Mongolia. Giovane Cardinale di una piccola chiesa


Dal 2003 è in Mongolia, paese che ama e che continua a stupirlo. Qui, con altri missionari e missionarie della Consolata, ha fondato una nuova parrocchia. Da agosto 2020 è prefetto apostolico di Ulaanbaatar. Poi l’annuncio di papa Francesco.

Nato il 7 giugno del 1974, cresciuto a Torino tra le parrocchie di sant’Alfonso, Regina delle Missioni e gli scout, Giorgio Marengo decide di entrare nei Missionari della Consolata dopo la maturità al liceo Cavour. Segue il percorso di formazione e viene ordinato a Torino, nel 2001, all’anniversario dei 100 anni dell’Istituto. Nel 2003 è nel primo gruppo di missionari in partenza per la Mongolia.

L’ordinazione episcopale arriva ad agosto 2020. Poi, a sorpresa, il suo nome compare nella lista dei nuovi cardinali, resa nota da papa Francesco lo scorso 29 maggio. Viene quindi nominato nel concistoro del 27 agosto. È il cardinale più giovane, ed è il primo tra i Missionari della Consolata e della chiesa in Mongolia.

Ci accoglie con un grande sorriso, e la disponibilità che lo contraddistingue, nonostante i tanti impegni di un periodo frenetico.

Come descriverebbe la Mongolia in poche parole?

«È un paese affascinante, molto bello, con tanti contrasti, a cominciare da quelli climatici. C’è il deserto freddo più grande del mondo, d’estate +40°, d’inverno

-40°. L’impatto dell’uomo è poco visibile. È il secondo paese meno popolato del mondo (su una superficie 5,2 volte l’Italia, vivono 3,3 milioni di persone).

È difficile da definire, ma possiamo parlare di due Mongolie, quella della capitale e poi tutto il resto. Entrambe rappresentano la Mongolia, ma in maniera diversa. Ulaanbaatar è una capitale evoluta, tecnologica, con molte costruzioni moderne, lo stile di vita è urbano. Negli ultimi dieci anni si è trasformata. La Mongolia dell’interno è quella tradizionale, dell’allevamento, delle grandi distese, delle tradizioni, dell’isolamento, del vuoto.

Un forte elemento identificativo è la storia. Ovvero Gengis Kahn e il ruolo dominante dei mongoli nel XIII secolo, quando hanno costituito l’impero più grande di sempre. Questo ha plasmato la coscienza comune. Sono un popolo molto fiero.

Oggi sono un paese sovrano e democratico in mezzo a due superpotenze, la Federazione Russa e la Cina popolare. La Mongolia è un paese che mantiene la sua identità, e vuole confermare la propria sovranità, su base democratica e di rispetto dei diritti e della libertà.

È stata per settant’anni una repubblica popolare, non formalmente membro dell’Urss, ma totalmente allineata alla politica sovietica. Questo ha implicato questioni molto gravi, compresa la repressione del buddhismo, la cancellazione della libertà religiosa, grosse sfide alla cultura, l’imposizione del cirillico al posto della scrittura mongola, l’ateismo di stato. Quei 70 anni hanno impattato, ma oggi, dopo 30 anni dalla fine del regime, la democrazia è affermata».

La Chiesa cattolica ha compiuto 30 anni nel paese. Come è stato l’inizio?

«All’indomani delle prime elezioni democratiche nel ‘92, quando si è costituito il primo governo multipartitico, questo ha voluto dimostrare al mondo l’impegno di tutelare la libertà di religione e di culto. Inoltre, il paese aveva molto bisogno di aiuto dall’estero perché, come è sempre successo nel post-comunismo, subito c’è stata una fase di grande crisi economica. Così il governo mongolo ha chiesto alla Santa sede di ristabilire relazioni diplomatiche. Di solito accade il contrario.

La Santa sede si è subito attivata e, per motivi storici, ha proposto alla congregazione del Cuore immacolato di Maria (Scheut) di andare in Mongolia. Intanto padre Jeroom Heyndrickx, noto
sinolgo, aveva già compiuto una prima esplorazione nell’ottobre 1991, così nel luglio 1992, sono stati mandati tre missionari, i padri Robert Goessens, Gilbert Sales (belgi) e Venceslao Padilla (originario delle Filippine). Questi hanno cominciato a inserirsi, creato contatti, e hanno fatto una grande attività di promozione umana, facendo arrivare tanti aiuti in un paese che allora era in ginocchio.

Con grande capacità relazionale, soprattutto di Padilla, si sono costituite le prime realtà ecclesiali, da un nucleo che si ritrovava nell’appartamento in affitto nel quale i missionari vivevano. Si sono create relazioni stabili con gente interessata a questioni di fede e dieci anni dopo, la Santa Sede ha eretto la Prefettura apostolica. Padilla è stato ordinato prefetto e poi vescovo nell’agosto 2003.

Noi Missionari della Consolata ci siamo inseriti nel luglio 2003, quando era ancora un’esperienza pionieristica.

Il cambiamento più grande è stato tra il 2003 e il 2010, quando c’è stato un grosso boom economico, legato ad aiuti e investimenti. La Mongolia ha accelerato la trasformazione interna, e questo si è riflettuto un po’ anche sulla realtà ecclesiale».

Veglia pasquale ad Arvaiheer con battesimi dei neofiti.

Ci racconta i primi passi della Consolata?

«I primi tre anni ci siamo dedicati a imparare la lingua, nella capitale Ulaanbaatar, iniziando a guardarci intorno per vedere dove installarci. La presenza missionaria si concentrava nella capitale, e noi volevamo metterci a disposizione di qualsiasi altra realtà che non fosse stata ancora raggiunta. Mons. Venceslao Padilla ci disse di fare noi il discernimento, e così facemmo, sempre in comunione con lui. Dopo una serie di viaggi esplorativi la Provvidenza ci ha portati in una zona del centro Sud, vicino al deserto del Gobi. Così ci siamo stabiliti nel 2006 ad Arveiheer, capoluogo della provincia. Eravamo due padri e tre suore. Abbiamo cominciato tutto da zero. È stata una bellissima esperienza di vita, di missione, di fede. Perché lì la chiesa non c’era mai stata.

Avevamo bisogno delle autorizzazioni delle autorità locali, e abbiamo vissuto in affitto condividendo la vita della gente di realtà diverse. Poi il governo ci ha dato il permesso e si è avviata la missione».

Come è organizzata oggi la Chiesa cattolica in Mongolia?

«Abbiamo dieci luoghi di culto riconosciuti dallo stato, di cui otto parrocchie e due cappelle (cinque in capitale e dintorni, due nel Nord e una ad Arveiheer). Sono il fulcro della vita cristiana. Abbiamo 22 sacerdoti di cui due sono mongoli, 35 suore, alcuni laici missionari, per 11 congregazioni e 24 nazionalità. I catechisti, sui quali si è investito e si continua a investire, sono i principali protagonisti dell’evangelizzazione, grazie al fatto che sono membri di questo popolo e che possono esprimere con lingua e categorie culturali locali i contenuti essenziali della fede e accompagnare le persone nel loro percorso, con un discorso di comunità e fraternità.

Il 71% delle nostre attività sono di tipo sociale: promozione umana e sviluppo, educazione, sanità, assistenza, promozione e diffusione della cultura mongola. La chiesa è impegnata in settori di utilità comune, non specificamente religiosi. Quest’anno, oltre al sinodo stiamo celebrando i primi 30 anni della chiesa in questo paese e ci siamo fermati a riflettere. Io sono dell’idea che, probabilmente, le priorità non sono più quelle di 20-30 anni fa. Forse dobbiamo gradualmente riorientare le nostre energie verso obiettivi più attuali.

Ho scritto la mia prima lettera pastorale e ho proposto tre parole fondamentali: profondità, fraternità e annuncio.

Profondità, perché il seme è stato gettato, la testimonianza della prima generazione di missionari è stata feconda, accolta. Se abbiamo una comunità cristiana è perché le persone che la compongono hanno veramente accolto il Signore nella loro vita. Adesso però c’è bisogno che questa vita embrionale di fede raggiunga le fibre più profonde della persona e delle comunità, che non sia qualcosa di superficiale che poi è soggetta all’abbandono, ma si approfondisca continuamente.

Fecondità, perché questa piccola comunità rischia, come accade ovunque, di frazionarsi nelle otto parrocchie, anche a causa delle tendenze centrifughe delle varie congregazioni.

Annuncio, per non dimenticarci che, se siamo lì è perché con discrezione e con umiltà vogliamo condividere la nostra fede, e quindi non aver paura di continuare ad annunciare Cristo».

Cosa vuole dire essere una chiesa di minoranza?

«Essere una minoranza è una grazia, perché ci riporta al messaggio delle parabole: un po’ di lievito, un pizzico di sale, una candela, un seme caduto nel terreno. Il Signore quando ha parlato del Regno di Dio ha sempre fatto riferimento a immagini del poco nel tanto, quindi io l’ho vissuta così e continuo a viverla come una grazia. Ci porta a questa dimensione dell’autenticità messa alla prova per il fatto che non è per nulla scontato essere cristiani, ed essere accettati come tali. Usiamo spesso il parallelo con gli Atti degli apostoli.

Essere minoranza può avere, da una parte, il rischio di portarci a dire: stiamo bene tra di noi, siamo piccoli, siamo poveri. Questo non è il nostro caso. Dall’altra, quello di porci l’obiettivo di diventare noi maggioranza, cioè raggiungere una situazione in cui sia socialmente accettabile e auspicabile diventare cristiani. Ritengo che l’esperienza dell’Occidente sia importante, fondamentale, ma non è l’unica, e nella storia ha rappresentato una piccola sezione in ordine di tempo e di spazio. È importante il fatto di non dare nulla per scontato nell’esercizio della fede, perché è un continuo provare a metterla in circolo nella vita concreta, in una società in cui i punti di riferimento sono altri. È una provocazione sana, che ci fa rimanere umili, attenti, che ci fa dire: questa strada non funziona, allora ne proviamo un’altra.

L’importante è curare l’autenticità del messaggio e della vita di fede, aiutando le persone a viverla con coraggio e serenità, perché diventare cristiano per un mongolo è una scelta impopolare, che lo espone anche alla derisione sociale.

Come aiutare queste persone ad appropriarsi della fede, ad approfondirla in modo che poi diventi sorgente di una nuova interpretazione della realtà, in armonia con l’identità culturale, ma anche capace ogni tanto di provocare, è una delle grandi sfide.

Anche se in Italia è generalmente accettato, il messaggio del Vangelo è comunque sempre controcorrente, non è mai assimilabile a una cultura o società».

Com’è la relazione con le altre religioni?

«Essere minoranza ha come aspetto bello che ti fa percepire la ricchezza delle tradizioni religiose diverse. Per noi sono il buddhismo di matrice tibetana, che nel paese oramai si chiama buddhismo mongolo, poi lo sciamanesimo, come anche l’islam praticato nell’Ovest, nella comunità kazaca, e anche delle altre tradizioni religiose recenti, il bahaismo o le altre denominazioni cristiane non cattoliche.

C’è un rapporto con tutti, ma il migliore lo abbiamo con il buddhismo, rappresentato dalle loro istituzioni e dai loro leader, con cui abbiamo un cammino trentennale continuo. Il 28 maggio scorso il Papa ha ricevuto in udienza due autorità del buddhismo mongolo, uno è l’abate del secondo monastero della Mongolia.

Esiste una rete di incontri interreligiosi che, fino a un anno fa, erano annuali e ora sono quasi mensili: a turno uno dei leader religiosi ospita gli altri, si mangia, si discute di temi comuni. L’orizzonte di questi incontri è da una parte conoscitivo (solo se ci si conosce bene ci si rispetta, ci si apprezza), e dall’altra pensare quali obiettivi raggiungere insieme».

Come si diventa cattolici in Mongolia?

«Quando siamo andati ad Arveiheer non c’era nessun cristiano. È stato interessante vedere come la grazia si fa strada. È una storia di relazioni, di amicizia con i missionari e le missionarie, attraverso la quale le persone vengono in contatto con un mondo che si apre loro e che magari all’inizio è legato a una loro necessità. Da notare che la campagna ha conosciuto lo sviluppo dieci anni dopo la capitale. Per cui quando siamo arrivati c’era molta povertà. Quando abbiamo avuto il permesso di svolgere le nostre attività, la curiosità e l’amicizia ha portato le persone per la prima volta a mettere la testa dentro la nostra gher, a vedere cosa vuol dire la preghiera dei cristiani. O a vedere questi poveri stranieri imbranati che cercavano di rendersi utili con una mentalità di non sfruttamento degli altri e, possibilmente, di aiuto. Questo faceva sorgere dei punti di domanda, e le persone, gradualmente, senza correre, chiedevano di approfondire.

C’è sempre una specie di pre catecumenato, che è un periodo fluido di contatti, di relazione, di amicizia, fino a quando la persona formula la sua richiesta, che noi vogliamo sia scritta: io voglio iniziare un percorso di fede. Si propone la catechesi e il catecumenato dura due anni. Stiamo lavorando per preparare il materiale catechetico di base. Poi c’è l’iniziazione, il battesimo.

Oggi i cristiani in Mongolia sono di prima ma anche di seconda generazione. A chi è battezzato ed è riuscito a conservare la fede anche nella vita famigliare, si propone di far fare il cammino della catechesi anche ai loro figli. Non abbiamo mai insistito, abbiamo sempre aspettato che la gente si proponesse».

Quale ruolo può avere la chiesa mongola tra le chiese asiatiche?

«In Asia ci sono tante esperienze interessanti e anche diversificate tra di loro. È un arricchimento reciproco. Il blocco del Sud Est asiatico è erede di un’epopea missionaria dell’800 in cui i missionari erano provenienti da nazioni coloniali, un tema che in Mongolia non c’è. Non c’è mai stata sovrapposizione di poteri politici ed ecclesiastici. Lì c’è una cristianità più radicata, antica. Noi siamo la chiesa più giovane d’Asia.

Nella Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (Fabc, fondata nel 1971), c’è un clima molto fraterno. I vescovi di tutta l’Asia si incontrano, condividono, dialogano, cercano vie comuni.

Da aprile sono entrato a fare parte della neonata conferenza episcopale dell’Asia centrale. Nell’autunno 2021 la Santa Sede l’ha istituita raggruppando le cinque repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan e la Mongolia.

A parte le Filippine e la Corea, dove ci sono le due chiese più affermate, per il resto, in tutta l’Asia siamo minoranza. In certi paesi ha buoni rapporti con lo stato, in altre parti è una chiesa sofferente».

Quali sono le sfide della Chiesa in Asia?

«Riuscire a essere un faro per i diritti là dove esistono regimi non morbidi, un agente di coesione e pace sociale, di promozione del dialogo: è una sfida grande in tutta l’Asia. Anche nei paesi di tradizione più affermata. Le comunità cattoliche in tutto il continente sono dei baluardi di umanità, fede, spiritualità, rappresentano una bella testimonianza.

L’ateismo puro in Asia non esiste, è esistito imposto dal comunismo, ma il tema non è Dio o non Dio, piuttosto quale Dio. Non c’è mai stato l’illuminismo quindi la cesura tra ragione e fede, tra uomo religioso e uomo scientifico non è mai esistita. In Asia si deve portare avanti un discorso di dialogo, per dire con quali valori comuni, noi seguaci di tradizioni religiose diverse, possiamo promuovere il bene di questi paesi. Poi c’è il discorso più teologico: io ho collaborato con il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso che organizza periodicamente un colloquio buddhista-cristiano».

Secondo lei, perché un cardinale in Mongolia?

«Bisogna chiederlo a papa Francesco. Conoscendolo, per lui queste esperienze di chiesa in situazioni di minoranza e marginalità sono preziose, e allora forse vuole che siano conosciute di più e rappresentate».

Quali sono i progetti futuri?

«Vorremmo riuscire a vivere la progettualità da un punto di vista più unitario, comunionale: non solo le singole congregazioni con i loro progetti, ma unire le forze per ottimizzare le cose già meravigliose che i singoli missionari stanno facendo.

Abbiamo rilevato un edificio in capitale, e vorremmo creare la Casa della misericordia, un luogo di accoglienza e consolazione, per rendere la chiesa un porto sempre accessibile a chiunque, con qualunque necessità».

Marco Bello

Cura dei bambini, il pasto

 




Un vescovo che sussurri il Vangelo

testi di Federica Bello, cardinal Luis Antonio Tagle, Anto nio Pompili e Camilla Ceraso
foto di Gigi Anataloni, quando non specificato diversamente |


L’ordinazione episcopale di padre Giorgio Marengo, primo missionario della Consolata nel paese asiatico, prefetto apostolico di Ulan Bator. «È la terra che il Signore ha pensato per me».

Nella sacrestia del santuario

Con gli sguardi rivolti all’effigie della Consolata, cuore del santuario torinese dedicato alla Vergine, mentre si diffondeva l’audio di un canto a Maria in lingua mongola, musicato nelle steppe. Si è conclusa così, la mattina dell’otto agosto scorso, a testimoniare quel profondo legame di «cuore e Vangelo» tra la Chiesa torinese e quella mongola (che ha seguito la diretta web), la consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo, primo missionario della Consolata nel paese asiatico, che lo scorso aprile papa Francesco ha nominato prefetto apostolico di Ulan Bator (o Ulaanbaatar), dal nome della capitale.

La consacrazione è avvenuta per le mani del cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Coconsacranti Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, e il cardinale Severino Poletto, arcivescovo emerito della città, che nel 2001 ordinò sacerdote padre Marengo. Concelebranti numerosi vescovi del Piemonte, l’arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, rappresentante della Santa Sede all’Onu, il superiore dei missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo, confratelli dell’Istituto missionario e preti diocesani. Stretti intorno alla famiglia – la mamma Laura e la sorella Mariachiara -, anche tutto il consiglio delle missionarie della Consolata. Palpabile la gioia per la consacrazione di un sacerdote molto amato ovunque ha operato.

Chi è Giorgio Marengo?

Vescovo titolare di Castra Severiana (antica diocesi dell’Algeria), padre Marengo, cuneese di nascita (7 giugno 1974) è cresciuto a Torino dove è stato scout e ha frequentato le parrocchie di sant’Alfonso e Maria Regina delle Missioni. Entrato nel seminario dei missionari della Consolata a Rivoli (To) nel settembre 1993, ha studiato filosofia alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (1993-95). Dopo un anno di noviziato a Vittorio Veneto (Tv) ha emesso i primi voti il 25 agosto 1996. Trasferito nel seminario di Bravetta (Roma), ha completato gli studi di teologia nella Pontificia Università Gregoriana (1996-99). Ha poi compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo licenza (2002) e dottorato in missiologia (2016).

Ordinato sacerdote a Torino da mons. Severino Poletto il 26 maggio 2001, dal 2003 ha svolto il suo ministero pastorale in Mongolia, dove è stato uno dei primi due missionari della Consolata a entrare nel paese. Dal 2016 ha avuto il compito di coordinare i gruppo dei missionari in Mongolia ed essere membro del consiglio della Regione Asia, che include anche i missionari presenti in Corea del Sud e in Taiwan.

La consacrazione episcopale sarebbe dovuta avvenire a Ulaanbaatar, ma per la pandemia la scelta è caduta su Torino, in quel santuario «dove mi piace pensare che il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, oggi si unisca a noi – ha ricordato il rettore, monsignor Giacomo Martinacci – non dal coretto a lato dell’altare, dove sostava per invocare la Consolata, ma dal cielo per assicurare a padre Giorgio la sua preghiera».

La grande prostrazione mentre si invoca lo Spirito

Vantarsi solo dell’Amore

Una preghiera segnata dalla commozione in tanti momenti della celebrazione a partire dalle parole che il cardinale Tagle ha rivolto a padre Marengo: un invito a sperimentare nel suo ministero «l’amore rassicurante di Dio che dà la capacità di essere profeti e l’umiltà di chi non è padrone ma custode del gregge». «Un vescovo – ha aggiunto – può solo vantarsi dell’amore compassionevole di Gesù».

E poi l’augurio: «Lascia che il tuo cuore, che i tuoi scritti, le tue parole, i tuoi sorrisi sussurrino Gesù alla gente, ai poveri, ai sofferenti, alla steppa, ai fiumi, agli eterni cieli blu della Mongolia. Sussurra Gesù con la fiducia e la condivisione del tuo cuore e così nelle tue conversazioni, nei momenti di convivenza e nelle tue serate silenziose in Mongolia lo Spirito Santo porterà il tuo umile sussurro anche alle terre e ai cuori a te inaccessibili».

La grande prostrazione mentre si invoca lo Spirito

Giorno di luce

Un desiderio di annuncio e di «condivisione del cuore per il popolo mongolo» che emerge anche dai simboli scelti per lo stemma episcopale di Marengo: oltre alla Consolata, una croce nestoriana e un calice come quelli in uso in Mongolia. Un cammino segnato dal motto Respicite ad eum et illuminamini («Guardate a lui e sarete raggianti»), perché non c’è annuncio senza gioia, come testimoniato dal volto sorridente mostrato anche nelle prime parole da vescovo (in italiano e in mongolo): «Oggi è intensa la luce del mistero celebrato, oggi è un condensato di grazia che posso accogliere solo con grande riconoscenza. La Trasfigurazione è luce per confortare i discepoli. Questo giorno luminoso è luce a cui dovrò sempre ricorrere per seguire il Signore che mi manda in Mongolia, nella terra che ha pensato per me al servizio di chi ancora non lo conosce e allora oggi solo il grazie può risuonare».

Consegna del Pastorale del venerabile mons. Pinardi, “affezionato discepolo dell’Allamano”

Gratitudine a cui si è aggiunta quella di mons. Nosiglia: «Questo è un bel segno di gioia e speranza per la nostra Chiesa». Con l’augurio dal cardinale Poletto: «Oggi lo affido di cuore alla Consolata che lo accompagni sempre».

Federica Bello*

* Adattato dall’articolo che l’autrice, giornalista de «La Voce e il tempo» di Torino e compagna di scuola e di parrocchia di padre Giorgio, ha pubblicato su Avvenire il 9 agosto 2020.



Dall’omelia del cardinal Tagle

Sussurra Gesù

L’imposizione della mani ad opera del card Tagle e poi dei vari vesvovi presenti

Miei cari fratelli e sorelle in Cristo, ringraziamo il Signore per averci riunito, come una comunità di fede, in occasione di questa consacrazione episcopale. Chiamando monsignor Giorgio Marengo da Torino e dai missionari della Consolata a diventare vescovo in Mongolia e nella Chiesa Universale, Dio ha manifestato il Suo amore fedele verso il Suo popolo in tutte le parti del mondo. Noi ringraziamo mons. Giorgio per aver risposto a quella chiamata e per essere qui oggi! Avevo paura che sarebbe scappato! Chi non tremerebbe e non si tirerebbe indietro di fronte al peso del ministero episcopale? Che cosa si aspetta il Popolo di Dio da un vescovo? Permettetemi di condividere con voi alcuni degli insegnamenti del Concilio Vaticano II sul ministero e sulla vita di un vescovo.

[…] In Christus Dominus, il concilio esorta i vescovi ad insegnare il valore della persona umana e della famiglia (CD 12), a preoccuparsi dell’insegnamento del catechismo (14), a promuovere la santità del clero, dei religiosi e dei laici (15), ad incoraggiare varie forme di apostolato e a mostrare un particolare interessamento per gli emigranti, gli esuli, i profughi (18).

 

Questi sono solo alcuni dei molti nobili ministeri del vescovo. Sono sicuro che avete visto vescovi svolgere il proprio ministero fedelmente, instancabilmente, e in maniera perfino eroica. È una benedizione averli visti portare avanti così i compiti loro assegnati. Ma c’è qualcosa che non vediamo? Cosa succede nel cuore di un vescovo? Come si forma il cuore di un vescovo?

Molte volte, nel corso del suo ministero, un vescovo si chiede «Come posso fare ciò che ci si aspetta da me? Come posso veramente onorare il ministero episcopale?». La risposta è semplice: come esseri umani, non possiamo farlo. Ecco perché abbiamo bisogno di un sacramento, perché è solo attraverso la grazia e la presenza di Dio che un povero peccatore può rispondere ad una chiamata che oltrepassa le sue capacità umane. […] Dopo la Risurrezione, Gesù incontra un Pietro più umile, non affannato a dare prova di sé, ma capace di amare e servire Gesù e il gregge di Gesù. Un vescovo non deve dare prova di sé, perché non ha comunque nulla di cui dare prova. Come Pietro, un vescovo può solo vantarsi dell’amore compassionevole di Gesù, che affida ad un povero peccatore la cura del Suo gregge. […] Come Paolo, un vescovo non dovrebbe formare i fedeli a sua immagine e somiglianza, ma sull’immagine di Cristo. Come Pietro, un vescovo non diventa il padrone del gregge, ma ne è sempre un custode. Esso resta il gregge di Gesù: «Pasci i miei agnelli, pascola le mie pecore».

Foto di gruppo con i vescovi concelebranti

Monsignor Giorgio, il «dramma interiore» che hanno sperimentato Geremìa, Pietro e Paolo sarà il dramma invisibile del tuo episcopato ogni giorno. Il tuo ministero attivo e visibile deve essere accompagnato dalla tua invisibilità, che ha origine dall’umile ammissione delle limitazioni e delle debolezze, dalla dipendenza dalla Parola di Dio, dalla sua presenza e dalla sua protezione, dalla cura del gregge di Gesù come custode. La tua gioia è vedere il gregge crescere nella conoscenza, nell’amore e nel servizio a Gesù, il suo vero Pastore.

Com’è misterioso il nostro ministero: la sua visibilità è alimentata dalla nostra invisibilità. Quest’arte delicata è un dono di Dio, ma tu puoi alimentarla se guarderai sempre a Gesù, così da irradiare la Sua luce, come affermato nel tuo motto episcopale, Respicite ad eum et illuminamini (Guardate a lui e sarete raggianti, Salmo 34,6).

Come Maria, nostra Madre della Consolata, tieni Gesù nel tuo cuore, anche quando non sempre Lo comprendi, e lascia che la Sua consolazione dia forza agli altri. Lascia che il tuo cuore, i tuoi occhi, il tuo volto, i tuoi sorrisi, i tuoi canti e i tuoi scritti sussurrino Gesù, la Buona Novella vivente alla gente, ai poveri, ai sofferenti, alla steppa, ai fiumi, alle colline e agli eterni cieli blu della Mongolia! Sussurra Gesù con la fiducia e la convinzione del tuo cuore, nelle tue conversazioni, nei momenti di convivenza e nelle serate silenziose con i tuoi amici in Mongolia. Lo Spirito Santo porterà il tuo umile sussurro anche alle terre e ai cuori a te inaccessibili. Amen.

cardinal Luis Antonio Tagle


Uno stemma, un programma

Guadate a Lui e sarete raggianti

Lo stemma di un vescovo non è un ornamento, ma esprime la sintesi di un programma di vita, indica lo stile di un cammino, l’anima di una missione.

Il campo principale dello scudo è d’argento metallo che in araldica, per la sua candida lucentezza ben si adatta ad accompagnare la figura della Vergine Maria richiamando la sua purezza. La figura della Vergine è rappresentata secondo le fattezze della Madonna Consolata, patrona dell’arcidiocesi di Torino, venerata dai missionari che da Lei prendono nome e dai quali proviene il titolare dello stemma. I missionari della Consolata furono fondati dal beato Giuseppe Allamano, nipote del Cafasso e rettore del Santuario mariano torinese per 46 anni. I missionari, avendo la Consolata come ispiratrice e Madre, proprio come la Vergine, vogliono portare al mondo la vera Consolazione, che è Gesù, il vangelo, e insieme: la vicinanza agli emarginati, il conforto agli afflitti, la cura dei malati, la elevazione umana, la difesa dei diritti umani, la promozione della giustizia e della pace. L’immagine araldica ripropone quella del quadro della Madonna Consolata venerato oggi nel santuario del capoluogo piemontese. Dono del cardinale Della Rovere (che fu il costruttore del Duomo di Torino), è attribuito ad Antoniazzo Romano. Opera della fine del XV secolo si ispira alla Madonna del Popolo di Roma.

Nelle due campiture superiori troviamo su un campo azzurro, colore tipicamente mariano, due figure scelte per il loro alto valore simbolico, ma anche a motivo della loro particolare fattezza, in riferimento alla Mongolia, territorio nel quale già da quasi venti anni prima della sua nomina vescovile mons. Marengo si è impegnato nella sua opera missionaria.

Pietra tombale di Liu Yiyong del 1324 con croce nestoriana (BabelStone / Wikimedia)

Ritroviamo infatti innanzitutto una croce nestoriana. La croce, segno per eccellenza della redenzione operata da Cristo e primo e più importante distintivo dei cristiani di tutti i tempi e di ogni luogo della terra, ha qui la caratteristica forma patente e fioronata con cui veniva usata nella chiesa nestoriana. Con tale aspetto la croce si ritrova presente nei territori asiatici in cui questa chiesa è stata o è tuttora presente. Spesso accompagnata dalla figura della colomba (simbolo dello Spirito Santo) e del fiore di loto, si presenta di fatto come una croce trionfante, con i bracci che si allargano alle estremità quasi a significare la vita del Crocifisso Risorto che si estende verso il mondo intero.

Tazza d’argento dei nomadi della Mongolia (mongolianstore.com)

L’altra figura è invece un calice per la celebrazione della santa messa nella forma caratteristica di quelli in uso in Mongolia. Il simbolismo eucaristico è chiarito dalla presenza dell’ostia che sormonta il vaso sacro. L’Eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, è anche la forza dello slancio missionario. D’altra parte l’azione missionaria della Chiesa è orientata ad accompagnare gli uomini alla piena comunione con Cristo che proprio nella celebrazione eucaristica trova la sua attuazione sacramentale.

Don Antonio Pompili
socio ordinario dell’Istituto araldico genealogico italiano


La Chiesa cattolica in Mongolia

Oggi la Chiesa cattolica in Mongolia conta circa mille e 300 fedeli su una popolazione di poco più di 3 milioni, in un paese grande 5 volte l’Italia.

L’evangelizzazione moderna della Mongolia è cominciata ufficialmente il 14 marzo 1922 quando venne eretta la Missione sui iuris. I missionari però poterono entrare nel territorio solo nel 1992. È stata elevata a Prefettura apostolica di Ulaanbaatar nel 2002 con primo vescovo il missionario di Scheut mons. Wenceslao Selga Padilla dalle Filippine. Contava allora 114 cristiani, tra cui 2 sacerdoti, 7 religiosi e 17 suore.

Nel 2020, oltre alla cattedrale dedicata ai santi Pietro e Paolo, ci sono 7 parrocchie e due cappelle (San Tommaso e Dio Misericordioso), oltre al Mandak Karan Centre gestito insieme dalle missionarie e missionari della Consolata, i quali risiedono in un appartamento dentro un palazzo di Ulaanbaatar e curano la parrocchia della Madre della Misericordia ad Arvaiheer dove sono arrivati nel 2006.

I missionari presenti sono:

  • missionari di Scheut
  • salesiani di Don Bosco
  • missionari della Consolata
  • due fidei donum dalla
    Corea e dalla Francia.

Le suore missionarie sono:

  • le missionarie del Cuore
    Immacolato di Maria (ICM)
  • suore di s. Paolo di Chartres
  • missionarie della Carità
    di Madre Teresa
  • missionarie della Consolata
  • Inbo sisters della Corea
  • suore della Congregatio Jesu


Un servizio di vicinanza

 

Il 12 agosto, pochi giorni dopo la sua consacrazione espiscopale, padre Giorgio è stato ricevuto in udienza da papa Francesco. In un’intervista presenta le priorità del suo ministero episcopale.

«Abbiamo vissuto un momento molto cordiale e molto bello in cui ho chiesto al Santo Padre proprio una parola di incoraggiamento che mi ha dato e che porto nel cuore. Lui è molto interessato alla realtà della Chiesa in Mongolia, del popolo mongolo in generale. Sappiamo quanto al papa stia a cuore tutta la realtà della Chiesa anche laddove non ci sono grandi numeri anzi proprio laddove la Chiesa è più in minoranza, lì il cuore del papa è sempre molto vibrante, e questo è bello». Questo il commento di padre Giorgio dopo l’udienza parlando con Gabriella Ceraso di Vaticannews.

La giornalista lo ha incarzato: «C’è qualcosa nel magistero del papa che, dopo questo colloquio, si sente di voler vivere in particolare nella terra in cui appunto ritornerà, in Mongolia?».

Ecco la risposta del nuovo vescovo. «Il punto principale è la vicinanza alla comunità cattolica della Mongolia che è piccola ed è in minoranza assoluta rispetto alla società. Per questo ha bisogno di sentire che, chi è stato chiamato a guidarla, è vicino. Quindi vicinanza in termini di visite alle comunità, di celebrazioni insieme, di tempo riservato all’ascolto delle persone, della loro storia, delle loro situazioni, ovviamente insieme ai missionari e alle missionarie che animano queste comunità. Questa è una priorità per me.

Proprio perché la comunità cattolica è così sparuta, è anche importante curare che le relazioni con le autorità civili siano il più possibile positive. Occorre continuare sulla linea della collaborazione e dell’aiuto reciproco che esiste già, perché anche il mio predecessore è stato molto forte in questo.

Poi serve un’attenzione particolare al dialogo interreligioso, visto che la Mongolia è un paese che ha dei punti di riferimento religiosi soprattutto nel Buddismo e nello Sciamanesimo: quindi continuare questo ponte di relazioni di fraternità con persone che hanno altre fedi.

Dunque il dialogo interreligioso, la vicinanza ai poveri, ai piccoli, alle persone sofferenti in una società che è in rapido cambiamento; e anche un’attenzione a tutto ciò che è approfondimento direi sia culturale – cioè storia e tradizioni, identità culturale dei mongoli che hanno molto da dire e da dare al resto dell’umanità – e sia spirituale. Cioè una cura alla spiritualità: le persone mongole hanno una grande sensibilità e hanno bisogno – coloro che già l’hanno abbracciata – di approfondire la loro fede, di farla sempre più propria.

Quindi un discorso di profondità, di autenticità nel camminare nella fede, una scuola di preghiera continua per aiutare le persone a poter camminare sulla loro strada con facilità e serenità».

Gabriella Ceraso*

* Testo adattato dall’intervista a mons. Giorgio Marengo pubblicata su Vaticannews il 12 agosto 2020.




Consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo, Imc

Consacrazione episcopale

di padre Giorgio Marengo, Imc

Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

Carissimi Fratelli e Sorelle,
la comunità cattolica della Mongolia
e i Missionari e le Missionarie della Consolata
con gioia annunciano che
la consacrazione episcopale di
padre Giorgio Marengo,
per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle,
avverrà il giorno 8 agosto, alle ore 10,
al Santuario della Consolata di Torino.

Nominato Prefetto Apostolico e vescovo da Papa Francesco lo scorso 2 aprile, padre Giorgio ha aspettato fino all’ultimo che ci fossero le condizioni per organizzare la consacrazione episcopale a Ulaanbaatar, in Mongolia, dove sarebbe stato naturale che avvenisse. Ma a causa delle severe restrizioni applicate per contenere la pandemia Covid-19, è diventato evidente che tali condizioni non si sarebbero date e sarebbe stato impossibile persino ai vescovi consacranti entrare nel paese.

Si è quindi pensato all’Italia e la scelta di Torino è stata spontanea, sia per il profondo legame dell’Istituto con la chiesa subalpina che per le origini stesse di padre Giorgio.

Padre Giorgio Marengo sarà consacrato il giorno 8 agosto, alle ore 10, nel Santuario della Consolata di Torino, per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle, assistito dal cardinal Severino Poletto e dall’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia.

Padre Giorgio Marengo e Usukhjargal

Anche la scelta del Santuario della Consolata non è casuale. Con questo gesto si vuole esprimere anzitutto una profonda gratitudine alla Consolata per aver inviato i suoi missionari nelle lontane terre della Mongolia. È la Consolata che ha voluto i suoi missionari in Mongolia e, quindi, è al suo abbraccio che è affidata tutta la Prefettura Apostolica.

«Che la consacrazione episcopale avvenga a Torino è il risultato di un misterioso intreccio di eventi ed è un dono del tutto inaspettato – scrive padre Giorgio -. I legami di amicizia e di collaborazione che ci uniscono vi porterebbero certamente a voler essere tutti presenti quel giorno al Santuario della Consolata, ma questo non sarà purtroppo possibile: siamo infatti ancora in tempi difficili e non possiamo dimenticarcelo.

Queste restrizioni ci impongono un sacrificio, quello cioè di lasciare che alla celebrazione partecipi solo un gruppo su invito personale: membri della mia famiglia stretta e di quella allargata dei Missionari e Missionarie della Consolata, con un’esigua rappresentanza di sacerdoti e consacrati e consacrate e di altre Chiese particolari legate alla Mongolia. Sono sicuro che tutti capite la situazione e troverete il modo di farvi presenti con la preghiera e l’affetto anche a distanza».

  • Padre Giorgio sarà il secondo missionario della Consolata a diventare vescovo nel santuario dopo mons. Filippo Perlo consacrato il 23 ottobre 1909 dal cardinal Agostino Richelmy.
  • Inoltre, attraverso il cardinal Tagle, padre Giorgio riceve anche un insolito legame con la chiesa torinese, perché nello loro linea di successione apostolica c’è il cardinal Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino dal 1883.

Per favorire la comunione e rendere possibile a tanti di partecipare «a distanza», sarà predisposta una trasmissione in diretta internet sul canale YouTube della diocesi di Torino, su quello dei Missionari della Consolata e quello della prefettura in Mongolia. Dettagli per il collegamento verranno comunicati quanto prima.

Incontri col nuovo vescovo

Nei giorni successivi alla consacrazione sarà comunque possibile salutare il nuovo vescovo che incontrerà diverse comunità prima del suo ritorno in Mongolia. I primi appuntamenti sono domenica 9 agosto:

  • ore 10.30 nella Chiesa del Beato Giuseppe Allamano – Casa Madre dei Missionari della Consolata (C. Ferrucci, 18)
  • ore 18.00, nella parrocchia S. Alfonso Maria de’ Liguori (via Netro, 3)

Uno degli ultimi è domenica 30 agosto:

  • ore 11.00 nella parrocchia Maria Regina delle Missioni (via Cialdini, 20)

Uniamoci in spirito a questo evento e preghiamo soprattutto per la Chiesa in Mongolia.


Contatti per ulteriori informazioni

Padre Giorgio Marengo: giorgio.consolata@gmail.com | +39 379 110 1527

Rivista Missioni Consolata: mcredazioneweb@gmail.com | 011 4400 400 (portineria, Missioni Consolata, corso Ferrucci 14)

La cattedrale cattolica di Ulaanbaatar

La missione di Arvaiheer

Le comunità della Chiesa cattolica in Mongolia

L’antico monastero di Erdene Zuu a Kharkhorin.

Nuovo e antico a Ulaanbaatar