Migrazioni:

Schengen è morto, viva l’Europa

Testo di Simona Cranino, foto di Simone Perolari |


Ci eravamo abituati ad andare in Francia senza controlli. Oggi, chi ha la faccia da europeo continua a farlo. Gli altri invece rischiano di morire sulla frontiera. E vi muoiono. I gendarmi francesi passano il confine con arroganza, per riportare in Italia i malcapitati sopravvissuti, africani o asiatici. Intanto a Strasburgo si fatica a modificare il trattato di Dublino.

Un’ora e 10 minuti è il tempo di percorrenza del treno regionale che da Torino porta a Oulx, comune dell’alta valle di Susa, situato a 20 chilometri dal confine francese. Dalla stazione ferroviaria, un servizio di autobus di linea conduce a Claviere in meno di mezz’ora. Da lì, a piedi ci vogliono 3 ore per arrivare a Briançon. Se si cammina nella neve, bisogna considerare almeno mezz’ora in più. Tuttavia, al netto di imprevisti, il viaggio da Torino, attraverso il valico del Monginevro, fino al primo centro abitato della Francia ha una durata di circa 4 ore e mezza.

Un tempo troppo breve, per non provare ad attraversare quell’ultimo confine. Soprattutto se si paragonano le 4 ore e mezza ai mesi di viaggio in cui si è sopravvissuti al deserto, al mare e alle violenze dei trafficanti, prima di arrivare in Europa. Questo pensa Abdel, 38 anni, algerino, mentre si sfrega le mani per il freddo e si siede su una panchina di Oulx ad aspettare l’autobus che lo porterà a Claviere, da dove inizierà l’ultimo tratto di strada nei boschi per arrivare in Francia.

Nell’ultimo anno, migliaia di persone, come Abdel, hanno tentato di attraversare il confine italo-francese in alta valle di Susa, in seguito all’intensificazione dei controlli a Ventimiglia, a partire dall’estate 2017. L’obiettivo è uno solo: vivere in Francia o continuare il viaggio verso il Nord Europa.

Rotte che cambiano

Fino a gennaio 2018 i migranti provavano ad arrivare a Briançon attraverso il colle della Scala e Nevache, iniziando il percorso da Bardonecchia. Le grandi nevicate dell’inverno e il rischio slavine hanno convinto i viaggiatori a cambiare rotta e passare dal Monginevro, che permette di raggiungere Briançon su sentieri più sicuri, anche se maggiormente controllati dalla gendarmerie francese.

Abdel ha già provato la traversata ieri sera, ma è stato respinto dalla polizia al Monginevro. Determinato a viaggiare verso la Francia, ha deciso di ritentare l’attraversamento oggi, dopo essersi riposato nella saletta di prima accoglienza a Bardonecchia messa a disposizione dal comune nei locali della stazione, gestita da due referenti migranti della Recosol (Rete dei comuni solidali), il sudanese Moussa Khalil Issa e il camerunense Roland Djomeni, e dai medici dell’Ong Rainbow for Africa, che forniscono assistenza sanitaria. «La gendarmerie continua a respingermi – spiega Abdel in un buon italiano -. Eppure io ho il permesso di soggiorno per motivi umanitari valido in Italia, per cui non capisco perché non possa andare in Francia».

Senza visto

Sulla carta, una persona non europea con regolare permesso di soggiorno può varcare i confini di tutti gli stati dell’Unione senza richiesta di visto turistico. Tuttavia, nei fatti, con l’esacerbazione dei controlli alle frontiere interne all’area Schengen, ripristinati dalla Francia a partire dal 2015, in seguito agli attacchi terroristici e alla crisi migratoria, anche chi possiede i documenti di viaggio corretti può essere respinto, se non è in grado di dimostrare risorse economiche sufficienti a giustificare il periodo di turismo. Con la sospensione della libera circolazione, la Francia è diventata una roccaforte irraggiungibile per i migranti che, come Abdel, non hanno intenzione di rimanere in Italia. «Ho vissuto in Italia per 8 anni, ma oggi il mercato del lavoro non offre opportunità e quindi, visto che parlo francese, e ho tanti amici in Francia ho pensato di provare la fortuna lì». Eppure ad Abdel è preclusa la possibilità di un lavoro regolare in Francia perché, secondo il regolamento di Dublino, i migranti possono richiedere asilo politico solo nel paese di arrivo, che, in caso di approvazione della domanda, diventa l’unico stato dell’Unione in cui possono lavorare regolarmente, mentre negli altri paesi possono viaggiare come turisti.

Abdel lo sa e pensa che sia meglio lavorare in nero piuttosto che non lavorare affatto e quindi accetta il rischio. In fondo, lui possiede un permesso di soggiorno e, nel peggiore dei casi, dovrà accettare l’idea di rimanere in Italia.

Le vittime di Dublino

Diversa è la situazione di Abu, 18 anni, originario del Ghana. In mano non ha documenti. Arrivato a Lampedusa nel 2017 ha fatto richiesta di asilo, poi è scappato dal centro di accoglienza, stufo di aspettare il giorno di esame della sua pratica, che dopo mesi di attesa, ancora non era arrivato. Ora è vicino al confine francese e sta pensando se attraversarlo. A farlo ragionare sui pro e contro della sua scelta ci pensano i referenti della Recosol.

«Noi informiamo le persone dei loro diritti in Italia – spiegano Roland e Moussa -. In particolare, ricordiamo ai richiedenti asilo politico che se migrano in Francia e non si presentano in questura per la valutazione del proprio caso, perdono il diritto di avere un permesso valido in Italia e non potranno fare un’altra richiesta d’asilo in Francia, rischiando di vivere da sans papiers». La norma che impone di fare domanda d’asilo nel primo paese d’accesso, prevista dal regolamento di Dublino, è responsabile dei tentativi di fuga dai centri di accoglienza di chi, sbarcato in Italia, Grecia e Spagna, ambisce a richiedere asilo politico in Francia o in altri paesi del Nord Europa, non sapendo che di fatto non potranno fare nuovamente domanda. In questi mesi, il parlamento europeo sta lavorando a una riforma di Dublino, che prevede la sostituzione del criterio del primo paese d’accesso con un meccanismo di ricollocamento delle persone negli altri stati europei, secondo un sistema di quote e di legami tra migrante e paese di destinazione. Tuttavia, la riforma è in discussione e il risultato si vede alla frontiera italo-francese dove donne, bambini e uomini cercano di superare il confine illegalmente, convinti che un altro modo non ci sia. E in effetti, non c’è. Senza permesso di soggiorno non è possibile muoversi in Europa, neppure facendo riferimento a un eventuale passaporto rilasciato nel paese d’origine. Così ha pensato anche Abu, che alla fine ha deciso di affrontare la frontiera. Abu non ha il passaporto del Ghana, ma anche se lo avesse ottenuto, avrebbe dovuto chiedere un visto turistico alla Francia che glielo avrebbe negato per mancanza dei requisiti economici, la stessa mancanza che lo ha spinto a lasciare il proprio paese.

Il «potere» del passaporto

Il «Passport Index 2018», la classifica annuale dei passaporti secondo il potere di circolazione senza richiesta di visto, stilata dall’impresa Arton Capital, riporta che il passaporto ghanese permette di viaggiare solo in 61 stati senza richiesta di visto, nessuno dei quali è in Europa. Invece, il passaporto italiano apre le frontiere di 161 paesi. Questo determina che nascere in Italia o in Ghana divide automaticamente le persone in serie A e serie B. E chi ha un passaporto di serie B, come Abu, non gode della libertà di movimento, per cui risulta obbligato ad affidarsi a reti di traffico illegale e a un viaggio insicuro.

Invasioni francesi

Per tutto l’inverno, i migranti respinti alla frontiera di Claviere, o al traforo del Frejus, sono stati trasportati dalla Gendarmerie di fronte al ricovero di Bardonecchia, secondo una prassi dei militari francesi non concordata con la polizia italiana. Prassi che ha portato a un attrito scoppiato il 30 marzo scorso, quando la Gendarmerie ha fatto irruzione nel punto di accoglienza a Bardonecchia, per svolgere gli esami delle urine su un ragazzo nigeriano, fermato sul Tgv in direzione Roma, sospettato di essere un consumatore e corriere di droga. L’operazione, che ha portato alla liberazione del ragazzo per mancanza di prove, si è svolta sotto gli occhi dei volontari e dei mediatori del punto di accoglienza. Sebbene sia sempre stato rispettato l’accordo di cooperazione Italia-Francia che permette alle rispettive forze di polizia di svolgere controlli coordinati su migranti nelle zone di frontiera, il 30 marzo si è rischiato di mettere in discussione le relazioni diplomatiche tra i due stati per omissione di comunicazione alla polizia italiana dell’operazione gestita dai militari francesi sul nostro territorio nazionale. Il fatto ha evidenziato la tensione che negli ultimi mesi si è generato alla frontiera franco-italiana in alta valle di Susa. «Le relazioni diplomatiche tra i paesi di frontiera sono rimaste ottime – commenta a due mesi dall’accaduto Francesco Avato sindaco di Bardonecchia -. I fatti del 30 marzo non hanno inciso negativamente sull’operatività del nostro lavoro, anzi siamo riusciti a concordare che la polizia francese non possa più trasportare alla nostra stazione i migranti, di cui ora si occupa la polizia italiana. I fatti hanno permesso comunque di portare in agenda internazionale ed europea la situazione migratoria sulla nostra frontiera».

Uomini e numeri

I flussi di migranti in alta valle di Susa sono altalenanti. A partire da maggio 2018 i numeri si sono ridotti, sia nel ricovero di Bardonecchia, sia alla stazione di Oulx. «Oggi calcoliamo una media di circa 6 o 7 passaggi al giorno – commenta il sindaco di Oulx Paolo De Marchis -. Tuttavia, potrebbero aumentare con la riapertura del Colle della Scala, nel periodo estivo. Su quel versante della montagna è più facile passare inosservati ai controlli».

Fino a marzo 2018, nella sala di accoglienza di Bardonecchia transitavano 15 o 20 persone al giorno. Guinea Conakry, Mali, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana sono gli stati di provenienza della maggior parte dei migranti, anche se, nei mesi primaverili, sono aumentate le persone originarie di Iraq, Bangladesh e Pakistan. Sebbene i numeri della migrazione che si muove su rotte irregolari siano difficili da documentare, i volontari e gli attivisti di «Chez Jesus», che a marzo 2018 hanno occupato il sottoscala della chiesa di Claviere installando un rifugio per migranti in transito, hanno visto il passaggio di centinaia di persone. A fronte di picchi di flusso tra le frontiere interne all’Europa, si è verificata una riduzione degli arrivi via mare. Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), dal 1 al 23 maggio 2018 si sono verificati 1.240 sbarchi sulle coste italiane a fronte dei 22.993 di maggio 2017. Stessa tendenza al ribasso anche in aprile con 3.171 arrivi del 2018, rispetto ai 12.943 del 2017. Come Abdel e Abu, la maggior parte delle persone che cercano la Francia, dal confine dell’alta valle di Susa, hanno deciso di rimettersi in viaggio, dopo aver vissuto un periodo in Italia.

Morti di frontiera

L’intensificazione dei controlli alla frontiera da parte della polizia francese, se sulla carta ha l’obiettivo di limitare la tratta e la migrazione illegale, di fatto ha inasprito la situazione e spinto i migranti a cercare pericolosi punti di accesso alla frontiera. E se, nei mesi del grande freddo, i volontari del Soccorso alpino hanno dato fondo alle proprie forze per evitare tragedie umane in montagna, proprio mentre la neve sta lasciando spazio al verde della primavera, a maggio 2018 si sono verificate le prime due vittime del viaggio migratorio. Entrambe le persone hanno perso la vita in Francia, a pochi chilometri dal confine italiano. Mathew Blessing, ventunenne nigeriana, è caduta nel fiume Durance mentre cercava di raggiungere Briançon, mentre Mamadou, un ragazzo senegalese, è morto di sfinimento dopo tre giorni che vagava per i sentieri oltre il valico del Monginevro. A marzo era morta anche Beauty, ragazza nigeriana incinta affetta da linfoma in stato terminale che, a pochi giorni dallo spegnersi, aveva tentato di camminare nella neve per arrivare fino in Francia, prima di essere respinta dalla Gendarmerie, che l’ha trasportata a Bardonecchia dove i medici di Rainbow for Africa hanno attivato i soccorsi. Beauty è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino, dopo aver dato alla luce sua figlia. Il suo sogno era partorire in Francia, dove vive sua sorella.

E mentre le notizie delle morti si succedono, le frontiere rese invisibili da Schengen nel 1995 ritornano a innalzarsi su un’Europa inespugnabile, costituita da nazioni che sembrano negare quegli stessi diritti umani che hanno contribuito a teorizzare dopo la rivoluzione francese.

Reato di solidarietà

Intanto di fronte al peregrinaggio silenzioso dei migranti, la frontiera si anima di persone e opinioni contrastanti. E se da un lato si rafforzano spinte nazionaliste, ben riassunte dalla massiccia presenza di esponenti della destra di Génération Identitaire che sul confine italo-francese manifesta la propria opposizione ai movimenti migratori al grido «Defend Europe», dall’altro lato, gli attivisti di Briser les frontières, la rete che promuove la libera circolazione degli esseri umani, oggi divisa nei due collettivi Chez Jesus e Valsusa oltre confine, porta il proprio sostegno ai migranti offrendo cibo, vestiti e suggerimenti di viaggio, promuovendo una «Welcoming Europe» e ribadendo che «la solidarietà non è reato».

Eppure si può venire accusati di «reato di solidarietà». È successo a Benoît Duclos, cittadino francese che rischia una condanna a 5 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver trasportato all’ospedale di Briançon una donna incinta bloccata nella neve a Claviere. Stessa cosa è accaduta a Eleonora, Theo e Bastien che, dopo aver partecipato a una manifestazione ad aprile per promuovere l’apertura delle frontiere, sono stati accusati dalla polizia francese di favoreggiamento di immigrazione clandestina in banda organizzata. Il procedimento contro i tre ragazzi e Benoît mette sullo stesso piano chi compie atti umanitari e i passeur delle reti di contrabbando e di tratta, che richiedono pagamenti elevati a chi cerca di andare in Francia. Tuttavia, sono agli antipodi le motivazioni di chi, convinto che le frontiere non debbano esistere, cerca di dare una mano gratuitamente a un migrante che rischia di morire sui sentieri di montagna e di chi, al contrario, sfruttando i muri alzati dalla Francia e la mancanza di un’universale uguaglianza nella libertà di movimento, prova a lucrare sul dolore dei migranti.

Simona Carnino




Venezuela. I Warao in fuga dal delta dell’Orinoco

Testo e foto su i Warao di Zachariah Kariuki |


Coinvolto in una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela vive una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggio, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni peggiorano ogni giorno mettendo a rischio molte vite. Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà. Questa situazione di crisi ha causato enormi migrazioni verso i paesi vicini, in particolare la Colombia e il Brasile (Roraima).

Anche molti indigeni warao dello stato venezuelano di Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare le loro terre per stabilirsi inizialmente a Pacaraima, località brasiliana al confine, per dirigersi poi verso le periferie di città come Boa Vista e Manaus, dove attualmente sono accampati.

 

La crisi venezuelana

Il paese, pur con una quantità enorme di risorse naturali, sta attraversando una delle crisi più profonde della sua storia. Nel 1999 l’arrivo al potere dell’oggi scomparso Hugo Chávez Fria, con i suoi discorsi a favore dei poveri e la promessa di una nuova nazione ispirata da ideali socialisti – sostenuto dal patrocinio politico di Fidel Castro -, aveva aperto una nuova pagina, quella della Quarta Repubblica, nella storia del paese.

Approfittando dell’alto prezzo del petrolio sul mercato internazionale, Chávez aveva dato il via a una serie di programmi sociali che tendevano a favorire i poveri a discapito dei ricchi, della proprietà privata e di tutto ciò che sapesse di capitalismo. Si erano create missioni socialiste di ogni tipo, distribuendo denaro con facilità. Le conseguenze di tale politica non tardarono ad arrivare. Con l’esproprio delle proprietà private e la loro nazionalizzazione, la produzione agricola era diminuita rapidamente e il paese si era trovato a dover importare prodotti di prima necessità come riso e farina e altri alimenti.

La morte di Chávez e l’ascesa al potere dell’attuale presidente Nicholas Maduro erano coincise con la crisi economica globale e la caduta del prezzo del petrolio, ma il governo non aveva fatto nessun passo indietro. La crisi era diventata totale, non solamente economica, ma anche istituzionale, politica e sociale.

Ufficialmente il paese vive oggi in uno stato di iperinflazione. I prezzi continuano a crescere e sembra che non ci sia modo di frenarli (vedi box). La risposta del governo di Maduro e dei suoi è sempre quella di incolpare «la guerra economica» che sarebbe fatta dalla destra venezuelana e dagli Stati Uniti.

Si sono tentate molte strade per fermare l’inflazione, ma nessuna funziona: i buoni, il controllo del cambio, l’aumento frequente dei salari, e, ultimamente, il lancio della criptomoneta chiamata Petrodolar.

Il salario minimo (che è quello che la maggioranza dei venezuelani guadagna) è aumentato fino a due milioni e 500mila bolivares (inclusivi del bonus alimentare), però – come dicono gli stessi venezuelani – questo non ha risolto niente. A parte le produzioni sussidiate dal governo e vendute attraverso i Clap (Comité Locales de Abastecimiento y Producción) e che, di quando in quando, arrivano alle famiglie, i prezzi di tutte le cose necessarie sono astronomici. Così un salario minimo non basta a vivere per una settimana. Il futuro continua ad essere molto incerto.

Le conseguenze

La situazione di crisi generale porta con sé alcune consequenze macroscopiche. La prima e la delinquenza. Benché il governo insista nel dire che l’indice di delinquenza è diminuito, la realtà è un’altra. Tutti i giorni ci sono notizie di attacchi, furti e gente ammazzata durante rapine. Si dice che almeno otto persone su dieci abbiano subito atti delittuosi.

Altra conseguenza è l’aumento del contrabbando. La mancanza di prodotti essenziali, i prezzi elevati e la disoccupazione hanno fatto fiorire il contrabbando in quasi tutto il paese, soprattutto nelle città di frontiera o nelle zone ricche di risorse naturali (oro, diamanti o altri prodotti minerari). Cibo e medicine sono i prodotti più ricercati.

Terza conseguenza più evidente della crisi è la massiccia migrazione dei venezuelani verso i paesi limitrofi. I principali punti di partenza verso l’esterno sono San Antonio de Táchira, Santa Elena de Uairén con destinazione Colombia, Brasile, Perù, Cile, Ecuador e Argentina. Via mare molti vanno a Trinidad e Tobago, Curaçao e Aruba. Ovviamente chi ha soldi emigra in aereo verso l’Europa e gli Stati Uniti.

È una triste realtà. Si stima che ci siano più di 4 milioni di venezuelani che hanno lasciato il paese negli ultimi due anni.

La migrazione degli indigeni warao

La popolazione indigena warao vive tradizionalmente nello stato del Delta Amacuro, nel Sud-Est del Venezuela, attraversato dal fiume Orinoco che sfocia nell’Oceano Atlantico. La capitale è Tucupita. Essa, fino al 1964, era su un’isola. Con la chiusura di un braccio del fiume, il Caño Manamo, è ora su una penisola. (Questo è avvenuto nel 1966, quando fu attuato un grande progetto di bonifica che attraverso la costruzione di dighe doveva mettere sotto controllo le periodiche inondazioni del delta e favorire le grandi coltivazioni di grano e altri prodotti per un’agricoltura di tipo industriale. Il risultato è invece stato l’opposto, un vero disastro ecologico che ha destabilizzato l’habitat naturale dell’estuario. Vedi il video in spagnolo qui segnalato.)

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=glTvIOnSa8Y?feature=oembed&w=500&h=375]

Numericamente, i Warao sono il secondo più grande gruppo indigeno dopo i Wayúu di Zulia, e sono gli abitanti originari di questa regione del paese. Nel 2011 – secondo il censimento – erano 45.000, concentrati nel loro territorio ancestrale nei comuni di Antonio Días e Pedernales.

Tradizionalmente, i Warao sono soprattutto pescatori e, in misura minore, cacciatori e raccoglitori di miele e frutti selvatici. Per il loro consumo di energia dipendevano nel passato dai derivati della palma di moriche (mauritia flexuosa) che ha un ciclo annuale. Per questo, dai tempi antichi, i Warao si spostavano tra le coste e l’interno delle isole per soddisfare le loro esigenze alimentari.

Con l’introduzione della coltura della colocasia (colocasia antiquorum, chiamata anche taro, «pianta erbacea con foglie di grandi dimensioni – anche 80 cm di lunghezza -, di forma ovale o tondeggiante e margini ondulati, sostenute da grossi gambi carnosi e rigidi che si sviluppano da rizomi sotterranei») a opera di missionari dalla Guyana britannica 80 anni fa, i Warao sono diventati anche un po’ agricoltori.

È poi arrivata la scuola e diverse comunità sono diventate stabili abbandonando il seminomadismo. La vita tradizionale è stata così trasformata e sono nate nuove esigenze che hanno dato origine a un continuo movimento verso i centri urbani in cerca di migliori condizioni di vita e di quei servizi che non si trovano nelle comunità tradizionali.

La situazione attuale

Si stima che già dal 2001 circa 10.000 Warao siano emigrati fuori dal territorio ancestrale, la maggior parte in Tucupita, gli altri nelle altre città vicine: Barrancas de Orinoco, Uracoa, Barrancos de Fassi, Maturin nello stato Monagas e Ciudad Guayana nello stato di Ciudad Bolívar. Altri si sono trasferiti a Caracas o in altre grandi città. Molti di essi mendicavano lungo le strade e quando avevano raccolto abbastanza tornavano alle loro comunità.

Oggi però il numero di coloro che lasciano il proprio territorio è molto più alto ed è reso evidente dal moltiplicarsi delle colonie indigene attorno a Tucupita.

I Warao sono situati negli strati più bassi della società venezuelana con alti livelli di povertà e già prima della crisi attuale erano considerati tra le persone più povere e più svantaggiate del paese. È naturale, quindi, che siano tra i più colpiti dalle conseguenze dell’attuale crisi economica e siano costretti a lasciare la loro terra in cerca di migliori condizioni di vita.

All’inizio del 2017 sono stati segnalati i primi casi di Warao trasferiti in Brasile, prima a Pacaraima, la città di frontiera, e poi a Boa Vista e Manaus e fino Belém nel Pará.

Nel rifugio di Pacaraima

In Pacaraima la Chiesa cattolica, rappresentata da padre Jesús, parroco del Sacro cuore di Gesù, l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), l’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), e altre Chiese e persone di buona volontà, hanno creato un centro di accoglienza (detto refugio) per i Warao.

Nel mese di febbraio di quest’anno, quando l’autore di questo articolo in compagnia di monsignor Felipe González – vicario apostolico di Caroní, che confina con Roraima -, padre Aquileo Fiorentini – superiore dei missionari del Consolata in Brasile – e padre Peter Makau, superiore dei missionari in Venezuela, abbiamo visitato questo refugio, c’erano circa 700 persone tra adulti e bambini. Vivono grazie alle razioni che ricevono due volte alla settimana e che cucinano nel cortile, mentre ogni giorno fanno colazione nel salone parrocchiale.

All’interno del refugio, per una migliore coesistenza, sono stati creati dei gruppi di servizio incaricati a turno della pulizia generale. Mentre gli uomini escono per cercare lavoro, le donne si dedicano a preparare il cibo, altre si dedicano a prodotti artigianali che cercano di vendere per le strade di Pacaraima o andando anche a Boa Vista, che dista meno di tre ore di viaggio. Si è anche formato un gruppo di volontari che gestisce le diverse attività per bambini e giovani. La grande domanda è: «Fino a quando si riuscirà a mantenerli?». Perché una cosa è certa, se c’è il cibo, un Warao non va da nessun’altra parte.

In realtà, la migrazione continuerà fino a quando la crisi attuale del Venezuela non sarà risolta. Molti hanno già detto chiaramente che non torneranno alle loro case perché là «si muore di fame». Gli unici a rientrare sono quelli che tornano a portare cibo ai famigliari che non sono stati in grado di viaggiare.

Che fanno i missionari della Consolata?

Per i missionari, soprattutto per coloro che lavorano nel Delta con le comunità indigene, tutto questo è motivo di grande preoccupazione. Tutti i Warao che sono emigrati sono membri conosciuti delle nostre comunità che ora si sono svuotate. Per esempio, nella comunità di Yakariyene in Tucupita, sono rimaste meno della metà delle 78 famiglie che la componevano. Dal Vicariato di Caroní, monsignor Felipe, che ha trascorso più di 40 anni nel Delta, di cui 28 come vicario apostolico di Tucupita, segue da vicino questa situazione. In collaborazione con il parroco di Pacaraima e le suore scalabriniane, sta fornendo loro accompagnamento religioso e ascolto per aiutarli nel loro adattamento a una nuova realtà senza perdere la loro identità umana e spirituale.

Ma ci sono molti altri aspetti su cui i missionari, in collaborazione con gli agenti pastorali indigeni del vicariato apostolico di Tucupita, si interrogano e che richiedono un impegno preciso.

Primo tra tutti è l’educazione: una dimensione che non è stata affrontata dalle istituzioni brasiliane e che può essere attuata solo attraverso un approccio multiculturale e multilingue.

Un secondo aspetto è quello di una vita sana. Occorre un intervento integrale che tenga conto di tutti gli aspetti della vita: dal mantenere il legame con il loro luogo di origine e la loro cultura, alla prevenzione e cura delle malattie, all’alimentazione di bambine e ragazzi al fine di evitare episodi di malnutrizione infantile.

Per questo nella loro assemblea continentale di Bogotà i missionari della Consolata hanno deciso l’invio di una équipe che lavori insieme con gli agenti pastorali di Pacaraima e si sono fatti carico di un programma di assistenza medica e alimentare nel refugio (sostenuto anche dagli aiuti finanziari forniti da Missioni Consolata Onlus).

Cominciare da Tucupita

Non basta però l’intervento di emergenza fuori del paese. Occorre affrontare la situazione partendo da Tucupita per offrire alle famiglie mezzi alternativi di sopravvivenza, senza che abbiano la necessità di migrare.

Per questo si stanno mobilitando forze per fornire alle famiglie che non vogliono migrare dalle terre tradizionali, ma non hanno abbastanza risorse, gli strumenti necessari per lavorare e diventare autosufficienti.

In Venezuela si dice che la speranza è l’ultima a morire, ma vista la situazione, per molti non c’è speranza e non ci sono segnali di miglioramento.

Come missionari non ci vogliano arrendere e continuiamo nel nostro impegno a stare vicini sia a coloro che sono stati costretti a migrare come a quelli che ostinatamente vogliono rimanere nella loro terra.

Zachariah Kariuki
missionario a Tucupita


Qualche cifra al 1° maggio 2018

  • 1 dollaro = 69.564 bolivares al cambio ufficiale / +o- 700mila bs al mercato parallelo (o nella calle), con grandi variazioni tra contanti, carta di credito e trasferimento bancario.
  • Salario minimo: 1 milione
  • Bonus alimentare mensile: 1.555.000
  • 1 l benzina regolare = 1 bs.
  • 1 l benzina premium = 6 bs.
  • 1 kg farina di mais = 180 (uff.) / ca. 1.000 (par.)
  • 1 kg di farina di grano = 30mila (uff.) / in contanti: 360mila; carta di credito: 690mila; via banca: 900mila
  • 1 uovo= 53.000
  • 1 kg carne = 1.700.000 a Caracas / 1.200.000 in campagna
  • 1 kg pollo = 1.400.000 a Caracas / 1.300.000 in campagna
  • 1 kg riso = 900.000
  • 1 kg formaggio = 1.500.000


L’esodo dei Warao. Breve storia

  • 1880-1915: periodo di lavoro forzato o volontario nelle piantagioni di gomma (caucciù).
  • 1964: chiusura del Caño Manamo per dare accesso, via terra, alla città di Tucupita. Conseguenze: l’allagamento di vaste aree in riva al fiume e la salinizzazione dell’acqua (non più alimentata dal fiume ma dall’oceano). Effetti negativi su pesca e coltivazioni.
  • 1965-1979: intere famiglie si trasferiscono alla periferia di Tucupita; il governo costruisce la «casa degli indigeni» e pian piano l’insediamento provvisorio diventa una colonia semipermanente.
  • 1973: una leader warao, Maria Antonia, organizza gruppi di donne per andare a Caracas a chiedere aiuto al governo di Rafael Caldera. Non avendo risorse per il viaggio, cominciano a chiedere l’elemosina per la strada. Arrivate a Caracas, siccome il presidente non le riceve immediatamente, continuano a vivere mendicando. Il successo di questo modo di far soldi diventa un modello da seguire, e così, per i Warao, l’accattonaggio diventa un «lavoro».
  • 1992: epidemia di colera nel Delta inferiore, in territorio indigeno, con conseguente nuovo esodo verso la città.
  • 2000: aumento del fenomeno migratorio, soprattutto per gli studi. Famiglie intere si spostano stabilendosi temporaneamente alla periferia della città, mantenendo lingua, usi e costumi. Invece altri, soprattutto professionisti (insegnanti, infermieri, impiegati governativi, commercianti), prendono fissa dimora nei quartieri bene e si mescolano con la popolazione creola (creoli = non indigeni) assumendone lingua e modi di vivere.
  • 2017: diventa consistente l’esodo dei Warao verso il Brasile.

da sinistra: Makau Munguti p Peter, monseñor Felipe Gonzalez, vicario apostólico de Caroní, padre Aquileo Fiorentini a padre Zackari Kariuki


Dall’appello dei Missionari della Consolata a favore dei migranti venezuelani a Roraima

«In questi tempi di angustia le persone possono chiedersi: “Dov’è Dio?”. Che la presenza dei missionari della Consolata sia balsamo e riflesso dell’amore misericordioso. Dio accompagna sempre coloro che incontra nel cammino, come chiesa desideriamo assicurare loro che non sono soli, ma stanno con Dio e sotto il dolce sguardo della nostra Signora di Coromoto.

Gesù si identifica sempre con la persona sfollata perché visse questa situazione nella sua propria carne. Egli ci incoraggia a mantenere vive la fede e la speranza in un futuro migliore, sapendo che più oscura è la notte, più vicina la luce di un nuovo giorno che già albeggia.

Impegniamo il nostro cuore, la nostra mente e le nostre mani nella missione a favore dei più vulnerabili e chiediamo alla nostra Vergine Santissima, la Vergine Consolata, che dia consolazione in questo doloroso momento presente, e ai nostri protettori, il beato Giuseppe Allamano e san Oscar Romero, che infondano coraggio per sognare un avvenire dove la fraternità e l’attenzione verso l’altro siano segni di convivenza civile e solidale».

La Direzione generale (Bogotà, 27/03/2018)