Il luogo del confronto è la «Casa di Maria», frequentata soprattutto dai musulmani. Prove di dialogo anche a Nicea, dove quest’anno si celebrano i 1700 anni del Concilio.
C’è un santuario in Turchia, cristiano ma frequentato soprattutto dai musulmani. È Meryem Ana, la Casa di Maria, a Efeso, il luogo dove, per la Tradizione, la Madonna ha vissuto insieme all’apostolo Giovanni dopo la morte, risurrezione e ascensione di Gesù.
Efeso dunque è come un ponte tra islam e cristianesimo. Lo è Meryem Ana, ma anche il grande parco archeologico nel quale si trovano i resti della prima basilica al mondo dedicata alla Madonna (qui conosciuta come la Madre di Dio), e l’anfiteatro dove San Paolo predicava agli efesini, una delle città più vivaci di quei tempi.
Oggi, nella terra dove si è sviluppata una delle prime comunità seguaci di Cristo, i cristiani sono pochissimi, non possono celebrare dove vogliono e, soprattutto, non possono svolgere una vera e propria opera missionaria.
Tuttavia si vedono germogliare semi di dialogo e rispetto reciproco, considerati anche i tanti pellegrini che scelgono la Turchia per i loro viaggi di fede.
A raccontare la devozione di donne e famiglie islamiche per la Madonna di Efeso, sono Caterina e Antonietta, laiche consacrate della famiglia delle Discepole di Maria e dell’apostolo Giovanni. La prima è di Salerno, l’altra di Avellino. Hanno lasciato l’Italia dieci anni fa per vivere in Turchia e, da nove, vivono a Efeso, «ai piedi di Maria», come loro stesse dicono.
«Per i musulmani questo è un “ibadet yeri”, un luogo sacro, benedetto. Infatti nel Corano c’è una Sura – ricorda Antonietta – che dice che Maria è la donna più santa tra tutte le donne. E molti si affidano a lei per avere un bambino. Ci è capitato qualche volta che alcune donne musulmane siano venute qui e abbiano ringraziato la Madonna aver chiesto la grazia di avere un figlio».
Caterina ci mostra un piccolo oggetto nella bacheca di vetro che sta all’uscita della Casa di Maria: «Una coppia da Ankara ha lasciato questa piccola medaglia – dice mostrando l’oggetto devozionale – con una “d” sopra, che significa “dilek”, desiderio. Dopo sette anni, la coppia ha avuto una bambina e l’ha chiamata proprio così: Desiderio».
Tanti lasciano regali a Meryem, una consolazione per molte famiglie in questa terra.
«La Casa della Madonna è un po’ come un ponte tra le varie religioni, soprattutto tra il Cristianesimo e l’Islam. Qui pregano sia cristiani che musulmani, e questo è già un segno che c’è qualcosa di particolare», dice una delle due consacrate.
Grande attesa c’è anche a Nicea dove a fine maggio verranno celebrati i 1700 anni del famoso Concilio. Un evento al quale, salute permettendo, è atteso anche Papa Francesco.
«Le istituzioni della Turchia – dice il vescovo di Istanbul, monsignor Massimiliano Palinuro – sono impegnate ad accogliere il Santo Padre in maniera straordinaria e generosa. Le autorità ci hanno mostrato i progetti ambiziosi che intendono realizzare a Nicea. Il luogo sarà attrezzato, entro maggio, per accogliere i pellegrini e per rendere fruibile il sito archeologico del posto dove si è celebrato il primo Concilio ecumenico», ha sottolineato parlando con la delegazione dell’Opera pomana pellegrinaggi nelle settimane scorse in missione in Turchia con un gruppo di sacerdoti e giornalisti. «La Turchia – ribadisce il vescovo – si sta preparando a quest’evento in maniera straordinaria, vogliono fare il massimo possibile».
È chiaro che, nonostante nel Paese la fede musulmana sia assolutamente prevalente, oggi c’è nei cittadini turchi un interesse per questi siti legato anche al turismo religioso. Questo, tra l’altro, a causa del conflitto in Medio Oriente, si è spostato proprio qui, verso la terra dove per la prima volta i cristiani furono chiamati in questo modo.
Allo stesso tempo, è vero che in Turchia «la Chiesa ha la possibilità di crescere nel dialogo con chi non è cristiano», come dice padre Alessandro Amprino, cancelliere dell’arcidiocesi di Smirne.
Il dialogo è sempre stato al centro della pastorale di monsignor Antuan Ilgit, vicario apostolico dell’Anatolia: «In questa terra, già da secoli – ha detto al momento della sua ordinazione episcopale poco più di un anno fa -, si sperimenta il dialogo e il cammino d’insieme tra le differenti realtà cristiane nella quotidianità, condividendo le stesse sorti, gioie e dolori. E lo stesso vale in una prospettiva di dialogo interreligioso con l’islam».
Manuela Tulli
Siria. In posa con i «liberatori»
Dopo 54 anni, è crollato il regime della famiglia Assad. La gran parte dei siriani ha festeggiato. La domanda principale è: i nuovi padroni islamisti saranno affidabili? Reportage da Damasco, Maaloula, Idlib e Bosra.
Giovedì 12 dicembre 2024. Entriamo in Siria in auto, arrivando da Beirut. Sono trascorsi cinque giorni dalla presa di Damasco da parte dei ribelli dello Hay’at Tahrir al-Sham (Hts).
Passato il confine libanese, non esiste più un’autorità ufficiale: non c’è un controllo documenti o qualcuno che metta un visto sui nostri passaporti. Troviamo solo alcuni militanti armati che ci chiedono il motivo del nostro passaggio. Quando mostriamo i tesserini da giornalisti, ci sorridono e ci indicano la via. La strada che porta a Damasco è disseminata di mezzi militari bruciati, carri armati di fabbricazione russa abbandonati, postazioni lanciamissili distrutte: è quello che rimane della fuga dell’esercito governativo.
In questi giorni, la capitale siria-na è meta di un vero e proprio pellegrinaggio. Migliaia sono le persone che arrivano alla grande moschea degli Omayyadi. Viaggiano fino a qui per festeggiare la caduta del regime degli Assad, dittatura che ha tenuto in ostaggio questo Paese per 54 anni.
Si viene qui anche per conoscere i «liberatori»: i ribelli dell’Hts. Decine di ragazzini si fanno fotografare accanto ai combattenti, a volte anche in posa imbracciando le loro armi. Molti dei ribelli, sul braccio, hanno cucito lo stemma che riproduce la prima parte della Shahādah, ovvero la frase riportata sul Corano: «Non esiste nessun Dio se non Allah».
Lo stesso motto era stato adottato dai membri dell’Isis in Iraq, e dai Talebani in Afghanistan.
Quando facciamo notare questo particolare a uno dei combattenti, ci risponde: «Queste sono parole di cui Daesh si è appropriato mettendole sulla propria bandiera, ma appartengono a tutto l’islam. Noi non abbiamo nulla a che vedere con loro. Anzi, li combattiamo».
La maggior parte dei «ribelli», con cui parliamo, arriva da Idlib, città che è stata la roccaforte dell’Hts dal 2017. Ma, guardandoci attorno con un occhio più attento, notiamo anche alcuni mercenari stranieri: un ucraino e alcuni ceceni che, a parte dirci la loro provenienza, si rifiutano di rilasciare dichiarazioni.
Ogni giorno, a Damasco, nella grande moschea degli Omayyad arrivano centinaia di fedeli islamici a pregare insieme ai ribelli dell’Hts. Foto Angelo Calianno.
Carceri e fosse comuni
Le immagini degli Assad, padre e figlio, che tappezzavano ogni angolo della nazione, ora sono oggetto di qualsiasi tipo di vandalismo. Ovunque, si cancellano i volti della famiglia dei dittatori. Si coprono tutte le vecchie bandiere, prima dipinte sulle serrande dei negozi e sui muri di ogni città, per sostituirle con l’immagine del nuovo vessillo: una bandiera verde, bianca, nera e con tre stelle.
La maggior parte delle persone con cui parliamo è entusiasta di questo cambiamento. L’aria è davvero elettrica.
In un caffè nel centro di Damasco, saturo del fumo di narghilé, incontriamo Bilal. Lo avevamo già conosciuto anni fa, durante la guerra, ora ci confessa: «È difficile far capire la nostra felicità in questo momento. Quando siete stati qui, l’ultima volta, io non ho potuto dirvi quasi nulla per paura delle spie. Ho dovuto anche riportare la vostra presenza, e il dettaglio dei nostri incontri, alla “polizia segreta” di Assad, proprio perché tutto doveva essere controllato. Oggi, come vedi, siamo liberi di insultarlo, di prenderlo in giro cantando cori contro la sua famiglia. Io sono nato e cresciuto nel regime, l’idea di dirvi quello che vi sto dicendo adesso era impensabile solo pochi giorni fa. La paura, però, è così radicata in noi che, anche ora mentre vi parlo, non sono totalmente tranquillo e continuo a guardarmi le spalle. Ho ancora il timore che qualcuno possa ascoltarmi e denunciarmi. Ci vorrà tempo per togliersi queste abitudini».
Per una parte di nazione che festeggia, ce n’è un’altra che fa i conti con il dolore e la ricerca dei propri cari. Gli oppositori degli Assad venivano arrestati per poi «scomparire», senza quasi lasciare traccia. Nessuno dei familiari sapeva esattamente in quali penitenziari si trovassero e se fossero vivi o morti.
Oggi, tutti i parenti degli ex detenuti affollano le prigioni del regime, carceri come quelle di Saydnaya. Provano a cercare documenti o indizi che possano riaccendere una speranza. Centinaia di genitori e figli si radunano anche fuori dagli obitori e, tra le foto dei cadaveri riesumati dalle fosse comuni, provano a identificare particolari attraverso i quali riconoscere i propri familiari.
Non tutti i siriani sono ottimisti quando guardano al futuro, alcuni sono molto cauti e hanno anche timore nel parlare.
A Maaloula, la cristiana
Una ragazza si fa ritrarre con un kalashnikov in mano nel cortile della moschea degli Omayyad. Foto Angelo Calianno.
Arriviamo a Maaloula, cittadina cristiana di circa duemila abitanti, a un’ora da Damasco. Qui si parla ancora l’aramaico e i suoi monasteri, come quello di Santa Tecla, fanno parte dei siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
Nel 2013, Maaloula divenne tristemente famosa per gli attacchi subiti dal gruppo estremista di al-Nusra. Per due mesi l’esercito siriano, insieme ai miliziani cristiani, provò a contrastare l’assedio dei combattenti di al-Nusra, capitolando poi il 2 dicembre.
I cristiani vennero accusati di essere alleati di Assad. Per punire la loro resistenza, i militanti jihadisti bruciarono case e chiese, in seguito, rapirono anche dodici suore dal monastero di Santa Tecla. Le religiose rimasero in ostaggio per tre mesi. Furono, infine, liberate in uno scambio con prigionieri detenuti nelle carceri di Assad.
Il gruppo di al-Nusra era stato fondato tra il 2011 e il 2012, proprio da Abu Mohammed al-Jawlani, attuale leader dell’Hts e della «Nuova Siria». Fu lui a coordinare l’assedio e la conquista di Maaloula.
Quando cerchiamo di intervistare alcune suore nel monastero, ci chiedono rispettosamente di andare via. Nessuno ha voglia di parlare. Proviamo ad avvicinare alcuni abitanti del villaggio. Un gruppo di ragazzi vorrebbe dirci qualcosa, ma vengono subito zittiti dagli uomini più anziani. Un signore, mentre allontana i giovani che volevano parlare con noi, ci dice: «Questo non è il momento di fare dichiarazioni. Noi ora aspettiamo di vedere quello che accadrà. Sicuramente, per noi una cosa è importante: non cederemo le nostre armi».
Malgrado, almeno a prima vista, la maggior parte dei siriani esprima gioia, positività e parli di pace, tutti cercano di recuperare armi, quasi in maniera ossessiva.
Data la fuga improvvisa dell’e-sercito, gli armamenti si trovano abbandonati ovunque. Le persone frugano nei mezzi militari incustoditi, nei vecchi depositi e al mercato nero. Tutti le hanno in casa, ma sembrano non bastare mai.
Jawlani ha dichiarato che uno dei primi obiettivi del nuovo governo sarà quello di disarmare i civili. Ma nessuno di quelli con cui parliamo pare pronto ad accettare questa disposizione.
Il colonnello Naseem Abu Ara (Ottava brigata), seduto sui gradini dell’anfiteatro romano di Bosra. Foto Angelo Calianno.
A Idlib, l’Hts e tante armi
Ci spostiamo a Idlib, città al confine con la Turchia e centro nevralgico dell’Hts dal 2017. Nonostante venga dipinta, almeno dai ribelli che la governano, come un esempio virtuoso di benessere e convivenza tra religioni, troviamo un’atmosfera piuttosto conservatrice. La città, anche se ufficialmente non lo è, sembra sotto una severa sharia islamica.
Nel centro di Idlib, entriamo in uno dei negozi di armi. Qui si può comprare di tutto e in modo perfettamente legale: dai lanciarazzi ai mortai, dai vari tipi di kalashnikov alle pistole. Come commesso troviamo Hussein, un bambino che, già a dieci anni, è esperto di calibri e uso delle armi leggere. Il negozio è affollatissimo. Nessuno sa come sarà la prossima legge sulle armi. Questi luoghi potrebbero essere chiusi e gli armamenti sequestrati. Quindi, si cerca di vendere e comprare tutto e il più presto possibile.
A Bosra, l’Ottava brigata
Parlando della «liberazione» della Siria, i media internazionali hanno quasi sempre nominato l’Hts di Jawlani come unico artefice della fine di Assad. In realtà, le operazioni hanno visto agire (almeno ufficialmente) quattro diversi gruppi autonomi e su più fronti.
Uno dei più importanti, e il primo ad entrare a Damasco, è stato quello dell’Ottava brigata, milizia (un tempo finanziata dalla Russia) che controlla il Sud della Siria, nella provincia di Dar’a. Riusciamo a ottenere un’intervista con l’ufficiale più alto in grado, il colonnello Naseem Abu Ara.
Ci accoglie a Bosra, all’interno dello splendido teatro romano della città: «Benvenuti nella Siria libera!». Ci dice molto calorosamente.
«Possiamo dire con orgoglio di essere stati i primi ad entrare a Damasco. E con altrettanto orgoglio, affermare che il nostro primo pensiero è stato quello di mettere al sicuro i corpi diplomatici e i funzionari stranieri. Non ci aspettavamo di vincere così velocemente. Prospettavamo che la battaglia per riconquistare Damasco potesse durare almeno sei mesi. Ma quando abbiamo cominciato ad avanzare, i militari di Assad sono fuggiti abbandonando armi e mezzi. È anche importante sapere che i nostri rivoluzionari sono professionisti, mentre l’esercito di Assad era formato da soldati di leva molto inesperti. Ma ora il tempo di combattere è terminato. Il nostro obiettivo era quello di liberarci degli assassini del regime. Adesso vogliamo solo la pace per tutti i siriani.
Alcuni organi di stampa si sono detti preoccupati per le minoranze etniche e religiose in questo Paese. Per quel che mi concerne, non attaccheremmo mai altri siriani. Non importa la loro razza o religione: per noi ogni siriano fa parte della nostra nazione e, in quanto tale, va protetto».
Quando gli chiediamo quale sarà il futuro della Siria e qual è il suo rapporto con Jawlani, ci risponde: «Non abbiamo ancora avuto un vero incontro per parlare dei prossimi passi. Ci vorranno alcuni mesi. Inizialmente, siamo stati in disaccordo sulla loro idea di governare tutta la Siria avendo come unico centro Damasco. Il nostro obiettivo è quello di mantenere controllo e sicurezza nella regione del Sud. Sono sicuro che riusciremo a trovare una soluzione. La nostra volontà non è quella di creare divisioni interne, ma di mantenere la pace. In ogni caso, quando si formerà un governo, il nostro primo obiettivo sarà quello di mantenere i diritti delle popolazioni del Sud».
Per molti analisti che studiano il Medio Oriente e anche per molti intellettuali siriani che, dopo anni di esilio, potranno finalmente tornare in patria, la Siria verrà divisa in diverse regioni, tante quante sono i grup-pi che hanno combattuto contro Assad.
Un uomo imbianca una saracinesca cancellando la vecchia bandiera della Siria.; questa azione, altamente simbolica, è avvenuta in ogni angolo della Paese. Foto Angelo Calianno.
Nuovi abiti, stesse regole?
In alcune sue dichiarazioni, Jawlani ha affermato che ci vorranno quattro anni per le prossime elezioni. Nel frattempo, la sua immagine sta cambiando. Sono stati dismessi gli abiti da combattente in favore di vestiti eleganti. Il suo nome di battaglia, Abu Mohammed al-Jawlani, sta progressivamente sparendo dalle news e dai social media in favore del suo vero nome: Ahmed al-Sahara. Su Wikipedia, la biografia del nuovo leader della Siria è stata modificata più di 400 volte nel solo mese di dicembre.
In un’intervista alla Bbc, Jawlani ha detto: «Ora abbiamo bisogno che le sanzioni verso la Siria vengano tolte. Quelle riguardavano il precedente regime. L’Hts non è mai stato un gruppo terroristico, perché non ha mai preso di mira i civili. Smentisco quello che è stato detto su di me, cioè che voglio trasformare la Siria in una sorta di Afghanistan. L’Afghanistan nasce da comunità tribali, i siriani hanno un altro modo di pensare».
Il 14 dicembre 2024, mentre Jawlani rilasciava queste dichiarazioni, centinaia di donne scendevano nella piazza principale di Aleppo per protestare. Erano le mogli di uomini incarcerati dall’Hts, detenzioni avvenute nei primi anni della sua fondazione. Le manifestanti hanno accusato Jawlani di aver messo in galera i propri mariti, colpevoli di aver rifiutato di prendere parte alle operazioni più radicali della sua organizzazione.
Durante la protesta, le donne hanno distribuito volantini su cui era scritto: «La nostra rivoluzione continuerà finché la dittatura secolare non sarà eliminata. Vogliono cambiare volto, ma mantenere le stesse regole».
Angelo Calianno
Nella prigione di Saydnaya, a Sud di Damasco, un uomo cerca tra i registri sparsi ovunque tracce del passaggio di suo figlio; in questo carcere di Assad sono stati rinchiusi migliaia di detenuti, anche minorenni. Foto Angelo Calianno.
I nuovi padroni (e i loro finanziatori)
Le quattro organizzazioni
Il gruppo Hay’at Tahrir al-Sham, meglio noto con il suo acronimo Hts, è nato da una parte di al-Nusra, nato a sua volta da una costola di al-Qaeda. Al-Nusra era stato fondato e comandato da Jawlani, inizialmente come fronte armato di al-Qaeda per le operazioni in Siria, successivamente, nel 2016, è diventato indipendente per disaccordi strategici su come agire nel Paese. Ha cambiato così il suo nome trasformandosi nell’odierno Hts.
Il gruppo è stato attivo principalmente nel Nord Ovest della Siria, soprattutto nella provincia di Idlib e in una parte di Aleppo. L’Hts conta circa 10mila militanti attivi. Oltre a questi, sono presenti altri due sottogruppi, uno dei quali è formato da mercenari stranieri. Jawlani ha sempre dichiarato che l’Hts è totalmente autofinanziato. Sono però molti i sospetti che non possa essere davvero così. Anche se non ci sono prove ufficiali, tutti i numeri portano a un coinvolgimento economico degli Stati Uniti, di Israele (che – in cambio – otterrebbe e occuperebbe i territori vicino al proprio confine), e di alcuni Emirati arabi che avevano interesse a vedere Assad fuori gioco.
La Syrian national army (Sna) è un’organizzazione finanziata principalmente dalla Turchia, che la usa come fronte per combattere i curdi e riconquistare le terre dell’Est, denominate oggi come «Stato indipendente del Rojava». La Sna ha agito in maniera autonoma e non coordinata con l’Hts, gruppo con il quale è spesso in disaccordo. Gli screzi tra Sna e Hts potrebbero essere uno dei problemi per la formazione del prossimo Stato siriano.
Il Free syrian army (Fsa) è nato nel 2011 da un gruppo di disertori dell’esercito di Assad ed è finanziato dal Qatar.
Infine, l’Ottava brigata, conosciuta localmente come «La Brigata dei leoni della guerra», è stata finanziata per anni dalla Russia per combattere l’Isis nelle regioni del Sud della Siria. L’Ottava brigata è stata quella militarmente più coinvolta nella presa di Damasco. Punta a mantenere una sorta di propria autonomia e gestione nelle regioni del Sud.
An.Ca.
Yarmouk, il quartiere palestinese di Damasco, è stato il primo luogo a ospitare i ribelli dell’opposizione anti Assad per questo fu pesantemente bombardato tra il 2011 e il 2012; qui un furgoncino raccoglie i bambini da accompagnare a scuola. Foto Angelo Calianno.
Da terrorista (con taglia) a presidente
Al-Jawlani, il nuovo leader
Abu Mohammed al-Jawlani è il leader dell’Hts e oggi della Siria. Il suo vero nome è Ahmed al-Sahara. Nato a Riyadh nel 1982, Jawlani passa i primi sette anni della sua vita in Arabia Saudita, paese dove il padre lavora come ingegnere petrolifero. Lui e la sua famiglia fanno ritorno in Siria nel 1989. Da ragazzo, Jawlani comincia a studiare medicina, studi che poi abbandona nel 2003 per unirsi ad al-Qaeda. Con questa combatte in Iraq contro gli Stati Uniti fino al 2006, quando, sempre in Iraq, viene arrestato dalle forze statunitensi e passa cinque anni in galera. Uscito di prigione, viene mandato da al-Baghdadi in Siria per creare un nuovo fronte a Idlib: l’al-Nusra. Quando al-Baghdadi lascia al-Qaeda per formare Daesh, prova ad annettere anche l’al-Nusra di Jawlani. Qui si crea la prima grande frattura tra i due, non sul modo di operare ma sui luoghi in cui operare. Jawlani dichiara di essere contro l’idea del califfato globale di al-Baghdadi, e di voler concentrare le sue azioni all’interno dei confini siriani. Nel 2017, Jawlani raggruppa migliaia di militanti anti Assad da diverse provincie siriane e forma il suo attuale gruppo, l’Hts. Gli Stati Uniti avevano messo su di lui una taglia di dieci milioni di dollari per atti terroristici. Oggi quella taglia è stata revocata e Jawlani, dopo essere stato ricercato per anni, non è più annoverato nelle liste dei terroristi.
An.Ca.
Libano. Quaderno di guerra
Sabato, 25 gennaio 2025, Libano meridionale. Domani, stando agli accordi per il cessate il fuoco stipulati a novembre tra Israele e governo libanese, i soldati dell’Idf (Israel defense forces) dovrebbero ritirarsi dal Sud del Libano. Dopo 16 mesi, passati da rifugiati interni nel proprio Paese, migliaia di persone si preparano a tornare nelle proprie città.
Alì Ghaleb Kouteich è una di queste. Nato e cresciuto ad Houla, uno dei villaggi più a ridosso del confine con Israele, era proprietario di un supermercato, fino a che, a causa dei bombardamenti di Tel Aviv cominciati ad ottobre 2023, non ha dovuto evacuare come la totalità degli abitanti. Anche nel paese dove ha trovato rifugio, Alì ha aperto un supermercato ma, ora, alla vigilia del ritiro delle truppe israeliane, il suo unico pensiero è quello di tornare a casa. Ad Houla sono rimaste in piedi appena il 10 percento delle abitazioni, tutto il resto è stato distrutto dai bombardamenti. Nonostante questo, tutti sono pronti a tornare e a lavorare per una ricostruzione. Negli ultimi giorni, Alì ha deciso di raccogliere tutto quello che poteva dal suo negozio, aiuti di ogni genere da portare nella sua città natale per contribuire a questo nuovo inizio.
Una delle strade bombardate di Tiro. Con la sua splendida posizione sul mare, questa città del Sud del Libano era molto frequentata da turisti provenienti soprattutto dal mondo arabo. (Foto Angelo Calianno)
Domenica, 26 gennaio. Per impedire il ritorno degli abitanti di Houla, gli israeliani hanno fatto saltare in aria le strade creando crateri che rendano impossibile l’entrata delle auto. I libanesi non si danno per vinti, arrivando tutti a piedi. Alì è il primo ad entrare. Al suo arrivo però, trova i soldati dell’Idf ad attenderlo: hanno deciso di non rispettare gli accordi e continuare a presidiare il villaggio. Aprono il fuoco, Alì si accascia al suolo. Subito dopo, viene colpito anche un suo amico e, successivamente, anche due soccorritori. Nonostante il pericolo, uno dei fratelli di Alì decide di provare a salvarlo. Insieme ad un amico, riesce ad introdursi ad Houla con un piccolo motorino. I due afferrano il corpo di Alì, lo trascinano per un tratto di strada per poi caricarlo in mezzo a loro. Fuggono tra gli spari dei soldati israeliani. Purtroppo, però, per Alì non c’è più nulla da fare.
Ghassan è un giovane ingegnere, anche lui è di Houla, caro amico e vicino di casa di Alì. Ci racconta: «Con Alì siamo praticamente cresciuti insieme. Per lavoro o per studio, molti giovani lasciano il Sud, lui invece aveva deciso di rimanere. Era il più piccolo di dieci fratelli, suo padre era un’insegnante, e sua madre ha sempre lavorato la terra nella produzione del tabacco. Tutti, nel Paese, lo conoscevano come una persona pacifica, dal grande cuore. Nella sua vita non si era mai interessato di politica. Quando hanno evacuato Houla, lui è stato uno di quelli che ha cercato di rimanere fino alla fine, fin quando non è diventato troppo pericoloso. In seguito alla partenza forzata, anche fuori dal suo Paese, Alì continuava a frequentare i suoi concittadini: non vedeva l’ora di tornare. L’amore per la sua terra era così grande che, su Houla, ha scritto poesie meravigliose. Ora, dopo la sua morte e grazie ai social media, le sue parole stanno diventando sempre più conosciute. Una delle cose che più mi ha fatto male, è stato vedere come suo fratello ha dovuto provare a soccorrerlo, caricandolo su un motorino. Il video di quella scena mi ha fatto piangere».
La storia di Alì è solo uno dei numerosi esempi di quello che sta accadendo in questi giorni, nel Sud del Libano. Imboscate, attacchi e bombardamenti stanno colpendo tutti i villaggi da cui Israele avrebbe dovuto ritirare le sue truppe. Famoso è già diventato un video che mostra delle donne, nella cittadina di Maroun El Rais, mettersi di fronte ai carrarmati israeliani per impedirne l’entrata nel loro paese.
Nabatiye, un campo di calcio distrutto. Questo spazio è usato anche durante le funzioni religiose dell’Ashura. Il 28 gennaio, anche Nabatiye ha ripreso ad essere attaccata dall’Idf. Non essendoci più un posto davvero sicuro, molti dei rifugiati del Sud si sposteranno nei centri di accoglienza di Beirut. (Foto Angelo Calianno)
Martedì, 28 gennaio. Oggi si tengono molti dei funerali di chi ha provato a tornare a casa, rimanendo ucciso nel tentativo di farlo. Per molte famiglie è stato impossibile recuperare i corpi, così, molti genitori ora piangono su dei vestiti, l’unica cosa rimasta dei propri figli. Contemporaneamente ai funerali, alcuni razzi israeliani sono tornati anche a colpire Nabatiye, città che era stata già devastata prima del cessate il fuoco. Con il nuovo presidente al potere, sostenuto dall’Occidente, e con il forte indebolimento di Hezbollah, da due mesi totalmente sparito dal campo, le popolazioni del Sud del Libano si sentono abbandonate e senza una voce che possa difenderli.
Quando chiediamo ancora a Ghassan il perché di tutto questo e perché Israele, nonostante gli accordi, continui a occupare il Libano, lui ci risponde: «Storicamente, Israele ha sempre usato la forza contro di noi, anche quando non era necessario. Essendo molto avanzati tecnologicamente, potrebbero raggiungere i loro obiettivi senza il bisogno di uccidere. Invece, usano la violenza per farci del male e intimidirci. Secondo me, questo è il motivo di tutta questa distruzione nel Sud, in nessuna di quelle case bombardate c’era Hezbollah. Gli attacchi sono stati perpetrati per ricordarci la loro presenza, e di che cosa sarebbero capaci se osassimo ribellarci. Noi però non siamo solo numeri, non può esserci tutta questa ingiustizia. Ciò che sta accadendo deve essere raccontato e conosciuto in tutto il mondo».
Angelo Calianno
Libano. La felicità dei cristiani maroniti
Beirut, giovedì, 9 gennaio 2025. È festa nel quartiere cristiano maronita della capitale. Dopo due anni di vuoto, il Libano ha un nuovo presidente: il sessantunenne Joseph K. Aoun. Non in tutti i quartieri però, questa elezione è stata presa con lo stesso entusiasmo.
In uno dei caffè della zona centro-sud di Beirut, dove molti intellettuali si riuniscono per discutere e lavorare, incontriamo alcuni ragazzi che, animatamente, commentano la nuova presidenza. Uno di loro ci dice: «Si parla di “elezione” del presidente, ma sarebbe meglio dire “selezione”. Aoun è un candidato voluto da Stati Uniti, Israele, Francia, e supportato direttamente dall’Arabia Saudita. Teoricamente, la sua elezione è anticostituzionale. Aoun era capo delle forze armate e, secondo la nostra Costituzione, un militare non può diventare presidente. A meno che non sia già in pensione e da almeno due anni. Ma, in realtà, la nostra Costituzione viene violata di continuo. Aoun è il quarto ex militare di fila che diventa presidente».
Un altro ragazzo continua: «È stato fondamentalmente un ricatto. Le nazioni straniere che lo supportano hanno mandato una comunicazione agli schieramenti politici: o si sceglieva Aoun, oppure non sarebbero arrivati i fondi per ricostruire il Libano. C’era poca scelta. Per questo, anche il candidato di Hezbollah si è ritirato. La mia rabbia sta nel fatto che chi usa la storia degli aiuti come merce di scambio, sono gli stessi che ci hanno bombardato: Israele con le armi degli Stati Uniti».
Una ragazza appartenente al gruppo ci spiega: «In questo momento, sappiamo benissimo di avere poche risorse e dover essere dipendenti dagli Stati stranieri. Avere un presidente ex militare, e supportato da chi vuole solo consolidare la sua presenza qui, non è per me la situazione ideale. Ma adesso, dopo la crisi economica, dopo la guerra, forse lui è il male minore. A suo vantaggio, posso dire che è più giovane dei suoi predecessori e, almeno, non è mai stato coinvolto in scandali o corruzione. Anche se l’idea non va a genio a molti libanesi, il fatto che lui abbia l’appoggio dell’Occidente e buone relazioni internazionali, è qualcosa che serve per risollevare economicamente le sorti del Paese».
La politica in Libano è molto complessa e vige un sistema settario. Il parlamento è formato in modo da dare a tutte le confessioni religiose (ben 18) una rappresentanza. Così, i seggi sono divisi proporzionalmente tra cristiani (suddivisi in 13 gruppi) e musulmani (5). Il presidente deve essere sempre un cristiano maronita, il primo ministro deve essere sunnita, il presidente del parlamento, sciita.
Subito dopo le elezioni, Aoun ha ricevuto auguri e congratulazioni da ogni parte del mondo, soprattutto da quegli Stati che, in una riunione tenutasi in Qatar nel 2022, lo avevano già appuntato come candidato ideale per il Libano. In particolare, quegli stati erano Francia, Egitto, Arabia Saudita e Israele.
Chi esce sicuramente sconfitto dagli ultimi eventi è Hezbollah, il «partito di Dio». L’organizzazione sciita deve fare i conti con le gravi perdite subite durante la guerra, il vuoto lasciato dalla perdita di Nasrallah, ucciso in un attacco israeliano il 27 settembre 2024, e il ritiro del proprio candidato dalle elezioni. Sempre più incerto pare essere il suo futuro, anche per le accuse di offrire rifugio ai gerarchi del deposto Bashar al-Assad, fuggiti dalla Siria e ricercati dal nuovo governo.
Nel suo primo discorso da presidente, Aoun ha detto che perseguirà una politica positiva e neutrale, volta soprattutto a migliorare le relazioni con gli altri Stati arabi.
Angelo Calianno da Beirut
Siria. Una domenica, a Damasco
Damasco. Dopo una settimana di silenzio, tornano a suonare le campane delle chiese nella capitale siriana. Ci troviamo a Bab Tuma (in arabo, La porta di Tommaso), il quartiere cristiano della capitale siriana. Oggi si celebreranno le messe, ma si terranno in un’atmosfera completamente diversa. I riti religiosi avranno luogo in una «nuova» Siria, dopo 54 anni di regime della famiglia degli Assad.
Un’ora prima dell’inizio delle funzioni, Georges Assadourian, vescovo della Chiesa cattolica armena di Damasco, ci invita per raccontarci come la sua comunità ha vissuto quest’ ultima settimana. «I ribelli hanno cominciato prendendo Aleppo, perché quello è il centro economico della Siria. In questi anni, ci sono stati diversi attacchi per provare ad entrare qui, nella capitale, ma sempre senza successo. Il sabato prima della presa di Damasco avevamo programmato una preghiera. Tanti cristiani hanno avuto paura dell’arrivo degli uomini dell’Hts (Hay’at Tahrir al-Sham), siamo stati spaventati dal loro modo di presentarsi, e dall’origine estremista dei loro gruppi di appartenenza. Abbiamo avuto il timore che sarebbero tornate le persecuzioni contro i cristiani, così come accadde nei luoghi sotto il controllo dell’Isis. Quando il gruppo di al-Julani è arrivato a Damasco, abbiamo chiesto di poter incontrare un rappresentante per capire le loro intenzioni. Siamo andati a incontrarli al Four Season, l’hotel occupato e adibito a quartier generale temporaneo. Ci hanno rassicurato, dichiarando di volere solo la pace e che il tempo della guerra è finito. Ci hanno promesso che non avremo nulla da temere e che tutte le religioni coesisteranno insieme. Se sarà così, io non posso dirlo, ma sono ottimista. Certo, da parte dei fedeli ci sono diverse preoccupazioni. In questo governo, anche se temporaneo, sono tutti musulmani, alcuni magari anche estremisti. Noi invece vorremmo uno Stato laico. In uno stato laico ognuno è libero di professare la propria religione. Alcuni degli uomini di Julani, sono già andati nei negozi che vendono alcolici chiedendo, anche se momentaneamente, di non venderli. Ogni giorno ricevo circa 50-60 persone che, come cristiani in Siria, cercano rassicurazioni sul loro futuro. Non possiamo fare previsioni, possiamo solo attendere e vedere cosa accadrà. Posso dire che, comunque, anche se le intenzioni fossero quelle di radicalizzare la Siria, a Damasco sarebbe molto difficile farlo. Siamo un mosaico di tante culture e religioni diverse, credo che la gente non permetterebbe mai l’istituzione della sharia, almeno qui nella capitale».
Camminando per il quartiere cristiano, si respira un’aria totalmente diversa rispetto a quella che c’era sotto il regime. La gente festeggia e, pian piano, sta perdendo quella costante paura di finire in galera con qualsiasi pretesto. Fotografie e poster, raffiguranti Assad, che decoravano letteralmente ogni angolo delle strade, ora sono fatte a pezzi. I proprietari dei negozi dipingono di bianco le proprie serrande, cancellando la vecchia bandiera della Siria, per poi dipingere quella con i nuovi colori.
Il francescano Firas Lutfi della chiesa dedicata alla Conversione di San Paolo, nel quartiere cristiano di Bab Tuma, a Damasco. (Foto Angelo Calianno)
Raggiungiamo la chiesa latina dedicata alla Conversione di San Paolo, sempre nel quartiere di Bab Tuma. Parlando con i fedeli che escono dalla messa, tutti ci esprimono la gioia di non essere più sotto un regime, e la speranza di non ritrovarsi presto con un altro dittatore. Malgrado questo, nessuno dei cristiani riesce a sbilanciarsi troppo sul futuro, tutti sono molto cauti.
Finito di celebrare la messa, il frate francescano Firas Lutfi ci racconta: «Ora abbiamo sentimenti contrastanti. Gioia, perché l’incubo di Assad è finito. Preoccupazione, perché questi gruppi di ribelli vengono da un background islamico estremista. Ci hanno promesso che saremo tutti liberi senza nessuna persecuzione. Quindi, ora attendiamo per vedere quello che accadrà nel concreto. Quello che noi speriamo, è che tutto sia stabile per arrestare la fuga dei cristiani da questo Paese. Non vogliamo essere considerati una minoranza nel nostro Stato, ma dei cittadini a tutti gli effetti. Si avvicina il Natale, lo celebreremo come abbiamo sempre fatto. Sarà un Natale uguale a quello di Gesù, con povertà e scarsità. Per tutto il resto, ora ci sono solo due cose che possiamo fare, da un punto di vista pratico: attendere, per vedere come si evolverà questa situazione e quali saranno le intenzioni del nuovo governo. Da un punto di vista spirituale: sperare, perché alla fine, per vocazione, noi siamo figli della speranza».
Angelo Calianno, da Damasco
Libano. Israele contro sciiti e sunniti
Verso Nabatiye. Nell’ultima settimana, siamo stati testimoni di un nuovo e grande fermento in Medioriente. La presa della Siria da parte dei «ribelli» sunniti di Hts (Hayat Tahrir al-Sham) sta avendo molte ripercussioni anche qui, in Libano.
Migliaia di siriani si sono riversati per le strade di Beirut e per quelle delle principali città libanesi, per festeggiare la liberazione della propria nazione dal regime di Assad. La maggior parte dei siriani rifugiati in Libano, e il 28% della popolazione locale, sono sunniti in un Paese a prevalenza sciita. Qui le divisioni sociali di origine religiosa sono sempre molto presenti. Non ci sono mai scontri aperti, lo si può però notare nella quotidianità. Ad esempio, un musulmano sunnita non può lavorare in un ambiente sciita, così come ad un musulmano sciita non verrà mai data la possibilità di comprare casa in un quartiere cristiano, ecc.
La maggioranza sciita libanese guarda con sospetto quello che sta accadendo al di là del confine. Una guardia di Hezbollah, fuori da una moschea dove attendiamo alcuni permessi, ci confessa: «Siamo felici che la Siria, dopo così tanto tempo, si sia liberata dal regime di Assad. Però, chi sono questi ribelli? Pochi sono siriani, tanti sono mercenari stranieri. Questa è una manovra di Israele e Stati Uniti per continuare a colpire e occupare Libano e Palestina, e per combattere indirettamente contro la Russia».
In Libano, mentre la parte sunnita della comunità musulmana gioisce, l’altra si dispera per quello che accade nella parte Sud del Paese. Gran parte dell’area meridionale confinante con Israele, infatti, è stata quasi rasa al suolo. Pur essendoci un «cessate il fuoco» in vigore, Israele sta bombardando 62 villaggi in un’area compresa tra il proprio confine e il fiume litani.
Questi villaggi, in realtà, erano già stati totalmente evacuati perché già sotto attacco dall’8 ottobre 2023. Quindi, perché distruggere case e infrastrutture vuote? Israele dichiara di voler creare una «safe zone». Hezbollah lo accusa di stare distruggendo tutto per poi occupare e annettere nuovi territori. Nel frattempo, migliaia di persone hanno perso tutto e ora vivono come rifugiati nel proprio Paese.
A Nabatiye, un’altra città del sud fortemente colpita, incontriamo delle famiglie scappate da Houla, villaggio a pochissimi chilometri dal confine israeliano. Raccontano: «Il 90% di Houla non esiste più. Le nostre case, quelle che i nostri nonni e genitori hanno costruito, sono state spazzate via. Houla, come tanti paesi del Sud, è un luogo abitato per la maggior parte da anziani. È un posto da dove molti giovani si spostano per studiare e lavorare fuori, ma dove poi si torna per passare le feste, i weekend e per visitare i propri cari. Abbiamo visto il momento esatto del bombardamento della nostra casa in un video in internet. È stato il momento più brutto della nostra vita. Vedere distrutto quello che si è costruito con i sacrifici, è qualcosa che distrugge l’animo, soprattutto quello delle persone anziane che ora non hanno un altro posto dove andare».
Houla è conosciuta anche per un orribile massacro avvenuto nel 31 ottobre 1948, subito dopo la Nakba in Palestina. Un gruppo di militari israeliani, la brigata Carmeli, occupò la cittadina radunando circa cento persone in una casa. L’edificio venne poi fatto saltare in aria, non ci furono sopravvissuti. Inoltre, uno degli ufficiali in comando: Samuele Lais, fu responsabile diretto dell’esecuzione di 35 persone disarmate. Lais, accusato di crimini di guerra, passò solo un anno di detenzione confinato all’interno di una base militare. In seguito, fece carriera politica fino a diventare capo dell’Agenzia ebraica per Israele.
Nei giorni scorsi, alcuni membri dell’Idf sono entrati ad Houla vandalizzando il monumento che ne ricorda il massacro. Sulla grande lastra di marmo commemorativa, i militari hanno scritto in ebraico: «Lo sciita buono è lo sciita morto».
Chiunque incontriamo nel Libano del Sud, nonostante il divieto di rientro, ci dice di non essere assolutamente disposto a pensare ad una vita fuori dalla propria regione. Malgrado ora sia tutto in rovina, ognuna di queste persone è disposta a tornare per ricominciare daccapo con le proprie famiglie, e per costruire nuovi ricordi per le generazioni future.
Angelo Calianno (dal Sud del Libano)
Libano. Una foto tra le macerie
Beirut. Dahye, quartiere della capitale libanese, mercoledì 27 novembre, primo giorno di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah. Migliaia di uomini, donne e bambini, sfilano con i propri mezzi di trasporto sventolando le bandiere del Libano e quelle di Hezbollah («Partito di Dio»). Ragazzi più giovani, armati di pistole e kalashnikov, esultano sparando per aria. I giornalisti, per la prima volta dall’inizio dei bombardamenti a Beirut, sono stati invitati per un «tour» attraverso il quartiere. Non va dimenticato, infatti, che nei quartieri a maggioranza sciita non si fa nulla con gli accrediti ufficiali rilasciati dal governo libanese: qui decide tutto Hezbollah. Questa parte della città era rimasta inaccessibile per due mesi.
Dahye (anche conosciuta come Dahiyeh) è una delle roccaforti principali di Hezbollah, e per questo, una delle aree più colpite dai raid israeliani. È qui che, il 27 settembre, è stato ucciso Hassan Nasrallah, terzo segretario del «Partito di Dio».
Nel cuore della manifestazione, incontriamo Rana El Sahily, portavoce di Hezbollah. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nel partito ci sono molte donne. «Nonostante il dolore per le tantissime perdite – ci racconta Rana -, per noi questo è un giorno di vittoria. Vittoria, perché Israele non è riuscito a invadere il nostro territorio. Vittoria, perché non ci siamo piegati ai loro attacchi e non ci siamo mai arresi. Se avessero continuato questa guerra, avrebbero perso innumerevoli risorse, ma senza ottenere alcun risultato. Per questo, Israele ha accettato il cessate il fuoco. Noi speriamo che questa pace possa durare, anche se gli israeliani, nella storia, non sono famosi per tenere fede alla parola data. In questo caso però, rompere la tregua sarebbe solo a loro svantaggio. Sono loro che hanno tutto da perdere. Per noi adesso comincia la ricostruzione. Ricostruiremo tutto come prima, anzi meglio di prima».
A Beirut, si festeggia il cessate il fuoco. Foto di Angelo Calianno.
Oggi si festeggia, ma le strade mostrano tutti i segni pesanti della devastazione. Molte case, scuole e infrastrutture sono state completamente cancellate. L’aria, piena di polvere e detriti, è quasi irrespirabile se non si indossa una mascherina protettiva.
Beirut, in questi mesi, è stata l’ombra di sé stessa: locali chiusi, le strade centrali del souq deserte. Scuole, palestre e anche hotel: tutto è stato riconvertito a rifugio per gli evacuati. Per due mesi si è vissuto con l’incessante suono dei droni sopra le teste e la paura degli attacchi che, puntualmente, arrivavano ogni notte.
Nei giorni successivi alla dichiarazione del cessate il fuoco, per strada si sono riversati centinaia di furgoncini e macchine stracolme di bagagli: erano le famiglie che tornavano a casa. Sono stati più di un milione i libanesi che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa del conflitto.
Molti però, al loro ritorno, non trovano più nulla. A Chiyeh, altro quartiere di Beirut a maggioranza sciita e massicciamente colpito, incontriamo due donne. Sono ferme davanti ad un cumulo di macerie. Fino a quattro giorni fa, qui c’era la loro casa. Quello che era un condominio di sette piani, ora è una pila di rovine alta qualche metro.
Una di loro, la più giovane, racconta: «Siamo dovuti fuggire così in fretta durante i bombardamenti, da non avere avuto il tempo di prendere niente. Non abbiamo più nulla. Tutto quello che possediamo ora, è solo quello che portiamo addosso».
La signora più anziana, tra le macerie, trova una foto di famiglia. La cornice è distrutta ma l’immagine è ancora intatta. La ripulisce, la bacia, e se la stringe al petto. Oggi, nuovi attacchi Israeliani registrati a Sud, mettono nuovamente in dubbio la durata del cessate il fuoco. Malgrado questo, malgrado le grandi divisioni sociali e religiose in Libano, tutti cercano di aiutarsi l’un l’altro superando le proprie diversità e paure. Tutti lavorano insieme pregando che, questa volta, la pace possa essere duratura. Mentre giungono i primi echi del riaccendersi della guerra civile nella confinante Siria.
Angelo Calianno da Beirut
Dieci anni di Isis/Daesh. Che non è morto
Sono passati dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq, attirando l’attenzione di tutto il mondo. Era il 10 giugno del 2014 quando il gruppo terroristico dichiarava l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica nei territori occupati.
I cristiani furono costretti a scegliere: lasciare la città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà.
Qualche giorno dopo le porte delle case dei cristiani vennero segnate con la lettera «n» in arabo, «marchiati» perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Fu la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone dalla Piana di Ninive in direzione del più sicuro Kurdistan, dove si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil.
Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con loro soltanto quanto avevano indosso.
A distanza di dieci anni, solo una minoranza di loro è tornata, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021 (vedi Luca Lorusso, Papa Francesco in Iraq. Sui fiumi di Babilonia, MC aprile 2021).
Sembra un secolo fa. Oggi il mondo è alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico tra Iraq e Siria, continua a esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, troppo spesso lontane dai riflettori, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.
Non solo: il recente attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, costato la vita a oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis.
I jihadisti hanno minacciato anche gli Europei di calcio che si giocano in questi giorni in Germania. Un arresto di un presunto fiancheggiatore dell’Isis è stato eseguito dalla polizia federale tedesca qualche settimana prima dell’inizio del campionato.
Le immagini delle tante stragi che si sono consumate negli anni scorsi anche nelle grandi città europee, potrebbero quindi non essere solo un ricordo del passato.
Cellule dormienti, dunque, ma non troppo. È recente la creazione di un notiziario nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dal Daesh governato dall’intelligenza artificiale. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta», ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group. «Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».
L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il «target» privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che sotto attacco sono state, e sono tuttora, anche le altre minoranze religiose come quella degli yazidi. Nei loro confronti è stato perpetrato un vero e proprio «genocidio», l’ultimo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Quasi tremila donne e ragazze sono state rapite, hanno subito stupri e altre forme di violenza sessuale e molte sono ancora disperse. I ragazzi sono stati separati dalle loro famiglie e reclutati con la forza nell’Isis. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto di Save the children due anni fa.
Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. Ogni volta si è presentato lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.
Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq. Ma è l’Africa la nuova centrale delle cellule terroristiche che, pur portando altri nomi, sono affiliate, o comunque si ispirano, al Daesh. Le sigle sono diverse ma i metodi sono gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate, dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla Papa Francesco.
Manuela Tulli
Israele-Palestina. Quando il dolore unisce due padri in lutto
Due padri, uno israeliano e uno palestinese, hanno perso entrambi una figlia nel conflitto. Ora testimoniano che l’unica via è quella dell’amicizia e del dialogo. Lo hanno detto anche in un incontro in Vaticano con Papa Francesco.
C’è un grande dolore a unire un padre israeliano e uno palestinese: la perdita di una figlia nel conflitto. Uno strazio che li ha portati a tramutare l’odio in testimonianza.
Sono Rami Elhanan, israeliano, e Bassam Aramin, palestinese. Li incontriamo in Vaticano dove sono stati ricevuti da Papa Francesco. La giornata è piovosa, cercano riparo sotto lo stesso ombrello, si stringono, come fanno da anni per gridare al mondo che nella loro terra si può vivere insieme.
«Volevamo raccontargli che anche noi possiamo vivere in pace, da fratelli nella stessa terra. È stato un incontro straordinario», dicono parlando del Pontefice.
Gli hanno mostrato le fotografie delle loro amate figlie cadute in questa guerra israelo-palestinese che da decenni sembra non trovare via d’uscita. «Io sono ebreo, lui – dice Rami indicando l’amico Bassam – è musulmano, il Papa è cristiano. Ma in fondo siamo tutti umani e possiamo essere fratelli invece di continuare a ucciderci a vicenda». E questo Bassam e Rami lo mettono in pratica non solo nell’amicizia personale ma anche nel loro impegno in due associazioni che nella dilaniata terra del Medio Oriente perseguono la via del dialogo: Il Parents Circle-Families Forum, l’organizzazione di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso i propri familiari a causa del conflitto, e i Combatants for Peace. «Combattenti, sì, perché, una volta, io e lui combattevamo su fronti opposti», dice Bassam. Lui nella milizia palestinese, Rami nell’esercito israeliano. Ora «combattono» invece dalla stessa parte.
Dal 7 ottobre dello scorso anno il loro impegno ha assunto un maggiore significato: «Noi conosciamo esattamente il sentimento delle altre famiglie, in Israele e a Gaza. Dobbiamo continuare a parlare, a incontrarci e ad agire insieme per una educazione alla non violenza. Significa fare eco in tutto il mondo e comprendere – dicono i due padri – che con questo spargimento di sangue non si andrà da nessuna parte, che il diritto all’autodifesa non dà il diritto alla vendetta».
Copertina del libro di Colum McCann, «Apeirogon»
La loro storia è stata raccontata in un libro, «Apeirogon», con cui l’autore irlandese Colum McCann ha vinto il Premio Terzani 2022.
Era il 1997 quando Smadar Elhanan, una ragazzina di 14 anni, fu uccisa durante un attacco suicida di Hamas a Gerusalemme. Qualche anno dopo, nel 2005, suo padre, Rami, conobbe Bassam Aramin in una manifestazione organizzata dal movimento Combattenti per la pace.
«Per i palestinesi non è un onore avere un amico israeliano, perché li considerano come occupanti, ma io mi sono subito affezionato a Rami e abbiamo scoperto di avere gli stessi valori, alla fine siamo tutti esseri umani», ribadisce Aramin.
Due anni dopo quel primo incontro, il 16 gennaio 2007, anche Bassam avrebbe scoperto il dolore per la perdita della propria bambina: Abir aveva 10 anni, quando un agente di frontiera israeliano le sparò alla nuca. Rami corse al capezzale della figlia dell’amico e ci restò per i due giorni nei quali lei lottò tra la vita e la morte: «È stato come perdere mia figlia una seconda volta», commenta con gli occhi, ancora oggi, velati dalla commozione. «È stato doloroso – spiega Bassam – vedere il senso di colpa sul viso di Rami perché israeliano».
Da quel giorno, Rami e Bassam raccontano la loro storia e l’hanno voluta far conoscere anche a Papa Francesco. Il motivo? «Lanciare il messaggio che c’è un’altra possibilità, un’altra strada. E che questo conflitto non finirà mai se continuiamo a non parlarci».
Manuela Tulli
Iraq. Una fuga che non si arresta
Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.
Baghdad. È la mattina del 31 ottobre 2010 quando, nel centro della città, si sente una forte esplosione. Un’autobomba salta in aria vicino alla sede della borsa valori, nel cuore della capitale. Due uomini di guardia rimangono gravemente feriti. Le forze di sicurezza si mobilitano, circondano l’area dell’attacco, un elicottero sorvola la scena. Il vero obiettivo però è un altro, questo primo attentato forse serve solo da diversivo.
Ore dopo, nella chiesa siro cattolica di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza), una delle più grandi di Baghdad, si sta celebrando la messa.
Cinque uomini appaiono ai cancelli, indossano uniformi da guardia di sicurezza privata. Un’auto bomba deflagra in strada, uno dei cinque si fa esplodere all’ingresso della chiesa. Gli altri quattro entrano sparando sulla folla e prendono in ostaggio 120 fedeli.
Molti si nascondono sotto le panche, altri si mettono in ginocchio. I terroristi urlano di fare silenzio, uno di loro telefona al canale televisivo di Al-Baghdadiya. Dichiarano di essere una cellula affiliata ad Al Qaeda e pretendono la liberazione di alcuni compagni rinchiusi nelle carceri irachene e libanesi.
Nel frattempo, le forze di sicurezza circondano l’edificio, l’elicottero sulla scena dell’attentato alla borsa valori si è spostato sulla zona del nuovo attacco.
Nella chiesa ci sono due giovani sacerdoti che stavano celebrando la messa. Provano a far ragionare i terroristi e tenere calmi i fedeli. Padre Saad Abdal Tha’ir e padre Waseem Tabeeh vengono messi in ginocchio e freddati sull’altare.
Le forze di sicurezza irachene decidono di non negoziare. Irrompono nell’edificio. Si sente un’altra esplosione e un lungo scontro a fuoco.
Quando la chiesa viene liberata e messa in sicurezza, i morti sono 58: due sacerdoti, 46 fedeli, inclusi due bambini e una donna incinta di tre mesi. Un terzo sacerdote presente alla messa, padre Raphael Qatin, morirà in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il resto dei corpi sono di poliziotti e terroristi.
Settanta sono i feriti gravi, 26 dei quali, grazie all’intervento della Chiesa, vengono trasferiti a Roma per essere curati.
Quattro anni dopo, quella cellula terroristica affiliata ad Al Qaeda, verrà conosciuta dal mondo come «Isis».
Una strada di Baghdad con, in lontananza, la chiesa armena ortodossa di Meskenta. Foto Angelo Calianno.
Per i cristiani la fuga continua
Oggi la chiesa di Nostra Signora della Salvezza è stata totalmente ricostruita. Le mura che circondano l’edificio sono dipinte con le immagini di papa Francesco, venuto qui in visita a marzo del 2021 per onorare e ricordare le vittime dell’attentato. Per i 46 fedeli e i 2 sacerdoti, il 31 ottobre 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione.
Il sagrestano Natiq Anwar, sopravvissuto all’attentato del 2010. Foto Angelo Calianno.
Attorno ai muri, tra scritte e pensieri di pace con le immagini del pontefice, ci sono anche reti metalliche, filo spinato, telecamere di sicurezza e sbarre di metallo. Natiq Anwar è il sagrestano della chiesa, uno dei sopravvissuti all’attacco del 2010 e tra quelli curati a Roma. Mentre mi guida all’interno della chiesa e nella cripta racconta: «È accaduto tutto molto velocemente. Io sono stato ferito da una delle esplosioni, ricordo l’arrivo di questi uomini in divisa, il boato, le urla che provenivano dalla chiesa e tanto sangue ovunque. Sono invalido da allora, ho subito diverse operazioni a reni e fegato e ho gravi problemi di vista».
«Dopo quello che hai vissuto e data l’instabilità della sicurezza nel paese, hai paura che ci possano essere altri attacchi?», gli chiedo. «Sì, io ho sempre paura che possa riaccadere, ogni volta che entro qui e che guardo verso i cancelli, mi immagino che improvvisamente possano ricomparire degli uomini e che tutto si ripeta. Ma sono un servo di Dio, non rinuncio a lavorare qui, questo è il mio posto».
In uno dei cortili della chiesa incontro Burnahnuddin Assaq Ibrahim, uno dei cinque rappresentanti cristiani del parlamento iracheno, una piccola minoranza dei 329 membri.
«Ognuno di noi è responsabile di una provincia. Devo essere sincero però, negli ultimi anni soprattutto, ci sentiamo rispettati. Quando parliamo, i nostri colleghi ci ascoltano e cercano di venire incontro alle nostre richieste. Il vero problema è che i cristiani scappano da questo paese. La paura degli attacchi e l’instabilità causano la fuga. Nel 2003 eravamo quasi un milione e mezzo, oggi siamo circa 300mila. Però noi cristiani, anche se di diverse confessioni, siamo uniti tra noi».
Sono giorni particolari in Iraq, è l’anniversario della morte dell’Imam Musa Al Kadhim, settimo imam e martire sciita seppellito qui a Baghdad.
Per tre giorni, pellegrini sciiti da tutto il mondo arabo e dall’Asia centrale, vengono qui per pregare davanti al grande santuario. Per strada ci sono tende e migliaia di banchetti allestiti con cibo gratuito. I pellegrini arrivano a piedi, a volte camminando scalzi, non solo dalle province irachene ma anche da Iran, Libano, Pakistan, Uzbekistan.
«Ogni anno, solo per organizzare le baracche con il cibo gratuito per i pellegrini, i leader politici di fede sciita spendono migliaia e migliaia di dollari. Tutto questo è una manovra politica per ottenere voti e consensi, molte di queste persone mangiano carne forse una volta l’anno, non hanno mai visto così tanto cibo tutto insieme nella loro vita e arrivano da zone veramente povere», confessa un poliziotto di pattuglia.
Straordinarie sono anche le misure di sicurezza. Le chiese e le comunità cristiane non sono i soli bersagli dei terroristi, ma anche, e di recente soprattutto, i santuari e le moschee sciite. Proprio durante i giorni del pellegrinaggio, puntualmente l’Isis minaccia di attaccare la moschea di Al Khadim. Molti, in questi anni, sono stati gli attentati sventati, ma anche quelli arrivati a segno, come l’autobomba del 2014 che uccise 21 persone, o le granate che, nel marzo 2021, uccisero dieci uomini tra i pellegrini in visita al santuario.
La chiesa di Nostra Signora del Rosario, a Baghdad. Foto Angelo Calianno.
Identità: musulmano o non musulmano
Il parlamentare cristiano Burnahnuddin Assaq Ibrahim. Foto Angelo Calianno.
In questo contesto, con l’attenzione dei media e delle forze di sicurezza concentrata sulle strade del pellegrinaggio, con il traffico, le cucine a cielo aperto, è molto complicato scorgere e raggiungere le chiese cristiane di Baghdad.
Spesso sono situate in quartieri periferici e molti degli edifici religiosi non si differenziano dalle case attorno. Per intravedere una croce, quasi mai visibile da lontano, occorre arrivare molto vicino all’entrata.
Raggiungo la cattedrale latina di San Giuseppe, fondata nel 1632, elevata a sede di arcidiocesi il 19 settembre 1848, dove mi accoglie padre Francis Domenique.
Padre Peter, sacerdote di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.
La chiesa si affaccia su una strada anonima in un quartiere residenziale, all’interno delle mura però si apre un altro mondo: un campetto da pallavolo, una sala lettura, dei cortili dove i pochi giovani cristiani possono incontrarsi e socializzare.
Uno di questi ragazzi è Raed.
«Non è facile essere cristiani qui. Non dico che viviamo degli episodi di razzismo direttamente, ma, ad esempio, se faccio domanda per un lavoro e c’è un candidato musulmano con la mia stessa preparazione, in questo caso sicuramente si preferirà lui. Oltre a questo, i ragazzi sono davvero pochi, moltissimi vanno via: in Kurdistan o magari in Europa. Ho tanti amici che sono via e mi raccontano come va lì. Non è che hanno una vita semplice, certo, le difficoltà si trovano in tutto il mondo, però sono liberi di professare la propria religione senza imbarazzo o discriminazione. I miei amici all’estero non sono giudicati per la propria religione, questa è una grande libertà che qui non è affatto scontata».
«E tu, se potessi, o magari ci stai pensando, andresti via?». Sorride: «Sì, penso che potrei andare via se mi si presentasse un’occasione».
Padre Dominque Francis, sacerdote di San Giuseppe e Teresa. Foto Angelo Calianno.
All’interno del cortile, impegnato a giocare a pallavolo con i ragazzi, incontro anche Zayed, frate domenicano. «Padre Zayed, com’è la vita dei cristiani oggi in Iraq? Alcune persone, tra le autorità che ho intervistato, mi hanno detto che le varie correnti cristiane sono unite tra di loro. Secondo lei, è davvero così?».
«No – risponde -, non penso che i cristiani in Iraq siano uniti e credo che questa disunione sia una delle cause dei nostri problemi. La discriminazione è reale, come il grande esodo dei cristiani che preferiscono andare via. La verità è che all’estero, anche se in un paese straniero, è comunque più facile che qui. La discriminazione può manifestarsi in diverse maniere, sia diretta che indiretta. Ti faccio un esempio pratico: sui nostri documenti deve esserci scritta la religione, ma si può solo scrivere musulmano o non musulmano. Potrà sembrare cosa da poco, ma è così che poi funziona anche il resto. Le altre religioni non sono contemplate, o sei musulmano oppure no».
La difficile quotidianità dei convertiti
In un altro quartiere periferico, fuori dalla chiesa della Madonna del Rosario, incontro Joseph (nome di fantasia), che mi chiede di mantenere segreta la sua identità.
Joseph è di origine musulmana, ma si è convertito al cristianesimo. Racconta: «In Iraq, la vita più difficile ce l’abbiamo noi che ci siamo convertiti. Io ho sempre voluto essere cristiano, da quando ero bambino e giocavo a calcio con gli altri ragazzini nel cortile di una chiesa qui vicino. Prima di convertirmi dovevo andare in chiesa di nascosto, una volta presa la decisione, la mia famiglia non mi ha più rivolto la parola. Da quel momento sono cominciati tutti i miei guai, lavoravo in un ufficio che aveva relazioni con l’estero e mi è stata fatta molta pressione per andare via. Trovare e mantenere un lavoro è la cosa più difficile per i cristiani in Iraq, per chi come me, poi, si è convertito, è anche peggio».
«Hai mai vissuto episodi di violenza?». «Personalmente, violenza fisica no. Sono stato insultato molte volte, anche dalla mia famiglia. Purtroppo, i miei genitori, fratelli e sorelle, sono stati vittime di vessazioni a causa della mia conversione. Le violenze peggiori si perpetrano contro le donne, soprattutto quelle di origine musulmana che decidono di sposare un altro convertito. La moglie di un mio amico in una zona a Sud del paese, poco tempo fa, è stata vittima di un lancio di pietre perché non portava il velo. Baghdad è più libera da questo punto di vista, ma la discriminazione è dietro l’angolo. Non dimenticarti poi, che in caso di attacco da parte degli estremisti, noi siamo sempre il loro bersaglio preferito».
«L’Isis continua a operare?», chiedo. «Certamente, soprattutto nei villaggi sulle zone di confine. Hanno bisogno di cibo e denaro per finanziarsi. E le comunità cristiane sono viste come una nuova risorsa per ottenere riscatti».
Angelo Calianno*
(*) Dello stesso autore, sul sito MC, si possono trovare due altri reportage dall’Iraq – aprile 2019 – e maggio 2019.
Croce con le foto dei 48 «martiri» uccisi nell’attentato islamista del 2010 nella chiesa di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.
Cristiani in Iraq, qualche numero
Resistono in trecentomila
In Iraq, il grande esodo della comunità cristiana non si è mai fermato. Nel 2003, erano un milione e 300mila. Oggi, stando alle ultime statistiche, sarebbero soltanto 300mila i cristiani rimasti in questa nazione. Negli ultimi quindici anni, in tutto il paese, sono state più di sessanta le chiese danneggiate o distrutte da attentati terroristici e
conflitti.
Centomila cristiani, provenienti dalla Piana di Ninive a Mosul, occupata dall’Isis fino al 2017, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case distrutte dalla guerra e oggi vivono in Kurdistan. Un grande sforzo economico, da parte della comunità cattolica internazionale, è stato fatto per ricostruire case e luoghi di culto a Mosul, con la speranza del ritorno dei fedeli.
La visita di papa Francesco (*), nel marzo dello scorso anno, ha acceso una flebile speranza che le cose possano migliorare. Questa comunità, che per secoli si è sentita abbandonata, con la visita del pontefice per la prima volta si è sentita riconsiderata.
Già Carol Wojtyla aveva programmato un viaggio qui nel 1999. Il progetto poi venne ostacolato dagli Stati Uniti e da Bill Clinton. Questi temeva che la presenza del papa avrebbe rafforzato Saddam Hussein.
Oggi il paese si dibatte tra gli attentati dell’Isis e le milizie filoiraniane tornate molto attive soprattutto dopo la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso proprio a Baghdad.
Durante la sua visita in Iraq, papa Francesco ha detto: «Il terrorismo quando ha invaso questo caro paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese». Oggi i cristiani in Iraq si dividono tra caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, ortodossi e protestanti.