Zambujal: C’era una volta il campo degli ulivi


Zambujal, il «campo degli ulivi», non è più campagna ma un’anonima periferia urbana abitata da immigrati, rom e famiglie scappate dalle ex colonie portoghesi. Qui sono presenti i missionari e le missionarie della Consolata.

A Zambujal, un bairro dentro l’area metropolitana della città di Lisbona, circa 15mila persone vivono per la gran parte in casermoni di quattro o cinque piani tutti uguali con finestre piccole e strette. Gran parte delle finestre dei primi piani è chiusa da pesanti grate. Le inferriate sono presenti anche all’interno dei palazzi nei quali quasi tutte le porte degli appartamenti sono protette da cancelli con catene e lucchetti. Le ampie strade lastricate, molte chiuse al traffico, che separano i caseggiati sono vuote.

Il nome Zambujal viene da una parola araba che significa campo di olivi, ma qui è difficile trovare qualcosa che richiami il verde o l’aria accogliente di un uliveto. Si incontra solo qualche fila di alberi appena piantati che lottano per sopravvivere.

Vivere insieme alla gente che si serve

Tre missionari della Consolata, padre José Matías, padre Albino Brás, entrambi portoghesi, e il diacono Geoffrey Menya, kenyano, risiedono e lavorano nel quartiere. I tre non vivono in una casa religiosa o in una canonica, ma hanno affittato un appartamento al terzo piano di uno di quei tanti anonimi palazzoni di cemento. «Abbiamo fatto la scelta di vivere non solo in mezzo alla gente, ma anche come la gente», dice padre Matías (che non si fa chiamare José per non essere confuso con i tanti altri che portano il suo stesso nome). «In questo modo stiamo mettendo in pratica la missione ad gentes che abbiamo scelto quando siamo diventati missionari».

Padre Matías è stato uno dei primi a venire a Zambujal, già nel 2003, quando dalla casa dei missionari a Cacem, a una decina di minuti di macchina da qui, ha cominciato a visitare le famiglie del quartiere e celebrare la messa dove poteva al piano terra di qualcuno dei grandi edifici residenziali dell’area. «Ma il fatto che non vivessimo qui, rendeva difficile avere contatti profondi e duraturi con la gente», ricorda padre Matías.

Quando lui è stato trasferito in Spagna, i suoi confratelli hanno continuato a collaborare con la parrocchia di Zambujal, fino al 2012, anno in cui hanno deciso di prendere una residenza permanente nel quartiere per iniziare una presenza regolare in collaborazione con le suore della Consolata. Padre Albino Brás, con un confratello e un seminarista del Kenya, ha così iniziato la nuova avventura.

Padre Matías, lasciata la Spagna, è tornato in Portogallo all’inizio del 2016. «Il lavoro qui è molto impegnativo. I bisogni umani e spirituali della gente sono tantissimi», sottolinea il missionario che un tempo è stato in Mozambico, «e, anche se qualche volta è davvero dura, non c’è alternativa alla scelta di vivere insieme alla gente che si serve».

È quello che pensano anche le missionarie della Consolata, suor Severa Riva e Ivaní de Morais che hanno preso un appartamento non molto distante da quello dei missionari condividendo lo stesso spirito.

Il multiculturalismo di Zambujal

Nonostante il loro impegno, i missionari riescono ad avere contatti regolari solo con una piccola parte della popolazione di Zambujal. È una realtà molto difficile, resa ancora più complicata dalle divisioni etniche del quartiere. Gli abitanti sono, infatti, divisi in tre grandi gruppi, con innumerevoli sottogruppi. Ci sono i portoghesi nativi del posto, poi gli immigrati che parlano portoghese e provengono dalle ex colonie (soprattutto da Capo Verde) e infine i Rom. Ognuno dei gruppi tende a non mescolarsi con gli altri e fare vita a sé. Normalmente la convivenza, pur difficile, è pacifica, ma ogni tanto si carica di tensione e violenza. I pesanti cancelli davanti alle porte di ingresso degli appartamenti, ne sono un segno.

Virtualmente tutti gli appartamenti di Zambujal ricadono sotto la categoria del social housing (come le nostre case popolari, ndr). Infatti furono costruiti dal governo negli anni ’60 e ’70 per accogliere i molti portoghesi che scappavano dalle ex colonie man mano che queste recuperavano l’indipendenza, non senza guerre e violenze, abbandonando i loro possedimenti oltremare. Il processo di decolonizzazione dei territori oltremare – da Capo Verde all’Angola al Mozambico in Africa, da Timor Est a Goa a Macao in Asia – causò un grande afflusso nel paese di ex coloni portoghesi e di immigranti di ogni gruppo etnico.

Quello portoghese è stato il più longevo tra gli imperi coloniali europei e uno dei più estesi, cominciato con la conquista di Ceuta in Marocco nel 1415, e continuato con la conquista e colonizzazione di parte dell’Africa, del Brasile e dell’Asia. Il processo di decolonizzazione, partito dal 1822, con la perdita del Brasile, proseguito negli anni ’60 e ’70 del Novecento con l’indipendenza delle colonie africane, si è concluso all’inizio del nuovo millennio, con il trasferimento di Macao alla Cina nel 1999 e la concessione della sovranità a Timor Est nel 2002. Più di cinquanta stati possono oggi rintracciare le loro origini nell’impero portoghese.

Per molti portoghesi che sono stati obbligati a lasciare le antiche colonie, il Portogallo era in realtà una terra straniera. La gran parte di loro, come i loro padri e i loro nonni, erano nati e cresciuti nei territori d’oltremare. Pur parlando portoghese erano degli stranieri e per molti di loro l’integrazione nella società nazionale è stata molto difficile. Al numero di questi forestieri si è poi aggiunta la grande quantità di migranti provenienti da quelle stesse ex colonie. I due gruppi vengono spesso uniti sotto l’unica definizione di Palops (gente proveniente da Países Africanos de Língua Oficial Portuguesa): proprio per loro il governo ha costruito quartieri come Zambujal.

Le iniziative di aggregazione

Scendiamo con i padri Albino e Matías le sei rampe di scale che portano dal loro piccolo appartamento al marciapiede sulla strada principale del quartiere. Giriamo a sinistra e, dopo pochi passi, attraversiamo un’ampia porta di ferro e vetri. Entriamo nel Centro de Consolação e Vida. Da qui partono tutte le attività dei missionari. Una vivacissima ed energica suor Ivaní ci fa da guida.

Oltrepassato l’ampio corridoio che fa da ingresso, nel quale si apre una stanzetta che serve da ufficio di accoglienza e sala d’attesa, entriamo nel laboratorio di taglio e cucito. Un gruppo di donne intente ai loro lavori ci accoglie: c’è chi taglia la stoffa, chi cuce, chi ricama, il tutto sotto lo sguardo attento di Elisa Cruz, una laica missionaria della Consolata. Stanno confezionando borse di vario tipo, tutte fatte a mano, dall’A alla Z. Ne esaminiamo alcune, la qualità è eccellente. La suora apre allora un grande armadio e abbiamo modo di apprezzare la bellezza e il disegno originalissimo dei tessuti creati e lavorati da quelle donne. Elisa ci spiega che tutta la loro produzione è su commissione e, quindi, tutto è già venduto ancor prima di essere fatto. Pagate le spese, il guadagno va tutto a sostenere il centro e le sue attività.

Dietro il laboratorio ci sono due piccole aule che servono per corsi di alfabetizzazione e scuola serale per gli adulti. Una piccola cappella con una porta che dà direttamente sulla strada è il cuore del Centro di Consolazione e Vita. Lì ci si ritrova per la messa e per la preghiera personale o a piccoli gruppi. Naturalmente non manca l’angolo cucina, necessario per quando si organizzano piccole feste, anche se la maggior parte del cibo viene portata già pronta da casa.

Il Caza (Centro artístico do Zambujal) è il punto d’orgoglio e di gioia di tutti coloro che sono coinvolti nel centro. Quando i locali non sono usati per la scuola o per il laboratorio, si trasformano in un vivaio di creatività: musica, arte, cinema, danza, yoga e tante altre attività.

Alla base di tutto c’è, sempre presente, l’obiettivo dello sviluppo umano e spirituale delle persone, gli interventi sociali, l’opera di dialogo e incontro tra i vari gruppi, l’attenzione all’ambiente, la catechesi e preparazione ai sacramenti, l’evangelizzazione. «Le vie del Signore sono infinite», dice sorridendo padre Albino. «Abbiamo fatto molti progressi con i diversi gruppi che vivono in zona, soprattutto con i Capoverdiani. Rimane però il grande problema dei Rom, che tendono a isolarsi e non interagiscono molto con gli altri. A volte arrivano al punto di escludere dalla loro comunità chi tra loro frequenta il centro. Ma noi continuiamo con i tentativi di coinvolgerli».

Usciamo dal Caza e ci dirigiamo alla palestra, un’altra delle iniziative di aggregazione dei missionari. Ci accoglie Luis, un giovane capoverdiano, che si presta subito a farci da guida. È una palestra perfettamente funzionante come potreste trovare ovunque. I macchinari non sono proprio all’ultimo grido, ma funziona tutto perfettamente. Tutti gli attrezzi sono stati regalati da altre palestre quando hanno rinnovato il loro equipaggiamento. Attraverso quest’attività i missionari raggiungono tre obiettivi: offrono un servizio molto pratico soprattutto ai giovani, creano un centro di aggregazione e di incontro dove persone di diverse provenienze possono interagire tra loro e allo stesso tempo incontrare i missionari, e, attraverso la quota di iscrizione (degli oltre duecento membri) si autofinanziano e pagano il personale addetto.

Il bel colore dell’olivo

Tornando verso l’appartamento dei missionari, c’imbattiamo in un gruppo che esce da un caffè che fa anche da drogheria, dove puoi comprare di tutto a tutte le ore. Alcuni di quegli uomini riconoscono padre Matías e il diacono Geoffrey. Non possiamo non fermarci. C’è una gran voglia di chiacchierare. Un anziano ci fa vedere un sacchetto pieno di caracóis (lumache) che ha appena raccolto in un prato, con la moglie ci farà una bella zuppa. Dal bar una voce di donna ci chiama. Dobbiamo proprio entrare. La signora Clara, nativa dell’arcipelago Madeira, ci accoglie con un grande sorriso e grande cordialità, sprizzando giovialità da tutti i pori. Ci offre un espresso, a spese della casa. Vicino a noi un uomo beve un bicchiere di vino, aperitivo prima della cena.

Il quartiere può sembrare squallido e triste, ma per un momento la gente di Zambujal dimentica i suoi problemi. Il cemento non sembra più così impenetrabile e i piccoli alberi che fiancheggiano la strada potrebbero anche crescere grandi e forti e riprendersi un po’ il bel colore dell’olivo.

Domenic Cusmano*

* Testo tradotto e adattato da Gigi Anataloni dalla rivista «Consolata Missionaries» (n. 1, 2017), pubblicata in inglese e francese dai missionari della Consolata in Canada e negli Stati Uniti.




Passaggi, storie di straordinaria integrazione


Indice

Introduzione: Da migrante a nuovo cittadino

Articolo: Come ti libero le schiave del sesso

Box: Noi, della prima generazione

Articolo: Missione: costruire i «nuovi cittadini»

Box: l’integrazione che si coltiva

Articolo: L’angelo dei sans papiers

Box: il calcio che conta

 



Da migrante a nuovo cittadino

Secondo l’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) nel 2016 hanno messo piede in Italia 181.436 esseri umani. A questi si aggiungono i 5.096 morti in mare e gli invisibili, viaggiatori mai arrivati a vedere le coste dell’Africa del Nord, di-spersi nel deserto o dimenticati nelle carceri libiche. La somma dà un numero imprecisato di migranti, donne e uomini, accomunati da un’unica somiglianza: l’urgenza di fuggire dalla terra in cui sono nati.

Essere migrante non è uno status permanente, ma una fase di passaggio e c’è un preciso momento in cui lo si diventa. Succede quando una causa di forza maggiore – una guerra, un disastro ambientale o una persecuzione personale – esercita una pressione su una persona tale da obbligarla ad abbandonare una vita stanziale.

E così inizia il movimento che, nell’ultimo anno, ha portato centinaia di migliaia di disperati ad attraversare il Mediterraneo, per approdare in un centro di accoglienza in stati che, nella maggior parte dei casi, sono scelti dagli scafisti.

Ma c’è anche un preciso momento in cui si smette di essere migranti. La fuga dal proprio paese non si esaurisce in un viaggio tortuoso, ma in un ritorno alla stabilità. Ed è proprio quando si ha l’opportunità di piantare le proprie radici in una nuova cultura che si abbandona questa condizione. E si diventa un nuovo cittadino.

Gli stranieri regolarmente residenti in Italia nel 2016 – secondo i dati Istat – sono 5 milioni e 26 mila. Persone dalla doppia anima, allo stesso tempo stranieri e nuovi abitanti, hanno acquisito la lingua e la cultura del paese ospitante, senza dimenticare le peculiarità del mondo da cui sono arrivati. Esseri umani che chiamano «casa» l’Italia con la stessa forza con cui rivolgono il pensiero al paese di origine.

Tra di loro, qualcuno ha compiuto un passaggio ulteriore. Ha capito che il personale percorso di integrazione, fatto di tentativi, errori, ma anche successi, può essere tradotto in un bagaglio di esperienze utili e trasferibili ai nuovi migranti, per rendere più fluido e rapido il loro processo di inclusione.

Alcuni stranieri residenti hanno deciso di tendere una mano a chi è arrivato dopo di loro, aiutandolo a vivere l’approdo in Italia. Tra di essi c’è chi si occupa di fornire cure gratuite ai richiedenti asilo, chi prova a insegnare un lavoro, chi li ospita in casa, chi ne migliora le occasioni di socialità attraverso lo sport, chi ancora promuove un passaggio di competenze e conoscenze, con attività di educazione alla pari.

Stranieri, forse non più stranieri, che sfidano la retorica di chi li vede come invasori, dimostrandosi, al contrario, anelli forti nei processi di integrazione, ponti tra due mondi, in grado di semplificare e ammorbidire il dialogo tra chi arriva e chi invece è sempre vissuto in Italia.

E così facendo contribuiscono non solo al perfezionamento del sistema di accoglienza italiano, ma alla costruzione di una società in cambiamento, dove migranti, ex migranti, stranieri e italiani hanno la possibilità di incidere sul futuro del paese in cui vivono e fare, tutti insieme, un passaggio in più. Diventare esempi di cittadinanza attiva.

Simona Carnino


 

Fatima Issah e Princess Inyang Okokon, Ghana e Nigeria

Come ti libero le schiave del sesso  

Loro, trafficate con l’inganno, riescono a liberarsi grazie alla propria tenacia e a un’associazione. Rimaste in Italia, sono diventate un riferimento per le ragazze che continuano ad arrivare numerose e sono sbattute sulle nostre strade. Molte di loro vogliono fuggire, ma hanno bisogno di tutto. Altre sono ricattate. Fatima e Princess ci sono passate.

Fuori è ancora buio. Sono le 7.30 di un giorno di una settimana qualsiasi. Fatima tira sù le tapparelle, scosta le tende e guarda verso il palazzo davanti a casa sua. Nell’alloggio di fronte, la luce spenta e la mancanza di movimenti lasciano trasparire un piccolo mondo addormentato.

«Le ragazze non si sono ancora svegliate – pensa Fatima -. Ora le chiamo perché altrimenti fanno tardi a scuola».

Squilla il telefono. Dopo pochi minuti, giovani donne dalla pelle d’ebano si affacciano al balcone. A pochi metri in linea d’aria vedono Fatima appoggiata al davanzale. La salutano. Dall’altra parte la donna sorride, le guarda e nella sua mente le conta una a una. Ci sono tutte. La giornata può iniziare.

Dal 2009, Fatima vive ad Asti dove si occupa dell’accoglienza e della protezione di vittime di tratta. Lavora presso il Piam onlus (www.piamonlus.it), associazione nota in Italia e all’estero per il recupero psicofisico delle schiave del sesso. Un mestiere complesso, per cui ci vuole preparazione psicologica, conoscenza delle disposizioni in materia di protezione delle vittime di tratta e una buona analisi del contesto storico e geografico in cui il commercio di esseri umani avviene.

«In genere le ragazze arrivano dalla Nigeria e hanno una media di 18-20 anni – spiega la donna -. A volte sono minorenni. Il mio compito è accompagnarle verso una nuova vita e dare consigli utili».

Fatima sa che quello che dice viene ascoltato con particolare interesse. Sa di essere un punto di riferimento per le ragazze. E in effetti nessuno è più credibile di chi ha vissuto le stesse vicissitudini. Nessuno è più credibile di lei.

Una storia d’inganno e di riscatto

Ghanese d’origine, Fatima Issah arrivò in Italia come vittima di tratta, nel 2008. Raggirata da un uomo nigeriano conosciuto ad Accra, accettò di partire per l’Europa con l’illusione di un lavoro come cuoca o inserviente in qualche ristorante. Senza saperlo si mise al seguito di un trafficante, iniziando un viaggio rocambolesco: palleggiata da Accra a Dubai, da Istanbul a Pristina, fino in Macedonia. Da lì, in treno verso Tessalonica e poi in volo in Repubblica Ceca, dove il faccendiere la imbarcò per Milano Malpensa prima di darsi alla macchia, per schivare i controlli sul traffico di esseri umani. All’aeroporto, un secondo uomo la stava aspettando per condurla a Torino, a casa di una donna nigeriana che si rivelò essere una madam pronta ad offrire a Fatima una vita d’inferno, invece di un lavoro legale.

«Mi dissero che dovevo pagare un debito di viaggio di 45mila euro lavorando in strada come prostituta – ricorda Fatima -. Non volevo fare una cosa del genere, ma non sapevo come fuggire e allora ho finto di essere d’accordo».

La sera successiva Fatima, insieme ad altre donne, venne costretta a salire su un furgone con destinazione Asti. Un’ora dopo era in piedi sul marciapiede di fronte al cimitero. «Una ragazza mi disse che dovevo avvicinare le macchine e propormi per 50 euro – spiega la donna -. Se il prezzo fosse stato considerato troppo alto, dovevo chiedere 20 euro per prestazione. Volevo scappare ma non sapevo come».

E il modo arrivò, come quando in un film tragico sopraggiunge uno spiazzante lieto fine. Una giovane nigeriana si rese conto dell’atteggiamento restio di Fatima. «Mi chiese come mai non facessi come tutte le altre. Le raccontai che mi avevano ingannato e volevo scappare, anche se era pericoloso. Lei allora mi aiutò, consegnandomi un volantino dell’associazione Piam con un numero di emergenza». Fatima aspettò di non essere vista, prese coraggio e si mise a correre. «Era buio e non sapevo dove stessi andando. Poi ho visto degli alberi e mi sono nascosta. Al mattino sono andata alla stazione dei treni e ho chiamato il Piam». I volontari dell’associazione si presentarono immediatamente e portarono Fatima nel centro di accoglienza femminile, dove ebbe la possibilità di fare denuncia di tratta alla polizia e da lì a poco ottenere il permesso di soggiorno per motivi sociali rilasciato ai sensi dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione.

Il ricatto del malocchio

Stessa sorte è capitata alla vicepresidente del Piam, Princess Inyang Okokon, originaria della Nigeria. In questo paese spesso le ragazze, prima di partire, vengono convinte a partecipare alla cerimonia del juju, un rituale religioso tradizionale, presieduto da una guida spirituale, che suggella un patto tra i trafficanti e le donne. I primi si impegnano a garantire un trasferimento sicuro in Europa e le seconde giurano che pagheranno il debito contratto. Il juju assume una funzione repressiva e schiavizzante quando le giovani, ormai consapevoli di essere cadute in una condizione di sfruttamento, cercano di fuggire. I trafficanti lo utilizzano con fare intimidatorio, ricordando alle donne che si tratta di un giuramento sacro, un contratto da cui non si può recedere, se non pagando il debito di viaggio, pena la morte della ragazza stessa o dei suoi famigliari. La cifra per l’affrancamento dai responsabili del meretricio è molto più alta di un normale biglietto aereo e arriva anche ad alcune decine di migliaia di euro.

«Io sono scappata – ricorda Princess -. Oggi sono qui a testimoniare alle ragazze che di juju non si muore e si può provare a uscire da questo incubo».

Identikit delle vittime di tratta

«Sono una delle poche ghanesi finite nelle mani del racket della prostituzione – afferma Fatima -. La maggior parte delle donne di colore che si vedono sulla strada sono nigeriane».

Secondo i dati dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) il 15% dei migranti arrivati in Italia nel 2016 proviene dalla Nigeria.

Tra di loro circa 11mila sono donne, di cui l’80% è vittima di tratta, come confermato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Un numero elevato se confrontato con il dato del 2015 che riporta 5.633 arrivi di ragazze in fuga da una nazione resa instabile dalle incursioni di Boko Haram e da una iniqua ripartizione delle risorse economiche. Nel saggio «Sex Trafficking in Edo State, Nigeria», edito dall’Unicri (Istituto di ricerca interregionale per il crimine e la giustizia dell’Onu) nel 2013, si evidenzia che l’85% delle vittime di tratta nigeriane proviene dalla regione denominata Edo, in particolare da Benin City e dai villaggi vicini. Abusando delle condizioni di vulnerabilità economica delle famiglie, i trafficanti cercano nei genitori delle ragazze dei complici, facili da abbindolare con la promessa di un benessere garantito dagli introiti della prostituzione delle figlie in Europa. Un’illusione rafforzata dall’incontro con alcune madam, ex prostitute diventate sfruttatrici, che spesso ritornano nel paese d’origine sfoggiando simboli di ricchezza quali telefonini di ultima generazione e case di proprietà.

«Oggi alcune ragazze sanno che la prostituzione è il prezzo da pagare per essere portate in Europa – spiega Fatima -. Ma quando si trovano davanti all’inferno della strada, alcune provano a scappare e altre continuano il lavoro per paura di ritorsioni».

Spesso è bassa la consapevolezza delle ragazze rispetto al loro futuro in Europa. Il saggio «Nigeria – La tratta di donne a fini sessuali», prodotto dall’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo nel 2015, afferma che «le donne possono sapere che lavoreranno come prostitute, senza però rendersi conto delle condizioni in cui ciò avverrà o dell’effettivo ammontare del debito, oppure possono essere sottoposte a pressioni nell’ambiente in cui vivono, o ancora possono essere vittime di inganni o raggiri».

Che siano convinte di arrivare in Italia per fare le badanti, o che sappiano cosa le attende, le ragazze si affidano a persone senza scrupoli. «Spesso sono vittime di violenza e sfruttamento sessuale durante il viaggio e poi in Libia – continua Fatima -. Alcune rimangono incinte dei loro stessi trafficanti».

Protezione delle ragazze trafficate

Le giovani donne inserite nei progetti di accoglienza gestiti da Fatima e Princess hanno raggiunto la Sicilia in barcone, come la maggior parte delle loro connazionali. Ad aspettarle all’arrivo normalmente c’è un intermediario che, come è successo a Fatima, ha il compito di accompagnarle da una madam.

«Quando sono ancora in Africa, le ragazze ricevono un numero telefonico da chiamare una volta approdate – spiega Princess -. In questo modo si possono mettere in contatto con i trafficanti qui in Italia».

Proprio per evitare che le ragazze si consegnino ai propri aguzzini, nei primi giorni a ridosso dell’arrivo, Fatima e Princess si impegnano a dare tutte le informazioni necessarie perché le giovani donne decidano consapevolmente se denunciare i propri carnefici ed entrare in un progetto di accoglienza per richiedenti asilo politico.

«Se arriva una ragazza nigeriana non accompagnata, diciottenne o ventenne, è al 100% vittima di tratta – dice Princess -. Ci possono dire che la persona che le sta aspettando è loro cugino, zio o un amico di famiglia, ma noi sappiamo che non è vero. Ci siamo passate prima di loro».

Tuttavia sta alle ragazze denunciare la propria condizione e, ad oggi, poche nigeriane trafficate si identificano come vittime. Per la maggior parte di loro il pagamento di somme ingenti di denaro per approdare in Europa è considerato la normalità e la prostituzione un passaggio obbligato verso l’affrancamento. Altre sanno che una denuncia suonerebbe come una dichiarazione di guerra nei confronti dei trafficanti che potrebbero minacciare le loro famiglie.

«Alcune ragazze invece non vogliono andare sulla strada a nessun costo – dice Fatima -. Si sono affidate a trafficanti per riuscire ad arrivare in Europa, ma non hanno nessuna intenzione di svolgere quel lavoro. In questi casi, le aiutiamo a sporgere denuncia e le inseriamo in progetti di accoglienza e di protezione».

Un percorso di accompagnamento che Fatima e Princess svolgono con passione e dedizione, incoraggiando le ragazze ad andare a scuola di italiano, immaginare un futuro lavorativo e provare a sanare le ferite fisiche e psicologiche che hanno subito durante il processo migratorio.

«Non è semplice valutare se una ragazza è davvero fuori dal giro della prostituzione – spiega Princess -. Capita che denunci il trafficante, ma che dopo un periodo scappi dal progetto di protezione, perché teme gli effetti del juju per non aver pagato il debito». E così può accadere che una ragazza inizialmente strappata allo sfruttamento sessuale venga ricontattata dai suoi aguzzini e, intimorita per le possibili ritorsioni, cominci un percorso di miseria sulla strada, schiavizzata per un numero di anni difficile da calcolare.

«Quando ci accorgiamo che una ragazza viene minacciata da uno di questi delinquenti, proviamo a trasferirla in un’altra città, prima che scappi senza dirci nulla – conclude Princess -. È nostro compito provare a proteggerla fino a quando ne abbiamo la possibilità».

Guadagnarsi la fiducia delle vittime di tratta non è facile. Eppure Fatima e Princess non demordono. Dalla loro parte hanno un’esperienza, triste e dolorosa, che le rende un esempio concreto. «Io sono come te, ma sono cresciuta. Ho studiato e ho un lavoro», dice Fatima, ogni volta che incoraggia le giovani a trovare la forza di dire no alla tratta, ogni volta che le ascolta e le accompagna per diventare donne libere. E ogni volta che le chiama dalla finestra, perché non facciano tardi a scuola.

Simona Carnino


Noi, della prima generazione

Dalla cucina arriva un profumo di curcuma che si mischia alle note intense della cipolla e dell’aglio. I borbottii della casseruola sul fuoco annunciano un piatto dalla lunga cottura. Moussa, un 23enne originario del Mali, sta controllando che il riso non si attacchi al fondo. A intervalli regolari dà una mescolata, poi posa il cucchiaio e si mette a pelare patate e carote. Alle sue spalle Mallam, ghanese di 25 anni, lava le pentole. Poco più in là Alioune prepara la tavola per tutti. Qualche mese fa l’apparecchiava solo per sé.

Siamo nella primavera del 2016 Mallam e Moussa sono in Italia da circa 5 anni. Prima di conoscere Alioune avevano vissuto tra grandi centri e case occupate. Nel 2015 hanno ottenuto la possibilità di partecipare al progetto «Rifugio diffuso», un’accoglienza in casa di privati che prevede un contributo alla famiglia ospitante di circa 400 euro per ogni richiedente asilo o titolare di protezione alloggiato. Ad aprire la porta ai due giovani c’era Alioune Djouf senegalese di 58 anni, residente in provincia di Cuneo e in Italia da più di metà della sua vita. «Questi ragazzi appena arrivati hanno bisogno di essere aiutati – commenta Alioune -. Noi, che siamo di prima generazione, dobbiamo essere in prima linea».

 

L’accoglienza in casa è ancora poco praticata in Italia. In Piemonte ha cominciato ad avere una parziale diffusione nel 2008 ed è stata rilanciata nel 2014 dal comune di Torino, insieme all’Ufficio pastorale migranti della diocesi e altre associazioni. Questo tipo di servizio permette alle persone ospitate di avere un immediato contatto con il territorio, facilitato dal conduttore dell’alloggio che, in genere, è residente in loco da molti anni. E i risultati possono essere particolarmente interessanti quando il rifugio viene offerto da uno straniero che vive in Italia da parecchio tempo. «Noi che siamo arrivati in Italia da anni, conosciamo la lingua, il sistema culturale e sociale italiano, ma abbiamo anche una grande conoscenza dei paesi di provenienza. Siamo dei ponti naturali e possiamo dare una mano concreta a chi arriva ora», spiega Alioune che nel 2016 ha accompagnato i due ragazzi nel processo di iscrizione al centro per l’impiego, li ha messi in contatto con una ditta per svolgere un tirocinio e li ha sostenuti nella creazione di una piccola rete di amicizie e incontri sul territorio.

A volte possono subentrare delle difficoltà di convivenza, come tra normali coinquilini, certo è che l’accoglienza in casa permette un processo di integrazione più rapido di quello che avviene nei grandi centri.

«Quando i ragazzi arrivano, parliamo subito – racconta Alioune -. Non siamo più in Africa. Il sistema europeo è molto diverso da quello a cui sono abituati, per cui diventa prioritario per loro provare a capire la gente, rispettare le regole e farsi conoscere. In questo modo si riuscirà a fare un buon inserimento. E naturalmente è importante trovare un lavoro. Per questo faccio di tutto perché Mallam e Moussa abbiano un’opportunità di impiego». Un proposito che si scontra con le precarietà ormai tipiche del sistema lavorativo italiano, ma che non ha scoraggiato i giovani.

Marzo 2017: Mallam ha iniziato un tirocinio presso una mensa e si è trasferito più vicino alla sede di servizio, mentre Moussa ha cominciato il servizio civile e vive ancora a casa di Alioune.

Simona Carnino


Abdullahi Ahmed, Somalia

Missione: costruire i «nuovi cittadini»

È un ragazzo come molti altri. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere e non potersi realizzare ha prevalso. Una grande volontà di rendersi utile. Per caso diventa mediatore. Un naturale «ponte» tra due mondi. Capisce che occorre preparare i ragazzi italiani all’accoglienza e in un anno incontra 10.000 giovani nelle scuole.

Corre veloce, Abdullahi. Sulle spalle lo zaino con gli appunti per spiegare nelle scuole del Piemonte il motivo che convince i ragazzi come lui a fuggire dal proprio paese. Nelle mani l’orario dei colloqui con i richiedenti asilo appena arrivati in Italia, in tasca il biglietto di uno studente con scritto «grazie». E nello sguardo il guizzo vitale di chi sogna un dialogo pacifico tra italiani e stranieri. O per usare le sue parole, «nuovi cittadini, perché sono sicuro che se il processo di inclusione avviene in modo corretto, chi approda oggi, sarà il cittadino di domani».

Abdullahi Ahmed, classe 1988, originario della Somalia, oggi è cittadino italiano e fa il mediatore culturale a Settimo Torinese. Parla la nuova lingua come un libro stampato, conosce la Costituzione italiana a menadito, si destreggia tra i meandri della burocrazia e sa orientarsi lesto per le vie di Torino, città in cui abita. Difficile considerarlo straniero, migrante, rifugiato, profugo. Abdullahi è un ragazzo come tanti altri, somalo, italiano, europeo che si è messo in viaggio in cerca di stabilità economica, sociale e, nel suo caso, politica.

La traversata che ti segna

Abdullahi è arrivato in Italia nel giugno 2008, ma è partito dalla Somalia nel novembre 2007. Il paese è dilaniato da guerre civili e dittature fin dal 1960, anno dell’indipendenza. L’economia ne ha sofferto, piegata inoltre da ondate di carestia, che hanno accelerato i moti migratori e collocato la Somalia al terzo posto nel mondo per numero di richieste di asilo politico, con 1,1 milioni di abitanti in fuga, secondo il 3° Rapporto sulla Protezione internazionale 2016 (di Caritas Italiana e altre organizzazioni). «Da quando sono nato non ho mai vissuto un giorno di pace, fino a quando non ho deciso di partire – racconta Abdullahi -. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere, e non potermi realizzare come essere umano, era più forte». Compiuti 19 anni, ha preso il suo bagaglio e ha cominciato un viaggio di 7 mesi, affidandosi a organizzazioni di trafficanti che si occupano di gestire il viaggio dei migranti verso l’Europa. Mesi trascorsi ad attraversare l’Etiopia, il Sudan e poi la Libia. «Mi sarebbe piaciuto prendere un aereo, ma non è stato possibile – ricorda il ragazzo -. Con il passaporto somalo non si può andare neanche in Kenya, mentre con i documenti italiani si può viaggiare in 175 paesi. Oggi c’è chi ha diritto di viaggiare e chi no. E i somali non ce l’hanno», per cui il viaggio è stato precario e insicuro a ogni passo. L’attraversamento del mare tra Libia e Italia è stato più semplice del passaggio nel deserto, durato sette giorni. La paura che la macchina si inceppasse a causa della sabbia, che i soccorsi non arrivassero o che le riserve d’acqua terminassero, ha seguito Abdullahi fino all’arrivo in Libia, dove, pagando un biglietto salato, è salito sul barcone che lo ha portato in Europa. «Tu non scegli in che punto attraversare il Mediterraneo né dove arrivare – racconta -. Ti affidi e basta. Il viaggio in mare dura mediamente 24 ore. Se c’è un problema, speri di essere soccorso e preghi Dio».

Dopo quattro giorni dall’arrivo a Lampedusa, Abdullahi è stato imbarcato su un volo per Torino e accolto nel Centro Fenoglio di Settimo Torinese, gestito dalla Croce Rossa. Dopo tre mesi, ha ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico.

«Vorrei fare qualcosa di buono»

«Certezze non ce ne sono, ma per ora vorrei mettere qui il mio mondo e fare qualcosa di buono». Nel 2009, Abdullahi ha posato la pietra miliare della sua nuova vita in Italia, ma non ha smesso di muoversi. Almeno con le idee e con la volontà di rendersi utile.

A un anno dal suo arrivo in Italia ha iniziato a svolgere il mestiere di mediatore culturale. «Nel 2009 sono arrivati al Fenoglio 150 richiedenti asilo politico dalla Somalia – racconta Abdullahi -. Io mi sono messo a disposizione per aiutare gli operatori del centro a trasmettere le comunicazioni». Un’attività iniziata per caso, diventata una professione che lo ha reso indispensabile per la sua funzione di ponte linguistico. «Ma il mediatore è molto di più di un interprete. È una persona che conosce la cultura del paese d’origine e ha acquisito la cultura del paese ospitante», dice Abdullahi che da anni ha il compito di aiutare i ragazzi somali a iscriversi al sistema sanitario, alla scuola di italiano per stranieri, a conoscere il territorio e a seguire l’iter di ottenimento dei documenti.

«Se i ragazzi non hanno ancora fatto richiesta di asilo politico, li accompagno in questura per compilare i moduli necessari – spiega -. I tempi di attesa oggi sono molto più lunghi del 2008. A volte ci vogliono due anni per ricevere una risposta».

Secondo i dati mensili raccolti dal ministero dell’Interno, da gennaio a dicembre del 2016 sono state presentate 124.382 domande di asilo, mentre ne sono state esaminate 90.552, indipendentemente dall’anno di arrivo del richiedente in Italia. L’attesa è sfiancante e in più del 50% dei casi la risposta è negativa. Una doccia fredda. Esseri umani dichiarati illegali, spinti a lasciare il paese, nonostante spesso abbiano già imparato la lingua e magari trovato un’occupazione. «In quei momenti il mio lavoro si fa duro e posso fare ben poco – racconta Abdullahi -. In ogni caso, continuo a frequentare chi non riceve il permesso, aiutandolo a costruire una rete sociale. Non voglio che si senta abbandonato».

Due mondi che s’incontrano

L’avvicinamento tra due mondi è possibile solo se entrambi hanno la volontà di camminare verso l’altro. «Una volta pensavo che fosse compito solo di noi stranieri fare lo sforzo di integrarci – ricorda Abdullahi – ma mi sbagliavo. È importante preparare il territorio, coinvolgere i giovani nati in Italia, parlare con loro». A dargli l’occasione per iniziare una nuova tappa di dialogo è stato, paradossalmente, un evento tragico.

Il 3 ottobre del 2013 un barcone affondò al largo di Lampedusa causando 368 morti e 20 dispersi. Il giorno dopo in una scuola del Piemonte, un professore propose ai propri studenti un minuto di silenzio per le vittime del mare. Alcuni si rifiutarono. «Ma che ce ne frega a noi di questi. Facevano meglio a non venire», disse uno. Spiazzato dall’atteggiamento della classe, il docente provò a correre ai ripari, pensando di mettere i propri studenti a confronto con l’oggetto stesso della loro diffidenza. Alcune telefonate dopo, Abdullahi si presentò a scuola per raccontare la sua storia, in buona parte simile a quella dei ragazzi annegati il 3 ottobre. Due ore di resoconto serrato, un’antologia di emozioni mescolate a fatti di storia contemporanea incisi sulla pelle.

Grazie a quell’incontro il ragazzo che aveva detto di «fregarsene» iniziò invece a interessarsi e invitò Abdullahi a partecipare a un’assemblea di istituto per portare la sua testimonianza a tutta la scuola.

«Da allora ho deciso di raccontare la mia storia per ridurre le distanze tra italiani e migranti. È diventata la mia missione. In tre anni ho incontrato più di 10mila studenti e i riscontri sono sempre positivi». Un’attività di volontariato che Abdullahi svolge con spirito civico, ma anche autornironia e simpatia. Pronto a rispondere a domande senza filtri, come quella volta che gli chiesero perché non se ne fosse andato in Botswana, invece che in Italia. «Non ci sono domande scomode o cattive.
È stimolante discutere con chi la pensa diversamente, altrimenti che confronto sarebbe! – sorride Ahmed -. I ragazzi mi chiedono della mia famiglia, della mia religione, se vengo pagato dallo stato, se pago l’affitto, se lavoro. Io rispondo alle loro curiosità. E così ci conosciamo e siamo un po’ meno lontani. È un’esperienza magnifica».

L’impegno civile

L’impegno di Abdullahi non conosce confini e nel 2014, rimasto senza lavoro come mediatore, con diritto all’assegno di disoccupazione, ha deciso di rifiutare l’aiuto dello stato per svolgere il servizio civile nazionale e restituire una parte di sé a Settimo Torinese, la città che lo aveva accolto anni prima.

Un esempio di partecipazione civica che non è sfuggita alla giunta comunale che il 18 settembre 2014 ha insignito Abdullahi della cittadinanza onoraria. A marzo del 2016 è diventato cittadino italiano a tutti gli effetti, ottenendo la possibilità di votare, di viaggiare e di poter vivere dove vuole.

Anche nel tempo libero il giovane mediatore non perde occasione di portare un contributo all’incontro interculturale. Dal 2014 è uno degli organizzatori della cellula torinese, e da poco anche settimese, di Arte Migrante, un evento serale informale, una corrida senza pomodori, in cui persone provenienti da tutto il mondo, di ogni ceto sociale e di ogni età, si esibiscono in performance di danza, canto, recitazione e molto altro. «Si sta insieme per il piacere di farlo. Tanti richiedenti asilo, rifugiati e nuovi cittadini partecipano con me alle serate e per un momento smettono di pensare ai problemi quotidiani. Ci divertiamo e le occasioni di socializzazione si moltiplicano in un’atmosfera magica».

E mentre ricorda tutto questo Abdullahi si tocca il collo. Dalla camicia fa capolino una maglietta rossa. O meglio granata. Improvvisamente una luce di orgoglio illumina il suo sguardo. «Sì, sono del Toro. La più grande squadra del mondo», dice serio Abdullahi che, appena ne ha avuto la possibilità, ha cominciato a sedersi in curva Maratona.

«All’inizio della mia esperienza in Italia, i tifosi mi hanno aiutato a sentirmi parte di un gruppo. Ogni volta che il Toro faceva gol ci abbracciavamo e a nessuno importava se io fossi nero, somalo, straniero, migrante o altro. Ero come loro, un tifoso granata».

Quell’abbraccio che lo ha fatto sentire a casa lo restituisce ogni volta che fa quello che gli riesce meglio. Essere l’ingranaggio funzionante di un dialogo appena iniziato.

Simona Carnino


Mamadou Ndiaje, Senegal e Abdulwahab Afa, Eritrea

l’integrazione che si coltiva

«Maramao perché sei morto? Pan e vin non ti mancava. L’insalata era nell’orto e una casa avevi tu», cinguettava il trio Lescano nel 1939. Negli anni 2000 la stessa cantilena ha cominciato a riecheggiare tra alcuni contadini di Canelli (Asti) che la usavano per indicare, con atteggiamento beffardo, i braccianti migranti finiti nel giro del caporalato, sfruttati nelle campagne del Dolcetto e del Barolo.

Oggi però Maramao ha un nuovo significato. Dal 2014 è il nome di una cooperativa agricola fondata da rifugiati politici e alcuni italiani. Maramao, sì. Per farsi beffa della beffa.

«Io e il mio collega Afa siamo i vicepresidenti – spiega Mamadou Ndiaje, senegalese -. Noi due e una nostra amica italiana rappresentiamo il comitato direttivo. Abbiamo iniziato questo lavoro coltivando le terre che alcuni anziani del paese hanno deciso di darci in comodato d’uso gratuito». Mamadou è arrivato dal Senegal e Abdulwahab Afa dall’Eritrea circa 4 anni fa. Oggi sono due giovani imprenditori di 30 anni, con alle spalle un passato trascorso in uno Sprar gestito dalla cooperativa Crescere Insieme di Acqui Terme (Alessandria), dove hanno imparato a destreggiarsi tra vendemmie, raccolta di nocciole e trasformazionie di pomodori. Imparato il mestiere, i due ragazzi, insieme a chi li aveva accolti, hanno unito le forze per la creazione di Maramao, start up di produzione e vendita di prodotti agricoli biologici.

«Oltre a coltivare, abbiamo deciso di accogliere in tirocinio lavorativo dei ragazzi che stanno nei centri di accoglienza, per insegnare loro un lavoro», racconta Afa. Una scelta importante che ha portato i due imprenditori agricoli a estendere quello che hanno imparato sull’auto imprenditorialità ai ragazzi, in gran parte richiedenti asilo, che sono un passo dietro a loro nel cammino verso l’integrazione lavorativa.

«Quando parti dal tuo paese d’origine, pensi che una volta arrivato in Italia sia facile trovare lavoro – ricorda Mamadou -. Poi ti rendi conto che ci sono tanti limiti. Prima di tutto bisogna avere i documenti a posto e parlare la lingua. Senza lavoro qui non è facile». E così i due giovani vicepresidenti fanno quello che possono per rendere a chi è arrivato dopo di loro più fluido il passaggio a una nuova vita lavorativa. Un tirocinio non è certo una sicurezza, ma rappresenta un primo passo per migliorare le proprie competenze e per venire in contatto con la popolazione locale. Molti dei ragazzi in stage si occupano della vendita dei prodotti al mercato, dove hanno l’opportunità di parlare con i clienti ed essere apprezzati per il proprio lavoro. Una gratificazione che stimola i giovani richiedenti asilo a mettercela tutta per dare nuova dignità ai campi abbandonati per anni (molte sono infatti terre lasciate incolte). Almeno per un periodo. Almeno fino a quando non avranno le idee più chiare sul loro futuro. «A volte i nostri tirocinanti non ottengono il permesso di soggiorno, oppure vogliono andare in Nord Europa – conclude Mamadou -. Non tutti loro rimarranno in Italia, ma noi proviamo a coinvolgerli nella coltivazione, nella raccolta, nella vendemmia e in tutto ciò che c’è da fare in una cooperativa agricola, perché ovunque vadano possano portarsi un mestiere con loro».

Sim.Car.


Joelle kamgaing, Camerun

L’angelo dei sans papiers

Arrivata a 19 anni in Italia per studiare medicina. Ha sviluppato grande empatia con i pazienti stranieri. Forse per la sua esperienza di studentessa «diversa» che ha dovuto integrarsi. Spesso gli assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto medico. E lei si mette a disposizione come volontaria.

Studia, studia, studia. È il mantra che ha accompagnato Joelle Kamgaing negli ultimi sei anni e mezzo, da quando ha iniziato a frequentare la facoltà di medicina e chirurgia a Torino.

A 19 anni aveva l’atteggiamento determinato di una velocista ai blocchi di partenza, con la mente concentrata al traguardo, pronta a fare il miglior tempo su un percorso ad ostacoli. «Avevo un obiettivo difficile – dice Joelle -. Volevo fare il medico. Mi sono impegnata, ho dato tutta me stessa».

E Joelle ce l’ha fatta. Nel 2016 si è laureata in medicina e chirurgia, con lode e dignità di stampa. Ha superato l’esame di abilitazione alla professione all’inizio del 2017 e ora sogna la specializzazione in nefrologia. Non male per una ragazza di 25 anni. Per una giovane donna che bagaglio in spalla e coraggio in pancia, ha lasciato il Camerun ed è partita alla volta dell’Italia per diventare medico.

Solidarietà studentesca

«Appena arrivata non sapevo una parola di italiano e non conoscevo nessuno, né la cultura, né il cibo. Era tutto diverso e io mi sentivo diversa. Tutti mi guardavano perché ero nera. Poi i miei compagni di corso mi hanno dato una mano. Mi parlavano in italiano e io li aiutavo con i concetti di medicina, spiegandomi in francese. E così poco a poco mi sono sentita accolta».

Un inizio tumultuoso per la ragazza che allo studio doveva affiancare lo sforzo di imparare la lingua e la volontà di comprendere un sistema culturale dai punti di riferimento diversi da quelli conosciuti nei primi due decenni di vita in Africa.

Senza scoraggiarsi e con la metodologia tipica di una scienziata, Joelle ha trasformato una debolezza in opportunità. Quell’iniziale sentirsi straniera in un paese straniero le ha permesso di sviluppare doti di empatia e ascolto che oggi rivolge ai suoi pazienti, in particolare a chi è arrivato da poco in Europa e fatica a esprimere il proprio malessere.

Appena ha un momento libero, Joelle opera come dottore volontario in medicina generale presso Camminare Insieme (camminare-insieme.it), un’associazione torinese di volontariato con un poliambulatorio in via Cottolengo, che si occupa di fornire farmaci e visite gratuite a indigenti e a stranieri che, per ragioni diverse, non abbiano diritto al servizio sanitario nazionale.

Medico, donna e africana

A volte non credono ai loro occhi. Stupiti e meravigliati, i pazienti stranieri che si siedono di fronte a Joelle rimangono a bocca aperta nel vedere una ragazza dell’Africa subsahariana con stetoscopio al collo e cartellino recante la dicitura «dottore» sul camice. «Mi chiedono come abbia fatto a raggiungere uno status così elevato – sorride Joelle -. Pensano che sia stata adottata. A loro sembra incredibile che qualcuno nato in Africa e arrivato in Italia possa riuscire a laurearsi in medicina».

Chi si presenta presso gli ambulatori dell’associazione Camminare Insieme nella maggior parte dei casi parla la lingua di chi ha fatto un lungo viaggio, con ferite psicologiche oltre che fisiche, e un passato da dimenticare. Difficile per loro pensare a un domani e ancora più arduo immaginare di realizzare i propri sogni.

Tanti di loro fanno parte di quel 61,3% di stranieri che nel 2016 ha ricevuto il diniego alla richiesta di asilo, secondo i dati del ministero dell’Interno. Cittadini invisibili che si muovono sul territorio italiano senza la possibilità di rimanere, ma neppure l’opportunità di andare verso un altrove più favorevole alla loro vita. Esseri umani privi di documenti che non hanno il diritto di iscriversi al sistema sanitario nazionale e quindi si rivolgono a centri ambulatoriali gestiti da volontari per ottenere visite generali e medicinali gratuiti. Tra i 2.547 pazienti totali, sono 2.113 le persone provenienti da paesi non dell’Unione europea che si sono registrate ai servizi dell’associazione Camminare Insieme nel 2016.

Pazienti senza documenti

«Chi è senza documento preferisce farsi curare presso centri come il nostro perché noi non esigiamo la presentazione del permesso di soggiorno – spiega Joelle -. Ogni volta che una persona considerata irregolare si presenta in strutture pubbliche teme una registrazione formale e conseguenti ripercussioni amministrative o penali».

Una paura che non avrebbe ragione di esserci se fosse più conosciuto l’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione che cita: «L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».

In Italia il dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo, indipendentemente dall’etnia, dalla religione e dal sesso, in tempo di pace e guerra. Così recita ancora oggi l’articolo 3 del codice deontologico medico.

Certezze messe in dubbio qualche anno fa dal pacchetto sicurezza del 2008 e dalla successiva legge 94/2009 emanati dal governo Berlusconi che crearono panico diffuso tra gli stranieri e un acceso dibattito tra i medici determinati ad alzare le barricate per difendere il proprio dovere a operare nell’interesse del paziente.

Nel mirino c’era l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare, punito con una sanzione fino a 10mila euro, e l’obbligo di denuncia per pubblici ufficiali e incaricati del servizio pubblico che venissero a conoscenza di una persona in condizione di clandestinità. Il mondo sanitario si trovò a dover fronteggiare una situazione ambigua. Da una parte il divieto di segnalazione propria della deontologia e dall’altra il possibile obbligo di denuncia del migrante irregolare, non perché avesse commesso un atto criminale, ma per il motivo di essere nella condizione di sans papiers.

«È stato un periodo difficile – spiega Fiorella Ferro, socio fondatore di Camminare Insieme -. Tutti i medici, paramedici e corpo sanitario italiano si sono allineati in una ferma opposizione alla legge». Sulla porta dell’associazione di Via Cottolengo campeggiava un grosso e rosso adesivo che recitava «Noi non segnaliamo» e in quell’anno le code di fronte alle porte si duplicarono, mentre il libero e spontaneo accesso alle cure pubbliche da parte degli stranieri senza documenti si riduceva.

La federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontorniatri alzò la voce in difesa del ruolo del medico e chiese al governo chiarimenti.

La vicenda trovò una sua conclusione nella circolare n. 12 del novembre 2009, in cui il ministero dell’Interno ribadì, come riportato dal portale sull’immigrazione del governo, «la vigenza del divieto di segnalazione anche dopo l’entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio nazionale, precisando che l’obbligo di denuncia non si applica in riferimento al reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio dal momento che si tratta di una contravvenzione e non di delitto».

Sebbene si fosse fatta chiarezza su un’ambiguità di fondo, la legge aveva contribuito a rendere diffidenti i pazienti senza documenti che, in quel periodo, preferivano rinunciare al proprio diritto all’assistenza sanitaria pubblica.

«Ancora oggi alcuni stranieri, a cui è stata rifiutata la richiesta di protezione internazionale, non sanno che si possono rivolgere al pronto soccorso liberamente – spiega Joelle -. Il mio compito in questi casi è provare a rassicurarli e convincerli ad andare all’ospedale in caso di emergenza».

Mediazione culturale e linguistica

Attualmente, davanti all’associazione Camminare Insieme si forma ogni giorno una fila che non di rado accoglie fino 70 persone. Al 98% sono stranieri, provenienti soprattutto da Marocco, Romania, Nigeria e Siria, che nel 2016 si sono affidati alle mani esperte di 76 medici volontari.

«La maggior parte delle persone si presenta per consulti di medicina generale e per visite odontorniatriche che privatamente non potrebbero permettersi – racconta Fiorella Ferro -. Tanti vengono da noi attirati dall’atteggiamento accogliente e attento dei nostri dottori».

E in fatto di empatia con i pazienti stranieri Joelle è naturalmente portata. Oltre al ruolo di medico, la giovane dottoressa svolge un’attività di mediazione culturale e linguistica fondamentale per comprendere, ma anche mettere a proprio agio, le persone che si presentano all’ambulatorio. «Quando i pazienti dell’area subsahariana mi vedono si sentono più rassicurati. Capita che mi spieghino le patologie in inglese o francese. Parliamo la lingua che conoscono meglio e in questo modo si sentono maggiormente compresi», racconta la dottoressa.

Pazienti che si sentono a casa anche se sono in un emisfero diverso da quello di provenienza e che riescono a raccontare i propri problemi medici senza inibizioni, sicuri che dall’altra parte della scrivania c’è qualcuno che sa capire anche le ansie relative a malattie tipiche dell’area geografica di origine.

«Mi è già successo che alcuni pazienti abbiano paura di essere affetti da malaria – continua Joelle -. Effettivamente è una malattia endemica della zona d’origine di numerosi stranieri. Io li capisco, ma cerco di spiegare loro che la maggior parte delle volte sono solo paure irrazionali e che in Italia è più facile contrarre l’influenza che la malaria». Consigli semplici, ma che suonano più autorevoli se pronunciati da qualcuno che può essere riconosciuto come un punto di riferimento famigliare da chi è appena arrivato in Italia.

«A volte i miei assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto sanitario – racconta Joelle -. Sono spesso abbattuti, senza un lavoro e rete sociale. Io dico sempre loro di non cedere, di darsi degli obiettivi e perseguirli, senza dimenticare da dove sono arrivati».

Così ha fatto lei, con la gioia e la risolutezza della giovane donna che ha pedalato in salita senza darsi mai per vinta, prestando la sua opera «con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza», come dice Ippocrate, e donando in più la sua esperienza di ex migrante per infondere ai pazienti il coraggio. Per affrontare il dottore e le sfide di un mondo nuovo.

Simona Carnino


Aboudala Dembelé, Mali

Il calcio che conta

Alle 6 del mattino è già sveglio. Per prima cosa rivolge la preghiera quotidiana a Oriente. Poi prepara il borsone. Tacchetti, calzettoni, parastinchi, scaldamuscoli, pantaloncini, una maglia a maniche corte, una felpa dell’Italia. Alle 7 è pronto per andare al lavoro, ma non prima di inviare il messaggio di rito: «Ricordatevi che stasera c’è allenamento. Cercate di essere puntuali. Vi aspetto davanti al cancello del campo alle 18.30». Il tono è quello compassato di un allenatore che convoca i suoi giocatori con la serietà asciutta di chi non fa tanti giri di parole. Proprio come Aboudala Dembelé, per gli amici Abu, che di giorno fa l’operaio e nel tempo libero è il mister di una squadra di calcio che unisce sotto la stessa maglia richiedenti asilo e rifugiati politici maliani residenti in alcuni centri di accoglienza di Torino.

Anche Abu è titolare di protezione internazionale. È arrivato dal Mali nel 2011, sulle rotte consuete che dalla Libia lo hanno portato in un centro di accoglienza torinese. «All’inizio non potevo lavorare e non conoscevo nessuno – racconta Abu -. Per cui ho iniziato a studiare l’italiano e poi, per non stare inattivo fisicamente, mi sono messo a giocare a calcio in un campetto vicino al centro».

Con un pallone, la fantasia e la forza dei suoi 25 anni, le cose hanno cominciato a muoversi. Da lì a poco è entrato a far parte dell’associazione sportiva dilettantistica Balun Mundial, fondata da un gruppo di ragazzi italiani e stranieri che, dal 2007, ogni estate organizza a Torino la «Coppa del mondo delle comunità migranti», una sfida all’ultimo gol per costruire uno spazio di incontro tra residenti e chi è appena arrivato in Italia.

Abu non ha perso tempo e ha portato il suo contributo costituendo la nazionale del Mali di cui è l’allenatore dal 2015. «Volevo comunicare a tutti che c’è una comunità di maliani a Torino», spiega Abu. La selezione dei giocatori è avvenuta nei centri di accoglienza, dove l’invito di Abu è stato accolto come un’opportunità per conoscere nuove persone in un ambiente divertente e multietnico. «Il calcio dà ai miei giocatori la possibilità di parlare italiano con i ragazzi delle altre nazionalità, di stare all’aria aperta e di imparare il concetto di puntualità che per noi africani a volte è un po’ vago – ride Abu -. All’allenamento non si sgarra. Chi non arriva puntuale non si allena. Così si impara la puntualità e la disciplina utile alla vita». In un passaggio educativo alla pari Abu cerca di insegnare quello che ha imparato sulla sua pelle. «So cosa significa stare in un centro di accoglienza – racconta il giovane -. La maggior parte della giornata non si svolge nessuna attività. Quando ho tempo libero, vado a trovare i ragazzi e parliamo. Provo a dare loro i miei consigli, li spingo ad andare a scuola e li ascolto. Fuori o dentro al campo, io ci sono sempre per i miei giocatori».

Sim.Car.

 


Fonti e Sitografia

  • www.iom.int -Sito dell’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim), con l’aggiornamento di arrivi e decessi in mare.
  • www.ecoi.net -European Asylum Support Office, Nigeria. La tratta di donne a fini sessuali, ottobre 2015.
  • www.asgi.it -Assistenza sanitaria per stranieri non comunitari (scheda).
  • s2ew.caritasitaliana.it -Rapporto sulla protezione internazionale in?Italia 2016, Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Sprar.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Simona Carnino Giornalista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe (vincitrice del premio Goldman) in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. Attualmente vive e lavora in Guatemala.
  • Carolina Lucchesini Videoreporter e digital strategist. Si occupa di comunicazione e giornalismo da diversi anni, realizzando reportage video e multimediali, documentari e campagne di comunicazione per l’agenzia .puntozero, di cui è cofondatrice (www.puntozerohub.com).
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto delle copertine: Le immagini di questo dossier sono tratte dalle puntate delle webserie «Passaggi». In prima di copertina Joelle Kamgaing e in ultima di copertina Abdullahi Ahmed.

 




Trump, Scalabriniane: Davanti a un muro si dimenticano pietà e misericordia


“Gli Stati Uniti d’America sono sempre stati un esempio di integrazione. Sono cresciuti e si sono sviluppati proprio grazie ai migranti. Quelli stessi migranti che oggi vengono respinti e contro i quali viene posto un muro. Non è cristiano, non è umano, immaginare che esseri di questo pianeta si respingano. Tornando ai concetti del Vangelo, quel muro fisico sarà abbattuto, come è sempre stato nella storia. Cristo che ci ha fatti passare dall’ostilità all’amicizia tra i popoli e abbattendo il muro di separazione ci ha regalato pace e riconciliazione”. Lo ha detto in una nota suor Neusa de Fatima Mariano, Superiora generale delle Scalabriniane, Congregazione di suore missionarie che sin dalla loro fondazione si occupa di migrazione. “La politica internazionale ora dovrebbe concentrare la propria attenzione su scelte miti, concilianti, di dialogo – ha aggiunto – Uno scontro, soprattutto in questo momento, può essere visto come una vera e propria dichiarazione di ostilità. E le vittime, anche in questo caso, sono i più bisognosi. Sono quelle tante, tantissime persone che con gli occhi pieni di speranza lasciano le proprie famiglie e fuggono da crisi economiche, politiche, sociali, ambientali. Non si può restare ciechi a tutto questo. Ci sono bambini che nell’età in cui loro coetanei in Europa e negli Stati Uniti sono in casa a guardare i cartoni animati diventano adulti all’improvviso. Si trovano a dover superare oceani e deserti guardando dal basso verso l’alto i loro traghettatori, che spesso senza scrupoli li lasciano morire”. Poi, ha proseguito suor Neusa: “I muri realizzati per dividere non sono mai una buona scelta e lo sono meno quando si tratta di respingere una categorie di persone che hanno edificato un paese come gli Stati Uniti d’America. Non è possibile associare i migranti ai criminali: non lo sono. Tutti abbiamo la stessa dignità nonostante non si abbia le stesse opportunità. Il dovere di tutti è di lavorare verso una umanità unita e non divisa. Davanti a un muro non c’è quella pietà cristiana che è il fondamento di una mano testa verso gli altri. Davanti a un muro si dimentica la misericordia del nostro Credo e del nostro ultimo Giubileo. Davanti a un muro si dimentica che davanti a un creato infinitamente grande, noi restiamo comunque infinitamente piccoli. Su tutto questo Donald Trump dovrebbe riflettere. Così come ha fatto scelte per la vita, scelga per quelle anime disperate che migrano nel mondo e che cercano difendere la propria vita e la propria famiglia”.

Suore missionarie di San Carlo Borromeo/Scalabriniane
Congregazione generale
Via Monte del Gallo, 68 – Roma
Ufficio stampa
Tel. 06.2118508



Europa: cervelli migranti


Sempre di più arrivano migranti con elevato livello culturale. Ma la valorizzazione delle loro competenze è ancora lontana. L’Unione europea inizia a parlare di «corridoi educativi» e alcune città italiane si muovono. Occorre inserire i talenti esteri. Il migrante, percepito come peso, può così diventare risorsa.

Le decine di migliaia di persone migranti che ogni anno concludono il loro drammatico viaggio verso l’Italia nei centri di accoglienza, per certi aspetti, non sono tutte uguali: uno dei fattori importanti che le differenzia le une dalle altre è il loro grado di istruzione. Tuttavia nessuna istituzione a livello governativo sembra ancora curarsene come si potrebbe e dovrebbe fare, nonostante l’inserimento attivo nella società di nuovi arrivati con alte professionalità possa essere un notevole valore aggiunto. Chi ha studiato in patria può diventare infatti un elemento chiave per favorire i percorsi di inclusione di altri stranieri e combattere i processi di radicalizzazione nel contesto sociale in cui andrà a collocarsi. Non solo. Il rischio è che la frustrazione crescente di chi non trova un’occupazione adeguata alle sue possibilità degeneri in fenomeni di marginalità e violenza.

Primi passi

Se lo stato italiano latita, non così fortunatamente fanno le associazioni religiose, le organizzazioni del volontariato, la società civile e molti enti di livello locale, che hanno già mosso i primi passi concreti per la valorizzazione del livello culturale dei migranti e hanno iniziato a valutare gli esiti delle esperienze capofila.

Un convegno, presieduto da Janiki Cingoli e Federico Daneo, direttori rispettivamente del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo) e del Centro piemontese di studi africani (Csa), cornordinato da Ilda Curti, rappresentante per l’Italia dell’Associazione delle città interculturali del Consiglio d’Europa, ricchissimo di qualificati interventi, si è svolto recentemente a Torino. Lo scopo era verificare le attività cosiddette di «capacity building» (letteralmente costruzione di competenze) delle cosiddette «associazioni diasporiche med-africane» – ovvero di quelle comunità che si fanno carico di accogliere e includere in società i migranti provenienti dalla costa africana del Mediterraneo – nelle realtà del capoluogo piemontese stesso e nell’area milanese.

Intanto anche l’Unione europea si sta muovendo per far emergere i rifugiati «high skilled», ovvero ad elevate competenze. Sono allo studio sistemi per valorizzare le loro lauree attraverso «corridoi educativi» e una cooperazione territoriale che tocchi atenei, ma anche fondazioni bancarie e Ong. «Finalmente l’Europa ha la sua strategia di diplomazia culturale per rafforzare la dimensione culturale ed educativa delle relazioni inteazionali». È il commento alla «Towards a Eu strategy in inteational cultural relations» (Verso una strategia Ue per le relazioni culturali inteazionali) adottata nel giugno scorso, di Silvia Costa, intervenuta al convegno come presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo. «La strategia – ha proseguito – fu proposta dall’Italia durante il suo semestre di presidenza. Ora l’Europa ha uno strumento potente che la può aiutare ad affrontare la nuova dimensione delle politiche culturali sempre più connesse con le politiche per lo sviluppo e la pace. Il conflitto drammatico nell’area del Mediterraneo, il terrorismo, l’emergenza dei rifugiati ci spingono con urgenza a rivedere modelli di cooperazione e di partenariato alla luce di un approccio interculturale e interreligioso, promosso dalla nuova strategia, anche in chiave competitiva ed economica». L’obiettivo è di arrivare a un piano globale di co-sviluppo (inteso come sviluppo nei paesi di provenienza in cui le associazioni della diaspora hanno un ruolo preciso), sfruttando le reti che regolano le migrazioni, ovvero le persone, le loro rimesse economiche, le loro competenze, le imprese sul territorio e i consolati.

Troppi sprechi

Su questo percorso oggi si incontrano troppi sprechi di risorse e competenze. Basti pensare agli 1,1 miliardi di euro – sui 3,3 miliardi investiti per la totalità delle operazioni di salvataggio e cure sanitarie – che si spendono ogni anno per tenere 130 mila persone nel limbo dei centri di accoglienza e degli ostelli dove sopravvivono abbandonati al loro destino (questi dati sono riferiti al 2015; mentre i rifugiati nel 2016 sono cresciuti a 170 mila con relativo aumento di spesa previsto a 1,6 miliardi). Questo modello di accoglienza costa allo Stato 35 euro al giorno per ciascuno di loro, cifra che sale a 45 se si tratta di minori (20 mila è il numero di quelli non accompagnati). E non sono soldi che finiscono nelle tasche dei migranti, come vorrebbero certe speculazioni politiche. Il vero «pocket money» per loro è di 2,5 euro giornalieri pro capite.

È necessario dunque rovesciare gli stereotipi che considerano l’immigrato un peso per la società. Papa Francesco l’ha ribadito più volte con forza: l’accoglienza deve essere bagaglio di ognuno di noi e i governanti non si possono permettere il lusso di salvare le banche e non trovare i capitali necessari a una accoglienza dignitosa per chi chiede aiuto per soddisfare i bisogni essenziali.

Le città di Torino e Milano hanno saputo offrire un esempio di ciò che si potrebbe ottenere mettendo insieme le loro esperienze grazie anche al retroterra antico di volontariato, welfare e istituzioni sensibili. Magari lo si può fare in nome del cosiddetto «altruismo egoista» che può sfruttare le risorse che il paese di origine ha speso per la formazione dei suoi cittadini. Un esempio viene dalla Germania dove, sotto il cappello propagandistico dello slogan di accoglienza di un milione di rifugiati lanciato la scorsa primavera da Angela Merkel, sono state inserite persone provenienti dalla Siria in maggioranza di ceto borghese, benestante e istruito, che sono così diventati risorsa e non peso per la società tedesca.

Il capitale culturale

Dunque qualcosa si muove. Lo certifica nero su bianco una ricerca dell’istituto romano di studi politici San Pio V, che sottolinea come l’immigrazione contribuisca a non abbassare il capitale culturale dell’Italia e conferisca spessore concreto alla «circolazione dei cervelli».

La presenza di scambi con l’estero di lavoratori con un livello di istruzione superiore offre un reciproco arricchimento. Non per caso però, la ricerca segnala come la circolazione dei migranti qualificati sia più accentuata nelle nazioni ad alto sviluppo, nelle quali si riescono a creare più posti ad alta qualificazione con conseguente inserimento di immigrati culturalmente preparati.

In Italia invece non solo non si è attrattivi, ma neppure si sa frenare l’esodo dei nostri laureati ai quali il paese ha destinato ingenti risorse in formazione, e di cui altri godranno i benefici. Ecco qualche dato statistico che parla da sé: da noi si spendono 134 mila dollari per formare un diplomato, 178mila per un laureato magistrale, 228 mila per un dottore di ricerca.

Nel periodo 2000 – 2011 i diplomati e laureati fuggiti all’estero sono stati 180mila, a fronte di un arrivo di 243mila laureati e 841mila diplomati stranieri. Tra il 2012 e il 2014 sono espatriati 60mila laureati italiani e 15mila sono rimpatriati, mentre gli stranieri hanno contato 100mila laureati in più, tra residenti e cittadini.

Per valutare l’impatto delle alte qualifiche sulla presenza straniera in Italia notiamo che nel censimento 2001 gli italiani residenti sono circa 54 milioni con il 7,5% di laureati, il 25,9% di diplomati, mentre gli stranieri residenti sono 1 milione 200mila con il 12,1% di laureati e il 27,7% di diplomati. Dieci anni dopo, nel 2011, la popolazione italiana passa ad oltre 56 milioni con l’11,2% di laureati e il 30,2% di diplomati, con incidenza di questi ultimi dunque in netto aumento. Quintuplicata rispetto al censimento del 2001 è nel contempo la presenza straniera, salita a 5,42 milioni di unità. Nel 2014, secondo l’Istat, la popolazione straniera residente con 15 anni e più conta il 39,7% di diplomati e il 10,3% di laureati, ovvero circa mezzo milione di persone, per cui si può affermare che questa presenza compensa numericamente il flusso dei laureati italiani verso l’estero, se non fosse che resta, come già sottolineato, troppo scarsamente valorizzata.

Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono nel contempo solo l’1,29% del Pil (contro il 2,03% di media nell’Ue) con le imprese private che battono largamente il settore pubblico, senza contare che un quarto degli investimenti privati in ricerca è fatto in Italia da imprese estere. Il risultato è che solo 1 manager su 4 ha una laurea, contro i 2 su 3 della Francia, fattore che non favorisce certo l’innovazione.

Un saldo positivo

Secondo un’altra stima del Dossier Statistico sull’immigrazione, datato 2015, stilato dal Centro studi e ricerche Idos di Roma e dalla rivista interreligiosa «Confronti», tornando al nodo lavoro, 2,3 milioni sono gli stranieri con un posto di lavoro, il 10,3% del totale degli occupati. In agricoltura, uno dei settori più esposti allo sfruttamento, lavorano ufficialmente 328mila braccianti nati all’estero. Le entrate fiscali e previdenziali totali, nonostante i fenomeni diffusi di caporalato e lavoro in nero, ricollegabili ai lavoratori immigrati sono state nel 2013 (ultimo dato disponibile) di 16,6 miliardi di euro contro uscite nei loro confronti di 13,5 miliardi, dunque con un forte saldo attivo, contribuendo con l’8,8% al valore del Pil nazionale.

Il problema del sistema Italia, conclude la ricerca dell’istituto San Pio V, non consiste dunque tanto nella mancanza di personale con un’istruzione superiore quanto nell’incapacità di usarlo in maniera adeguata, così da contenere la partenza dei talenti italiani e da inserire con maggiore apertura i talenti esteri, soprattutto extracomunitari.

È questa una delle scommesse da vincere per lo sviluppo futuro e la crescita equilibrata di tutto il nostro paese.

Mario Ghirardi




Profughi voci perseguitate dal coro


È una rete internazionale che aiuta un particolare tipo di profughi: intellettuali scomodi, minacciati dai regimi dei loro paesi. Connette città ospitanti in Europa e nel mondo. Dal 2006 sono 160 le persone accolte. Piccoli numeri che rappresentano intere popolazioni.

«Col primo, uno scrittore, la reazione dei vicini è stata di grande sconcerto. Non lo capivano, lui non salutava, spesso usciva in tuta mimetica, poi per molti giorni non usciva affatto, perché stava lavorando al suo libro. Poi è arrivata una coppia di iraniani, un teologo perseguitato per apostasia e la moglie, entrambi di mezza età, e sono stati subito molto amati. Potevano sembrare una coppia di contadini delle nostre colline». Così Maria Pace Ottieri, figlia dello scrittore milanese Ottiero Ottieri, a sua volta giornalista e scrittrice (è autrice, tra l’altro, di Quando sei nato non puoi più nasconderti dedicato all’immigrazione irregolare), ricorda le prime esperienze di accoglienza di scrittori perseguitati a Chiusi, cittadina di 8.000 abitanti sulle colline senesi.

Il primo, nel 2008, fu Victor Pelevin, popolare scrittore russo del dopo perestroika, seguito nel 2010 da Hasan Yousefi Eskevari con la moglie Golbabei Aliahmad Mohtaram. «Eskevari, studioso di storia, aveva fatto sette anni di prigione per avere affermato che la prescrizione di indossare il velo non si trova nel Corano», ricorda Maria Pace. La casa della famiglia Ottieri e la città di Chiusi sono inserite nella rete Ico, acronimo di «Rete internazionale delle città rifugio» (in inglese: Inteational Cities of Refuge Network). Della rete fanno parte 60 città in 16 paesi, per lo più in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Messico. Le «città rifugio» accolgono scrittori, giornalisti, artisti e musicisti costretti a lasciare il proprio paese. Il cornordinamento della rete, con sede nella città norvegese di Stavenger, riceve le richieste e propone gli abbinamenti tra artisti e città.

Intellettuali perseguitati

«La valutazione si fa in collaborazione con Pen Inteational, associazione di scrittori. La persecuzione deve essere documentabile. Altri criteri sono la quantità di produzione giornalistica o artistica, e la correlazione tra questa e le minacce», spiega Cathrine Helland, responsabile della comunicazione di Ico. «Per scegliere la città, dobbiamo valutare se sono aperte anche a coppie o famiglie o solo a singoli. Guardiamo anche alle relazioni diplomatiche tra paesi, per capire quante possibilità ci sono che l’autore possa ricevere un visto in tempi ragionevoli».

Gli oneri pratici e quelli economici, dall’alloggio a una borsa di studio con la quale gli autori si sostentano, spettano alle città.

Nel caso della Toscana, a farsi carico della parte economica è la Regione, mentre i comuni, di cui ora Chiusi è l’unico attivo, devono mettere a disposizione un cornordinatore che segua le persone nell’ottenimento del visto, nell’inserimento sociale, nell’accesso ai servizi. A Chiusi, la famiglia Ottieri dà la casa gratuitamente. In Norvegia i referenti del progetto sono in genere le biblioteche, mentre in città come Bruxelles o Cracovia sono associazioni letterarie o festival. Da paese a paese, costo della vita e burocrazia possono variare molto. «La formula che abbiamo trovato noi è chiedere visti per motivi di studio. Di fatto, gli scrittori cercano rifugio all’estero per continuare il proprio lavoro e la propria ricerca», racconta Marco Socciarelli, referente di Ico per il comune di Chiusi.

«C’è una forte correlazione tra le evoluzioni della situazione geopolitica e le richieste che riceviamo», riprende Cathrine Helland. «Nel 2014 abbiamo avuto un picco dalla Siria, e di recente sono molto aumentate quelle provenienti dalla Turchia, o dal Bangladesh, dove i blogger laici subiscono attacchi e minacce di morte, o ancora dal Burundi, dove le persecuzioni riguardano molti giornalisti radiofonici». In Bangladesh, nel 2015, per la prima volta uno scrittore che aveva presentato domanda a Ico, Ananta Bijoy Dash, è stato ucciso prima che potesse essergli proposta una città rifugio.

Dal 2006, anno della fondazione di Ico, le persone accolte sono state 160. Ma già dal 1999, molte delle città che aderiscono all’attuale rete partecipavano a un analogo progetto, nato su iniziativa di quello che allora si chiamava «Parlamento internazionale degli scrittori» presieduto da Salman Rushdie. Nell’ambito di quella prima iniziativa la Toscana ospitò diversi autori perseguitati, tra cui la premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievic.

Piccoli numeri, grande significato

I numeri sono piccolissimi, soprattutto se si pensa di paragonarli agli oltre 400 mila fuggiaschi che hanno tentato di entrare illegalmente in Europa, via terra o via mare, solo nei primi 9 mesi del 2016, secondo i dati dell’agenzia Frontex. Ma a chi ottiene ospitalità attraverso questa rete è concesso non solo un approdo, ma anche un viaggio sicuro.

«Per le città, l’adesione ha un valore allo stesso tempo concreto e simbolico», spiega Helge Lunde, tra i fondatori di Ico e suo attuale direttore. «Concreto, perché si può materialmente aiutare una persona a mettersi in salvo, e simbolico perché scrittori, giornalisti e artisti rappresentano in qualche modo il pensiero e i bisogni di altre persone, del loro pubblico, del loro paese. Ogni città che aderisce alla nostra rete consente a una voce fuori dal coro di continuare a farsi sentire».

Nel 2015, le richieste sono state 110 e le residenze offerte 27, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Nei primi nove mesi del 2016 sono arrivate 90 domande, 15 delle quali hanno potuto essere accolte.

Anni difficili

Il periodo di ospitalità è normalmente di due anni. «Nel caso di Malek Wannous, giornalista siriano, che si trova a Chiusi con la sua famiglia – riprende Marco Socciarelli – abbiamo deciso in via eccezionale di allungare la residenza per un altro anno. Loro vorrebbero tornare in Siria, ma è impossibile. E ora che la bambina più grande va a scuola non volevamo fosse costretta a un nuovo, traumatico spostamento».

Per gli scrittori e gli artisti, la città rifugio rappresenta la possibilità di continuare a lavorare, non senza difficoltà. «Si perdono fonti di guadagno, punti di riferimento, status», evidenzia Cathrine Helland. «A meno che un autore non sia molto conosciuto, non è semplice lavorare da un paese estero», fa eco Socciarelli. «Io sono contenta di arrivare a casa e sentire voci di bambini, sentire abitata questa casa, che mai si sarebbe aspettata persone da così lontano», dice Maria Pace Ottieri. «La cosa amara è che, per loro, questi due anni sono tra i più infelici della loro vita. Sono sradicati, sono dovuti partire per forza, non sanno quando e se potranno tornare indietro».

La loro voce, però, continua a farsi sentire. Anche con le scuole. «Molte volte i ragazzi nemmeno sospettano che si possa essere incarcerati o minacciati per le proprie idee», spiega Socciarelli. «La soddisfazione che abbiamo – aggiunge – è che qui a Chiusi sono stati completati libri importanti, che forse non avrebbero visto la luce senza il nostro aiuto».

Giulia Bondi


Intervista a Malek Wannous, rifugiato a Chiusi

Un posto dove andare

Malek Wannous

Gioalista e scrittore freelance siriano, Malek Wannous è originario di Tartous, città portuale di 150mila abitanti, affacciata sul Mediterraneo. Vive a Chiusi dal 2014, con la sua famiglia. Ha tradotto in arabo il libro di Vittorio Arrigoni «Gaza. Restiamo Umani».

Quando ha cominciato a sentirsi in pericolo, e quando ha deciso di partire?

«Appena iniziata la guerra ho sentito che non ero al sicuro. O che non lo sarei stato nei giorni e nei mesi successivi. Non ho pensato subito di lasciare il paese, perché avevo lavoro, casa, famiglia, e speravo che la guerra sarebbe finita presto. Ma erano speranze vane. Dopo tre anni di guerra, ho iniziato a cercare un modo per andarmene».

Come ha saputo dell’esistenza di Ico?

«Me ne avevano parlato degli amici. Ero a conoscenza delle vicende di alcuni scrittori che erano stati aiutati da Ico. Ho presentato domanda, ho aspettato l’esito e infine sono potuto partire per approdare in questo posto sicuro».

Come si è svolto il vostro viaggio fino a Chiusi?

«Da Tartous siamo partiti per il Libano, e da lì abbiamo preso un volo diretto, da Beirut a Roma. È andato tutto liscio, per me, per mia moglie che era incinta, e per mia figlia. Ma, allo stesso tempo, è stato molto difficile lasciare il nostro paese. Quando siamo arrivati a Roma faceva caldissimo, più caldo che da noi. Ho comprato il biglietto del treno per Chiusi e per la prima volta in vita mia ho usato una macchinetta automatica! Da noi i treni sono molto vecchi, non li rinnovano da anni, e per viaggiare usiamo soltanto i pullman. Alla stazione di Chiusi ci aspettava Marco Socciarelli, di Ico, con sua moglie e sua figlia. Ci hanno accompagnato loro alla nostra nuova casa».

Qual è l’ultima immagine che ha della Siria, e il suo primo ricordo all’arrivo in Italia?

«L’ultima immagine sono le persone. Vedevo la gente camminare, andare al lavoro, dal medico, o a fare spese. Tutti sapevano che il loro futuro era incerto, o molto oscuro. Quando siamo arrivati, ho pensato a mia madre, alla mia famiglia, ai volti delle persone che ho lasciato in Siria. Ho pensato perfino alle strade su cui camminavo ogni giorno, per andare al lavoro o per fare sport».

Com’è la vostra esperienza a Chiusi? Come riesce a lavorare da qui?

«Inizialmente è stata dura, perché non conoscevamo la lingua. Gli unici amici che avevamo erano Marco e la sua famiglia. Ci hanno aiutati in tutte le esigenze pratiche: la burocrazia per il permesso di soggiorno, l’assistenza sanitaria, l’iscrizione a scuola di mia figlia. Pian piano abbiamo fatto amicizia con i vicini, con le famiglie delle compagne di scuola, e abbiamo cominciato a uscire per una pizza, o una gita al lago. Il lavoro lo faccio a distanza: articoli e analisi politiche che trasmetto ai giornali via email, e di tanto in tanto qualche traduzione».

Che rapporti avete con la vostra ospite, Maria Pace Ottieri?

«Maria Pace e suo figlio ci hanno telefonato subito al nostro arrivo. Poi sono venuti a incontrarci, e ci hanno invitato nella loro casa di Milano. Siamo amici, e quando lei o suo figlio vengono a Chiusi passiamo ore insieme, a discutere di politica e di letteratura. Maria Pace è conosciuta per la sua generosità. Ci ha offerto la sua casa, come aveva fatto in precedenza per altri scrittori».

Con quali differenze culturali vi siete scontrati al vostro arrivo?

«Abbiamo trovato molte somiglianze tra la società siriana, libanese o palestinese e quella italiana. Anche i volti sono simili, forse perché apparteniamo tutti al Mediterraneo e abbiamo un’antica storia di scambi e relazioni. La società italiana è più modea e organizzata, perché per molti anni i governi dei paesi arabi non hanno fatto abbastanza per migliorare il tenore di vita delle popolazioni. Non abbiamo fatto troppa fatica a integrarci. Le differenze non mancano ma molte persone ci hanno aiutati a capire gli usi locali».

Come ha deciso di tradurre gli scritti di Vittorio Arrigoni (attivista e pacifista italiano ucciso a Gaza il 15 aprile 2011)?

«Avevo chiesto a un amico, traduttore e poeta siriano, di portarmi il libro dall’America, dove viveva, perché dalla Siria non potevo ordinarlo. Volevo solo leggerlo, ma quando sono arrivato alla ventesima pagina ho capito che dovevo tradurlo. Ho acceso il computer e iniziato subito. Pensavo che le storie di cui parla meritassero di essere conosciute, perché sono una testimonianza diretta dei crimini israeliani contro i civili palestinesi a Gaza. Ascoltare queste voci è indispensabile per “restare umani”. Ogni giorno sentiamo storie come quelle che lui racconta, e credo che ciascuno di noi sappia che il male fatto ad altri, oggi, potrebbe essere fatto anche a lui, in qualsiasi momento».

Cosa pensa del conflitto in corso in Siria? Come ha fatto a inasprirsi fino alla situazione odiea e cosa potrebbe fare la comunità internazionale per fermare il massacro di civili?

«La guerra siriana si è inasprita perché ogni guerra, dall’inizio, è destinata a diventare sempre più dura, fino all’apice della violenza, se non la si ferma. Un’altra ragione dell’escalation sono le interferenze di altre potenze. Sembra che la Russia stia fomentando la guerra per trae vantaggi quando sarà finita. Putin ha definito la Siria “il migliore campo di addestramento per il nostro esercito”. Usa la Siria per promuovere le proprie armi, sta firmando contratti per vendere armi a molti paesi. Credo che la comunità internazionale non abbia fatto seri tentativi di fermare la guerra, fin dall’inizio. Non hanno mai nemmeno cominciato a pensarci, fino a quando l’Isis e le ondate di profughi non hanno iniziato a bussare alle porte. Ora stanno cercando di intervenire, sono in ritardo, ma non è troppo tardi. Se agissero sulla Russia e sull’Iran, che tutto sommato sono paesi piuttosto deboli, questi obbedirebbero».

Cosa pensa della crisi dei rifugiati in Europa? La maggioranza delle persone, sebbene abbiano diritto alla protezione internazionale una volta arrivate, viaggiano lungo rotte pericolose e spesso mortali. Quale potrebbe essere, secondo lei, un’alternativa?

«Fermare la guerra, in modo che i siriani che ora sono in Europa possano rientrare in Siria. Fino a quel momento, credo si dovrebbero accogliere i rifugiati diversamente. Andrebbero migliorate le condizioni di vita dei campi profughi in Turchia, Libano, Giordania, sostenendo l’apertura di scuole in questi campi e assegnando borse di studio universitarie agli studenti siriani. In questo modo credo che i paesi europei subirebbero meno conseguenze e si tutelerebbero anche dal rischio che molti giornali hanno evidenziato, di fare entrare terroristi nascosti tra i rifugiati».

Dove vede il suo futuro quando lascerà Chiusi?

«Non sono ottimista. Tra pochi mesi dovrò lasciare l’Italia, a meno che non trovi un lavoro o qualche altra opportunità. Sarà difficile per me e la mia famiglia, e sarà un nuovo shock per mia figlia lasciare un luogo e degli amici con i quali si è ambientata per spostarsi di nuovo in un luogo sconosciuto. Sarà difficile imparare una nuova lingua ora che sa benissimo l’italiano. Ma al momento non abbiamo un posto dove andare».

Giulia Bondi




Cari missionari

Giustizialismo e furbetti

Dinnanzi a coloro che usano la parola «giustizialismo» i giudici hanno uno spettro di reazioni che va dall’arricciamento di naso all’indignazione profonda. Sicuramente anche il giudice Caselli (cfr. MC. 7/2016 p. 33) è tra coloro che non vanno matti per questa parola.

Per quanto mi riguarda, perplessità e disagi ancora più grandi me li creano anche la parola «furbate», la parola «furbetti» e certi complementi di specificazione che molti cultori della legalità o sedicenti tali, hanno preso l’abitudine di aggregare a queste parole. La domanda che vorrei porre è questa: i giudici del caso Tortora, che invece di chiedere scusa, invece di essere biasimati e di pagare per i grossolani e catastrofici errori compiuti, hanno fatto – grazie ad altri uomini di legge -, tutti quanti, una carriera da Mille e una notte, vogliamo definirli dei fedeli e integerrimi servitori dello stato?

Se è vero che la lotta contro i furbetti del quartierino, i furbetti dello scontrino, i furbetti del cartellino, deve continuare perché rappresenta un pezzo importante della lotta contro la corruzione, non è altrettanto vero che anche i furbetti del verbalino, i furbetti del bilancino, i furbetti del bisognino, dovrebbero essere adeguatamente sanzionati e condannati a restituire il maltolto? Siete sicuri che il vigile urbano beccato a timbrare in mutande sia più colpevole dei colleghi che, per far cassa e carriera, multano (e a volte ammazzano) i disabili, multano i veri invalidi, multano i senzatetto e il possesso del cartone da essi utilizzato come giaciglio per la notte?

Chi è più sporco, chi è più corrotto? Il soggetto che, in mancanza di meglio, fa un goccio di pipì dietro il cespuglio o i poliziotti che gli fanno la posta (o stalking?) per affibbiargli cinquemila euro di contravvenzione?

Vi sembra degno di un paese democratico e di una nazione civile – e qui mi rivolgo anche al giudice Caselli – che chi reagisce a tutto ciò dicendo «vergogna», dicendo «smettete di dir bugie», dicendo «smettete di mettere l’etica professionale dietro le esigenze di bilancio» debba beccarsi una condanna penale per oltraggio a pubblico ufficiale?

Distinti saluti.

Bartolomeo Valnigri
22/07/2016

Quello che lei dice purtroppo si basa sull’esperienza quotidiana. Ed è un fenomeno che ha radici antichissime, se anche un profeta come Isaia sentiva il bisogno di stigmatizzare con parole molto forti la corruzione dei potenti e di chi è in autorità: «I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri; tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (Is 1,23).

In questi anni, osservando certi stati africani, ho visto con tristezza il dilagare della corruzione, accelerata proprio dal cattivo esempio di chi è ai posti più alti del governo. Qui da noi, la disaffezione crescente verso la politica e i politici è aumentata esponenzialmente con il crescere della corruzione nei loro ranghi. Ma il rischio più grosso è che si perda il senso di quello che è giusto, il senso del dovere e della responsabilità sociale e che il cattivo esempio dei «grandi» diventi giustificazione per comportarsi male come loro.

È bello invece che rimangano delle persone, indipendentemente dalla categoria cui appartengono, che sono ancora capaci di avere un pensiero critico e autocritico e hanno il coraggio di dire la verità, anche quando è scomoda. Guai a noi se ci rassegnassimo perché «tutti sono corrotti».

Accoglienza

Egregio Padre,
ho letto il suo commento al mio scritto che avete pubblicato in MC 10/2016 con titolo «Tempo di crisi». Segno che l’argomento trattato è tuttora pressante. Dice, giustamente, che è spesso affrontato in termini fuorvianti. Certi commenti, come quelli da lei citati, sono il prodotto di ignoranza ed egoismo, tuttavia ciò, spesso, ha radici nel caos della gestione di una immigrazione di massa fuori controllo, con illegalità a tutti i livelli. Innanzitutto i nuovi schiavisti che gestiscono l’immondo commercio umano che le autorità di qualsiasi istituzione politica sociale o religiosa si guardano bene dal contrastare. Non è da molto che abbiamo smesso di criminalizzare gli schiavisti dei secoli passati mentre ora «tolleriamo» vergognosamente quelli attuali. Ciò ha generato migliaia di morti (solo quest’anno l’Onu dice che sono già 3.800 tra morti e dispersi).

L’accettazione indiscriminata senza regole spesso è fonte di comportamenti illegali da parte di questi «ospiti». Quasi ogni giorno viene violata la regola di ospitalità con comportamenti delinquenziali fino all’assassinio. Pertanto dire semplicemente: «Accoglienza accoglienza», senza regole, non fa che renderci complici, anche se indirettamente, di quelle migliaia di poveri esseri in fuga che sperando in una vita più degna di essere vissuta finiscono in fondo al Mediterraneo oltre a subire maltrattamenti e violenze durante le «trasferte» prima dell’imbarco, a cui si aggiunge il sospetto fondato del traffico di organi.

Questa «complicità», che viene tollerata per non offendere i buonisti a tutti i costi, fa pensare al pattume che si vuole nascondere sotto il tappetto. Purtroppo è verità scomoda e graffiante. Però la verità non fa sconti a nessuno. Mai. Come liquidare semplicemente per populismo la pressante richiesta di severe regole di ospitalità? Persino una signora di colore africana giunta anni fa in Italia ha detto recentemente durante una trasmissione televisiva «voi italiani siete bravi, mi avete accolto con amore, mi avete aiutato, ma ora con tutti quegli arrivi state esagerando». Anche lei populista allora?

Molto criticate le barriere anti immigrati in vari paesi. Certo. La causa principale è frutto della mancanza di regole che nessuno intende far applicare. Se in Europa ci fossero regole che a ogni manifestazione di insofferenza o peggio delinquenza l’immigrato venisse espulso non sarebbero necessarie barriere. Tutti populisti quelli che vogliono regole?

Persino Papa Francesco ha fruito di regole portandosi a casa dall’isola di Lesbo 12 migranti con passaporto, e (dicono alcuni giornali) con il visto per l’espatrio, mentre sulle nostre coste arrivano quasi tutti senza documenti. Populista anche lui?

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 02/11/2016

Continuiamo allora il dialogo iniziato su queste pagine lo scorso ottobre. Aggiorno solo la triste statistica dei morti nel Mediterraneo: 4.420 al 3/11/2016.

Comportamenti illegali e furbizie dei migranti.

Pochi giorni fa un amico mi raccontava, tra lo stizzito e il rattristato, di aver assistito a un corso di formazione per migranti nel quale 9 su 10 chattavano imperterriti sul cellulare invece di seguire la lezione. Altri amici mi hanno invece invitato ad andare a vedere un certo orto di cavoli ridotto peggio di quello, famoso, di Renzo.

Se uno volesse fare la lista di tutte le negatività nel comportamento dei migranti accolti in Italia, potrebbe scrivere un libro per la gioia di chi li considera semplicemente un problema e un pericolo.

Non sono un esperto in materia, ma credo che ci siano due ragioni fondamentali alla base dei comportamenti negativi: la prima è che molti di loro non vogliono stabilirsi in Italia, la seconda è che non si fidano degli operatori che incontrano. Senza la fiducia la relazione che ne risulta è quella di «guardie e ladri». Fare finta di non vedere queste situazioni difficili («buonismo»?) o vedere solo le situazioni negative («populismo»?) non aiuta né le persone che vogliamo accogliere né noi stessi.

Regole.

Se «buonismo» è chiudere gli occhi e dire «poverini loro», trattandoli patealisticamente e quasi con un senso di colpa, allora sono d’accordo a condannarlo. Ma neppure il moltiplicare le regole serve a molto. Anzi, più regole ci sono, più diminuisce la responsabilità e la libertà.

Avendo vissuto per molti anni in Africa, ho notato con preoccupazione come proprio in Europa si stia uccidendo la libertà, il buon senso e la responsabilità con un moltiplicarsi infinito di regolamenti su ogni cosa: dai cibi al commercio, dalla sanità all’etica, dalla famiglia al lavoro … Regolamenti che diventano poi così intricati da permettere ai furbi di abusae.

Detto questo, so bene che tra i rifugiati e migranti ci sono quelli che pensano di avere solo diritti e niente doveri, e anche coloro che sono arrabbiati con tutto il mondo (chi non lo sarebbe dopo aver passato quello che molti di loro hanno dovuto subire?). So anche che c’è chi crea nei migranti aspettative sproporzionate e fomenta i loro sospetti e diffidenze nei confronti di chiunque li voglia aiutare. Lo stesso succede anche per i cittadini dei luoghi di accoglienza. La strumentalizzazione politica in questo campo è ben nota.

L’accoglienza, complicata dal numero crescente dei migranti e rifugiati, è una realtà oggettivamente difficile da gestire. Per questo mi viene da chiedere se tutto il personale impiegato dalle moltissime cornoperative e onlus che con generosità si occupano di accoglienza, sia davvero all’altezza del delicato servizio che è chiamato a rendere e abbia ricevuto una formazione adeguata per diventare autorevole interlocutore di chi è nel bisogno.

Le regole ci sono, è importante osservarle e farle osservare, con fermezza sì, ma non con la forza, la paura o le botte (come ha denunciato recentemente Amnesty Inteational), piuttosto con persuasione, accompagnamento, formazione e necessaria autorevolezza.

Ricordo una storia contadina che ho sentito da bambino quando ancora si arava con l’aratro trainato dai buoi. C’erano quattro fratelli che, prestissimo al mattino, uscivano ad arare con un aratro trainato da due coppie di buoi. Tre di loro uscivano insieme, uno all’aratro e uno ciascuno per ogni coppia di buoi usando sempre urla e botte per farsi obbedire. Invece il quarto fratello usciva da solo per fare lo stesso lavoro, senza urla e senza pungolo. Il segreto? I tre fratelli si alzavano all’ultimo minuto e andavano subito fuori nei campi ad arare. Il quarto invece si alzava un’ora prima, nutriva e abbeverava bene i buoi e poi usciva ad arare, e gli bastava la voce per farsi obbedire.

Forse questa parabola c’entra poco, ma se invece di trattare i «miranti e rifugiati» come una categoria aliena e problematica, cominciassimo a considerarli semplicemente persone e a stabilire con loro rapporti «umani», faccia a faccia, forse sarebbe meglio per tutti. È la differenza tra chi erige barricate contro il «nemico» e chi improvvisa una festa di paese per il «fratello».

Probabilmente chi è trattato da «persona» è più disponibile a rispettare le regole di chi invece è trattato come un numero, un problema, un nemico.

Nel nostro paese, accanto a episodi negativi che finiscono facilmente in prima pagina – soprattutto quando servono agli interessi elettorali di alcuni -, abbiamo una marea di esperienze positive – vissute da persone normali – di cui si parla poco o niente, ma che sono la vera risposta «buona» a un dramma che è più grande di noi e di cui non si vede ancora la fine.

Fondamentalisti

Spett. redazione,
in merito alla risposta (il riferimento è a MC 7/2016 p. 5) vorrei fare alcune osservazioni. Definire fondamentalisti cristiani quelli che non riconoscono il papa è proprio degno di chi pensa di avere la verità in tasca come i cattolici. Fin dai primordi i padri fondatori del cristianesimo infischiandosene del detto: ama il tuo nemico, hanno creato apostati, eretici, hanno perseguitato e ucciso ebrei, pagani distruggendo i loro templi, streghe con una ferocia veramente paragonabile o anche superiore alle torture di oggi compiute da altri fondamentalisti, che sono soltanto assassini con una scusante religiosa, come lo erano gli inquisitori e persecutori del passato, non troppo passato. Pio IX applicava la pena di morte come gli altri papi ordinando di impiccare senza alcun rimorso. Inoltre molto prima delle multinazionali il Congo è stato terra di traffico di schiavi da parte dei gesuiti (ne possedevano12.000 nel 1666 così come i benedettini in Brasile fino al 1864). In Congo poi i belgi del cattolicissimo Leopoldo hanno creato uno sfruttamento superiore ad ogni concezione umana. Per i congolesi però nessun digiuno, come per i ruandesi o i vietnamiti. Come vede ogni setta ha la sua parte di orrori, come le ideologie e ogni credo. Che i sauditi abbiano fatto cadere i dittatori tolleranti è un fatto, e che siano amici di gruppi finanziari americani altrettanto, ma sono sempre le singole persone che compiono gli atti quindi loro vanno punite e non i libri da cui traggono idee. Non possiamo incolpare satana dei crimini umani visto che non si può arrestare come mandante, o no? Speriamo che in America vinca un pacifista che la smetta di impicciarsi del mondo e non un’ipocrita incapace di fare il segretario di stato. Come se la cava il cattolico Kerry per i conflitti in Africa? O se ne frega come tutti, tranne i sinceri missionari e volontari? La saluto cordialmente.

Luna verde
30/07/2016

Facciamo un’eccezione pubblicando una email anonima. Ecco alcune precisazioni.

Schiavi. Può darsi che i gesuiti avessero schiavi, ma certamente non in Congo (allora Regno del Congo) che era riservato ai frati Cappuccini.

I fondamentalisti cristiani non sono tali perché «non riconoscono il papa». Ci guardiamo bene dal considerare fondamentalisti gli Ortodossi, gli Anglicani, i Luterani, e via dicendo. Ma ci sono cristiani che sono fondamentalisti, nel mondo protestante, come anche in quello cattolico. L’enciclopedia Treccani così definisce il fondamentalismo: «Denominazione, sorta in ambito cristiano negli Stati Uniti agli inizi del 20° sec., ed estesa poi alle due altre religioni monoteiste, ebraica e musulmana, per indicare genericamente i movimenti, dapprima religiosi e culturali, poi anche sociali e politici, che, opponendosi a qualsiasi interpretazione evolutiva dei propri principi originari e fondamentali, ne propongono un’applicazione rigorosa negli ordinamenti attuali».

Verità in tasca e nefandezze varie.
Mi pare che i Cattolici abbiano cercato di imparare dai loro errori e che siano tra i pochi che abbiano chiesto perdono delle ingiustizie da essi perpetrate in nome della religione. Ha iniziato il Concilio Vaticano II, e papa Giovanni Paolo II e papa Francesco ne hanno continuato il cammino con coraggio. Mi sembra pretestuoso continuare ad andare a rivangare storie di secoli fa per togliere autorità morale oggi a chi cerca, senza nascondere un suo passato di errori, di vivere con coerenza il messaggio più originale e profondo del Libro (o dei «Libri» della Bibbia). Tenendo poi conto che questa testimonianza di amore, servizio e dialogo è stata pagata con oltre 100mila martiri nel solo XX secolo.

Quando queste righe saranno carta stampata sapremo già da un po’ chi ha vinto tra la Clinton e Trump (di fronte ai quali viene proprio da chiedersi cosa è successo agli Usa da essersi ridotti ad avere due candidati così). Ma definire Trump un pacifista, mi sembra proprio fuori luogo, anche solo per le simpatie che ha per Putin e il sostegno che riceve dalla lobby delle armi.

Bestemmie

Gentile redazione,
da parecchi anni si è notato un aumento di caccia a coloro che bestemmiano: non tanto nei nostri ambiti cristiani ma più da parte dell’Islam, ciò che conduce al sacrificio della vita stessa di coloro che non sanno difendersi e porre una adeguata spiegazione a titolo di scusa davanti ad enti competenti ed accusanti.

Dopo tanto tempo di riflessione, penso che la bestemmia, interpretata come offesa alla divinità, non può esistere: essa è indiscutibilmente nata come grido di aiuto rivolto a Dio, che poi è entrata in usanza come insulto. Ma come si può offendere la divinità? Può l’essere umano fare ciò? Come potrebbe essere giunto a tale idea? Assolutamente impossibile, per me è il grido a Dio di aiuto che aspetta ciò di cui più non riesce a rinunciare. La nostra religione cristiana per questo neppure ci condanna se chiediamo perdono, ma per i credenti dell’Islam è prevista perfino la pena mortale. Penso che si possa iniziare una ricerca atta a fare luce sulle origini della bestemmia. Distinti saluti, un vecchio lettore.

Gabriele Azzolini
21/10/2016

Non penso che la bestemmia sia nata come come «grido di aiuto», piuttosto come insulto e ribellione agli dei di un altro popolo (sia occupante e invasore o ritenuto inferiore al proprio). È infatti interessante che la bestemmia – come la intendiamo noi – non esista in mezzo ai popoli africani o altri popoli indigeni.

Che l’Antico Testamento e l’Islam abbiano sentito il bisogno di punire con la morte la bestemmia, è comprensibile se si guarda alla storia fatta di guerre di offesa e di difesa, combattute nel nome del proprio Dio quando non c’era distinzione tra sfera politica e quella religiosa.

Che poi Dio sia davvero offeso da una bestemmia è poco probabile. Parlare di «offesa» è un modo di dire nostro. Quando a metà ottobre, fermo ad un semaforo, ho sentito un motociclista snocciolare a gran voce le bestemmie più fiorite, non ho pensato che Dio fosse offeso da tanta stupidità – ero io a sentirmi offeso! -, piuttosto che provasse tanta pena per quella persona. Non sono le parole che offendono Dio, ma quello che c’è nel cuore delle persone, soprattutto quando ostinatamente rifiutano la sua logica di amore e si sentono realizzati nella loro rabbia, nella loro violenza e nel materialismo più egoista.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2148 scrive: «La bestemmia […] consiste nel proferire contro Dio – interiormente o esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei propositi, nell’abusare del nome di Dio. […] È blasfemo anche ricorrere al nome di Dio per mascherare pratiche criminali, ridurre popoli in schiavitù, torturare o mettere a morte». Lo stesso vale per l’uso del nome di Dio per scopi di magia (n. 2149) o per giurare il falso (n. 2050).

Un super like

Io sono comunista e non credente, ma nella vostra pagina e nella vostra rivista ho trovato molto di buono. Ad esempio, tutto ciò che riguarda l’Africa. E se siete riusciti a piacere a un comunista, sempre acerrimo critico verso le gerarchie cattoliche, come potete non piacere a chi è credente e cattolico?

Salvatore T.
su FB il 21/10/2017

Sulla nostra pagina Facebook (www.facebook/missioniconsolata) c’era questo commento in risposta alla nostra richiesta di mettere un like e superare la soglia dei 4.000. Con oltre 47.000 copie distribuite in Italia e nel mondo, dovremmo poter andare oltre i 10.000 presto! Metti il tuo like!

 




Accoglienza piccoli numeri grande efficacia


Nello scorso numero abbiamo raccontato dei migranti del Cas di Alpignano (Torino),  dell’appartamento di Porta Palazzo, in centro città, che ospita ragazzi afghani e del rifugio diffuso, cioè presso le famiglie. Continuiamo il racconto, cercando di fare un po’ di chiarezza sull’accoglienza ordinaria e sui famosi 35 euro al giorno per migrante, sui tipi di protezione internazionale e sui professionisti che lavorano in questo settore.

Cominciamo con una fotografia della situazione al 20 settembre 2016: secondo i dati del ministero dell’Inteo, i migranti sbarcati sul territorio italiano nel 2016 sono stati oltre 130 mila, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso ma meno rispetto al 2014. Nei centri di accoglienza si trovano 158 mila persone, di cui 740 negli hotspot, 13.700 nei centri governativi di prima accoglienza (Cara, Cpsa, Cda), 22.192 nei 430 centri governativi di seconda accoglienza (Sprar) e 120 mila negli oltre tremila centri temporanei come i Cas (Centri di accoglienza straordinaria), gestiti attraverso bandi dalle prefetture e collocati in spazi che vanno dall’appartamento alla struttura alberghiera.

Gli esempi di mala gestione che guadagnano le prime pagine dei giornali riguardano soprattutto i Cas, centri temporanei nati dalle ceneri dell’Emergenza Nord Africa del 2011: nonostante questi ospitino oltre tre quarti dei richiedenti asilo, si legge nel «rapporto InCAStrati» pubblicato nel febbraio 2016 dalle associazioni Cittadinanzattiva, Libera e LasciateCIEntrare, «non esiste una mappa pubblica dei Cas e non sono a disposizione informazioni chiare e accessibili sui gestori, convenzioni, gestione economica e, soprattutto, rispetto degli standard di erogazione dei servizi previsti da convenzioni e capitolati d’appalto». È questa opacità che rende possibile mascherare di accoglienza quello che è semplice business: dall’albergo che, come struttura turistica, non guadagna più e che si ricicla in veste di Cas foendo posti letto ma non i servizi ai richiedenti asilo, fino alle strutture fatiscenti, sovraffollate e prive di servizi igienici i cui gestori si intascano i 35 euro abbandonando i migranti a se stessi.

Da dove vengono e dove vanno i 35 euro?

A proposito dei 35 euro, il rapporto «La buona accoglienza» della Fondazione Leone Moressa di Mestre, del gennaio 2016, dettaglia i costi coperti con questa cifra analizzando i preventivi dei progetti Sprar presentati dai comuni al ministero: su 34,67 euro di costo pro capite giornaliero, 13,16 vanno in costi del personale, 4,30 in oneri relativi all’adeguamento e gestione delle strutture, 8,24 in spese generali per l’assistenza, 2,15 in spese relative ai servizi di integrazione, 1,31 in consulenze (ad esempio quelle legali), 0,30 in costi indiretti e 5,21 in altre spese. Volendo essere più precisi, si può confrontare queste voci di spesa con il modello di preventivo, facilmente reperibile sul sito Sprar, che gli enti devono presentare per ottenere l’affidamento dell’incarico: il pocket money dato ai richiedenti asilo, pari a circa due euro e mezzo al giorno, fa parte delle spese generali per l’assistenza, insieme a vitto, salute, trasporti, scolarizzazione e alfabetizzazione. Le spese per l’integrazione comprendono, fra le altre voci, i corsi di formazione, le borse lavoro e i tirocini. I costi indiretti sono il carburante, la cancelleria e l’allestimento degli uffici, mentre le generiche «altre spese» sono i costi di formazione, trasporto, assicurazione del personale, fideiussioni, spese per pratiche burocratiche come il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, le tessere telefoniche per gli accolti. Questo modello di preventivo nasce per l’accoglienza ordinaria nei centri governativi; il costo di 30-35 euro, a cui si giunge attraverso gli standard Sprar, si estende poi all’accoglienza straordinaria.

Le ricadute sul territorio dell’accoglienza fatta bene

«Quando gli enti gestori foiscono veramente i servizi previsti, il vantaggio non è solo per i richiedenti asilo: si crea anche un effetto di restituzione al territorio». A parlare è Davide Bertello, responsabile della cornoperativa Pietra Alta Servizi che gestisce diversi progetti fra cui quello al Cas di Alpignano (vedi puntata precedente). A Lemie, paesino a cinquanta chilometri da Torino, la cornoperativa gestisce un altro centro d’accoglienza all’interno di una struttura di proprietà del Cottolengo. «Lì abbiamo assunto sei operatori, tutte persone della zona», spiega Bertello, «ci serviamo nei negozi di alimentari locali, ricorriamo a elettricisti e idraulici del posto».

Nel 2015 la spesa prevista dal Viminale per l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano è stata di un miliardo e 164 milioni di euro, pari a circa lo 0,14 per cento della spesa pubblica. Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia e delle Finanze, ha riferito al «Comitato parlamentare Schengen, Europol e immigrazione» la cifra complessiva, che considera anche le operazioni di salvataggio in mare, le spese sanitarie e quelle per l’istruzione dei migranti, costi sostenuti da enti diversi dal ministero dell’Inteo. La spesa totale, nei dati del Mef, è pari a 3,3 miliardi per il 2015 e altrettanti (stimati) per il 2016, di cui i costi per l’accoglienza rappresenterebbero la metà, cioè circa un miliardo e seicento milioni. Se tutti gli enti gestori fossero «virtuosi», questa cifra toerebbe per la maggior parte sul territorio sotto forma di stipendi, affitti, acquisti di beni e servizi.

Ulteriore ricaduta è quella legata ai tirocini formativi per i migranti: ad esempio al Cas di Alpignano, riferisce Fabrizio, operatore del centro, ne sono partiti undici, sostenuti dalla cornoperativa Pietra Alta con trecento euro al mese per venti ore settimanali, mentre l’azienda paga i costi assicurativi e i versamenti Inail. Ad oggi, due dei richiedenti asilo lavorano nella manutenzione delle scuole, cinque in alcuni ristoranti di Torino come aiuto cuoco, due in aziende agricole, uno in un vivaio e uno in un negozio di conserve e olio.

Gli ostacoli all’accoglienza fatta bene

Il punto è che, data la poca chiarezza sugli enti gestori lamentata nel rapporto InCAStrati, è difficile quantificare l’accoglienza fatta bene. Il sistema governativo, o Sprar, è riconosciuto come il più efficiente perché ha meccanismi di affidamento e rendicontazione più rigorosi. Nelle parole, riportate da Vita.it, del prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale, «i Cas vanno eliminati, trasformandoli man mano in Sprar, progetti dove i capofila non sono privati ma i Comuni». Ma la partecipazione dei comuni è del tutto volontaria e, nell’ultimo bando, due su cinque dei posti Sprar disponibili sono rimasti vuoti. Segno che i comuni faticano ad aderire.

Il risultato, paradossale, è che magari in quei comuni i richiedenti asilo arrivano lo stesso, proprio nei Cas gestiti da privati e enti vari. «E così la comunità locale si trova una specie di astronave che atterra sul suo territorio», racconta Davide Bertello: decine, a volte centinaia di persone che vengono letteralmente catapultate in un quartiere, in un paese, senza essere state preparate a entrare in relazione con gli abitanti del posto e senza che questi siano pronti a riceverle, perché nessuno ha fatto un lavoro di mediazione.

La mediazione è fondamentale

Jacqueline è originaria dell’Africa Occidentale, fa la mediatrice interculturale e collabora con diversi enti che si occupano di accoglienza. «Che cosa risponderei a chi pensa che questo lavoro lo facciamo solo per i soldi?», dice con un sorriso un po’ amaro. «Credimi, se lo facessimo per quello non reggeremmo a lungo le dieci, quindici ore al giorno che ti capita di lavorare e la responsabilità umana che hai quando una persona che assisti ti chiama di notte in lacrime». Il ruolo del mediatore interculturale, continua Jacqueline, è quello di permettere agli italiani e ai migranti di conoscersi e magari di capirsi. Inoltre segue i migranti assistiti nelle procedure sanitarie e legali e garantisce un accompagnamento – anche se non di tipo psicologico – alle persone che hanno subito traumi dovuti alle violenze nel paese d’origine e durante il viaggio verso l’Italia.

Traumi come quelli patiti da Peter (nome di fantasia), che stava dormendo quando i terroristi di Boko Haram, una notte del gennaio 2014, sono arrivati nel suo villaggio nel Nord Est della Nigeria e hanno iniziato a sparare, distruggere e incendiare. Hanno preso lui per mostrare agli altri abitanti del villaggio che cosa sarebbe successo a chi si rifiutava di farsi reclutare, gli hanno colpito la mano con una pietra da mortaio fino a rompergli le ossa. Si è risvegliato nell’ospedale di una cittadina vicina, dove ha trovato due dei suoi figli, mentre della moglie e della figlia più piccola non ha avuto notizie. Durante tutto il suo racconto, che va dalla notte dell’attacco all’arrivo in Italia passando per la Libia, resta calmo e lucido; cede soltanto al ricordo dell’umiliazione subita in Libia quando, cercando lavoro per poter sopravvivere insieme ai due bambini che ha portato con sé, si è sentito rispondere: «Come fai a lavorare, tu? Sei solo uno storpio senza una mano». Arrivato in Italia nel giugno del 2015, ora ha ottenuto il ricongiungimento familiare con la moglie e la figlia, che – come ha saputo solo mesi dopo l’attacco al villaggio – erano riuscite a mettersi in salvo ed erano poi state trasferite, insieme ad altri del villaggio, in un campo rifugiati in Niger.

La preparazione per l’audizione in Commissione

«Un altro degli impegni a cui cerchiamo di fare fronte è proprio quello di mettere persone come Peter in condizioni di fare una descrizione chiara alla Commissione territoriale, che valuta la loro richiesta d’asilo», spiega ancora Jacqueline. Di questa descrizione chiara fanno parte, oltre che un racconto comprensibile e circostanziato, le prove da presentare alla Commissione, ad esempio le verifiche sanitarie che dimostrano le violenze subite.

«Questo è un lavoro fondamentale», insiste Davide Bertello. «È assurdo che una persona rischi di avere un diniego perché non è riuscita, magari a causa dell’emotività, a spiegare bene quello che le è successo». «E no – risponde Davide a domanda diretta – non facciamo da suggeritori. Anche in questo un ente gestore serio fa la differenza: aiuta i richiedenti asilo a capire che l’unica cosa che davvero conviene è dire la verità. Noi ascoltiamo le loro storie e li sproniamo a spiegarci meglio le parti lacunose e non credibili. E non ci chiediamo se hanno o meno diritto a una forma di protezione: questo non spetta a noi deciderlo, ma alla Commissione territoriale». Anche perché stabilire «chi ha diritto e chi no» non è per niente semplice e richiede una valutazione attenta delle singole situazioni. Le equazioni «persona in fuga dalla guerra uguale rifugiato che può rimanere in Italia, persona che non viene da zone di guerra uguale migrante economico che deve tornarsene al suo paese» sono semplicistiche. Vi sono infatti due tipi di protezione internazionale: la prima prevede il riconoscimento dello status di rifugiato a chi rischia di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, mentre la seconda riconosce il diritto alla protezione cosiddetta sussidiaria, di cui può beneficiare chi non rischia una persecuzione ma corre comunque il rischio effettivo di subire un grave danno se rientra nel proprio paese. Vi è poi la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Qualche storia per capire

Per farsi un’idea, è utile leggere alcune decisioni delle Commissioni territoriali e ordinanze dei tribunali ordinari nei casi di impugnazione. Se ne trovano raccolte dal sito meltingpot.org. Solo per citae alcune: la Commissione ha riconosciuto lo status di rifugiata a una cittadina nigeriana di Lagos vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale perché c’era un effettivo rischio di persecuzione per la donna, mentre il Tribunale di Bari ha accolto il ricorso contro il diniego della Commissione presentato da un cittadino pachistano, riconoscendolo come rifugiato perché omosessuale e cittadino di un paese dove l’omosessualità è reato. Ancora, il tribunale di Genova ha accordato la protezione sussidiaria a un cittadino del Gambia, perché il giovane è figlio di un oppositore torturato e ucciso in prigione e lui stesso era stato arrestato, riuscendo poi a fuggire dal carcere; il rientro in patria lo esporrebbe, secondo il giudice, al rischio di subire un danno grave. Un suo connazionale, un tecnico informatico arrestato per aver consultato un sito web vietato perché critico nei confronti del governo, si è visto invece riconoscere lo status di rifugiato dal Tribunale di Lecce. Infine, due cittadini del Bangladesh hanno ottenuto dal Tribunale di Trieste la protezione umanitaria: il giudice nella decisione ha tenuto conto di una serie di elementi, fra cui la situazione di «violenza indiscriminata nel paese d’origine, la giovane età e la peculiarità della vicenda».

Aumentano dinieghi e ricorsi

Ad agosto 2016 le venti Commissioni territoriali, più le sezioni, avevano respinto oltre il sessanta per cento delle richieste. I ricorsi, che danno diritto ai richiedenti asilo a restare sul territorio italiano in attesa delle sentenze, sono aumentati di altrettanto, intasando i tribunali ordinari a cui spetta l’esame. A detta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, i ricorsi accolti sono stati pochissimi ma altre fonti, secondo le quali le Commissioni territoriali giudicano in modo troppo superficiale, parlano invece di un alto numero di ricorsi accolti dai Tribunali proprio a riprova del cattivo operato delle Commissioni.

Quel che è certo è che i tempi si allungano: ad agosto la durata media di un procedimento di primo grado era di 167 giorni ma, rispetto ai quindicimila ricorsi presentati, le sentenze erano meno di mille. E qualcuno avanza anche dubbi sull’effettiva preparazione dei giudicanti sulle realtà di provenienza dei richiedenti asilo. Vie Di Fuga, l’osservatorio permanente sui rifugiati legato all’Ufficio Pastorale Migranti di Torino, riportava nel 2105 uno studio di Ecre – European Council on Refugees and Exiles in cui si discutevano, fra l’altro, le fonti di informazione sui paesi d’origine dei richiedenti asilo utilizzate dai vari enti europei che valutano le domande. Per quanto riguarda l’Italia, i risultati lasciano perplessi: le Commissioni territoriali raramente menzionano queste fonti, mentre i tribunali – che invece le indicano più spesso – citano anche siti come Viaggiaresicuri del ministero degli Esteri, che però è pensato per gli italiani, turisti o lavoratori, che devono intraprendere un viaggio all’estero e contiene informazioni di «dubbia pertinenza con l’ambito della protezione internazionale».

Chiara Giovetti




Mussulmani seconda generazione Italia


Introduzione

Seconda generazione

Terrorismo e fondamentalismo islamico rischiano di riaccendere uno «scontro di civiltà» nei paesi europei. In questa situazione, che ruolo possono giocare le seconde generazioni?

Negli ultimi mesi terrorismo e fondamentalismo islamico sono tornati prepotentemente sulle prime pagine dei giornali, portando con sé un’isteria collettiva che richiama le paure dello «scontro di civiltà». Il terrorismo e i suoi effetti collaterali hanno, infatti, ricadute importanti sulle stesse comunità islamiche in Europa e sul faticoso processo di integrazione nelle comunità in cui si trovano. Ai musulmani che vivono nei paesi europei viene chiesto con forza di prendere posizione: condannando, dissociandosi dagli estremisti, cercando spiegazioni ai gesti folli, per «tranquillizzare» le società in cui vivono. Gioalisti e accademici si sforzano allora di inquadrare nuove figure con cui poter dialogare, da poter «integrare» o già «integrate»: il «musulmano moderato», il «musulmano europeo». Cercando di dare etichette, però, talvolta, si viene a generare ancora più confusione, rendendo sempre più difficile trovare interlocutori adeguati perché, al di là delle prese di posizione pubbliche e ufficiali, molti sono i punti critici che rimangono aperti: l’esistenza o meno di un Islam europeo o italiano, l’influenza dell’Islam politico, il rapporto tra sfera politica e sfera religiosa, il ruolo della secolarizzazione.

A questi elementi va aggiunta la crescita di una nuova generazione di musulmani di origine straniera in Italia che, nell’ultimo decennio, ha raggiunto l’età adulta, e il confronto (talvolta lo scontro) tra padri e figli sulla diversa visione della religione e del ruolo di questa nella società d’adozione, sulle nuove forme di riappropriazione di rituali, tradizioni e usanze, sulla rivisitazione e rinegoziazione di pratiche e credenze, che riflette una crescente autonomia soggettiva dei più giovani dalla cultura ereditata. La partecipazione a un contesto democratico, l’uso di una lingua differente da quella della propria comunità d’origine, l’immersione totale in luoghi di socializzazione italiana condizionano, infatti, le scelte dei giovani musulmani, contribuendo significativamente a una messa in discussione e, spesso, a una reinterpretazione critica dell’appartenenza religiosa. Come ha scritto la ricercatrice Anna Granata, i giovani spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica».

Si riscontra, insomma, un progressivo distacco da un Islam «etnico» e l’affermazione di una relazione personale con la dimensione religiosa. I giovani musulmani non vedono più l’Islam come una mera riproduzione di pratiche religiose del paese di origine dei genitori in un nuovo contesto. L’appartenenza religiosa delle seconde generazioni si configura piuttosto come uno stile di vita legato a una scelta: scelta che aiuta a comprendere sé stessi e sentirsi parte attiva della società.

Viviana Premazzi

SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN
SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN

Musulmani d’Italia

In Italia, l’appartenenza religiosa, in quanto dato sensibile, non viene rilevata dalle analisi Istat. Per questo le stime, foite dai diversi enti e istituti di ricerca, possono variare significativamente: il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) nel 2012 parlava di 115mila musulmani italiani, tra immigrati e convertiti, Camillo Regalia di Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) alla conferenza Metropolis del 2014 li stimava in 258mila. Più alti sono invece i numeri foiti dal Pew Forum on Religion and Public Life: nel 2010, secondo l’istituto, i musulmani in Italia erano già 1.583.000, dato che si avvicina a quello dichiarato dal presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) 1 milione e 700mila, e stimato nel Dossier Immigrazione 2015 curato da Idos (Centro studi e ricerche): più di 1 milione e 600mila. Tra i musulmani, oltre agli immigrati di prima generazione, troviamo ora anche una consistente presenza di «musulmani di seconda generazione», ossia giovani di fede musulmana e di origine immigrata, ma nati in Italia. (Vi.P.)

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA' MUSULMANA DI REGGIO
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA’ MUSULMANA DI REGGIO


L’analisi

Stessa fede, modalità diverse

La prima generazione di immigrati musulmani ha visto l’Islam come un elemento di
riconoscimento e rafforzamento identitario e come un antidoto alla solitudine e all’isolamento. La seconda generazione (ovvero i figli) non rifiuta la religione, ma ha avviato un (lento) processo di revisione critica e di adattamento al contesto di vita del paese d’adozione. Nel contempo, l’affermazione delle nuove tecnologie ha anche facilitato la diffusione di visioni radicali.

Ragionare di religione in emigrazione spesso significa tracciare una linea di confine netta fra la religiosità della prima generazione e quella della seconda, ritenuta spesso più secolarizzata. Tuttavia, risultati di indagini empiriche recenti come quella realizzata da Abis Analisi e Strategia nel 2011, G2: una generazione orgogliosa1, hanno mostrato, invece, che la religione può giocare un ruolo significativo anche nelle vite dei giovani di seconda generazione, contrariamente a quanto l’esperienza degli immigrati europei dei secoli scorsi aveva evidenziato2.

L’esperienza migratoria, infatti, è certamente esposta a pressioni assimilazioniste, ma, per contro, è anche un’esperienza in cui, in presenza di un grado sufficiente di tolleranza e di possibilità d’espressione, i migranti tendono a riscoprire e riproporre le loro tradizioni e identità religiose3. Questo è particolarmente vero quando entrano in campo i figli e quindi la trasmissione dell’identità culturale.

Spesso per la prima generazione il fatto di trovarsi in una realtà nuova, senza riferimenti linguistico-culturali familiari, ha favorito il ricorso alla religione come elemento di riconoscimento e rafforzamento identitario, ma anche come antidoto alla solitudine e all’isolamento. Questo soprattutto perché la frequentazione delle moschee e dei luoghi di culto permetteva l’incontro con connazionali con cui condividere esperienze e bisogni. È però con il passaggio da una migrazione temporanea (o percepita come tale) a una di radicamento e stabilizzazione che si sono concretizzate nuove forme associative per la trasmissione della propria religione ai figli e nuove richieste nei confronti della società italiana, ad esempio riferite alla libertà di culto.

La pratica religiosa in un nuovo contesto

La socializzazione dei giovani in Italia dà vita a percorsi autonomi di relazione con il sacro: nascono nuove riflessioni sulla propria identità personale e sull’appartenenza religiosa personale e collettiva. La fede non viene abbandonata, ma rivista e adattata al contesto di vita quotidiano, traducendosi in un pluralismo valoriale che rivendica un proprio riconoscimento4. I giovani infatti spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica»5. Studiando l’idea che i figli hanno del contesto religioso familiare, si riscontra l’avvio di un processo di revisione e reinvenzione delle pratiche religiose. Se per le prime generazioni vivere la propria fede in emigrazione significa spesso mantenere anche le tradizioni religiose-culturali del paese di origine, per i figli non è più così. Le strategie di adattamento sono molteplici e in alcuni casi si riscontra un certo interesse per l’approfondimento dei contenuti fondamentali della propria fede, per reagire a un contesto di vita in cui coesistono secolarizzazione e pluralismo religioso, fenomeni che mettono in discussione valori e principi tradizionali6.

Come evidenzia la professoressa Jocelyne Cesari (University of Birmingham) a proposito dei musulmani in Francia, anche la secolarizzazione in atto nel paese ha influenzato i giovani musulmani spingendoli, in molti casi, a individualizzare e privatizzare la loro religione. Questi processi, secondo Oliver Roy (Istituto universitario europeo), mettono anche in discussione l’idea stessa di una comunità musulmana «unica» in Europa: «Non esiste un Islam occidentale, esistono musulmani occidentali». L’individualizzazione può significare maggiore libertà di adattare alcune regole a determinati contesti o di sviluppare forme inedite di mescolanze e sincretismo, ma può anche portare a orientamenti fondamentalisti e radicali, tendenza ulteriormente complicate dalla diffusione delle nuove tecnologie che ha aggiunto nuove opportunità ma, parallelamente, nuovi rischi. L’uso di internet e dei canali satellitari può infatti portare allo sviluppo di interpretazioni «bottom up» dell’Islam (interpretazioni fai da te della religione), un Islam «cut and paste» (un Islam taglia e incolla che ognuno si costruisce prendendo quello che più gli piace o gli fa comodo), eclettico, dal quale le persone possono prendere ispirazione a seconda delle proprie preferenze. L’incontro online con particolari messaggi o predicatori può anche legare i giovani nati in Italia a pratiche religiose lontane dalle loro esperienze familiari e favorire la diffusione di visioni radicali e inconciliabili con il contesto di vita, producendo situazioni d’isolamento e straniamento che portano a rifugiarsi sempre più in ambienti «protetti», nella rete o nella vita reale.

Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Oltre le moschee e i centri islamici

Il crescente individualismo dei giovani musulmani con riferimento alla fede islamica può essere collegato alla perdita d’autorità delle organizzazioni religiose, che non sono più in grado di trasmettere i loro valori e di rispondere alle domande e ai bisogni delle nuove generazioni. Per gli adulti immigrati e quindi per le istituzioni da loro create (moschee e centri islamici) è infatti difficile comprendere fino in fondo il contesto in cui i giovani crescono e socializzano. Alle difficoltà e alle paure dei genitori che i figli seguano l’esempio dei coetanei italiani e quindi perdano i propri valori tradizionali, fa da contraltare, però, la cosiddetta «forza della numerosità», che sta diventando un aspetto importante nel rapporto fra giovani e religioni. Per i figli dell’immigrazione, infatti, la sensazione di essere «come un pesce fuor d’acqua» si manifesta quando essi assumono comportamenti che li distinguono dalla maggioranza dei coetanei. Tuttavia, l’aumento della visibilità delle famiglie musulmane, del numero degli studenti che a scuola si dichiarano musulmani, delle ragazze che indossano il velo e di un protagonismo associativo legato alla religione può diventare un terreno favorevole all’emersione di identità religiose latenti, inibite dal timore della discriminazione. La religione e le associazioni religiose create dalle seconde generazioni, in questi casi, sembrano soddisfare il desiderio di trovare un punto di riferimento morale e il proprio posto nel mondo, evidenziando la propria originalità, all’interno di una precisa appartenenza. L’Islam praticato insieme ai propri coetanei offre stabilità, un quadro in cui si può vivere da musulmani nella società italiana, continuando però a interrogarsi sia rispetto all’identità religiosa dei propri genitori in Italia, sia rispetto all’identità religiosa percepita nei paesi d’origine, in cui essere musulmano va per così dire da sé e determinati comportamenti non richiedono continue giustificazioni, come invece avviene in Italia.

Le associazioni musulmane dal «chi siamo» al «cosa possiamo fare»

La nascita di associazioni musulmane di seconda generazione, come ad esempio quella dei «Giovani Musulmani d’Italia», ha attirato l’attenzione degli studiosi sociali per la sintesi che tali realtà sembrerebbero esprimere tra religiosità dei padri e religiosità dei figli e per la capacità di porsi come musulmani in Italia, protagonisti nella costruzione della società italiana. Le associazioni sembrano infatti esprimere la richiesta di uguaglianza di questi nuovi italiani che non si limitano a chiedere di essere riconosciuti come cittadini liberi di professare le proprie convinzioni religiose, ma domandano anche di partecipare attivamente alla società, al pari dei loro coetanei non musulmani. Oltre quindi a offrire formazione e aggregazione per i propri membri, le associazioni superano l’atteggiamento rivendicativo di diritti tipico delle prime generazioni e, forse considerando ormai acquisito il loro riconoscimento in quanto associazioni di italiani musulmani, guardano al di là dei confini della propria religione e della propria cultura di origine per proporre e realizzare insieme ad altre associazioni e singoli italiani progetti e attività in ambiti diversi. Ci troviamo quindi in presenza di una nuova generazione che non si accontenta più solo di esserci, ma che vuole partecipare attivamente alla costruzione di significati, che cerca quotidianamente di conquistare i propri spazi di azione e rivendicazione, sia rispetto alle prime generazioni sia rispetto all’intera società italiana. Superato il passo del «chi siamo», ora le associazioni sembrano cercare di rispondere alla domanda del «che cosa possiamo fare» in relazione al contesto sociale in cui sono inserite. Per le seconde generazioni, il riferimento all’immigrazione e alla diversità deve essere abbandonato: la relazione è sullo stesso piano, tra (quasi) cittadini7, ovvero tra residenti che si impegnano per il bene comune della comunità e della città in cui vivono.

Il cambiamento è significativo: da immigrati considerati destinatari di interventi, i giovani musulmani vogliono diventare coprotagonisti nei processi di costruzione delle politiche pubbliche. La seconda generazione perciò non confina più l’Islam a una questione personale, «da immigrati», ma cerca di far entrare il discorso religioso nel più ampio dibattito pubblico sul pluralismo, liberandolo dai suoi legami con l’immigrazione, di cui spesso i nuovi attori non hanno alcuna esperienza.

L’obiettivo di partecipazione si è tradotto, nei fatti, in un’idea di cittadinanza «praticata». La seconda generazione aspira a essere riconosciuta come partner, ad avere un ruolo attivo negli eventi culturali delle città, a intervenire laddove possibile nei processi decisionali sostenendo l’idea che l’Islam è compatibile con forme di cittadinanza attiva.

Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Le associazioni: i punti critici

Le aspirazioni però spesso si scontrano con la realtà, che vede le associazioni di seconda generazione, pur apprezzate da gran parte dei gruppi politici locali, non ancora completamente in grado di rappresentare l’Islam davanti alle istituzioni, anche per tensioni intee alla comunità islamica soprattutto riguardo ai processi di selezione delle leadership.

Un altro aspetto importante da mettere in luce è la relazione di queste associazioni con i propri membri. Essa infatti pone anche dei rischi, come ad esempio, quello di porsi come l’«unica vera via», quasi che l’appartenenza associativa risulti più importante dell’appartenenza religiosa, al punto che solo l’associazione possa pretendere di porsi come rappresentante dell’Islam. Il rischio è anche che, per i membri, le associazioni possano trasformarsi in un ghetto che chiede alla società italiana spazi di partecipazione e di riconoscimento, ma esclude anime e visioni diverse al proprio interno. Se le associazioni possono infatti configurarsi come un ponte tra la cultura islamica e occidentale, come pure tra i padri e i figli della nuova presenza musulmana in Italia, il rischio è che si trasformino in realtà che aderiscono incondizionatamente al pensiero dei padri o che cercano di riproporre modi di vita e pratiche proprie dei contesti di origine. Si tratta di un rischio concreto soprattutto in relazione alle modalità con cui si strutturerà nei prossimi anni l’egemonia religiosa e culturale nel confronto tra le generazioni. La sfida è rappresentata dalle relazioni che si sviluppano con la generazione dei genitori e dal modo in cui interagiscono con le esigenze della fedeltà e il conformismo. Questioni come l’autorità e la rappresentanza hanno, infatti, strettamente a che vedere con le dinamiche intergenerazionali, anche in relazione al modo in cui le prime generazioni considereranno l’Islam dei figli: se confinato in associazioni giovanili di «eternamente giovani», se cornoptato per influenzae gli orientamenti o se riconosciuto come una «terza via» in grado di esprimere autorità e rappresentanza (viste le competenze relative al contesto italiano e a quello di origine). La sfida ancora tutta da giocare riguarderà proprio la capacità dell’associazionismo islamico di sviluppare processi trasparenti di formazione delle leadership, in grado di garantire indipendenza e pluralismo. Al momento la creazione di una propria leadership è una delle questioni più importanti con cui si sta confrontando l’Islam in Italia. Il processo di selezione, in particolare rispetto ad alcune realtà associative giovanili, rischia di essere connotato da derive nepotiste, soprattutto per quanto riguarda la formazione teologica e culturale dei quadri, restando ancora troppo orientata verso (e influenzata da) i paesi di origine.

Viviana Premazzi

Note

(1) Abis Analisi e Strategia, G2: una generazione orgogliosa, Rapporto di ricerca, Milano 2011.
(2) Joceyline Cesari, Sean McLoughlin, European Muslims and the Secular State, Ashgate, London 2005.
(3) Viviana Premazzi, Religioni in migrazione. Intervista a Maurizio Ambrosini (Milano, 27 novembre 2014), in Giovanni?Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 75-77.
(4) Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
(5) Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010), pp. 86-100.
(6) Cfr. Luisa Deponti, Migrazione e religione: la prospettiva dei giovani della seconda generazione, «Corriere degli Italiani», 3 ottobre 2012.
(7) Diciamo «quasi» perché molti musulmani, pur nati in Italia, non hanno ancora la cittadinanza, dato che la legge attuale non è basata sullo «ius soli».

Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall' associazione Papa Giovanni XXIII
Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall’ associazione Papa Giovanni XXIII


L’esperienza

Oratori, un passo avanti

Nato come luogo di rafforzamento della religione cattolica tra i più giovani, da qualche anno l’oratorio ha attenuato questa caratteristica originaria. Oggi, soprattutto nelle regioni del Centro Nord, l’istituzione accoglie molti ragazzi stranieri – i numeri parlano del 20-25% -, indipendentemente dal loro credo religioso. Per gli stranieri la motivazione è quasi sempre strumentale e la grande maggioranza dei genitori dei ragazzi non partecipano alle attività. Tuttavia, il ruolo che giocano gli oratori nel superamento delle differenze è rilevante.

Nel contesto italiano, in particolare nel Centro Nord, l’oratorio è rimasto nel tempo un luogo importante di socializzazione e punto di riferimento sotto diversi aspetti per molti bambini e adolescenti, oltre che per le loro famiglie.

Anche se la dimensione religiosa è la base e il cardine di tutte le attività che l’oratorio propone, non sembra rappresentare un elemento discriminante per chi non professa la religione cristiano cattolica. Oggi si assiste infatti a una diminuzione della partecipazione da parte dei giovani di origine italiana e un aumento nell’uso di strutture e servizi offerti dall’oratorio da parte dei giovani di origine straniera e delle loro famiglie, anche se, come vedremo più avanti, questo uso è nella maggior parte dei casi strumentale.

L’oratorio nasce come una struttura aperta a tutti e pronta ad accogliere anche coloro che esprimono bisogni peculiari: esso è, per sua natura, in dialogo con il contesto locale nel quale è inserito ed è attivo protagonista nei cambiamenti che coinvolgono la comunità alla quale appartiene e coinvolto nelle problematiche che emergono1.

Cosa dicono le ricerche

Nel 2015, secondo la ricerca Ipsos L’oratorio oggi, commissionata dalla Fom (Federazione oratori milanesi) e da Odielle (Oratori diocesi lombarde), gli oratori in Lombardia erano 2.307. Nel 15% di questi si svolgono attività specifiche per gli stranieri. In media, infatti, almeno un bambino su dieci che frequenta l’oratorio è straniero e di questi un terzo è musulmano. Anche in Piemonte, negli oratori salesiani, già nel 2008, il 21% dei ragazzi che li frequentavano erano stranieri2 e provenivano soprattutto da Maghreb, Perù, Ecuador e Brasile. In alcuni oratori delle diocesi lombarde – come, ad esempio, Cremona, Lodi e Milano – la presenza di minori stranieri raggiunge percentuali vicine al 40- 50% di tutti i frequentanti3. Nei diversi oratori si trovano racconti e pratiche diverse dovute anche alle diverse caratteristiche delle zone e della tipologia di immigrazione.

Secondo la ricerca Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione a cura di Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio Pastorale Migranti Diocesi di Milano, l’oratorio viene scoperto per la prima volta dai ragazzi stranieri soprattutto grazie al doposcuola4 o ai corsi di lingua italiana, organizzati in genere per gli adulti, i genitori, che spesso devono portare con sé i figli piccoli, o grazie ad amici e compagni di scuola che invitano a giocare negli spazi all’aperto o nelle squadre sportive. Nel primo caso sono per lo più gli insegnanti della scuola a parlare ai ragazzi della possibilità di frequentare un doposcuola e dell’aiuto che potrebbe dare loro sia per l’apprendimento della lingua sia per un sostegno scolastico più generale.

Più rare sono le situazioni per cui la prima conoscenza avviene grazie all’iscrizione, da parte della famiglia, all’oratorio estivo, oppure attraverso la partecipazione alla messa e al catechismo5.

Secondo la ricerca condotta dalla Caritas Ambrosiana6 sui doposcuola nella diocesi di Milano, più del 40% dei ragazzi e delle ragazze che li frequentano è di origine immigrata con punte del 90% nei quartieri popolari di Milano. Questo dato supera il 50% nella città di Milano e nella zona di Lecco mentre nelle altre aree della diocesi tale valore si attesta intorno al 30- 35%. Nella sola diocesi ambrosiana sono presenti quasi 200 doposcuola, nella maggior parte di essi sono coinvolti prevalentemente volontari: universitari, insegnanti e pensionati.

In fila per l’oratorio estivo

L’oratorio estivo è uno dei momenti più importanti nella vita della struttura ed è, sempre più, un’occasione fondamentale di condivisione di esperienza tra italiani e stranieri e di educazione ai valori che sono comuni a tutte le nazionalità e le religioni: l’amicizia, il rispetto dell’altro, l’onestà7.

L’indagine Educare generando futuro mette in luce come l’oratorio estivo risulti essere tra le attività maggiormente frequentate dai ragazzi di origine straniera: la percentuale di minori stranieri si attesta, infatti, al 27% circa, sia per i maschi sia per le femmine. Sempre secondo i dati della ricerca, sul totale dei ragazzi stranieri presenti negli oratori estivi, la percentuale di cattolici si attesta al 60,2%; i musulmani tra i minori immigrati sono invece il 26,9% e coloro che appartengono ad altre confessioni cristiane rappresentano circa il 10%.

È possibile anche che alcuni ragazzi di origine straniera, i più grandi, dopo i primi anni da «utenti/usufruitori di servizi», prendano degli impegni e delle responsabilità in oratorio, come il compito di allenare una squadra sportiva, di fare l’animatore all’oratorio estivo o, più raramente, di partecipare agli incontri di catechismo o di confronto e riflessione settimanale del gruppo adolescenti. In quest’ultimo caso, può avvenire che i momenti di preghiera non siano vincolanti per loro (possano cioè non pregare) qualora siano di religione non cattolica. Come spiega il sociologo Maurizio Ambrosini (Università di Milano), infatti, «l’oratorio non viene percepito come un luogo di indottrinamento cattolico. Alcuni lo frequentano solo per le attività sportive, per altri invece è anche un’occasione di impegno»8. È quella che la professoressa Paola Bonizzoni (Università Milano Bicocca) chiama «inclusione non partecipante»: «I ragazzi hanno la possibilità di fare comunque un’esperienza di spiritualità e di riflessione che trascende (in quanto universale e connaturata alla natura umana) la specificità (e la padronanza) del linguaggio cattolico»9.

Don Andrea Plumari, della parrocchia di Precotto, indica (un suo commento anche a pagina 44, ndr) diversi atteggiamenti adottati da chi non è di religione cattolica rispetto alla preghiera: dalla partecipando alla preghiera, senza però pregare, per sentirsi comunque parte del gruppo a chi preferisce invece stae totalmente al di fuori per evitare problemi, probabilmente anche con la famiglia.

In poco più della metà degli oratori che compongono il campione della ricerca Educare generando futuro ci sono animatori di origine immigrata (52%) e il 44,4% delle parrocchie ha responsabili stranieri negli ambiti relativi alla pulizia e manutenzione, anche se in questo caso si tratta di adulti. Più scarsa è invece la partecipazione nei consigli pastorali di persone immigrate o tra i catechisti: 23,5% e 19%. Anche la quota di educatori (13,4%) e di allenatori sportivi (12,9%) risulta essere relativamente modesta.

L’oratorio e le famiglie: in cerca di cura ed educazione

Le famiglie intervistate, italiane e straniere, anche di religione non cattolica, considerano l’oratorio un luogo di educazione ed accudimento, un posto sicuro, controllato dagli adulti che lo gestiscono con un’attenzione educativa ai ragazzi, in cui viene chiesto il rispetto delle regole e vengono foiti stimoli positivi e non credono che la connotazione religiosa sia un problema per il proprio figlio. Esistono comunque casi, anche se più rari, di genitori che temono un luogo connotato dal punto di vista religioso. A Torino, ad esempio, un genitore, marocchino musulmano, voleva vietare al figlio di giocare nella squadra di calcio dell’oratorio perché temeva lo volessero convertire10.

L’approccio dominante nei confronti delle attività e dei gruppi presenti in parrocchia e in oratorio è, però, di carattere strumentale: per tutti – italiani e non, cattolici e musulmani e di altri credi – l’oratorio sopperisce al bisogno di cura e di educazione.

Sarebbe interessante capire se, nel caso ci fossero strutture simili, organizzate dalle proprie comunità religiose, la partecipazione si orienterebbe verso queste piuttosto che verso gli oratori che hanno il valore aggiunto di offrire ai ragazzi la possibilità di stare anche con ragazzi italiani. Il caso della comunità filippina, da questo punto di vista, è emblematico: i filippini, infatti, tendono a fare gruppo a sé e si concentrano soprattutto nelle cappellanie dove celebrano la messa nella propria lingua.

CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL' ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE
CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL’ ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE

Genitori stranieri: un coinvolgimento ancora limitato

Nonostante all’oratorio ci siano possibilità di incontro non solo tra i ragazzi, ma anche tra le famiglie, i genitori dei ragazzi stranieri sembrano relazionarsi maggiormente con i connazionali o con altri stranieri e meno con i genitori italiani, partecipando poco alle occasioni di festa e agli incontri dedicati ai genitori, mentre sembra cerchino occasioni di incontro e di confronto con chi si occupa del doposcuola e chi ha ruoli di responsabilità all’interno dell’oratorio11.

Le famiglie hanno un ruolo attivo nella fase del «contatto» poiché sono loro che devono iscrivere il figlio al doposcuola o all’oratorio estivo, ma sono meno coinvolti nelle fasi successive: i livelli di partecipazione, infatti, sono molto bassi. Sempre secondo la ricerca Educare generando futuro, nessuna attività/iniziativa vede il coinvolgimento di più del 7% di famiglie immigrate. Mentre, laddove presenti, sono impegnate in attività caritative/missionarie (6,3%), nel gruppo famiglie (6,2%) e nelle attività ricreative/culturali (5,2%). Ugualmente basso è il coinvolgimento in ruoli di responsabilità, come già segnalato in precedenza nella partecipazione ai consigli pastorali o tra i catechisti.

L’oratorio è un luogo dove si costruiscono e si sviluppano importanti relazioni tra pari e con adulti significativi: sacerdoti, suore, educatori ed educatrici e in cui la provenienza e l’origine dei genitori spesso passano in secondo piano rispetto alle dinamiche e ai processi classici di socializzazione dei ragazzi e degli adolescenti. I ragazzi vivono, infatti, nelle relazioni tra pari una dimensione di normalità e le differenze – che si vedono di più nella generazione dei genitori – sono spesso superate da un radicato senso di appartenenza al territorio in cui si abita e si vive e ai luoghi che si frequentano, come l’oratorio, appunto, più che alle proprie origini.

Per il dialogo serve la conoscenza

Dal punto di vista dell’offerta e della proposta valoriale ed educativa dell’oratorio gli intervistati per la ricerca Educare generando futuro concordano su due questioni: la presenza di ragazzi stranieri negli oratori e nelle parrocchie stimola l’innovazione nell’organizzazione delle attività e richiede, in particolare con riferimento alla presenza di minori stranieri di fede non cattolica, che vengano organizzate occasioni di mutua conoscenza e, allo stesso tempo, fa sorgere un bisogno di formazione specifica per gli educatori, i catechisti e gli animatori.

Quello della formazione e delle occasioni di incontro, non solo per catechisti ed educatori, ma anche per i ragazzi e le loro famiglie, è un tema ricorrente rispetto alle questioni poste dall’incontro e dal dialogo interculturale ed interreligioso: prima di dialogare è necessario conoscersi.

Sempre più urgente appare il bisogno di formazione e accompagnamento attraverso l’organizzazione di incontri, anche su temi molto specifici come quello della legislazione e regolazione dell’immigrazione e, soprattutto, dal punto di vista religioso, sull’Islam e le sue diverse correnti.

Già il cardinal Martini nel documento Noi e l’Islam del 1990 metteva in guardia contro il conflitto e il relativismo disinformato. Il fenomeno, infatti, va conosciuto, precisava, per evitare «uno zelo disinformato che può esprimersi sia attraverso atteggiamenti di chiusura pregiudiziale sia – più sovente – attraverso atteggiamenti superficiali che, in nome di un generico ottimismo, non colgono la complessità delle questioni e i problemi. La posizione corretta è un serio sforzo di conoscenza, un supplemento di cultura»12.

Come sottolinea don Andrea Pacini, rispetto all’Islam, l’obiettivo di questi percorsi di formazione dovrebbe essere quello di «fornire una conoscenza in grado di impedire il cristallizzarsi di pregiudizi e atteggiamenti conflittuali o irenici (in entrambi i casi espressione di zelo disinformato) sia per dare quel minimo di conoscenza che permetta di entrare in rapporto con l’altro in modo efficace (conoscendo l’essenziale che riguarda la religione e la cultura altrui e le questioni problematiche in rapporto alla propria cultura e fede religiosa)»13.

Anche il documento Musulmani all’oratorio dell’Ufficio Cei per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso considera l’opportunità di invitare imam locali per fornire agli educatori strumenti utili a una migliore conoscenza e comprensione dei ragazzi: «Il dialogo interreligioso e interculturale, infatti, esigono la conoscenza della propria e dell’altrui religione»14.

Aumentare la formazione e la sensibilità

È importante, però, proporre anche momenti di formazione al cristianesimo per le famiglie straniere non con l’obiettivo di convertirle, ovviamente, ma per far loro conoscere i valori che stanno alla base del «servizio di cui usufruiscono». In alcune realtà questo avviene già, come ha raccontato all’Inteational Joualism Festival di Perugia 2015 mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Molte famiglie di immigrati, ad esempio, si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica per una finalità di tipo culturale, per conoscere la cultura del paese in cui si trovano»15.

Nonostante venga posto il problema della formazione e della conoscenza reciproca, quello che si riscontra nei fatti è, però, una bassa partecipazione ai momenti di formazione organizzati. Dall’indagine Educare generando futuro emerge, infatti, che la maggior parte dei catechisti, degli animatori e degli educatori non partecipano ad attività di formazione sul tema dell’immigrazione e della multiculturalità. Questo sembra causato, per lo meno nelle risposte raccolte dall’indagine, principalmente dalla scarsa sensibilità sul tema che prevale negli oratori e nelle parrocchie  e dalla mancanza di competenze necessarie per l’organizzazione di queste attività.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Ismu, Fom, Caritas ambrosiana e Ufficio pastorale migranti Diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.
2)  Rosita Deluigi, La progettualità ricercata. Minori immigrati e intrecci educativi nel territorio, Edizioni Università di Macerata 2008.
(3)  Ismu, Progetto Oratorinsieme, Milano 2014.
(4)  Il doposcuola è un servizio di accompagnamento educativo, con particolare attenzione al sostegno allo studio. In alcune realtà i ragazzi stranieri costituiscono la maggior parte degli iscritti.
(5)  Anche perché per lo più i ragazzi stranieri non sono di religione cattolica, bensì musulmana, oppure cristiano ortodossa o cristiano copta.
(6)  Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
(7)  Laura Badaracchi e Claudio Urbano, Se in oratorio arriva lo straniero, «Popoli» aprile 2011.
(8)  Ibidem.
(9)  Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E., Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano, p. 120.
(10)  Nell’ottobre 2015, sempre a Torino, un’altra polemica ha riguardato il ritiro da parte di alcune famiglie musulmane dei propri figli da un corso di musica organizzato dalla scuola. Di fronte a questo genere di incomprensioni che possono anche generare scontri è importante offrire occasioni di confronto aperto, coinvolgendo anche i responsabili religiosi di entrambe le comunità e cercando di trovare un accordo nel rispetto delle diverse sensibilità, quella del bambino, quella del genitore e quella dello spazio-oratorio o della scuola.
(11)  Cfr. Educare generando futuro, opera citata.
(12)  Andrea Pacini, Il dialogo interreligioso e le relazioni islamo-cristiane in Italia, p. 11.
(13)  Ibi, 12.
(14)  Cei – Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, scheda 3a e 3a bis, I musulmani in oratorio, p. 2.
(15)  Laura Lana, Come costruire il dialogo interreligioso. Cristiani, ebrei e musulmani a confronto, in www.perugiaonline.it, 15/04/2015.

REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA' MUSULMANA
REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA’ MUSULMANA

Il commento

Identità cercasi

Credo sia ormai chiaro a tutti che ci troviamo in un’epoca in cui la Chiesa in Europa si pone come una realtà tra le tante, non più come la realtà predominante tra tante piccole realtà religiose (e non): basta osservare l’attuale composizione delle assemblee nelle nostre parrocchie. È vero che vi è ancora un significativo senso di appartenenza alla Chiesa, almeno in Italia, ma è altrettanto vero che è debole la coscienza di cosa sia realmente la Chiesa; per esempio molti chiedono ancora i sacramenti per i propri figli – e qui si esprime un certo senso di appartenenza – ma questi stessi non hanno più chiaro cosa sia la Chiesa. Ci si potrebbe chiedere: ma è necessario essere coscientemente cristiani per essere in grado di incontrare il diverso? A questa domanda rispondo con un’altra domanda: ma quale altra personalità è riuscita a produrre la cultura non cristiana? Mi pare che l’uomo europeo da una parte rifiuti di riconoscersi cristiano o ne ha una coscienza debole, dall’altra non ha più un volto: non sa più chi è. Questa non coscienza di ciò che si è genera confusione nel rapporto con l’altro: più non sai chi sei, più l’altro ti fa paura.

Solo dove ci sono luoghi, anche con numeri esigui, dove si ha chiara quale sia la ragion d’essere della Chiesa e quindi della propria personale vocazione – quindi i ragazzi scoprono che la vita ha uno scopo – , si sta ricominciando a costruire. Gli oratori nelle nostre città spesso sono dei luoghi dove ciò accade, nel silenzio più totale dei mass media ma tra la gratitudine delle famiglie.

Solo un’identità chiara consente di guardare all’altro non come un problema ma come un’occasione anche per approfondire la propria identità. Da quando nasciamo, anzi già dal grembo materno, noi scopriamo chi siamo in rapporto con qualcuno che è altro da noi: fin dall’inizio della vita l’altro non è un problema ma un’occasione.

Con queste premesse non può fare paura avere tra i ragazzi dell’oratorio alcuni mussulmani: loro sanno di essere accolti dalla Chiesa e nessuno, né noi né loro, deve rinunciare alla propria identità o annacquarla. È un’arricchimento reciproco che costringe ad approfondire la propria identità e fa scoprire che l’altro è una risorsa per ciascuno.

don Andrea Plumari
parrocchia San Michele Arcangelo in Precotto, oratorio San Filippo Neri, Milano

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE


Le criticità

Stato italiano e islam, dialogo complicato

In Italia non esiste un solo Islam, ma una pluralità di soggetti islamici. Anche per questo per lo stato non è facile trovare un’«intesa» come per le altre confessioni religiose. A ciò vanno aggiunte le pesanti intromissioni di alcuni paesi stranieri (Arabia Saudita e Qatar, in primis) e le ambiguità insite nelle figure degli imam. E il piano «Moschee trasparenti» trova molte resistenze.

A titolo di premessa è opportuno ricordare che, al di là di un nucleo condiviso di elementi/principi/pilastri, l’Islam, e in particolare l’Islam sunnita, non può essere considerato un insieme monolitico; profonde sono le differenze che si possono registrare all’interno di un mondo che si estende dal Marocco all’Indonesia sia sul piano interpretativo che dottrinale. Su questo, inoltre, si innestano, si mischiano, talvolta si confondono, tradizioni e pratiche culturali proprie dei diversi paesi o di alcune aree all’interno di questi stessi paesi. A questa condizione intrinseca non sfuggono le diverse comunità islamiche presenti in Europa e in Italia. Questa pluralità si esprime, dunque, in una varietà di sale di preghiera e di centri culturali islamici. Inoltre, negli ultimi anni si sono costituite diverse associazioni di seconda generazione, che cercano di ritagliarsi un ruolo attivo nella società italiana e stanno cercando di proporsi come interlocutori per le istituzioni.

Il punto di partenza dovrebbe dunque essere il seguente: non si può far riferimento a un solo Islam né ancora, almeno per il momento, a un «Islam italiano» (e neanche europeo), esiste invece una comunità islamica composta da musulmani «provenienti da altrove» (dal Marocco al Pakistan, dall’Albania all’Iran), da musulmani nati e cresciuti in Italia e da convertiti. A livello locale, in molti contesti, si sperimentano forme positive di convivenza e integrazione che sembrano, per ora, reggere alla prova dei fondamentalismi, ma molte questioni devono trovare una risposta politica forte a livello nazionale, che poi si possa concretizzare e rendere operativa a ogni livello.

Le ingerenze di Arabia Saudita e Qatar

Tra le questioni che ancora non hanno trovato una soluzione c’è, sicuramente, la mancanza di un’intesa con lo stato italiano e la questione della costruzione dei luoghi di culto.

L’Islam ad oggi, non può contare, infatti, su alcun tipo di intesa con lo stato italiano1, al contrario di altre religioni minoritarie come ebraismo o buddismo. La causa principale di tale situazione risiede nella mancanza di una leadership unitaria, riconosciuta e realmente rappresentativa delle diverse organizzazioni e orientamenti. Questa difficoltà è inoltre aggravata dalla presenza di molteplici gruppi nazionali di immigrati musulmani sul territorio italiano e dagli interessi (ingerenze) e dai conseguenti finanziamenti dei paesi di origine o dei paesi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis) a determinate organizzazioni. L’intervento dei paesi del Golfo, in particolare, ha spesso sostenuto un Islam meno spirituale e più politico, promotore di battaglie politico-religiose talvolta molto distanti dal vissuto e dalle esperienze dei musulmani in Italia. La questione dei rapporti con i paesi di origine e con i paesi del Golfo deve trovare una risposta urgente, anche rispetto a punti come la costruzione di nuove moschee e il riconoscimento o la formazione degli imam in Italia.

La questione degli imam e il piano «Moschee trasparenti»

Per quanto riguarda gli imam e la loro formazione, se è vero che molti processi di radicalizzazione sono avvenuti online o in carcere e non in moschea, e a causa dell’incontro con determinati imam e predicatori, le moschee possono comunque giocare un ruolo fondamentale nella formazione e nel contrasto alla radicalizzazione. La mancanza di un’intesa con lo stato pone, però, il rischio che, in assenza di controlli, autoproclamati imam possano improvvisare moschee/centri islamici e fare propaganda per un Islam radicale. Nell’ambito del progetto denominato «Moschee trasparenti», lo scorso 11 luglio il ministro dell’Inteo Alfano ha chiamato a raccolta gli esponenti di varie anime della comunità musulmana italiana. L’obiettivo era di discutere il rapporto «Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam»2. Il rapporto, datato 1 aprile 2016 e redatto da 12 esperti guidati dal professor Paolo Naso (Università La Sapienza), insiste sulla necessità di avere imam formati e certificati per guidare i fedeli verso l’integrazione. La formazione non entrerà nel merito delle questioni religiose, ma sarà un percorso civico di riconoscimento delle regole dell’ordinamento italiano3. Nel documento si legge che l’obiettivo è quello di «costituire un nucleo primario di interlocutori delle istituzioni che, per competenza e autorevolezza riconosciute da parte delle loro comunità, conoscenza della realtà italiana ed esperienza nella partecipazione alla vita pubblica del territorio in cui operano, possano svolgere costruttivamente il ruolo di «mediatori» nelle relazioni tra lo stato e le varie associazioni». Gli imam che sottoscriveranno lo statuto potranno ottenere maggiore libertà di accesso a «luoghi protetti quali ospedali, cimiteri, centri di identificazione e accoglienza dei migranti, «case del silenzio» e, naturalmente, le carceri, luoghi, come già detto, dove più forte è il pericolo della radicalizzazione violenta. Un altro punto della discussione, condiviso tra i partecipanti all’incontro, ma criticato aspramente sui social network, è stato l’uso della lingua italiana nei sermoni. Le accuse, rivolte, contro il ministro e la Consulta ponevano l’attenzione sull’idea che i musulmani siano «sorvegliati sociali» e non considerati al pari dei fedeli di altre religioni. Da ultimo, contro la radicalizzazione, è fondamentale che moschee e imam siano in contatto e collaborino a livello locale sia con la polizia e i servizi di sicurezza per condividere informazioni e contrastare esiti violenti di processi di radicalizzazione, sia con le famiglie, le scuole e le altre agenzie formative presenti sul territorio per prevenirla.

modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina
Modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina

L’elenco delle «giustificazioni» e i rischi

Il rischio di giustificare l’Isis (o altri movimenti violenti) con «le guerre fatte in Medio Oriente dagli occidentali» o di identificarlo come creazione del «complotto americano-sionista» e di giustificare i foreign fighters con la discriminazione e il disagio economico e sociale di cui alcuni immigrati sono vittime può generare gravissime conseguenze. Per quanto riguarda i foreign (o domestic) fighters, infatti, non sempre i soggetti radicalizzati sono scarsamente integrati (ancora meno il discorso vale per i convertiti). Se è vero che le scelte legislative e politiche dell’Italia possono determinare dinamiche di rifiuto, di isolamento sociale, di sentimenti contrari al senso di appartenenza civile e comunitaria, soprattutto di quei (molti) musulmani di origine straniera. La radicalizzazione (e tutti gli attentatori degli ultimi mesi lo confermano) ha molteplici cause e può innestarsi su debolezze, talvolta anche personali, di individui che finiscono per abbracciare la violenza, o persino il jihadismo internazionale, perché in cerca di «significato» per la propria vita e di appartenenza a un gruppo. Rispetto a critiche e autocritiche verso «l’Occidente», poste alcune responsabilità innegabili, sarebbe però importante rendere conto della complessità e delle responsabilità dei diversi attori coinvolti in specifiche situazioni. L’autocritica generalizzata non giova e anzi non fa altro che aumentare la credibilità di chi pone come unica soluzione lo scontro «Noi-Loro» e la giustificazione di atti di violenza come vendetta o ritorsione rispetto a ingiustizie e soprusi subiti, facendoci precipitare in una spirale di violenza senza fine.

Il ruolo dei media: tra buonismo cieco e condanna aprioristica

Un ultimo punto critico riguarda il ruolo dei mass media: da un lato i mezzi più tradizionali (televisioni, giornali) spesso presentano l’Islam attraverso generalizzazioni e semplificazioni, dall’altro internet e i social network veicolano varie immagini di questa religione, ma in uno spazio assolutamente non controllato né controllabile. Ne deriva che il discorso pubblico, specie quello diffuso e alimentato dai canali mediatici, oscilla spesso tra un buonismo, cieco di fronte alle problematiche oggettive di certi fenomeni, e una condanna aprioristica e corredata di stereotipi, che può creare il terreno per le derive più intransigenti o sentimenti di rivalsa. C’è il rischio, in fondo, che vengano mostrati solo gli aspetti politicizzati o mitizzati dell’Islam, lontani dalla realtà vissuta quotidianamente dai musulmani italiani. In questo terreno possono proliferare non solo i pregiudizi, ma anche le strumentalizzazioni politiche e conseguenti scelte basate sull’emozione di tutti quei soggetti che colgono solo in modo parziale la realtà islamica. La sfida deve essere, allora, quella di decostruire i pregiudizi e di dare conto della complessità dell’Islam.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Sulle intese tra stato italiano e diverse religioni si vedano le puntate della rubrica «Libertà religiosa» in MC n. 1,3,4,5 del 2015 e n. 6 del 2016. Le puntate sono reperibili e/o scaricabili (in formato Pdf) dal sito della rivista.
(2)  Il documento è scaricabile dal web. Un secondo rapporto su moschee e luoghi di culto è di recente uscita.
(3)  Un’iniziativa simile sul tema è stato il corso per leader religiosi organizzato dal 2010 al 2012 dal Fidr («Forum internazionale democrazia e religioni», www.fidr.it) al quale hanno partecipato diversi rappresentanti di moschee e associazioni musulmane da tutta Italia. L’iniziativa era volta a offrire ai leader religiosi informazioni e approfondimenti necessari allo svolgimento di attività culturali e cultuali sul territorio italiano. Benché patrocinata dal ministero dell’Inteo e da quello per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, l’esperienza non ha avuto seguito, specie nell’elaborazione di politiche ufficiali sul tema della formazione degli imam.

Formigine (Mo). Doposcuola all' oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco
Formigine (Mo). Doposcuola all’ oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco

Bibliografia

  • Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
  • Pietro Cingolani, Roberta Ricucci (a cura di), Transmediterranei. Generazioni a confronto fra Italia e Nord Africa, Accademia University Press, Torino 2014.
  • Annalisa Frisina, Giovani Musulmani d’Italia, Carocci, Roma 2007.
  • Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010).
  • Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016.
  • Stella Coglievina e Viviana Premazzi, L’Islam in Italia di fronte al fondamentalismo violento, in Martino Diez e Andrea Plebani (a cura di), La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica, Marsilio, Padova 2015, pp. 126-138.
  • Viviana Premazzi, Secolarizzazione e nuove forme di protagonismo nella seconda generazione musulmana in Italia, in Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 106-116.

Bibliografia sugli oratori

  • Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
  • Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese, in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E. (a cura di), Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano 2011.
  • Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio pastorale migranti diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.

Sitografia

  • Chiesa cattolica italiana, Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
  • Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose: www.olir.it.
  • Fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità: www.ismu.org.

HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA
HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA

Questo dossier è stato firmato da:

  •  Viviana Premazzi Esperta di immigrazione e, in particolare, di seconde generazioni di religione musulmana. Collabora con il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione (Fieri) di Torino e la Fondazione Oasis di Milano. È stata consulente per la Banca mondiale e per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Le riflessioni contenute in questo dossier sono state elaborate nell’ambito del progetto «Conoscere il meticciato. Goveare il cambiamento» cornordinato da Fondazione Oasis e finanziato da Fondazione Cariplo.
  • Roberto Brancolini Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.



Accoglienza: piccoli numeri grande efficacia


Da venti persone in giù. Le esperienze di accoglienza a Torino e dintorni che racconteremo in questo reportage parlano di piccoli gruppi, dai venti rifugiati del Cas di Alpignano al rifugio diffuso e all’accoglienza in famiglia. Queste sono realtà che permettono di dare attenzione alle persone – quelle accolte e quelle che accolgono – e di gestire incomprensioni e difficoltà in maniera efficace.

Il «Centro di accoglienza straordinaria» di Alpignano

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Un ragazzo africano sta in piedi in un campo di cipolle, immobile. Poi si china sulle piante, strappa le erbacce, le ammucchia. Sono le sette di sera passate e fa ancora caldo, ma lui indossa stivali di gomma, pantaloni lunghi, una felpa e anche un berretto di lana. Per una volta, però, quella che descriviamo non è una scena di sfruttamento del lavoro dei migranti in qualche torrida campagna italiana: lui è James (nome di fantasia, nda), richiedente asilo originario del Ghana, e il campo di cipolle è un pezzo dell’orto comunitario del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Alpignano, che occupa i locali di quello che prima era il centro di animazione dei missionari della Consolata. «In Ghana faceva il contadino», spiega Monia, operatrice della cornoperativa Pietra Alta Servizi cui è affidata la gestione del Centro con una presenza costante, notte e giorno, del personale. «Stare nei campi gli piace, appena ha un minuto libero corre nell’orto».

Anche gli altri giovani accolti dal Centro – venti ragazzi fra i diciotto e i vent’anni arrivati a partire da ottobre 2015 da diversi paesi dell’Africa occidentale – hanno ciascuno la propria attività d’elezione. «Ce ne sono alcuni», racconta Fabrizio, collega di Monia, «che se la cavano con l’idraulica o l’elettricità, altri bravi ai fornelli». «E poi c’è lui», dice Jacob, uno dei due mediatori interculturali presenti al Cas, indicando un giovane chino su un libro, «che ama studiare e appena può si mette in un angolo tranquillo a leggere. Oppure lui», e ride indicando con la mano un giovane nel cortile fuori dalla finestra, «che vuole fare il calciatore per forza: sta sempre in divisa e scarpette e prende a pallonate il muro».

Queste attitudini dei ragazzi sono state utili per capire a quali tirocini avviarli con le borse lavoro. L’inserimento lavorativo è un’ulteriore tappa di un cammino cominciato lo scorso inverno con il corso di italiano obbligatorio, che si è svolto presso il Centro per l’Istruzione degli Adulti (Cpia) di Grugliasco, oltre che presso il centro grazie all’aiuto dei volontari cornordinati dagli operatori. Parallelo a questa prima fase è stato poi il percorso di assistenza psicologica presso il Centro Migranti Marco Cavallo a Barriera di Milano.

A queste attività, il Cas di Alpignano ne affianca altre: i corsi di cucina, i laboratori teatrali, il calcio. Sono tutte iniziative, precisano gli operatori, utili per motivare i ragazzi – che hanno davanti una lunga attesa prima di ottenere il responso alla loro richiesta di asilo – a darsi obiettivi e assumersi responsabilità.

«Certo, non va sempre tutto bene», ammettono Monia e Fabrizio. Ci sono state incomprensioni. Una ha riguardato un ragazzo che ha lasciato Alpignano ed è andato in Austria per raggiungere dei conoscenti. «Vieni, gli avevano detto via cellulare: qui c’è lavoro». Una volta là, però, questo fantomatico lavoro si è rivelato inesistente; il giovane è rientrato in Italia e ha chiesto di poter tornare al Cas di Alpignano. «Ma noi, a quel punto, non abbiamo più potuto accoglierlo», racconta Fabrizio.

I migranti possono trascorrere fuori dal Cas fino a un massimo di tre notti, giustificando l’uscita e lasciando un recapito al quale trovarli. Passate le 72 ore, i responsabili del Centro segnalano alla prefettura il mancato rientro. In questi casi i migranti conservano il diritto ad aspettare l’esito della valutazione della loro domanda d’asilo ma perdono quello all’ospitalità presso la struttura che li aveva accolti.

«La parte frustrante», riprende Monia, «è che a volte i ragazzi si fidano di più delle notizie sentite attraverso il tam tam fra migranti – che rischiano di essere parziali se non false – che di quello che diciamo noi. C’è voluta un po’ di pazienza per “smontare” le informazioni sbagliate e superare la diffidenza di alcuni nei nostri confronti». Diffidenza che non di rado nasce ascoltando alla televisione le notizie relative al cosiddetto «business dell’accoglienza» e generalizzandole. «Magari un amico, un connazionale dice loro: “Altro che aiuto, questi dei centri d’accoglienza ci fanno i soldi su di te!”, e i ragazzi diventano guardinghi, ostili. Allora bisogna sedersi, parlare, smentire con dati reali quelli distorti, ricostruire un rapporto di fiducia».

È in queste situazioni che si rivela cruciale il supporto dei mediatori interculturali al lavoro con Monia e Fabrizio: Jacob e Mor sono entrambi di origine africana, della Guinea Conakry uno e del Senegal l’altro. «Io sono arrivato qui che ero un bambino», dice Jacob, ora poco meno che trentenne, «la Guinea la conosco poco, ma una parte della mia famiglia, che sento regolarmente, vive lì. Conosco quindi la realtà e le difficoltà di un paese dell’Africa occidentale e parlo le lingue degli ospiti del Centro. Per questo mi percepiscono come qualcuno che può capirli e aiutarli a capirsi con gli altri».

È quasi ora di cena e i ragazzi convergono al refettorio. Ogni volta che uno di loro passa davanti all’ufficio degli operatori, Monia, Jacob e Fabrizio lo chiamano, si informano di come ha risolto quel problema che aveva segnalato, scherzano, discutono. Di giorno i richiedenti asilo entrano ed escono dal Centro, vanno in paese, si muovono nella città. Ma, fra il corso di italiano, le attività organizzate al Cas e i tirocini, l’immagine dei migranti che stanno a bighellonare e delinquere qui non trova conferma. «Con venti persone lo puoi fare», concordano gli operatori, «puoi seguirli uno per uno e avere un confronto e un dialogo anche con i cittadini del quartiere, o del paese».

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L’accoglienza in appartamento

Se a misura d’uomo è un luogo che accoglie venti persone, altrettanto se non di più lo sono realtà ancora più piccole e più domestiche. Nell’appartamento di Porta Palazzo, Torino centro, dove vivono da più di un anno sette giovani rifugiati afghani, il clima è quello di una casa di studenti lavoratori. In cucina Mustafa, l’ingegnere civile del gruppo, dà il tocco finale al kabuli palaus, piatto afghano a base di riso, carne, uvetta e cumino, mentre Sardar, il più osservante dei sette – barba folta, pantaloni e lunga camicia bianchi, calotta da preghiera sul capo – stende sul pavimento del salone i teli su cui posare stoviglie e pietanze. Maruf, Moinkhan e Hawaldar intanto guidano gli ospiti nel giro della casa: un salone, un bagno, tre stanze da letto, e spiegano che si cenerà senza uno di loro perché lavora al negozio di kebab e, durante il Ramadan, è subito dopo il tramonto che i clienti arrivano numerosi.

I ragazzi, in attesa del responso alla loro richiesta di asilo, stanno studiando l’italiano. Alcuni hanno già iniziato i tirocini come aiuto-cuoco, addetto agli scaffali in un supermercato, incaricato della manutenzione in un centro sportivo. Mustafa è contento del suo tirocinio da operaio edile e ha trovato nel capo cantiere – anche lui straniero ma a Torino da tanti anni – un punto di riferimento. Certo, spera che questa sia una soluzione temporanea e che, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, gli sia possibile lavorare in ruoli diversi. Ma un buon ingegnere deve conoscere il cantiere, dice, perciò per ora va bene così.

Antonello è uno degli operatori che segue i sette giovani. Lavora per la cornoperativa Terremondo, nata più di dieci anni fa da alcuni educatori attivi all’Asai, associazione fondata nel 1995 e fra i pionieri del lavoro con i migranti a Torino. Scherza con i ragazzi, guarda con loro la partita di calcio in Tv, si informa di com’è andata la giornata. «Allora, sei andato a scuola o ancora non ti senti bene?», chiede Antonello a uno dei giovani, che di recente ha avuto problemi di salute. «No scuola, no pocket money!», avvertono gli altri ridendo. «Ci sono delle regole precise», spiega Antonello, «e, sempre in un clima di dialogo e di disponibilità a confrontarsi, il ruolo degli operatori è anche di ricordare queste regole». Ad esempio, i ragazzi possono avere ospiti per i pasti, ma non di notte. I giovani afghani vivono soli in questa casa; gli operatori e i volontari di Terremondo passano a trovarli almeno un paio di volte a settimana e sono in contatto costante.

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Il rifugio diffuso

Ma c’è un modo di fare accoglienza ancora più «molecolare»: il rifugio diffuso, nel quale sono le famiglie ad aprire la porta di casa a un migrante. Alessia, dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti (Upm) della Diocesi di Torino, racconta com’è nata questa esperienza: «Tutto comincia nel 2008 con “Adotta un rifugiato”, iniziativa del Comune e di alcune associazioni, che ha avviato oltre un centinaio di accoglienze in famiglia. Dati i buoni risultati, poi, questa modalità è entrata nello Sprar», il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati istituito dalla legge «189/02 Bossi-Fini» e affidato dal ministero dell’Inteo all’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Le esperienze di accoglienza presso abitazioni private e nuclei familiari, si legge nel Rapporto annuale Sprar 2015, sono attivate nei comuni di Torino, Parma e Fidenza, con una sperimentazione in corso nel comune di Milano.

A Torino, sono l’Ufficio stranieri del Comune, diverse associazioni e l’Upm a cornordinare il progetto: quello attuale è iniziato nel 2014 e ha quasi concluso l’inserimento di 28 rifugiati usciti dai centri di prima accoglienza.

Il contributo alla famiglia che accoglie, finanziato con fondi Sprar per i sei mesi previsti, è di 413 euro al mese per le spese di vitto, alloggio e utenze della persona accolta; si consiglia alle famiglie di dare circa 90 euro al rifugiato come argent de poche.

«Il ruolo dell’Upm e delle associazioni», spiega ancora Alessia, «è quello di segnalare al comune i richiedenti asilo che hanno i requisiti. Per essere coinvolti nel progetto, infatti, queste persone devono conoscere la lingua e aver manifestato la volontà di investire le proprie energie per inserirsi nel territorio. Si fa una valutazione anche sul profilo professionale, per favorire l’inserimento lavorativo. Finora i beneficiari sono in maggioranza uomini fra i venti e i trent’anni che hanno competenze nella ristorazione, nell’agricoltura e nell’allevamento, spesso perché in questi ambiti lavoravano già nel loro paese. C’è una sola donna, nigeriana, ex vittima di tratta».

Anche con le famiglie si fa un lavoro preparatorio per spiegare i dettagli del progetto e cercare di prevenire possibili problemi: «Quella che nasce è a tutti gli effetti una convivenza e il suo obiettivo è quello di rendere autonomi i rifugiati». Come? Permettendo loro di migliorare l’italiano, di conoscere altre persone e di venire a contatto con le opportunità di lavoro.

La preparazione con le famiglie cerca di evitare che queste ultime si creino aspettative, ad esempio quella di avere un po’ di compagnia – desiderio che emerge a volte quando ad accogliere sono persone anziane – o di ricevere un aiuto in casa, magari nell’assistenza ai malati. Nulla vieta che relazioni di questo tipo possano svilupparsi, se il rifugiato e la famiglia lo vogliono; ma il punto di partenza è quello di una condivisione di spazi nel reciproco rispetto.

Anche qui, non va sempre tutto bene. È il caso di una convivenza conclusa dopo soli quindici giorni per screzi legati al cibo e forse anche ad aspettative deluse. Ma non sono la norma, spiega Alessia, gli esempi positivi sono tanti: ci sono famiglie che accantonano i 413 euro e, alla fine dei sei mesi, consegnano al rifugiato il denaro così risparmiato. E ci sono migranti che a loro volta si offrono per accogliee altri, come a voler restituire l’aiuto che hanno ricevuto.

«Accomunare le realtà come il Cas di Alpignano, l’appartamento di Porta Palazzo o il rifugio diffuso alle accoglienze in massa, magari in strutture fatiscenti, o alle occupazioni è fuorviante», commenta Sergio Durando, direttore dell’Upm.

Chiara Giovetti
(fine prima puntata)




Cari missionari si scrive crisi, migranti, Valmiki e tanto altro

Tempi di crisi

Egregio padre,
leggo nel numero di maggio di MC dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice Lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze.

Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza. La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale «stato di guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere con scopi umanitari coloro che vogliono fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine corrono il rischio di perdere la vita durante il trasporto. Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza, accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di: stupidità, sciocco buonismo e altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso menefreghismo di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta», che dovrebbe sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto
Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillità burocratica», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono sono anime sporche? Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (Va), 28/05/2016

Caro Angelo,
l’argomento da lei toccato è scottante e spesso affrontato in termini fuorvianti. Ne è prova la virulenza faziosa dei giorni di fine agosto, appena dopo il tragico terremoto nelle Marche e nel Lazio. Gli attacchi ai migranti che vivrebbero a spese nostre in hotel di lusso mentre i poveri terremotati battono i denti al freddo, dimostrano quanto si parli e straparli per sentito dire deformando dati che sono facilmente verificabili, usando la menzogna senza alcun pudore.
Certo l’Onu dovrebbe poter fare molto di più per prevenire le cause di tutte le migrazioni e non soltanto intervenire, come sta facendo in molti luoghi del mondo con grande competenza e professionalità, per gestire gli immensi campi dei rifugiati.

Creare ponti

Caro padre Gigi,
in riferimento all’editoriale di giugno è vero che i bambini creano spontaneamente dei ponti; sono degli «ingegneri» e degli «architetti» che non solo con i pezzi del Lego o con altri materiali giocano cercando di risolvere i problemi della staticità delle costruzioni con il vuoto sotto e gli appoggi distanziati, ma con facilità intraprendono legami interpersonali. La mia esperienza, tuttavia, mi suggerisce che se da un lato i bambini sono favoriti nella formazione di relazioni che includano, dall’altro lo fanno se trovano un contesto di adulti che li sostengano in tale percorso, con motivazioni e facilitazioni, in quanto i bambini sono anche i primi a cogliere differenze di vario genere. Creare ponti è quindi complesso a tutte le età in quanto le valutazioni, le conoscenze e l’esercizio della volontà implicati costituiscono un elevato investimento di energie. Negli ambiti in cui sono impegnata, familiare, pedagogico, giudiziario e della disabilità, è necessario creare ponti ininterrottamente per prevenire, per quanto possibile, conflitti, conclusioni sommarie ed esclusioni. Mi rendo conto però che non sono in gioco solo le differenze che si possono cogliere nell’immediatezza, quali, ad esempio, il ritardo cognitivo o il colore diverso della pelle, ma anche le idee e i meriti, ossia i valori di verità e di giustizia oltre ai diritti e agli interessi. Tali ponti domandano perciò volontà, manutenzione, ristrutturazione e, se necessario, abbattimento e ricostruzione; tutto ciò richiede non solo ingegneria ed architettura ma anche eroismo ed incessante preghiera per non essere soli nell’edificazione.

Milva Capoia
08/07/2016

Valmiki

Egregio signor Iazzolino,
innanzitutto la ringrazio di cuore. Nel marzo scorso ho trovato in chiesa una copia di MC e sono rimasto molto scosso dal suo articolo «A mani nude». Non riesco a togliermi dalla testa le realtà che lei descrive, riportando anche testimonianze dirette. Così la ringrazio e la stimo perché a mio avviso è molto importante far conoscere tali realtà in cui vivono tanti nostri fratelli. Mi sono subito abbonato alla rivista, che leggo volentieri ogni mese. Ho visto in internet delle foto di Valmiki con le ceste di vimini e le scopette, ma mi permetterei di chiederle, se può confermarmi che talvolta i manual scavengers usano addirittura le mani nude, senza scopetta (art. cit., p. 10) o se per caso non si tratta di un errore di stampa! O se per caso lei ha addirittura visto coi suoi occhi una cosa simile. La ringrazio in anticipo per la sua attenzione e resto in attesa di una sua cortese risposta. Cordiali saluti, in Cristo.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 05/08/2016

Gentile dott. Carlo,
la ringrazio profondamente per la sua email, che mi è stata inoltrata dalla redazione. Sono missive come la sua che danno un senso a quel che facciamo a Missioni Consolata. Con il nostro reportage dall’India, la mia collega fotografa Eloisa D’Orsi e il sottoscritto abbiamo provato a trasmettere l’intensità di un’esperienza che pure, ci rendiamo conto, abbiamo colto solo a un livello superficiale. La realtà dei Dalit, e dei raccoglitori manuali, è viva e pulsante, nelle grandi città indiane e ancora di più nelle aree rurali più remote, dove violenze e abusi sono all’ordine del giorno. Per rispondere alla sua domanda, una delle donne da noi intervistate ci ha raccontato della scopetta che oggi usa come di una conquista, realizzata anche grazie all’organizzazione che citiamo nel testo, e che sta facendo un ottimo lavoro per portare il tema al centro del dibattito politico.

Personalmente, ritengo che sia utile vedere questa situazione di violenza strutturale attraverso la lente di rapporti di potere consolidati nel tempo, e che oggi, alla luce di cambiamenti sociali ed economici epocali che l’India sta vivendo, sta provocando il colpo di coda delle caste più alte. È una realtà che sta vivendo delle trasformazioni drammatiche e, nonostante la violenza che la resistenza a queste trasformazioni sta suscitando, un numero crescente di Dalit sta acquisendo consapevolezza dei propri diritti. Non è sicuramente un processo lineare, e le trasformazioni in senso neoliberista dell’economia indiana rischiano di cambiare solo la forma, ma non la sostanza, della marginalità Dalit. Ma abbiamo conosciuto molti attivisti e persone comuni che negli ultimi anni hanno cominciato a rifiutare lo status quo.

Spero di poter tornare a raccontare presto queste trasformazioni in un paese così complesso e affascinante come l’India. La ringrazio ancora per la sua email e le porgo i miei più cordiali saluti.

Gianluca Iazzolino
08/08/2016

Caro Gianluca,
la ringrazio per la sua pronta e cortese risposta. Sono i reportage come il vostro che scuotono e fanno progredire le coscienze. Denunciare all’opinione pubblica è già un modo per combattere quelle pratiche raccapriccianti, che rovinano tante vite. Perciò spero e le auguro che Missioni Consolata ed altre pubblicazioni possano far conoscere al maggior numero di persone quelli e altri soprusi che affliggono tanti nostri fratelli. Si legge ad esempio in internet che per i membri delle caste superiori stuprare una dalit non è immorale, anzi, purifica la vittima, però mi piacerebbe sapee di più da fonti certe. Le porgo i più cordiali saluti.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 08/08/2016

Di migranti e di Ius soli

Carissimo padre Gigi,
dopo aver letto il numero di luglio di MC non posso fare a meno di scriverLe ancora una volta. La premessa è sempre la stessa: non sono interessato alla polemica ma semplicemente alla discussione.

Riguardo all’articolo «Risorse migranti»: lodevole l’iniziativa Coro Moro, spero di avere occasione di ascoltarli (ormai Gipo non c’è più, le canzoni nella mia lingua sono difficili da ascoltare). Ma siamo sicuri che tutti i mòro (così mi dice vada scritto Gioventura Piemontèisa) richiedenti asilo siano onesti? Non conosco le condizioni dei paesi citati, ma il collega ghanese che siede nel mio ufficio dice che non c’è ragione per loro di scappare dal Ghana. Credo all’articolo «buonista» di Giulia Bondi o al mio collega che fa il master all’Università di Ulm (Germania, ndr) e lavora part time con me?

Non è che magari loro come me hanno lasciato il paesello natio per semplici motivi economici? Hanno preso una scorciatornia, ovvero immigrare clandestinamente per poi chiedere asilo politico e sperare nelle lungaggini burocratiche? Il tutto a discapito degli stranieri regolari come il mio collega (oppure mia moglie, ora italiana, che tutte le volte che veniva in Italia da fidanzati era dotata di visto turistico ed a seguire di permesso di soggiorno).

Vengo ora all’appello per lo Ius soli. Quale sarebbe la precarietà esistenziale per gli stranieri minori nati in Italia? L’unica differenza tra un italiano e uno straniero sta nel diritto al voto, se minore comunque non può votare anche se italiano. Se un francese nasce in Italia e a due anni torna in Francia con la famiglia è italiano? Al momento penso che la cittadinanza, ai minori, vada legata alla famiglia. Quale sarà il vantaggio per la società italiana se concediamo lo Ius soli?

Luca Medico
Neu-Ulm (Germania), 13/08/2016

Caro Luca,
provo a condividere con lei alcuni punti.

Migranti economici o rifugiati politici. È un fatto ormai ben documentato che i migranti economici sono in aumento, segno anche che le nostre nazioni (nonostante la percezione negativa che noi ne abbiamo) sono ancora ben più ricche e floride di quelle da cui provengono i migranti. Le previsioni sono che i migranti economici continueranno ad aumentare anche a causa del cambiamento climatico che rafforzerà i fenomeni di siccità e fame in molti paesi. Un fatto però è certo: sta diventando sempre più difficile distinguere tra rifugiati politici e migranti economici, anche perché, in molti paesi, le due realtà (politiche vessatorie e economie disastrate o schiavizzanti) sono strettamente collegate. Tenga poi conto che molte di queste situazioni sono mantenute e sostenute da un sistema economico (di cui noi siamo parte beneficiaria e spesso anche vittima) che perpetua le ingiustizie e favorisce i regimi basati sul privilegio di un’élite, per poter continuare a sfruttare impunemente risorse naturali e umane di tanti paesi a beneficio dell’arricchimento sfacciato di pochi (i 62 super ricchi che oggi controllano metà della ricchezza mondiale, secondo l’Ong Oxfam, e diventano sempre più ricchi nonostante la crisi).

Ius soli. La proposta oggetto del nostro appello chiede che il diritto di cittadinanza venga riconosciuto «agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino all’età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini». Essa è una richiesta strettamente legata alla famiglia del minore.
E non mi sembra che la differenza stia solo nel diritto di voto, pur importante. È piuttosto il sentirsi parte, l’inclusione e l’appartenenza, il sentirsi a casa. In fondo questi ragazzi vivono come in un limbo: non sono né italiani né del paese di origine dei loro genitori.

Quali i vantaggi per noi? Per noi ci sono tutti i vantaggi che vengono dall’immigrazione, senza la quale sicuramente nel 2050 saremo dieci milioni di meno di quanti siamo oggi e mediamente tutti più vecchi (vedi dati Eurostat resi noti in agosto) e con pensioni ridicole. Lo ius soli farà sì che i nuovi cittadini siano e si sentano italiani a tutti gli effetti e non apolidi appena tollerati e disprezzati.Forse non piace a certi difensori della purezza patria, ma conviene ricordare che noi italiani siamo tali proprio perché siamo una mescolanza incredibile di popoli diversi. La mescolanza di geni di genti autoctone con quelli di popoli Celti e Normanni del Nord, Arabi e nordafricani del Sud, Fenici, Greci, Ebrei, Slavi, Turchi e Mongoli dall’Est, e spagnoli e francesi dall’Ovest, ha fatto di noi quel paese bellissimo e contraddittorio che siamo. La mescolanza delle «razze» (per usare un termine scorretto e obsoleto) non porta alla degenerazione della «razza», ma la migliora e la rende più sana, intelligente e resistente alle avversità.

Moschee negate

Leggo sulla rivista di giugno l’interessante articolo sulle «Moschee negate». Nell’articolo si sottolinea il carattere «laico» dello stato. Mi si permetta di non essere d’accordo con l’aggettivo descrittivo «laico»: per molti oggi tale aggettivo connota o intende connotare uno stato non solo distante dai credenti, ma che addirittura li vorrebbe relegati in ambito «sacrestitoriale», lì zitti e buoni, solo ad incensare e far tiritere di preghiere. Mi pare ovvio che tale descrizione auspicata da tanti, non corrisponde ad una chiara posizione costituzionale sulla libertà religiosa, per cui i credenti hanno e debbono avere piena libertà d’azione e pari dignità in quanto cittadini alla pari degli altri. Allora perché non iniziate a definire lo stato come poi è in realtà per costituzione (costituenti furono anche i cattolici), come stato solo e sempre «plurale», di tutti, cioè, e per tutti?

Bruno Cellini
07/07/2016

Abbiamo chiesto all’autore dell’articolo, prof. Alessandro Ferrari un commento. Ecco quanto ci ha scritto:

Rispondo al volo.
Lo stato italiano è costituzionalmente laico proprio perché impegnato a rispettare il pluralismo confessionale e culturale, come ha affermato la Corte costituzionale nella sua notissima sentenza n. 203 del 1989. Di conseguenza, quando si parla di laicità come supremo principio costituzionale non c’è alcuna contraddizione con il principio pluralistico, anzi, lo si declina con particolare – specifica – attenzione al fattore religioso. La laicità costituzionale non è una laicità anticlericale, né una «sana laicità», non mira alla privatizzazione del fattore religioso ma ad assicurare che le legittime manifestazioni pubbliche delle fedi religiose e «convinzionali» possano esprimersi nel rispetto dell’uguale libertà di ciascuno.
Alla prossima,

Alessandro Ferrari
12/07/2016