si equilibrano con i funerali».

Il vescovo mette poi l’accento sulle risorse umane a sua disposizione. Questa zona è stata, fino dai primi anni Cinquanta appannaggio dei gesuiti, come altre erano dei francescani, o di altre congregazioni. «Anni fa in diocesi c’erano in tutto duecento sacerdoti, dei quali cento erano gesuiti. Oggi posso contare su settanta preti in totale. Di questi poi, solo due sono taiwanesi, e sono professori all’università, per cui non seguono neppure una parrocchia». E continua: «I preti della diocesi sono stranieri, sia quelli missionari che quelli incardinati qui. Prevalgono i coreani, poi vietnamiti, filippini, e, più recentemente, africani di svariati paesi. Ma non abbiamo quasi vocazioni locali».

«Io sto invitando preti dall’estero e quelli che arrivano sono giovani. Questo, secondo me, ha l’effetto di attirare più ragazzi nelle parrocchie. Recentemente abbiamo due seminaristi taiwanesi. Forse riusciamo a innescare un circolo virtuoso».

Un altro tema che ha preoccupato monsignor Lee dall’inizio del suo episcopato è stato quello finanziario. Una legge di Taiwan, promulgata all’inizio del suo episcopato, aveva infatti ridotto alcune entrate economiche per la diocesi: «Ho dovuto lavorare per stabilizzare la parte finanziaria, ma adesso ci sono riuscito», dice con orgoglio.

Migranti asiatici

La Chiesa cattolica, pur essendo una minoranza tra le minoranze (vedi oltre), è riconosciuta nella società taiwanese, soprattutto grazie alle attività sociali: educazione, salute, lavoro con la disabilità e, recentemente, le attività con i migranti.

Negli ultimi anni stanno arrivando a Taiwan molti immigrati, in particolare da Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia. Sono attratti dal lavoro nell’industria (in particolare quella per la produzione di semiconduttori, di cui il Paese è grande esportatore), nelle costruzioni (si vedono in città molti cantieri per nuovi palazzi), e nell’accudimento degli anziani.

La diocesi di Hsinchu gestisce tre centri per migranti, nei quali fornisce aiuto per abitazione, questioni legali, sanitarie, per imparare la lingua cinese e assistenza spirituale.

Tra chi arriva ci sono pure i migranti senza documenti in regola per stare a Taiwan. Monsignor Lee ci dice che «ce ne sarebbero più di 10mila. Talvolta la polizia viene a cercarli in chiesa durante le messe, ma noi chiediamo di non intervenire».

La maggioranza dei migranti filippini e vietnamiti sono cattolici, mentre gli indonesiani sono in prevalenza musulmani. «Anche dopo le funzioni della domenica cerchiamo di dare loro assistenza, in particolare grazie a molti volontari. Alcuni di questi sono migranti di più lunga data, che si mettono a disposizione per aiutare. Inoltre, con i sacerdoti loro connazionali (in particolare filippini e vietnamiti), riusciamo a seguirli più efficacemente».

Parlarsi tra religioni

Il vescovo ci racconta che esiste un buon rapporto con le altre religioni presenti nel Paese, abitato da 23 milioni di persone. Buddhismo e taoismo contano le percentuali più alte di fedeli, circa 20 e 19% rispettivamente, poi ci sono le religioni popolari, le cosiddette folk religions (28%), anch’esse molto diffuse e, infine, cristiani evangelici (5,5%) e cattolici (1,3%; dati Academia sinica 2021).

«Con i pastori protestanti abbiamo un incontro ogni mese, a cui partecipano alcuni nostri preti e laici. Siamo in comunicazione con loro a livello della contea di Hsinchu. Per quanto riguarda le altre religioni, durante le feste ci invitiamo vicendevolmente. Ad esempio, alla festa della luce, che noi cattolici facciamo a Natale, invitiamo tutti i leader. Inoltre, io vengo invitato da loro, in particolare ho frequentato alcune feste taoiste. Sia loro, sia i buddhisti, va ricordato, sono di tante correnti diverse».

Fede consapevole

Come presidente della conferenza episcopale, chiediamo a monsignor Lee un commento su come i fedeli taiwanesi vivono la loro fede. «Oggi a Taiwan tutti hanno la possibilità di andare all’università, almeno per il primo livello (bachelor, laurea breve, ndr), mentre un tempo era diverso. Quando ero giovane io, solo il 20% dei miei coetanei potevano seguire gli studi.

Allo stesso modo, adesso la formazione dei cattolici è diventata un fattore importante. Prima essi non conoscevano la Chiesa, non avevano i fondamenti della Bibbia, ma non c’era molta attenzione a questo. Dal 2012 abbiamo una scuola di Bibbia, frequentata da laici. La partecipazione è in crescita e da allora sono stati formati circa 4mila fedeli in tutto il Paese.

Adesso, posso dire, i cattolici conoscono la loro religione e le basi della loro fede. La situazione della diocesi di Hsinchu è simile a quella delle altre: anche qui i credenti iniziano ad avere maggiore conoscenza della dottrina cattolica e della Bibbia».

Questo vuole anche dire che adesso, per un parroco, è più facile trovare dei laici formati che possano aiutarlo. È un grosso cambiamento dell’ultimo decennio.

«In secondo luogo – riprende il vescovo – se la fede diventa più consapevole, ho speranze che nei prossimi anni crescano le vocazioni locali. Sia per i sacerdoti che per le suore».

Contatti cinesi

Chiediamo a monsignor Lee che contatti ha la chiesa di Taiwan con quella del continente, ovvero della Repubblica popolare di Cina (Rpc).

«Molti vescovi della precedente generazione erano originari della Cina continentale, per cui avevano lì parenti e molti conoscenti. Si può dire che erano come un ponte verso il continente e le relazioni erano buone. Ma adesso non è più così. Noi siamo nati e cresciuti a Taiwan e abbiamo meno legami. Inoltre ci sono difficoltà anche dovute alla situazione politica».

Il vescovo ci ricorda che preti e suore della Rpc possono venire a studiare teologia a Taiwan: «Noi forniamo una borsa di studio ogni anno a trenta persone della Cina continentale. Da qualche tempo però, è aumentato il controllo sui religiosi da parte del governo cinese, e ne vengono circa la metà».

Ci sono poi restrizioni del governo taiwanese per lavorare nel Paese: «Possono studiare qui ma non fermarsi. Ci sono cittadini della Rpc che hanno assunto altre nazionalità, in questo caso è loro consentito di integrare le nostre diocesi».

Approfittiamo per chiedere al vescovo un commento sulle tensioni tra Taiwan e Rpc, e anche se i taiwanesi temano un’invasione da parte dei comunisti: «Sono i militari a essere coinvolti ogni giorno su questo tema. Per ora la gente non ha ancora paura. Penso anche che alcuni uomini d’affari taiwanesi siano influenzati dalla situazione, diversi di loro stanno trasferendo le imprese e business dalla Cina ad altri paesi. Non tanto perché pensino a un’invasione, ma perché mentre prima era facile fare buoni affari con la Cina continentale, oggi sta diventando sempre più difficile».

«Lavorano bene»

Torniamo ai dieci anni di presenza dei missionari della Consolata a Hsinchu.

La parrocchia di Ximen street era la base dei gesuiti per tutta la diocesi. «Quando, nel 2017, visto il ridotto numero di sacerdoti, non sono più riusciti a gestirla mi hanno chiesto di mandarvi qualcuno con una buona esperienza. Alcuni missionari della Consolata erano già in diocesi dal 2014. Stavano studiando la lingua e la cultura. Io avevo sentito dire che lavorano molto bene, hanno buone vocazioni e gestiscono tante parrocchie, quindi sanno come prendersene cura. Per questo motivo ho proposto loro la gestione del Sacro Cuore di Gesù».

Monsignor Lee si alza in piedi e ci mostra un quadro della Madonna. Maria tiene tra le mani Gesù e sembra che lo porga a un bambino in piedi di fronte a lei: «È nostra Signora di Hsinchu», ci dice con il suo gran sorriso.

Marco Bello


A casa di Peter e Jennifer

Il cattolico buddhista

Peter e Jennifer sono due parrocchiani del Sacro Cuore di Gesù, in centro a Hsinchu. Mi invitano nel pomeriggio a casa loro per bere il tè. È una casa semplice e decorosa, al piano terra di un basso edificio. Nel cortiletto antistante, vi sono molte piante tra le quali diversi bonsai. Peter è un appassionato di tè e utilizza tutto un rituale preciso per consumare la bevanda, da solo o con amici. Ci sediamo uno di fronte all’altro, tra noi un tavolo ricolmo di dolci di ogni tipo. Davanti a lui, ha una tavoletta di legno sulla quale è appoggiata una piccola teiera. A destra, fuori dal tavolo, c’è un bollitore sempre pronto.

Peter, parla un po’ di inglese, e questo facilita la comunicazione. Mi racconta la sua storia.

Peter ha lavorato per trent’anni nell’esercito di Taiwan, poi, congedato, ha cercato un altro lavoro ed è attualmente alla Tsmc (Taiwan semiconductor manufacturing company, la maggiore società di produzione di circuiti integrati del Paese) nell’ambito della sicurezza.

«Ho 67 anni. Circa 15 anni fa, al mio capo, tornato da una permanenza nella Cina continentale, è venuto un tumore ed è morto in pochi mesi. Aveva due anni meno di me. È stato un duro colpo. Ho lasciato la fede cattolica e ho iniziato a seguire le pratiche buddhiste». Sua moglie Jennifer, invece, ha continuato a frequentare la parrocchia.

Alcuni anni dopo al Sacro Cuore arriva un nuovo prete, è un africano. Jennifer lo presenta a Peter. I due diventano amici e prendono spesso il tè insieme, come facciamo noi oggi. Finché qualcosa cambia in Peter: «Decisi di tornare alla Chiesa, e domandai al missionario di confessarmi. Penso che lui sia stato mandato dal Signore per salvarmi».

«La religione che seguiamo è una specie di destino – ci dice solennemente -. In famiglia siamo in sei, tra fratelli e sorelle, e solo una sorella è cattolica».

Gli chiediamo cosa gli è rimasto del buddhismo: «Ho praticato per dieci anni. Alcuni insegnamenti del Buddha mi sono entrati dentro, ma penso che la cosa più importante sia la misericordia del Signore. Ti aiuta a discernere cosa è meglio per te».

Peter fa un confronto: «Gesù ha avuto solo tre anni per insegnare il suo pensiero, il Buddha, invece, ne ha avuti 59. Gesù ci ha insegnato a sacrificarci per gli altri, e questo non è facile. Un insegnamento molto forte». E continua: «Il missionario africano mi ha dato l’esempio con il suo comportamento». Quel sacerdote era il kenyano padre Mathews Odhiambo.

«Quando ero nell’esercito ho subito alcuni incidenti e me la sono cavata: ho sentito la protezione di Dio. Quando cercavo un lavoro, ho pregato il Signore che mi aiutasse. Sovente, mentre prego sento la sua presenza». Dicendo queste parole, Peter, il cui viso ha tratti duri, che fanno intravedere il suo passato di militare, si commuove e i suoi occhi si inumidiscono.

Cerchiamo di toglierlo dall’imbarazzo chiedendo chi è raffigurato nella statua sullo scaffale alla sua destra. Pare un guerriero con una lunga barba, al cui collo è appeso un rosario. «È il generale Guan Ye, una figura della Cina antica. Rappresenta giustizia, coraggio e lealtà. Mi ricorda in particolare di essere leale e di non avere mai paura degli altri». Non lontano dal generale, si trova una statua della Madonna, e subito sopra un bel crocefisso di legno appeso al muro in posizione dominate.

«Lo stesso fatto che noi due ci siamo incontrati, pur abitando così lontani, è un disegno del Signore – sentenzia Peter -. Anche i missionari vengono da lontano e da culture distanti tra loro, ma hanno la stessa fede. Questo è un segno importante».

Ma.Bel.

 




La santità che scuote


Il 20 ottobre scorso Giuseppe Allamano è diventato ufficialmente santo. Pellegrini da 35 paesi hanno raggiunto Roma per l’evento. Missionarie e missionari della Consolata di tante nazionalità erano presenti. È stata una grande festa di famiglia. Reportage.

Roma, 19 ottobre. È già buio quando fuori dalla Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella, a pochi passi da piazza Navona, incontriamo un brulicare di gente. A guardare bene, e ad ascoltare la cacofonia di voci, ci sono persone da diverse parti del mondo. Si abbracciano, parlano, cercano qualcuno di conosciuto, prima di entrare alla veglia che inizierà tra poco. È il popolo di Giuseppe Allamano, che si è riunito da 35 paesi di quattro continenti, perché il 20 ottobre, il sacerdote torinese fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, sarà canonizzato da papa Francesco, ovvero, diventerà ufficialmente santo.

Intanto la chiesa si riempie, è stracolma e molti sono in piedi o seduti per terra nell’area davanti all’altare. I cori Tatanzambe di Nervesa (Tv) e Massawe di Bevera (Lc), uniti per l’occasione, suonano e cantano in kiswahili.

Verso le 20 suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, prende la parola per spiegare il programma della serata. Con lei, condurrà padre Edwin Osaleh, missionario in Marocco.

 

La veglia abbia inizio

Il benvenuto è di suor Lucia Bortolomasi, madre generale delle missionarie della Consolata, anche a nome di padre James Lengarin, superiore generale dei missionari. Di colpo la chiassosa e variopinta assembela si zittisce. «Che gioia indescrivibile, quanti sentimenti abitano il nostro cuore. […]

Alcuni di noi hanno varcato oceani, attraversato continenti, viaggiato giorni per arrivare qui. […] è necessario fermarci tutti insieme a preparare il cuore. per sintonizzarci a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi e coglierne il senso più profondo».

Suor Lucia ricorda la beatificazione di Allamano, nel 1990 e riflette sul significato di essere riconosciuto santo: «Questo riconoscimento ufficiale varca i confini della nostra famiglia, diventando un modello rivolto ai fedeli della Chiesa tutta. Da domani Allamano è un po’ meno nostro e sempre più di tutti».

Suor Lucia richiama la santità che il fondatore chiedeva ai suoi: «Non miracoli, ma fare tutto bene. Farci santi nella via ordinaria» e ricorda i tanti missionari e missionarie che sono rimasti ai loro posti, in missione, e quelli che non sono potuti venire perché impediti dall’età o dalla malattia. Suor Lucia fa, infine, un richiamo alla responsabilità: «siamo tutti chiamati a operare con sempre maggiore dedizione».

Dopo di lei, parla monsignor Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata doi Torino, che ricorda i 47 anni a guida di Giuseppe Allamano.

Per ogni intervento lei due guide della veglia, fanno sintesi in inglese, spagnolo, portoghese.

Raccontare il miracolo

Viene il momento di parlare del miracolo che ha portato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. La guarigione di Sorino Yanomami, nella missione di Catrimani, a Roraima, in Brasile, nel 1996. Sorino, a caccia nella foresta, era stato aggredito da un giaguaro, che aveva causato gravi ferite alla scatola cranica.

La dottoressa Roberta Barbero ha seguito dal punto di vista medico la vicenda. Racconta come abbia vissuto il contrasto tra il ruolo di medico, che ha bisogno di osservare, misurare, e il suo essere donna di fede, alla quale bastano le testimonianze.

Racconta, ad esempio, come a volte si sia sentita isolata dalla comunità scientifica, quando raccontava il caso, perché lo scienziato fa fatica ad andare oltre a quello che si può misurare: «Le guarigioni inspiegabili avvengono, e l’atteggiamento della medicina è quasi come quello di chi subisce un affronto». Ma «la fede può fare la differenza. Questa guarigione ha cambiato il mio modo di vedere le cose, e anche di testimoniare la mia fede all’interno di un ambiente che non sempre permette questa apertura».

Si alza poi suor Felicita Muthoni Nyaga, la testimone più diretta dell’evento occorso nel febbraio 1996 a Roraima. Prende il microfono e va verso la gente. Tra le centinaia di persone, adesso, cala un silenzio assoluto: sono tutti con il fiato sospeso per ascoltare la sua storia (vedi dossier MC ottobre 2024). Quando conclude dicendo che Sorino «è un uomo che non è registrato all’anagrafe, né nei nostri registri di battesimo, ma c’è, Dio lo ha visto», scoppia un lungo applauso. L’atmosfera è diventata caldissima.

Parlano ancora i vescovi di Roraima: quello attuale, monsignor Evaristo Spleger, e alcuni predecessori e vicari, monsignor Roche Paloschi, e monsignor Raimundo Vanthay Neto.

Gli interventi sono intervallati da canti del coro in diverse lingue.

Testimonianze

Dopo un breve saluto di monsignor Alessandro Giraudo, vescovo ausiliario dell’arcidiocesi di Torino, si susseguono alcune testimonianze di laici e laiche.

Toccante è quella di Nadia, ragazza marocchina musulmana di Oujda, dove è operativo il centro per migranti coordinato da padre Edwin.

Una preghiera del cardinale Giorgio Marengo conclude la serata.

Sono le dieci passate, i pellegrini chiassosi defluiscono lentamente dalla Chiesa Nuova. Si vede la stanchezza di chi è arrivato da lontano, ma si sente l’entusiasmo, e molta attesa per quello che avverrà domani.


Piazza san Pietro, 20 ottobre

È festa grande

Fino dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia necessari per entrare nella piazza.

Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma c’è anche l’Asia, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune asticelle viene issata l’immagine di Giuseppe Allamano, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati» anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni). Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con il volto di Allamano e l’immagine della Consolata. L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato specificamente per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo con il metal detector. La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.

I pellegrini sono assonnati, ma nei volti si nota la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.

È un momento di attesa, e si approfitta per farsi foto, video, scambiarsi un contatto o un sorriso. Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio. A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte alcune migranti subsahariane.

Vediamo il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità. Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.

Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Francesco accolto dai suoi

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcuni canti diffuse con i potenti altoparlanti. L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone venute da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «papa Francisco», per culminare con un grande applauso. Nel frattempo è comparso un pallido sole.

Scorgiamo evidente, in prima fila nel gruppo delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno (Mc 10,35-45).

«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere». E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».

Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.

«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

Allamano e gli Yanomami

All’Angelus il pontefice mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si accalcano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Dopodiché, inizia il lento deflusso di migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della basilica di san Pietro sulla cui facciata spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

Chiediamo a padre James Lengarin, superiore dei missionari della Consolata, le sue impressioni: «È stata una bellissima giornata. Quando si nominava san Giuseppe Allamano, dalla piazza si alzava un urlo di gioia. Il Papa ha ancora parlato di lui all’Angelus, sottolineando il suo spirito missionario: oggi è anche la Giornata missionaria mondiale».

«Poi ci siamo trovati tutti al Teresianum (la Pontificia università teologica), per festeggiare. Eravamo più di 1.300 persone da tutto il mondo. Questo ci fa vedere come il cuore della Consolata sia vivo». Gli chiediamo come si sente a essere il successore di un santo: «Mi sento come uno dei suoi figli, ma anche come frutto della missione. Io vengo da una popolazione di pastori nomadi. Vuole dire che Allamano aveva questa attenzione per le persone che di solito sono emarginate, alla periferia del mondo. Io adesso mi sento animatore dei miei fratelli».


Roma, 21 ottobre

«Coraggio, avanti»

Lunedì pomeriggio i pellegrini di san Giuseppe Allamano si trovano nuovamente tutti insieme per una celebrazione di ringraziamento nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura.

La messa inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Giorgio Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione. Mi ha colpito, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».

Continua il cardinale: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.

Tra questi spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili da una maglietta fatta per l’occasione, con la scritta in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard della canonizzazione.

Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera soave: «Popoli tutti, lodate il Signore».

Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musici – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma praticamente balla. Una danza contagiosa, che in pochi secondi prende tutti i presenti e, chi più chi meno, inizia a muoversi a ritmo di musica. E parte l’entusiasmo della grande festa.

Un punto di partenza

Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco. La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo che i giovani non siano più costretti a partire.

Durante la cerimonia di ringraziamento, come nei giorni precedenti, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».

Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si è soffermato sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».

«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».

Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».

La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa per il nuovo santo.

Marco Bello




Noi e voi, dialogo lettori e missionari


Una nuova Tac per Ikonda

Caspita, 316mila euro non sono noccioline. Anche se, per chi sfreccia con i bolidi di «Formula uno», o chi batte e ribatte le palline gialle da tennis, o chi rincorre il variopinto pallone da calcio, 316mila euro sono quasi quisquilie. Ma quisquilie non sono né noccioline per il Consolata hospital Ikonda in Tanzania.

L’ospedale conta 404 posti letto, sei sale operatorie e cura le principali patologie con la presenza di 349 persone: medici, farmacisti, infermieri, tecnici di laboratorio, addetti alle pulizie, ecc. Gli ammalati provengono soprattutto da Morogoro, Iringa, Njombe, Songea, Mbeya, Rukwa, Katavi, ma qualcuno viene anche da più lontano, persino dall’isola di Zanzibar. I bambini del distretto di Makete fino ai 10 anni vengono curati gratuitamente, mentre i pazienti Hiv ricevono alcune prestazioni gratuite, così come le partorienti del distretto.

Il centro sanitario è dei Missionari della Consolata. Fu costruito nel 1962, e successivamente ampliato. Venne inaugurato ufficialmente un anno dopo l’indipendenza del Tanzania con Julius Nyerere presidente, il quale affermava: «I nemici del nostro paese sono la povertà, l’ignoranza e la malattia».

Il Consolata hospital Ikonda affrontò subito «il nemico» malattia.

L’ospedale sorge fra le montagne dell’Ukinga a 2.050 metri di altitudine. Dista circa 800 chilometri da Dar Es Salaam, la capitale del Tanzania. Fino a tre anni fa, gli ultimi 90 chilometri da Njombe a Ikonda erano in terra battuta, una salita scivolosa durante le piogge, rasente precipizi. Oggi da Mbeya giunge ogni giorno un autobus stracolmo di ammalati: affronta nebbie fitte, pantani traditori, pietre massacranti, buche da sprofondare. Il tutto per 7-8 ore, se non capitano guasti meccanici.

Quante volte i missionari della Consolata si sono detti: «Ah, se avessimo costruito l’ospedale altrove, i pazienti l’avrebbero raggiunto più facilmente, e la gestione sarebbe stata più economica». Già. Ma non sarebbe stato l’ospedale dei poveri di Ikonda e dintorni, sferzati dal vento e dal freddo, tagliati fuori dal mondo. È vero, tuttavia, che la lontananza da insediamenti urbani rende più costosa la conduzione della struttura. Alcuni medici e tecnici di laboratorio, dopo aver acquisito una buona esperienza, abbadonano Ikonda; sono attratti da una vita più agiata altrove. L’ospedale cerca di fronteggiare l’esodo con stipendi migliori, mentre investe sulla specializzazione di medici locali in radiologia, medicina interna e medicina d’urgenza. Così è nata pure l’Unità di emergenza.

Un aiuto significativo è la presenza di medici stranieri: italiani, soprattutto, ma anche spagnoli e di altre nazionalità. Sono volontari che si pagano persino il viaggio. Frequentano Ikonda nonostante due «tristezze». La prima tristezza è la povertà di molte persone che non hanno denari per una degenza in ospedale. Seconda tristezza: non raramente i pazienti arrivano «fuori tempo massimo», quando non c’è più nulla da fare.

Ma proprio per tali tristezze i medici volontari ritornano, perché hanno il Tanzania nel cuore. «Tanzania nel Cuore» è anche un’associazione di medici italiani, animati da solidarietà e generosità.

La strumentazione del Consolata hospital Ikonda è apprezzabile. Da anni opera la Risonanza magnetica, mentre dal 2014 è in funzione la Tac, benemerita ma oggi obsoleta. Non si trovano più i pezzi di ricambio. Di qui l’urgenza di un nuovo impianto.

Ed eccola la nuova Tac, fiammante e moderna. L’inaugurazione è avvenuta il 20 settembre 2024 con la presenza dei missionari della Consolata, del direttivo dell’ospedale, del dottor Gian Paolo Zara (di «Tanzania nel Cuore») e del Nunzio apostolico, l’arcivescovo Angelo Accattino (foto qui sotto).

La presenza del Nunzio non è stata una formalità, bensì la testimonianza che i 316mila euro, per acquistare la Tac sono un dono della Conferenza episcopale italiana: euro raccolti attraverso l’8 per mille degli italiani. Ebbene, manciate e manciate di «noccioline» di tante persone, divenute «un ricco raccolto». Perché l’unione fa la forza.

Dante Alighieri direbbe: «Poca favilla gran fiamma seconda». E Gesù: «Il minuscolo granello di senapa diventa un albero imponente».

Grazie, vescovi e amici italiani, della vostra straordinaria generosità.

padre Francesco Bernardi,
Torino 27/09/2024


A proposito di IA

Ho letto con interesse l’articolo di Chiara Giovetti sull’intelligenza artificiale (IA) pubblicato nel numero di ottobre 2024.

Vi sono molte considerazioni importanti, tra le quali in particolare ho colto la domanda se l’intelligenza artificiale ci aiuterà a trovare soluzioni o se sarà parte dei problemi che si vogliono affrontare.

Resta per me, comunque, un argomento di fondo, non affrontato nell’articolo, il fatto che la cosiddetta «intelligenza» artificiale non è in effetti «intelligenza», ma una serie di algoritmi e istruzioni date alle macchine per conferire loro capacità di analizzare enormi quantità di dati per elaborare documenti (testi, tabelle, progetti, immagini e altro) in tempi brevissimi, a partire da questi dati e da domande poste dagli utenti in modo discorsivo. E fin qui mi è chiaro e l’ho provato anche personalmente.

Ma per far sì che le macchine facciano queste elaborazioni è necessario che abbiano a disposizione i dati necessari.

Mi sono soffermato quindi sulla lista ricavata dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni, che include servizi di telemedicina, ottimizzazione dell’uso dell’acqua in agricoltura, riduzione della corruzione negli appalti pubblici, miglioramento della salute e del benessere degli animali in allevamenti, prevenzione di incendi e altro.

Per nessuno di questi esempi nell’articolo si spiega «come» possano essere ottenuti questi risultati.

Riesco da una parte ad immaginare come l’intelligenza artificiale possa essere d’aiuto ad esempio nel caso specifico della telemedicina, dove l’analisi di enormi quantità di cartelle cliniche e/o immagini radiologiche raccolte per tanti anni in tanti archivi medici del mondo certamente può dare informazioni importanti e in tempo immediato e, laddove una ricerca senza intelligenza artificiale richiederebbe tempi lunghi incompatibili con le esigenze di intervento sanitario.

Ma in nessuno degli altri casi portati ad esempio mi pare che si possa fare a meno di dati rilevati in tempo reale, con strumenti anche tecnologicamente avanzati e anche collegati direttamente alle macchine di «intelligenza» artificiale che li possano elaborare, e non a partire da dati storici, per quanto ampi e dettaglianti possano essere.

Tantomeno in casi che riguardano comportamenti umani, come l’esempio della corruzione in appalti pubblici.

Non sono un addetto ai lavori, quindi queste mie osservazioni possono forse essere inadeguate o addirittura fuori luogo.

Ma avendo letto questo articolo in una rivista come Missioni Consolata, che si rivolge a un pubblico come me non preparato su questi argomenti, mi sarei aspettato qualche spiegazione su «come» possa funzionare l’intelligenza artificiale, per non lasciare l’impressione che sia soltanto un business nelle mani di pochi soggetti che sostengono di migliorare il mondo, ma senza far capire come e con quale attendibilità intendano farlo.

Sarei quindi molto grato se fosse possibile avere qualche spiegazione in merito.

Resto in attesa e ringrazio.

Filippo Pongiglione
03/10/2024

 

Le domande del lettore sono molto interessanti, ma se non ho approfondito i punti che lui fa presenti è solo per mancanza di spazio.

In realtà, non ho fornito più informazioni su che cos’è l’intelligenza artificiale perché sul numero precedente della rivista c’era a pagina 11 un box di Paolo Moiola dal titolo: «IA, di che cosa parliamo». Includere un rimando a quello sarebbe stato in effetti una buona idea.

Quanto ai casi d’uso dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni@, fornisco la traduzione e sintesi di alcuni passaggi del rapporto che possono aiutare a capire meglio.

Sul benessere degli animali negli allevamenti in Rwanda.
Posizionando strategicamente negli allevamenti dei sensori per monitorare parametri ambientali chiave come temperatura, umidità e livelli di gas di ammoniaca, oltre a catturare i suoni dei polli, gli allevatori possono adottare misure basate sulle previsioni ricavate dai dati per proteggere la salute e il benessere degli animali, facilitando inoltre il rilevamento precoce di potenziali problemi.

Sulla lotta alla corruzione in Tanzania. Le soluzioni attuali, basate principalmente sui tradizionali meccanismi legali e di audit, faticano a far fronte alla portata e alla complessità delle pratiche corrotte. Il sistema di IA proposto […] dovrebbe elaborare i dati sugli appalti, inclusi documenti di gara, valutazioni e casi di corruzione, per rilevare irregolarità e assegnare una percentuale di probabilità di corruzione […]. Offrire uno strumento anticipatorio consente al Prevention and combating of corruption bureau (Pccb) di adottare misure preventive contro le attività corrotte, migliorando così la trasparenza e garantendo la conformità durante tutto il ciclo di vita degli appalti. […] I vantaggi di questo approccio riguardano il potenziale per il rilevamento della corruzione in tempo reale, l’analisi automatizzata dei documenti e una migliore allocazione delle risorse investigative. Gli svantaggi riguardano invece la difficoltà nella raccolta dati iniziale, possibili pregiudizi nei modelli di intelligenza artificiale e la necessità di competenze tecniche continue e aggiornate.

Sulla prevenzione degli incendi in Malaysia. Il Fire weather index (Fwi), o Indice meteorologico di pericolo d’incendio, è utilizzato in tutto il mondo per stimare il pericolo di incendi@. Nel caso d’uso della Malaysia, invece di usare i dati su temperatura e piogge, come fa il modello esistente, si stima il Fwi – in particolare uno dei sotto indici che lo compongono, il drought code (Dc, indice di siccità) – usando i dati raccolti da strumenti dell’«Internet delle cose» (come sensori, stazioni meteo) su un altro parametro, il livello delle acque sotterranee (Ground water level, Gwl), per poi elaborare i dati attraverso l’apprendimento automatico (machine learning, cioè quella branca dell’intelligenza artificiale in cui – con tutte le virgolette che abbiamo a disposizione – le macchine imparano dalla loro stessa esperienza). Il risultato mostra una correlazione molto alta con i dati osservati dal sistema meteorologico nazionale, rivelandosi quindi piuttosto accurato.

Lieta, comunque, di ricevere domande così circostanziate e stimolanti, che danno anche a me una bella occasione per approfondire ancora.

Chiara Giovetti
07/10/2024


Pdre Fernando Paladini a Pawa, Isiro, allora Zaire, gennaio 1983 (Gigi Anataloni)

Ad-dio, padre Fernando Paladini

Non dimenticate mai
di salutare bene le persone.
Non fatevi travolgere dal tempo che inghiotte ogni relazione.
Ho lasciato che succedesse a me,
e non dovrà capitare più.

Io e padre Fernando Paladini ci conoscevamo da 34 anni: avevo 14 anni ed è stato il primo dei tanti missionari che ho incontrato nella mia vita. Quello che ha acceso il fuoco della missione nel cuore di una ragazza che cercava un senso per la sua vita.

Ci siamo scritti a lungo quando era in Congo, quando ancora non c’erano i cellulari o whatsapp e si usavano la carta e la penna. Ogni sua lettera era una festa per me: odorava di Africa, aveva l’ennesimo francobollo per la collezione del mio caro papà. Poi, è rientrato in Italia. E io intanto crescevo e mi alimentavo di sogni e di amore per l’umanità. Persone speciali come lui hanno contribuito a farmi diventare quella che sono, mi hanno dato le ali per volare al di sopra di tutto ciò che, di fronte alla povertà e alla passione, diventava sempre più piccolo. Grazie a lui e a chi credeva fortemente in Dio e nei grandi ideali, ho trovato sempre più la mia strada, dove non sono mai stata sola.

Padre Fernando mi chiamava ogni anno il 10 dicembre, per farmi gli auguri per l’onomastico. Non si ricordava quasi nessuno della Madonna di Loreto, ma la sua telefonata arrivava puntuale e fedele come un regalo, con benedizione finale e il classico saluto («Arrivederci ad ogni Eucarestia»).

Quest’anno non mi chiamerà neanche lui. Se ne è andato senza che io lo sapessi. Avrei dovuto essere più presente anch’io.

E invece ho lasciato che gli impegni, le corse, gli affanni quotidiani decidessero per me e per il nostro non saluto.

Ad-Dio, padre Fernando. Ricorderò sempre la tua risata, il tuo entusiasmo, il tuo legame profondo con l’Africa e con il tuo Istituto.

Eri fiero e felice di essere un missionario della Consolata, e sono sicura che domenica 20 ottobre, dal Cielo, ci hai sorriso quando Giuseppe Allamano, il tuo fondatore, è stato proclamato santo.

Grazie infinite per tutto.

Spero che le mie figlie, così come tutti i ragazzi di oggi possano fare incontri come il mio. Di quelli che ti cambiano l’esistenza e le visioni. Di quelli che ti aprono le braccia, gli occhi, la mente.

La maggior parte degli YouTuber e degli influencer non ha niente da dirci. Tu, semplicemente, mi hai toccato il cuore.

Loredana Brigante
19/10/2024

Padre Fernando Paladini, nato a Leverano (Lc) il 25/01/1944, ordinato sacerdote missionario della Consolata il 14/08/1974, nel 1978 parte per il Nord dello Zaire (nella foto è a Pawa nel 1983) dove rimane con breve intervallo, fino al 2016. Rientrato in Italia, ha concluso il suo viaggio missionario il 22/09/2024.