Niger: Jihadisti, eserciti e migranti nel paese più povero del mondo

Testo e foto di Marco Bello |


La rotta del Sahara è stata affrontata da generazioni di nigerini. Cercavano un lavoro in Libia. Ma oggi nel paese arabo la vita per uno straniero è insostenibile. Anzi, un «nero» è diventato merce di scambio, vacca da mungere, moneta sonante. In fuga da detenzioni arbitrarie e torture, migliaia di persone cercano di tornare a Sud. Qui li aspettano le famiglie, ma anche siccità e scarsità di lavoro.

Zinder. «Vogliamo che la nostra gente resti qui, al villaggio. E possa lavorare la terra anche durante la stagione secca, quando non cade una goccia d’acqua». Chi parla è Galadima, capo villaggio di Guirari, nel comune rurale di Gouna. Siamo nella regione di Zinder a oltre 900 km a Est dalla capitale Niamey, nel Niger profondo. Ma ci troviamo a poco più di 110 km dal confine con la Nigeria, il gigante africano, che da sempre estende qui la sua influenza economica, commerciale, religiosa.

Guirari è un grosso villaggio isolato, in quanto non vi arrivano strade asfaltate, rare da queste parti, ma solo piste di sabbia o laterite. Le grandi direttrici del Niger sono due: una attraversa il paese da Ovest a Est, dalla capitale al confine con il Ciad, a Ngugmi, nei pressi di quello che era il lago Ciad oggi quasi prosciugato. Il lago definisce un confine quadruplo: Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. L’altra strada asfaltata arriva dalla Nigeria, a Sud, e giunge fino ad Agadez e Arlit a Nord, dove l’asfalto termina bruscamente per diventare una pista di sabbia. Le due s’incrociano a Zinder, seconda città del Niger, già capitale e sede dell’antico sultanato del Damagram (dal nome della zona in lingua locale) creato nel 1720. Uno dei più importanti nella storia del Niger.

Due stagioni

Non siamo nel deserto, ma in una zona semiarida, di sabbia, poca terra, laterite e arbusti. Diffuse sono le acacie e altre piante spinose più basse. Qui la gente si è adattata a coltivare una terra povera, che dà frutto durante i mesi di pioggia, da giugno a inizio settembre. In quel periodo si coltivano alcuni cereali, miglio e sorgo, di varietà adattate a questa scarsità di acqua e nutrienti nel sottosuolo. Con i loro grani, si ricava una farina che, preparata come una specie di polenta, costituisce l’alimento base della popolazione. Se piove con regolarità, il raccolto sarà buono e il granaio di casa, dopo il raccolto, potrà tornare pieno, sperando che la scorta duri fino all’anno prossimo. Ma spesso le piogge sono irregolari e il raccolto dell’anno, l’unico, è povero. Il cibo scarseggerà e sarà crisi alimentare.

Dove non ci sono alternative, nei mesi della stagione secca gli uomini lasciano i villaggi e vanno a cercare lavoro in altre zone, e paesi. In particolare, in Nigeria e in Libia. Una migrazione stagionale, storica, che spesso dura alcuni anni. Quella che i nigerini chiamano «esodo», termine che indica l’ampiezza del fenomeno.

Continua Galadima: «Durante la stagione secca, dopo aver finito il lavoro dei campi, molti dei nostri giovani partono. Ma io preferisco che restino al villaggio, in aiuto ai genitori. Vanno in Nigeria, in Libia. Non vogliamo che lo facciano». Non c’è gente che vuole andare in Europa? Chiediamo. «No, ma abbiamo ancora molti giovani in Libia, dove la loro situazione oggi è critica. Vogliamo fare in modo che possano lavorare qui anche nella stagione secca». E continua: «In questa zona abbiamo un sottosuolo fertile. Qui arrivava molta acqua, che irrigava più di 200 ettari. Il problema è che due dighe, Gapati e Zermo, adesso bloccano le acque della valle di Korama». Si riferisce a un avvallamento non lontano dal villaggio, una depressione orografica che raccoglieva molte acque piovane, conservandole anche durante i mesi secchi e permettendo la coltivazione di ortaggi per molti mesi dell’anno.

Un’alternativa

Dalla metà del 2016 è attivo nella zona un progetto dell’Ong Cisv onlus di Torino, cofinanziato dall’Unione europea che prevede proprio la sistemazione di perimetri irrigui, in modo da permettere la coltivazione di ortaggi durante la stagione secca, grazie all’acqua di pozzi scavati in un’area di 70 ettari.

Maman Daoda è il presidente di un’associazione di contadini, che si organizzano per lavorare nella valle di Korama durante la stagione secca. «Siamo pronti, vogliamo lavorare, in alternativa alla partenza per la Nigeria.

Con la mobilitazione della popolazione fatta dal progetto, poca gente è partita quest’anno. Se parti, quando torni, trovi tuo fratello che, rimanendo, ha potuto lavorare più di te.

Quando la stagione delle piogge comincerà, chi è rimasto (anche nei mesi secchi, ndr) ha potuto lavorare la terra e mettere da parte qualcosa per comprare i materiali e quindi coltivare il campo durante la stagione delle piogge, e potrà comprarsi da mangiare nel periodo nel quale il lavoro è più duro». Nei mesi di giugno e luglio infatti, il lavoro fisico è maggiore, ma le scorte dell’anno precedente sono quasi o totalmente finite.

La voce delle autorità

Lasciamo il villaggio di Giuirari, con le sue speranze su un futuro nel quale i giovani non dovranno più emigrare, e incontriamo il capo del corpo forestale, nella prefettura di Mirriah (capoluogo del dipartimento), che commenta: «Sono stato in visita nella valle di Korama e ho incontrato la popolazione. Stavano facendo la divisione delle parcelle di terreno che saranno assegnate a ciascuno per coltivare ortaggi. Parlando con loro sono stato contento, perché ho capito che molti hanno rinunciato a partire per la Libia o la Nigeria. Grazie a questo intervento avranno del lavoro. Normalmente, finita la campagna agricola dei cereali, la gente incrocia le braccia, ma ora ha delle risorse importanti che possono essere sfruttate anche nel periodo morto». E conclude: «Si tratta di famiglie molto povere che non riescono a soddisfare i propri bisogni alimentari nell’arco dell’anno con la sola coltivazione di cereali».

Anche il prefetto in persona, avvolto nel suo grand boubou da grande capo, ci parla della sua visione in merito: «Questo intervento permetterà ai più poveri di arrivare a essere autosufficienti, grazie a un appoggio iniziale che viene dato loro. Dovranno essere un po’ più attivi, perché diventano degli attori che contribuiscono al miglioramento della propria condizione di vita. Ma anche individui che, da un momento all’altro, iniziano a contribuire allo sviluppo dell’economia locale. Inoltre, altre comunità potranno ispirarsi alle tecniche e metodologie messe in campo dal progetto, in modo che questi insegnamenti diventino duraturi e diffusi sul territorio».

I disperati di Birji

Partiti da Mirriah, ci spostiamo una cinquantina di chilometri a Nord di Zinder. Gli alberi si fanno più radi, sono rimpiazzati da bassi cespugli spinosi, la sabbia invade la strada asfaltata e la laterite affiora dal sottosuolo. Ma non siamo ancora nel vero deserto. Anche qui vi sono villaggi di agricoltori che condividono una terra bellissima, ma povera, con popolazioni di allevatori nomadi, i Peulh, i quali si spostano di continuo con le loro mandrie in cerca di pascoli ed acqua.

Ci accompagna madame Nana Aicha Mamadou, responsabile dell’associazione locale Sa3d (Sahel action pour la democratie et le developpement durable, ovvero «Sahel azione per la democrazia e lo sviluppo sostenibile»). Una realtà nuova della società civile di Zinder, che ha la specificità di essere composta in maggioranza da donne.

Arrivati al villaggio Birji, ci dirigiamo nel cortile della scuola elementare, l’edificio più grande in mattoni e cemento. Qui ci aspetta una folla di uomini, molti dei quali piuttosto giovani. Sono vestiti in modo un po’ diverso dai contadini. Hanno giubbotti, giacche o berretti di fattura occidentale, anche se sgualciti e di certo non all’ultima moda. Sono seduti a semicerchio e scrutano gli ospiti venuti da lontano. Sapremo più tardi che sono oltre un centinaio.

Birji è il villaggio più grande, e quindi di riferimento, di una zona particolarmente svantaggiata, in quanto non ha avvallamenti o aree orografiche come la valle di Korama, che raccolgano l’acqua durante le piogge. Inoltre, qui la falda acquifera è molto profonda, e realizzare dei pozzi che forniscano una buona quantità d’acqua anche in stagione secca è più costoso che altrove.

Quest’area – ci racconta madame Nana – è zona particolarmente depressa, segnata quindi da emigrazione stagionale. Questi uomini sono le braccia valide dei villaggi, che lasciano la famiglia durante la stagione secca per andare a lavorare in Libia o in Nigeria.

Ma qualcosa negli ultimi tempi è cambiato. I fattori sono due. Le maggiori difficoltà per affrontare il viaggio, a causa della nuova legge nigerina per il contrasto alla migrazione clandestina, che ha reso più complesso spostarsi e in molti casi occorre farlo clandestinamente. Ma soprattutto le condizioni di lavoro e di sicurezza in Libia.

Inferno Libia

Nassirou ha 35 anni e faceva l’agricoltore a Birji. Lavorava la terra ma non guadagnava abbastanza. Decise dunque di partire, come alcuni suoi conoscenti prima di lui: «Nel 2006 sono andato in Libia per la prima volta dove ho lavorato per un padrone arabo in un allevamento di polli. Vi sono rimasto due anni, durante i quali mandavo i soldi a casa. Poi sono tornato». Nassirou è ripartito una seconda volta per la Libia e vi è rimasto tre anni, senza particolari problemi. «Vi sono andato per la terza volta, ma qualcosa era cambiato». Mentre Nassirou ci racconta come è andata, il suo volto ricorda il terrore: «Quando avevo finito il mio periodo di lavoro, con un gruppo di connazionali siamo partiti per tornare in Niger. Sulla strada del rientro ci hanno catturati e riportati in città dove ci hanno venduti. Hanno assaltato con le armi il mezzo su cui viaggiavamo, ci hanno obbligati a scendere e ci hanno messi nel cassone di un pick up, con le mani legate con corde e catene dietro la schiena». Nassirou ci mostra i segni delle catene ai polsi. «Siamo stati sette ore legati e senza mangiare, e ci hanno poi chiusi in una camera dove non ci hanno dato né acqua né cibo. Io ho passato due mesi rinchiuso in una stanza dalla quale non si vedeva il sole. Mi hanno fatto spogliare e indossavo solo le mutande».

Nassirou era detenuto in una prigione clandestina nella città libica di Beni Walid: «Durante due mesi siamo stati maltrattati, mentre aspettavamo i soldi per essere liberati. Ci hanno dato un telefono dicendoci: “Se conosci qualcuno in Libia chiamalo e parlagli della tua condizione. Lui dovrà telefonare alla tua famiglia, al paese, per dire di mandare i soldi affinché tu sia liberato”. Così siamo riusciti ad avvisare che eravamo prigionieri».

La famiglia di Nassirou, a Birji, ha venduto due vacche e ha mandato i soldi a un suo compaesano in Libia, affinché li versasse su un conto segnalato. «Il giorno che i soldi sono arrivati, mi hanno preso e mi hanno picchiato. Poi mi hanno portato a Tripoli e liberato. Non riuscivo neanche a stare in piedi, ma grazie ad altri nigerini che mi hanno soccorso, ho ripreso un po’ le forze. Poi mi hanno pagato un biglietto per rientrare.

Altri prigionieri che erano con me invece sono morti. C’è ancora gente rinchiusa in queste prigioni, a soffrire. È sempre così, ti mettono una catena al collo e puoi morire facilmente. Ho visto anche persone di Sudan, Ghana, Mali, Nigeria».

Nassirou non ha più intenzione di andare in Libia. È tornato da sette mesi e ha lavorato nei campi durante luglio e agosto, ma adesso sta cercando di capire che lavoro fare.

A caccia di «neri»

Accanto a lui il più giovane Innousa, 27 anni, ha qualcosa da raccontare: «Non ho mai avuto problemi con il mio padrone in Libia. Ma alla fine del mese venivano da noi i ladri, di notte, per prenderci i soldi. Ed eravamo obbligati a darglieli. Vivevo nella città di Ubari, ma oggi la situazione si è totalmente degradata diventando molto insicura. Io sono stato assaltato due volte da banditi, che mi hanno puntato delle armi al petto chiedendomi tutto quello che avevo. Adesso ti assaltano anche di giorno, non solo di notte. E quando sei in casa devi barricarti dentro, ma rischi che rompano la porta per assaltarti. Se devi uscire a comprare qualcosa è meglio chiedere al tuo padrone per non farti vedere in giro. Quando sei in macchina con lui per fare delle commissioni, rischi che vi fermino e dicano al padrone: “Vogliamo lui”. Alcuni lasciano i loro lavoratori nelle mani degli assaltatori. Se prendi un taxi, rischi che il tassista ti porti dai banditi o dalla polizia dove ti maltrattano. Ormai non vedi subsahariani in giro, stanno tutti nascosti».

Continua Innousa: «Abbiamo capito che c’è complicità tra polizia e bande armate. Gli arabi contro i neri. Anche il tuo padrone può tradirti e consegnarti. È pure successo che facessero irruzione in una casa, e portassero via delle persone (dei migranti, ndr). E non si sa più nulla di loro. Scompaiono. Non so se vengono venduti oppure uccisi». Innousa non vuole più sentire parlare di Libia: «Non ci torno più, assolutamente».

Saidou, 40 anni, ha avuto esperienze simili e ci spiega perché è partito: «Mi sono sposato, ma non avevo di che nutrire la mia famiglia, quindi ho seguito l’esempio di altri amici. Ma ultimamente è diventato difficile mandare i soldi alla famiglia, mentre prima era la normalità». Poi indica la terra del suo villaggio: «Guardate qui intorno, non c’è niente da fare, come è possibile vivere così. Adesso i giovani non sanno che lavoro fare, non avendo più l’opportunità di andare in Libia».

Sono molti i ragazzi, gli uomini che ci fissano, oggi, nel cortile della scuola primaria di Birji. Alcuni portano occhiali da sole e fanno il viso da duri. Altri hanno semplicemente lo sguardo perso nel vuoto. Altri ancora sono incuriositi dagli ospiti stranieri.

Issaka, 47 anni, ha la barba bianca. Lui ne ha fatti tanti di viaggi in Libia. Ma adesso ci dice: «Prima era molto vantaggioso andare in Libia a lavorare. Ma è finito quel tempo. C’è solo sofferenza laggiù.

Nessuno vuole più partire. Il problema oggi è far ritornare quelli che sono là, non tanto scoraggiare i giovani dal partire».

Issaka ha lavorato il campo nell’ultima stagione piovosa, ma non ha un lavoro sicuro: «Mi piace l’orticoltura, e sto cercando anche di fare del piccolo commercio o dell’allevamento. Ma per ora non ho nulla».

Rientri di massa

Nel mese di dicembre scorso il governo del Niger ha organizzato un rimpatrio di massa di nigerini dalla Libia. Ha messo a disposizione un aereo per i voli di rientro da Tripoli e ha chiesto assistenza all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, organismo delle Nazioni Unite) per organizzarlo. L’Oim, nella sua sede libica. ha aiutato a identificare i nigerini e farli partire, con un procedimento chiamato «rimpatrio umanitario assistito», orientato a persone detenute nei centri illegali o appena uscite da essi.

La sede Oim di Niamey ha organizzato una prima accoglienza e ha messo a disposizione i mezzi per il rientro nelle aree di origine. L’obiettivo era il rimpatrio di 4.000 persone. Nel momento in cui abbiamo contattato gli operatori dell’Oim Niamey, erano già stati effettuati 1.500 rimpatri. Il Niger è l’unico paese africano che si è impegnato in un’azione di questo tipo a protezione dei propri connazionali.

Costruire una possibilità

Chiediamo a madame Nana, attenta osservatrice della situazione nella regione e a livello nazionale, che prospettive ci sono: «Qualche anno fa, a Zinder c’era un grande transito di migranti dalla Nigeria. Gente di varia nazionalità, addirittura dal Ghana, che passavano da Kano e poi qui, per andare verso Agadez. Da circa un anno osserviamo una riduzione drastica di questi convogli.

Questo perché il passaggio in Libia è diventato molto difficile. Anche i nigerini della regione, che vi lavoravano, sono tornati e non riescono più a partire. Chi aveva l’abitudine di andare in Libia, adesso cerca la via della Nigeria per trovare lavoro. Questa è una migrazione storica, almeno per la nostra popolazione».

Madame Nana insiste sul fatto che il governo sensibilizza, scoraggia chi vuole andare in Libia, mentre non fa la stessa cosa per la Nigeria. Il grosso problema, insiste, è che queste popolazioni depresse avevano nelle rimesse dei lavoratori stagionali, un ingresso economico essenziale: «Come aiutare chi ritorna dalla Libia? Come associazione locale abbiamo un programma per loro. Ma occorrono i fondi. Se si chiede alla gente di non andare in Libia occorre proporre loro un’alternativa, trovare loro un lavoro».

Marco Bello




Niger, frontiera d’Europa

Testi e foto di Marco Bello |


Per la sua posizione strategica il Niger è diventato il principale paese di passaggio di ogni traffico illecito, in particolare quello dei migranti. Oggi chi non è riuscito a traversare il Mediterraneo – e non è morto – fugge dalle persecuzioni dei libici, e tenta la via del ritorno. Ma spesso si trova bloccato a metà strada senza soldi. Qui l’Unione europea vorrebbe fermare il flusso di gente verso Nord. E per farlo utilizza soldi ed eserciti.

Niamey. La città di sabbia con le sue case basse color ocra pare sempre uguale. Tranquilla e lontana dalla frenesia di molte metropoli africane, più che una capitale di uno stato potrebbe essere un grande villaggio. Ogni tanto nei quartieri si incrocia un cammello che procede dondolando dietro al suo padrone inturbantato. Eppure qualche novità c’è. Negli ultimi anni il traffico automobilistico è aumentato notevolmente, e questo nonostante siano stati costruiti due svincoli stradali, uno dei quali sulla centralissima rotonda che dà accesso al ponte Kennedy, quello storico dei due che collegano le due sponde del fiume Niger. Il più recente è stato realizzato dai cinesi – grandi amici del Niger – nel 2011 e un terzo è in previsione, sempre ad opera dei cinesi, per quest’anno.

Ma le novità sono anche altre, meno visibili.

Ci avviciniamo al centrale Rond-point de la Liberté (rotonda della libertà), nei pressi del Grand marché, il mercato principale della capitale. Qui abbiamo l’appuntamento con Cheick Ahmed Touré, che si presenta come agente consolare della Guinea Conakry in Niger. Il signor Touré, guineano, ha già una certa età e ha passato gli ultimi 40 anni della sua vita in questo paese. Pacato e gentile, indossa una giacca grigia che gli conferisce una certa autorevolezza. Il suo sguardo sereno ci scruta da dietro le lenti di vistosi occhiali.

Oramai da alcuni anni Touré è diventato il punto di riferimento dei migranti guineani, ma anche senegalesi, ivoriani, maliani in transito per la capitale nigerina. In maniera totalmente volontaria e gratuita, Touré si è organizzato per aiutare in tutti i modi possibili questi giovani, oggi in fuga dalla Libia, ieri in viaggio verso quel paese.

Il nostro uomo ci aspetta per portarci in uno dei tre «Foyer» (o centri) nei quali accoglie migranti di passaggio. Lo seguiamo. Dietro al rond-point imbocca una stradina, quasi un vicolo. Ci fa parcheggiare. A piedi ci conduce in un viottolo tra case in banco (pronuncia bancò: fango e paglia essiccato al sole, materiale di costruzione tradizionale, molto usato in ambito rurale e ancora, talvolta, nel centro della capitale). Accediamo a un cortile che sembra quello di un quartiere periferico o di un villaggio: terra battuta, frammenti di muri in fango scrostati, qualche panca di legno grezzo, un via vai di persone.

Qui siamo subito circondati da alcuni giovani che ci squadrano con sguardi tra il curioso e l’ostile. Ma noi siamo con «ton ton», lo zio, come i ragazzi chiamano Touré, l’appellativo che da queste parti è assegnato a persone più anziane, di cui si ha grande rispetto.

Centro Liberté (libertà)

I giovani del centro hanno storie terribili. Qualcuno accetta di raccontarle. «Avevo dei soldi della mia famiglia, ma ho perso tutto nel tentativo di andare in Europa, senza riuscire ad arrivarci. Ora sono a Niamey da due anni». Chi parla è Mohammed, 37 anni, di Faranah, in Guinea Conakry. «Qui mi arrangio, faccio il parrucchiere per guadagnare qualcosa. Sono il responsabile di questo Centro. Se in giro vedo un migrante sperduto, lo avvicino e gli chiedo se vuole venire a Liberté. In questo momento siamo circa 28. Al mattino usciamo tutti alla ricerca di qualche lavoretto. C’è qualcuno che sa fare un mestiere. Poi ci ritroviamo qui al pomeriggio, condividiamo qualche soldo per comprarci del riso da cucinare insieme e mettiamo da parte una quota per pagare l’affitto di questo posto».

Mohammed, occhiali da sole e faccia furba, parla un francese di base, ma sciolto, gesticola e ha un  modo di fare spigliato, di chi è a proprio agio. Ha tentato due volte di andare in Libia. La prima volta ha raggiunto il Sudan, ma in Ciad si è procurato una pallottola che gli ha trapassato il torace, senza ledere organi vitali. Ci mostra le due cicatrici (entrata e uscita) e dice che sono stati quelli di Boko Haram, la setta terrorista molto attiva nella regione del lago Ciad (Sud Est del Niger). Ma non spiega le circostanze. È stato operato a Ndjamena, capitale del Ciad, dove un connazionale lo ha aiutato economicamente. «Mi sono scoraggiato e ho deciso di tornare verso casa, ma preferisco guadagnare qualche soldo qui e non rientrare a mani vuote».

Circondati da giovani in piedi che ci scrutano, siamo seduti su una panca di legno, perché in Africa gli ospiti sono sacri. Il signor Touré ci racconta: «Cerco di assistere i miei compatrioti ma anche altre persone della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, ndr) in difficoltà. Li indirizzo subito verso uno dei tre centri di accoglienza che seguo, dove oggi ci sono un totale di oltre 70 persone. Quando ho qualche soldo lo do loro per le prime necessità. Inoltre cerco di metterli in contatto con associazioni e Ong internazionali. Ad esempio ho portato qui la Croce rossa danese, che ha fornito loro medicine, e ci ha promesso un aiuto in cibo e soldi per l’affitto.

Chi vuole rientrare nel proprio paese lo accompagno all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Ma alla gente non piace il loro sistema, perché l’agenzia (dell’Onu, ndr) organizza dei bus per riportarli nei propri paesi, dando loro solo 60.000 franchi (circa 91 euro, ndr), che è una miseria rispetto a quanto hanno speso per tentare la traversata, e pure una cifra insignificante per iniziare una nuova attività economica.

Per quelli che restano nei centri, verifico chi sa svolgere un mestiere e cerco di indirizzarlo in uno dei vari cantieri della città».

Niger, caput mundi

Il Niger, paese sconosciuto in Europa fino a qualche anno fa, è oggi balzato alla ribalta delle cronache a causa di due elementi chiave: è diventato uno dei principali paesi di passaggio, e traffico, di migranti dagli stati subsahariani verso la Libia, da dove si tenta il salto verso l’Italia; è centrale nella lotta al terrorismo jihadista in Africa (vedi box).

Solo i francesi lo conoscono da tempo perché, oltre ad averlo colonizzato, fin dall’indipendenza (1960) sfruttano i suoi giacimenti di uranio (di cui è terzo produttore al mondo), indispensabile per le centrali termonucleari che producono oltre il 72% dell’elettricità transalpina.

Il Niger è come un imbuto dove si incrociano due flussi migratori principali. Quello dall’Ovest (Senegal, Mali, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, ecc.) in passaggio da Niamey, e quello dal Sud (Nigeria, Camerun, Centrafrica, ecc.) di passaggio da Zinder o altre località. I due flussi si incontrano ad Agadez, ultima città nel deserto, dove poi i migranti si dividono tra chi passa in Algeria a Tamanrasset per entrare in Libia da Est e chi passa da Dirkou e Madaua ed entra in Libia dalla frontiera Sud (vedi cartina). Per questo il Niger è diventato il primo paese a Sud del Sahara, dove i governi europei, Italia compresa, vogliono stabilire una nuova frontiera per bloccare gli africani. L’Italia sta investendo nel paese, con l’invio, per la prima volta nella storia, di un ambasciatore (Marco Prencipe) nel 2017 e l’inaugurazione della nuova ambasciata, avvenuta lo scorso 3 gennaio con l’intervento del ministro degli Esteri Angelino Alfano in persona. È del gennaio di quest’anno l’approvazione in parlamento dell’invio di militari italiani in Niger, ufficialmente per la lotta alla migrazione clandestina e al terrorismo (vedi box qui sopra).

Proprio per il contrasto ai flussi migratori, il Niger ha firmato degli accordi con l’Unione europea alla Valletta (novembre 2014), grazie ai quali il paese riceve dei finanziamenti. Così nel 2015 l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Niger ha votato una legge (la 36 del 2015) che, entrata in vigore a fine 2016, ha reso illecita qualsiasi attività connessa con la migrazione. Tale legislazione prevede anche un grande dispiego di forze militari e di polizia per il controllo delle frontiere, delle città e delle direttrici di transito dei migranti.

Chiediamo al signor Touré conferma degli effetti della legge: «Ci sono ancora migranti che tentano di andare in Libia, ma sono rari, perché c’è una politica di contenimento, per cui fin dalla frontiera si impedisce loro di entrare in Niger. Prima (della legge, ndr) qui era pieno di migranti sugli autobus di linea delle tre principali compagnie che viaggiano nel Nord. Stavano a Niamey anche una o due settimane, il tempo necessario per ricevere i soldi dalle famiglie e continuare il viaggio, oppure che i passeur (coloro che organizzano i viaggi, o trafficanti) si organizzassero per farli partire. Ora è diventato tutto clandestino, perché sanno di essere ricercati. Prima non si nascondevano».

Migranti di ritorno

Un altro aspetto che ha fatto invertire il flusso, ovvero non solo ridurre quello di andata verso Nord, ma incrementare quello verso Sud dei cosiddetti «migranti di ritorno», è il cambiamento del trattamento che i libici, le varie milizie, riservano da qualche anno ai migranti subsahariani.

«Sono partito per la Libia due volte». Ci racconta Alì Diubate, un ragazzone di 32 anni, di Kankan, Guinea, incontrato al Centro Liberté. «La prima è stata il mese di gennaio 2017. Mi hanno preso molti soldi sulla strada. Sono passato da Agadez e Arlit in Niger, poi da Tamanrasset in Algeria. Lì abbiamo preso una macchina 4×4 per la Libia. I passeur ci hanno messi in un foyer, un posto dove ci hanno chiesto i soldi. Siamo poi passati in un altro foyer, stesso sistema. Appena siamo arrivati a Tripoli ci hanno rinchiusi. Ci hanno legati e torturati, dicendo di chiamare i famigliari, altrimenti ci avrebbero uccisi. Mi hanno fatto un video con il mio cellulare mentre mi maltrattavano e mi hanno imposto di metterlo su Facebook, affinché lo vedessero parenti e amici, per chiedere loro un riscatto. La famiglia ha mandato 3.500 euro che i carcerieri si sono spartiti e poi mi hanno liberato. Sono arrivato al porto, dove si parte con i barconi, ma lì era anche peggio. Hanno preso tutti i soldi che mi erano rimasti. Con altri siamo stati obbligati a fare i lavori forzati. Poi ho deciso di ritornare, sono fuggito e sono arrivato qui a Niamey. Dopo quattro mesi sono ripartito, sono tornato a Tripoli, ma è stato di nuovo terribile». Alì ci mostra dei vistosi segni sulle braccia, le cicatrici prodotte dalle torture. «Ho fatto altre due settimane nella loro prigione, ma sono riuscito a scappare e sono tornato qui».

Alì vive al Centro Liberté da due mesi e lamenta che mancano i soldi per pagare l’affitto del tugurio dove ci troviamo, che però è il solo riparo per lui e i suoi compagni. «Se andassi all’Oim mi aiuterebbero a raggiungere Conakry (capitale della Guinea). Ma io sono il primogenito della mia famiglia, ho preso tutta l’eredità e l’ho persa. Due volte. Ho tre sorelle e due fratelli più piccoli. Quando ero in prigione, l’ultima volta, mi hanno mandato ancora dei soldi. Hanno venduto le vacche, il terreno della casa, per farmi liberare. Tutto è perso. Devo riuscire a mettere qualcosa da parte prima di tornare e ricominciare un’attività in Guinea».

I migranti di ritorno si ritrovano nella capitale nigerina, che è la prima grossa città sul loro percorso di ripiego. Sono fuggiti dalle persecuzioni e dalle torture dei libici, ma hanno impoverito le loro famiglie di origine. I più, invece di rientrare a casa, restano bloccati in questo paese, uno dei più poveri del mondo, alla ricerca di qualche lavoro, che difficilmente permetterà loro di mettere da parte le cifre che hanno dissipato per pagarsi il viaggio.

Se vuoi tornare a casa

L’ufficio dell’Oim di Niamey, vista la sua posizione strategica, ha acquisito negli ultimi anni sempre più importanza e ottenuto fondi. Una giovane funzionaria italiana ci racconta: «A partire dal 2016 sono cresciute le domande di assistenza per il ritorno, mentre prima c’erano molti passaggi per andare verso Nord. Adesso vediamo una frammentazione delle rotte, perché quelle principali sono presidiate dalle forze dell’ordine. I passeur hanno continuato in modo nascosto creando nuove rotte secondarie, evitando i centri e talvolta anche i pozzi nei deserti».

L’Oim Niger può contare su cinque centri di transito, ad Arlit, Dirkou, Agadez nel Nord e due a Niamey, dove se ne sta aprendo un terzo. Qui, chi chiede assistenza all’Oim, viene identificato, rifocillato, aiutato psicologicamente e attende di essere rimpatriato con un mezzo dell’agenzia. I casi vulnerabili, come i minori o donne con particolari problemi, e le persone dei paesi più lontani, sono rimpatriati in aereo. «Nei centri la maggior parte sono migranti di ritorno, ma ci sono anche quelli che, in viaggio verso Nord, decidono di non proseguire», continua la funzionaria.

L’Oim fornisce anche sostegno al governo del Niger, come formazione e fornitura di attrezzature alle autorità consolari.

Capita, al signor Touré, di entrare in contatto con giovani subsahariani che stanno tentando l’avventura verso la Libia. L’anziano agente consolare cerca di dissuaderli: «Quando li incontriamo li portiamo in questi centri e li facciamo parlare con quelli che hanno subito sevizie e torture (in Libia, ndr) in modo che si scoraggino nel continuare. Molti dicono: “Dobbiamo partire, preferiamo morire nel deserto che morire a casa nella miseria”. Una volta è venuto qui l’ambasciatore della Guinea e l’ho portato a incontrare i migranti. Uno di loro era originario dello stesso villaggio dell’ambasciatore. Lui ha cercato di convincerlo, gli avrebbe pagato un volo per tornare a casa, ma l’altro continuava dicendo che era partito con l’intenzione di riuscire. Abbiamo fatto di tutto, ma il ragazzo è partito. Tre mesi dopo mi hanno chiamato per dirmi che era morto. Nel suo gruppo erano sei, tre di loro hanno accettato che pagassimo loro il bus e sono ritornati al paese. Ogni tanto mi chiamano per dirmi che stanno bene, hanno dei piccoli progetti e si sono reintegrati. Come uno che ha realizzato un pollaio e la cosa funziona per lui».

Chi vende chi

Boubacar Oullaré è appena arrivato al Centro Liberté. Ha 28 anni e parla un ottimo francese. Ci dice di essere laureato in giurisprudenza. Aveva un grande sogno, quello di arrivare in Europa. A casa, in Guinea, ha lasciato una moglie e due figli piccoli. Ci spiega i meccanismi del viaggio: «La transazione passa prima attraverso passeur africani (qui l’intervistato intende i subsahariani, ovvero africani di carnagione scura, ndr). Con loro si fa Agadez, Arlit, Tamanrasset. Questi ti vendono ai Tuareg. Da Tamanrasset a Djanet, che è la frontiera tra Algeria e Libia, ti portano i Tuareg, che poi ti vendono ai Tubu (toubou) della Libia. Essi ti portano fino a Tripoli. Qui ti mettono in un foyer, dove chiedono delle somme ai tuoi genitori, per farti traversare oppure per liberarti. Si tratta in realtà di prigioni clandestine, non hai libertà, e ti propongono con la forza degli affari loschi che non puoi rifiutare. Se paghi la somma richiesta ti portano sulla costa. Qui ti prendono tutto, i tuoi abiti, anche la cintura, perché si viaggia su gommoni, e non si vuole rischiare di forarli. Si parte, ma ci sono spesso battelli che si rovesciano nell’acqua. In questo caso, se ti recuperano le navi internazionali sei salvo, perché ti portano in Italia. Se invece sei in acque libiche ritorni in Libia. Noi non abbiamo avuto fortuna – dice con un’enorme delusione sul volto -. Siamo naufragati in acque libiche. Tornati sulla costa avevo speso tutti i soldi. Ho dovuto di nuovo chiamare i miei genitori affinché mi aiutassero. Per questo motivo in Guinea non abbiamo più nulla. Tutti i beni di famiglia sono andati in fumo».

E conclude sconsolato: «Io adesso ho vergogna di presentarmi al mio paese, sono partito e ho preso una somma colossale per il viaggio. Tutto è perso. Siamo qui, e la nostra unica speranza è in Dio».

Lasciando il Centro Liberté i ragazzi, inizialmente ostili, sembrano patire il distacco con questi visitatori stranieri che, in qualche modo, rappresentano la loro terra promessa. Qualcuno di loro parla ad alta voce nella propria lingua, qualcun altro ci dà la mano e ci guarda negli occhi tristemente, sembra dire: «Italiano, domani tornerai in Europa in poche ore con l’aereo. Io ci ho provato e ho perso tutto. Ho rischiato pure la vita. Ti prego, non lasciarmi qui».

Marco Bello

Aqmi, Isis nel Sahara e Boko Haram

Nella morsa jihadista

Il Niger ha un ruolo centrale nella lotta al terrorismo in Africa Occidentale. È in guerra da anni con diversi gruppi armati, appoggiato da eserciti stranieri che ne approfittano per tenere un piede sul suo territorio.

Il Niger è anche al centro della geopolitica della guerra contro i jihadisti. A Nord e Nord Ovest si confronta con le formazioni terroristiche del Sahara e Sahel. Sono i gruppi come Al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e Stato Islamico nel Grande Sahara, una realtà costituita da una galassia di gruppi armati che ora si alleano, ora si combattono e imperversano in Mali e in Burkina Faso. In Mali dal 2012 è in corso una guerra, in cui sono intervenuti l’esercito francese, quello tedesco (con la sua più grande missione militare all’estero) e la Missione delle Nazioni Unite Minusma (13.000 uomini di 26 nazionalità), oltre alle Forze armate maliane (cfr. MC giugno 2017).

In Niger questi gruppi compiono attacchi sporadici, a volte anche incisivi – l’ultimo di rilievo risale al 4 ottobre 2017, quando morirono 5 soldati nigerini e 3 statunitensi -, ma non presidiano alcuna area specifica. Il governo di Mahamadou Issoufou, al potere dal 2011, e rieletto nel 2016, ha infatti sempre avuto un buon controllo del vasto territorio nigerino.

L’altro nemico è a Sud Est, dove la setta fondamentalista Boko Haram impegna sul campo di battaglia diversi eserciti nell’area delle quattro frontiere del lago Ciad. Qui Niger, Ciad, Nigeria e Camerun sono riuniti nella Forza multinazionale mista. In questo contesto intervengono anche i francesi e i droni statunitensi (cfr. MC ottobre 2016 e dicembre 2015) in partenza dalla base franco-statunitense nei pressi dell’aeroporto di Niamey, dove anche l’esercito tedesco sta costruendo la propria base. In tre anni di guerra aperta contro Boko Haram sono centinaia le vittime nigerine (civili e militari) e migliaia gli sfollati nella regione di Diffa. Lo scorso 17 gennaio c’è stato un attacco a una base militare nigerina a Toumour nei pressi di Diffa con almeno 7 morti, al quale sono seguiti bombardamenti aerei della forza multinazionale. Circa un mese prima, fonti militari confermavano l’uccisione di 387 presunti integralisti da parte delle forze armate con l’appoggio dei droni (questi solo recentemente sono stati armati). Il 2 luglio, invece, il villaggio Nguelewa, sempre nei pressi del lago Ciad, era stato attaccato: nove abitanti uccisi e 39 donne e bambini presi in ostaggio. Il primo rapimento di massa nel paese.

Il Niger fa anche parte della coalizione militare G5 Sahel con Mauritania, Mali, Burkina Faso e Ciad per combattere i gruppi jihadisti presenti nella regione. Forza che opera in stretta collaborazione con l’operazione Brakhane (4.000 militari francesi con mezzi, dispiegati nei paesi saheliani contro i jihadisti dal 2014). I governi hanno deciso la creazione di un fondo fiduciario per i finanziamenti necessari a operare, circa 423 milioni di euro per il primo anno. A marzo la forza dovrebbe diventare operativa sul terreno lanciando l’operazione Pagnali, come definito dall’incontro di Parigi, tra i 5 ministri della Difesa africani e quello francese, Florence Parly.

Marco Bello

 

Militari italiani in Niger: addestrare o occupare?

Operazione «scarponi» nella sabbia

Anche l’Italia si appresta a inviare militari e mezzi in Niger. L’ottica è quella di bloccare i migranti in Africa, ma con i numeri previsti è impossibile controllare le frontiere. Mentre i costi rischiano di lievitare.

Il parlamento italiano ha approvato nel gennaio scorso la missione militare in Niger (contestata dal mondo missionario italiano, ndr). Nell’arco di sei mesi, nel paese saheliano potrebbe essere schierato un contingente di 470 uomini. Quale sarà il suo compito? Il generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore della Difesa, ha affermato che non sarà una missione di combattimento. I nostri militari dovranno «addestrare i militari nigerini per renderli capaci di contrastare efficacemente il traffico di migranti e il terrorismo». «In realtà – afferma Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa -, la missione partirà in sordina con lo schieramento di 120 uomini che saranno impiegati per la costruzione di una base logistica a Niamey e per compiti addestrativi. Sarà poi il governo che uscirà dalle elezioni di marzo a decidere se mantenere la missione in questo assetto o ampliarla, affidandole anche i compiti di controllo della frontiera con la Libia dalla quale passano i traffici di uomini, droga, sigarette, ecc.». Indiscrezioni parlano dell’invio dei nostri militari a Madama, in mezzo al Sahara, al confine libico, postazione attualmente occupata da truppe francesi.

Facendo un passo indietro, da dove nasce l’esigenza di questa missione? «La missione – prosegue Gaiani – vuole rispondere alle richieste del Niger di avere un supporto nel contenimento del fenomeno dell’immigrazione. Non è un’esigenza nuova. Nel 2014 ero in Niger e l’allora ministro degli Esteri, oggi ministro dell’Interno, Mohammed Bazoum mi disse: “Con l’Italia c’è un rapporto storico, perché Roma non ci aiuta, formando i nostri uomini e fornendoci i mezzi, per contenere l’immigrazione bloccandone le rotte?”. Nel 2014 però, l’Italia era impegnata nell’operazione Mare Nostrum e non era interessata a inviare uomini in Niger. Oggi le condizioni di politica interna ed estera in Italia sono cambiate e c’è un rinnovato interesse da parte di Roma nel contenere l’immigrazione direttamente in Africa. Il Niger diventa quindi la prima linea sulla quale combattere il traffico di esseri umani, ma non solo».

Il 27 settembre 2017, Niamey e Roma hanno firmato un’intesa che prevede aiuti per 50 milioni di euro e l’invio immediato di 120 uomini. «Da giugno – osserva Gaiani -, la missione potrebbe crescere ulteriormente. Sarà il nuovo governo a stabilire se mantenere un contingente ridotto oppure se aumentarlo e quali missioni affidargli. A mio parere, se la missione sarà quella di controllare i confini tra Niger e Libia, 470 uomini potrebbero essere pochi per presidiare un’area così vasta. I militari sul terreno dovrebbero infatti avere il supporto di elicotteri, droni, mezzi di terra, apparati elettronici, ecc. Ciò aumenterebbe il costo della missione e lo sforzo logistico e operativo delle nostre forze armate».

In Niger gli italiani collaboreranno con altri contingenti? «I militari italiani – conclude Gaiani – lavoreranno insieme alle forze armate francesi che sono impegnate in Niger nella lotta al terrorismo. La presenza di soldati italiani, insieme a quella di militari tedeschi e spagnoli, permetterà a Parigi di ridurre il proprio contingente (e quindi di contenere le spese in bilancio) ma, allo stesso tempo, la Francia avrà la possibilità di mantenere una forte presenza nell’area».

Enrico Casale