Raposa Serra do Sol (Roraima):

Esempio di resistenza indigena

Testo e foto da Raposa di Jaime C. Patias |


Sono oltre 20mila gli indigeni che vivono a Raposa Serra do Sol, terra indigena riconosciuta nel 2005 dopo decenni di lotta. I problemi non mancano: salute, istruzione, viabilità. L’ostilità anti indigena rimane elevata e produce insicurezza e invasioni. Tuttavia, i popoli indigeni hanno imparato a difendersi. Dal 1971 i missionari della Consolata vivono al loro fianco.

A Roraima, nella regione Nord del Brasile, ad aprile le piogge iniziano a irrigare la terra riempiendo fiumi e torrenti. Nella terra indigena Raposa Serra do Sol (Ti Rss), la vegetazione rigogliosa, rallegra gli oltre 20mila indigeni Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingaricó e Patamona. Nel 2005, l’area di 1,7 milioni di ettari (pari alla regione Lazio, ndr) è stata dichiarata «protetta», cioè ad uso esclusivo degli indigeni, dall’allora presidente Lula da Silva, dopo 34 anni di lotte che sono costate la vita ad almeno 21 indigeni. È così che Raposa è divenuta un esempio di resistenza contro l’invasione bianca.

Nella Costituzione federale del 1988, lo stato brasiliano riconosce che «le terre tradizionalmente occupate dagli indigeni sono destinate al loro possesso permanente e avranno l’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, fiumi e laghi in esso esistenti» (art.231, 2). La popolazione è cresciuta sempre organizzata intorno ai propri leader, i tuxaua (figura corrispondente ai cacique, ndr), in più di 200 villaggi nelle regioni di Surumú, Sierras, Baixo Cotingo e Raposa. Nelle comunità e nelle scuole di vario grado, dove oramai quasi tutti gli insegnanti sono indigeni, la presenza di bambini e giovani colpisce l’occhio del visitatore. Circa il 60% della popolazione ha meno di 15 anni, una garanzia per il futuro che, nel contempo, comporta delle sfide.

Dalla repressione al riscatto

Il leader macuxì Jacir José de Sousa

Nel 1977, un centinaio di tuxaua e altri rappresentanti indigeni alleati organizzarono una delle prime assemblee nella missione di Surumú, interrotta dall’irruzione dei militari. I leader indigeni non furono intimiditi da tale repressione. Si dispersero per continuare altrove l’assemblea. Questo fatto è ricordato come primo atto pubblico di resistenza e della ricerca di autonomia del nascente movimento indigeno. Molto probabilmente è per questo che nel 2005, nella stessa missione, furono bruciate la chiesa, la scuola e il centro di salute in uno dei numerosi attacchi orchestrati dagli invasori bianchi. La svolta fondamentale nella lotta è stato l’impegno «Ou vai ou racha» (o tutto o niente) quando gli indigeni, il 26 aprile 1977, riuniti a Maturuca, un villaggio a 320 km da Boa Vista, decisero di dire «no alla bevanda alcolica, sì alla comunità» avviando il processo di organizzazione che culminò nella creazione del Consiglio indigenista di Roraima (Cir). Un impegno che comprendeva la lotta all’invasione dei garimpeiros e degli agricoltori non indigeni.

Un grande impulso alla causa indigena è stato dato dal successo del progetto «Una mucca per l’indio», lanciato nel 1980, che prevedeva l’affidamento ad ogni comunità indigena di 52 bovini e che, a sua volta, si impegnava, dopo cinque anni, a consegnare a un’altra comunità altrettanti capi di bestiame. Questa iniziativa sostenuta dalla Chiesa cattolica e da tanti altri benefattori ha contribuito a creare degli allevamenti comunitari di oltre 30.000 bovini.

L’opzione per gli indigeni

Presenti in Roraima dal 1948, solo nel 1971 i missionari della Consolata hanno scelto una chiara opzione per i popoli indigeni. E nel 1972 hanno iniziato a vivere nei villaggi, in mezzo alla gente. Un cambiamento radicale nello stile di evangelizzazione. Da una prospettiva meramente sacramentale, succube dei poteri forti del latifondo, a una pastorale profetica e liberatrice fatta dai villaggi e a fianco delle popolazioni indigene. Questa opzione assunta anche dalla diocesi di Roraima, ha causato persecuzioni, diffamazioni e minacce di morte per i missionari e per l’allora vescovo, mons. Aldo Mongiano (Missionario della Consolata), sulla cui testa era stata posta una taglia molto cospicua.

La riflessione su Il piano di Dio per noi (un progetto di formazione biblico-pastorale) ha guidato l’azione di evangelizzazione integrando la fede e la vita in cui la liberazione della terra era l’obiettivo principale. E il Consiglio indigenista missionario (Cimi), fondato nel 1972, è diventato gradualmente  uno strumento di riflessione e appoggio alla causa.

Oggi, sette giovani sacerdoti missionari della Consolata africani – Philip Njoroge Njuma, James Murimi Njimia, Joseph Musito, Jean Tuluba, Jean-Claude Bafutanga, Joseph Mugerwa, Gabriel Ochieng -, insieme a Francesco Bruno, un fratello missionario italiano, accompagnano le comunità indigene nella Raposa?Serra do Sol. Inoltre nella zona lavorano tre suore missionarie della Consolata.

Padre Philip Njoroge sottolinea che «i protagonisti sono gli indigeni. Seguiamo e camminiamo insieme in modo che le loro vite prosperino nel pieno rispetto dei loro diritti, della loro cultura e saggezza ancestrale». Dopo 70 anni di presenza, per una congregazione che ha nel suo Dna la missione ad gentes, l’esperienza di lavoro missionario in Raposa Serra do Sol ha insegnato ai missionari a camminare con le popolazioni indigene, con le loro speranze e lotte, gioie e conflitti, rompendo confini e modelli tradizionali di evangelizzazione.

Il professor Ednaldo Pereira André, secondo tuxaua di Maturuca, riassume così le grandi sfide: «Rispettare gli impegni, prendersi cura della terra e intensificare la produzione, lavorare nelle comunità per affrontare insieme i problemi e gli ostacoli in sintonia con Il piano di Dio su di noi. È urgente investire nella formazione dei leader: tuxaua, coordinatori di comunità, mandriani, catechisti e agenti di salute… in modo che capiscano bene il loro ruolo».

Politici e pastori

Inácio Brito, uno dei primi insegnanti a implementare l’educazione indigena, chiede una maggiore presenza nelle comunità per aiutare a combattere le minacce. «Oggi la politica dei partiti vuole dividere disseminando i pastori evangelici nelle comunità in cui le leadership indigene sono deboli», afferma il professore. «Vogliono toglierci i diritti garantiti dalla Costituzione: educazione, salute, trasporti, progetti, ecc. Questa è una persecuzione. La lotta per la terra è nata dall’unione tra le varie regioni, ma molto è cambiato nonostante il Cir continui nel suo sforzo di coordinamento».

La strategia dei politici e dello stato è chiara: dividere i gruppi per indebolire il popolo. Ci sono evidenze chiare di questa strategia, come l’emendamento parlamentare del deputato federale Édio Lopes, scritto in collaborazione con il senatore Romero Jucá (due politici notoriamente anti indigeni), che ha portato una mandria di bovini nelle comunità. Questa decisione è criticata per la dipendenza che può creare e per l’uso politico che se ne può fare. «Non è sbagliato ricevere queste “offerte” di bestiame perché recentemente abbiamo avuto molte perdite. Ma dobbiamo fare attenzione alla strumentalizzazione e al pericolo di invasione e divisione che ne può derivare. I politici ci hanno sempre dato contro e adesso improvvisamente ci offrono il miele. Dobbiamo aprire gli occhi», avverte Brito.

Le donne sono impegnate attraverso l’«Organizzazione delle donne indigene di Roraima» (Omir) con progetti di formazione e sostenibilità economica. Una delle coordinatrici, Marisete de Souza, indica i risultati ottenuti che includono l’aumento dei capi di bestiame, miglioramento della coltivazione e l’incarico di tuxaua assunto da alcune donne. «Il nostro lavoro mira a rafforzare l’identità e le tradizioni. Lo facciamo con la pianificazione di workshop, seminari, assemblee e corsi. Il nostro ruolo di donna, madre, moglie e attivista del movimento indigeno è lottare per la sostenibilità e contro le bevande alcoliche. Lavoriamo insieme ai missionari che ci appoggiano».

L’importanza della terra

Dopo la fine del latifondo nella terra Raposa Serra do Sol, gli indigeni hanno occupato aree strategiche. Nuove comunità sono nate. Per esempio, dov’era l’azienda del fazendeiro Jair, a 250 km da Boa Vista, cinque famiglie hanno creato la comunità San Matteo, che ora comprende ben 19 famiglie. Questa comunità si è incontrata per discutere i problemi e rinnovare gli impegni. Per tre giorni, adulti e giovani discutono. I bambini accompagnano e scrivono sui loro quaderni. Matias de Lima e Jacir José de Souza, due leader storici, fanno memoria della lotta. Per Jacir, le principali sfide sono «raccontare ai giovani e bambini i risultati ottenuti e gli impegni da mantenere. Inoltre essere sempre in allerta con nuovi tentativi di invasione».

Matias de Lima ricorda di essere stato arrestato e picchiato riportando la rottura della clavicola. «Sono preoccupato. Una volta i tuxaua erano determinati, ora vedo insicurezza. I politici stanno comprando alcuni tuxaua, dei coordinatori e la gente. Se non apriamo gli occhi, soffriremo ancora», avverte il vecchio attivista della causa indigena. «Non possiamo rinunciare ai nostri impegni. Se cadiamo, dobbiamo alzarci. Questi bambini hanno bisogno di terra per piantare e mangiare. Io continuerò la lotta finché avrò vita».

L’attuale tuxaua della comunità, Martinho Macuxi Souza, uno dei figli di Matias, ricorda che «prima il bianco ci ha proibito di cacciare, pescare e coltivare. Hanno arrestato, picchiato e bruciato le nostre case e la missione di Surumú. Oggi non vediamo più i nostri parenti soffrire violenza. Non voglio le mucche offerte dal governo e dai politici», ribadisce. «Per quanto riguarda la terra, stiamo cercando di fare del nostro meglio seguendo i principi di una agricoltura sostenibile e la formazione tecnica che riceviamo presso scuola di Surumú, su come allevare il bestiame e coltivare ortaggi senza pesticidi. Facciamo ancora troppo poco per custodire e proteggere la terra», sostiene Martinho.

Tira (ancora) una brutta aria

I coniugi Edinho Batista e Catiane de Souza sono appena rientrati da Brasilia (Df) dove hanno partecipato al «15° Acampamento Terra Livre» (Atl), che dal 23 al 27 aprile ha riunito 3.000 indigeni da tutto il Brasile. Ci sono ancora 836 terre indigene da demarcare. «Ci sforziamo di custodire e proteggere la nostra Madre Terra, ora vogliamo aiutare anche altri fratelli e sorelle indigeni a liberare la loro terra», dice Edinho. Per Catiane «la partecipazione delle donne è stata determinata e forte. Ora informerò le comunità sulle decisioni prese». Con il tema «Unificare la lotta in difesa degli indigeni: la garanzia dei diritti originari dei nostri popoli», a Brasilia l’Atl si è svolto mentre tutt’intorno si percepiva un forte risentimento anti popoli indigeni in un clima di ostilità che perdura da quando è stata promulgata la Costituzione federale del 1988.

Nonostante gli investimenti, nella Ti Rss sono tuttora visibili i problemi relativi a salute, istruzione, sicurezza e infrastrutture. La salute delle popolazioni è di competenza del «Segretariato della salute Indigena» (Sesai), creato nel 2010.

Rispetto all’educazione, quasi tutte le comunità hanno scuole elementari. Alcuni centri principali hanno anche le scuole secondarie e il programma di «Educazione per i giovani e adulti» (Eja). Sfortunatamente molte strutture si trovano in condizioni precarie e necessiterebbero di ristrutturazioni urgenti, cosa che raramente viene fatta dalle autorità pubbliche.

Per costruire nuove scuole e centri sanitari, alcune comunità si affidano ai progetti della Chiesa cattolica e all’aiuto dei missionari. La Fondazione Missioni Consolata Onlus ha appoggiato la realizzazione di alcuni progetti. Le distanze e le condizioni delle strade rendono il lavoro sempre difficile e costoso.

Spesso, l’aiuto alle popolazioni indigene è rallentato dalle dispute di competenza tra i vari organismi amministrativi del governo federale, dello stato e del municipio. Da non sottovalutare, inoltre, il peso negativo della propaganda dei latifondisti e dei politici contro l’omologazione che per costoro continua ad essere un fallimento e che perciò dovrebbe essere rivisto.

Gioventù

La vita nella Raposa Serra do Sol è migliorata dai tempi del latifondo. Gli indigeni hanno ripreso le loro attività tradizionali e recuperato i valori culturali, anche se con difficoltà. C’è molta vita, organizzazione, spiritualità e senso di cittadinanza. C’è molta gioventù. La miseria è l’eredità lasciata dagli invasori che hanno violentato, bruciato case, chiese, scuole, centri sanitari. Queste persone rappresentano tuttora una minaccia all’autonomia e alla dignità delle popolazioni indigene.

Jaime C. Patias
Consigliere Generale dei missionari della Consolata




Noi siamo Makuxi


Lungo il Rio Branco. Viaggio a Roraima?/ 3

La battaglia per la demarcazione e l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è stata lunghissima e non pacifica. Ancora oggi, tra ricorsi e progetti di legge, non pare conclusa. Siamo stati a Barro (Surumu), in una comunità di indios makuxi.

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Br-174. Finalmente arriva l’alba. La luce ci permette di vedere il paesaggio: grandi spazi pianeggianti e aperti, interrotti ogni tanto da isole alberate. L’Amazzonia non è soltanto foresta, ma anche savana. Qui la chiamano lavrado. La Br-174 è diritta e con scarsissimo transito. Un cartello avverte che stiamo passando accanto a São Marcos, una delle tante terre indigene della parte nordorientale dello stato di Roraima. La Br-174 prosegue fino a Pacaraima, al confine con il Venezuela. Partiti da Boa Vista, noi la lasciamo dopo circa 200 chilometri per girare a destra e imboccare una strada sterrata. Entriamo nella terra indigena Raposa Serra do Sol.

La comunità di Barro

Attualmente il 46% della superficie di Roraima è demarcata come terra indigena1. Quella di Raposa Serra do Sol è la seconda per estensione, dopo la terra degli Yanomami. È abitata da cinque popolazioni: Wapixana, Taurepang, Patamona, Ingarikó e soprattutto dai Makuxi2, l’etnia indigena più numerosa dello stato (con oltre 20mila persone). Dopo lo sterrato, ecco un ponte su cui è stato collocato un posto di blocco. La polizia ci fa passare dopo un cenno del nostro guidatore. «Siamo arrivati», ci dice dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, che per tutto il tragitto ha pigiato sull’acceleratore dell’auto.

Il villaggio appartiene alle comunità makuxi di Barro. È una strada con qualche casa e alcuni luoghi pubblici. C’è un ambulatorio medico della Sesai, un locale per la foitura dell’acqua e una chiesetta. Sulla strada transita, libero e tranquillo, un gruppo di vacche: dopo l’agricoltura, l’allevamento costituisce un’importante attività di sostentamento per la popolazione indigena. Dom Roque è qui per un impegno ufficiale: deve officiare la cresima a un gruppo di Makuxi. Dato che la chiesetta è troppo piccola per ospitare una celebrazione con 20 cresimandi, gli organizzatori hanno spostato tutto sotto una vicina tettornia, dove una cantante e alcuni musicisti stanno già provando, tra le bizze dell’impianto di amplificazione. I cresimandi - donne e uomini di varie età - arrivano in gruppo indossando una elegante tunica rossa. Sono scalzi come lo stesso dom Roque. La cerimonia, molto partecipata e coinvolgente, si conclude con il taglio di una grande torta ricoperta di cioccolato. Ad aiutare il vescovo c’è padre Carlos Eduardo Alarcón, missionario della Consolata colombiano, che dal 2007 lavora in area indigena. Carlos si offre di accompagnarci e raccontarci le vicende di questa comunità makuxi.

Sequestri, incendi, violenza (e impunità)

A Surumu c’è una scuola, la «Escola Estadual Indigena Padre José de Anchieta», di insegnamento fondamentale. Poco fuori del villaggio ce n’è una seconda. Viene annunciata da un cippo levigato posto al centro della stradina. Sulla pietra è stato scritto il nome: «Centro indígena de formação e cultura Raposa Serra do Sol». E il suo motto: «Sabedoria, trabalho, paciência». «Saggezza, lavoro, pazienza: queste tre bellissime parole sono raffigurate dal libro, dalla zappa e dalla tartaruga», ci spiega padre Carlos. Il Centro indigeno di formazione e cultura è nato nel 1997 su iniziativa del Consiglio indigeno di Roraima (Conselho Indígena de Roraima, Cir3) e della diocesi con l’obiettivo di formare tecnici specializzati in agricoltura, allevamento e gestione ambientale. Il posto è bello: una collinetta alberata sulla e attorno alla quale sono sorti alcuni edifici. Ma la prima impressione è incompleta. Avvicinandoci ci accorgiamo che una parte delle costruzioni sono scatole vuote: hanno soltanto i muri estei. È tutto ciò che rimane della missione Surumu fondata dai missionari e missionarie della Consolata4. Schierata al fianco delle popolazioni indigene e a favore della demarcazione in area continua delle loro terre, la missione era invisa ai bianchi che di quelle terre si erano impossessati. Insulti, intimidazioni e violenze erano all’ordine del giorno. Quando il ministro Marcio Thomas Bastos annunciò che il presidente Lula avrebbe firmato l’omologazione di Raposa Terra do Sol, le azioni dei fazendeiros bianchi si fecero più eclatanti a Boa Vista e in tutto lo stato. Nel gennaio del 2004 la missione fu assaltata e tre missionari della Consolata furono sequestrati e tenuti in ostaggio per alcuni giorni. Gli autori erano un gruppo di indigeni contrari alla demarcazione, ma dietro di loro si nascondevano i bianchi (e la chiesa evangelica della regione)5. Quasi un anno e mezzo dopo - era l’aprile del 2005 - Lula firmò il decreto d’omologazione.   Anche in questo caso la reazione fu violenta. «Il 17 settembre - racconta padre Carlos - oltre un centinaio di indios assaltò la missione. Vennero devastati e bruciati la chiesa, la mensa e il dormitorio degli studenti, una parte dell’ospedale e degli alloggiamenti delle suore compresa la cappella, la biblioteca e la sala per gli incontri. Un professore fu picchiato. Non ci furono altre vittime soltanto perché quel giorno i missionari, le suore e la coppia di volontari laici erano fuori sede. Come nel 2004, anche in questo caso i mandanti erano i fazendeiros guidati da Paulo César Quartiero». Quella di Paulo César Quartiero è una storia di potere e impunità. È stato il latifondista (produttore di riso) più importante della regione, responsabile della maggior parte delle azioni violente contro la demarcazione, almeno fino al 2009. In quell’anno il Supremo tribunale federale obbliga i non-indigeni a lasciare Raposa. I media si dividono. Alcuni si schierano contro la decisione. Altri parlano di evento storico: per la prima volta sono i latifondisti a doversene andare (dietro indennizzo) e non gli indigeni. Quartiero, sempre impunito, cambia strategia. Nel 2010 acquista 12 mila ettari di terra sull’isola di Marajó, nello stato del Pará (tra l’altro, innescando anche lì una serie di conflitti). Nello stesso anno viene eletto deputato federale, distinguendosi subito per la sua attività anti indigena. Nell’ottobre del 2014 viene eletto vicegovernatore di Roraima. Quello che farà nella sua nuova veste lo vedremo nei prossimi mesi. Oggi i corsi del Centro di formazione e cultura Raposa Serra do Sol sono seguiti da 32 studenti di varie etnie. Accanto alle discipline classiche (matematica, chimica, biologia, ecc.), vengono insegnate la cultura e la tradizione indigene. Perché si vogliono preparare tecnici, ma anche leaders comunitari. Questo legame studenti-comunità è stato rinforzato dall’introduzione del sistema dell’alternanza (sistema de alteância), come ci spiega il cornordinatore: «Sono 4 anni di studio, ma ogni 2 mesi gli alunni tornano nelle proprie comunità per mettere in pratica ciò che qui stanno apprendendo». Anselmo parla con voce bassa, però l’orgoglio indigeno traspare chiaramente dalle sue parole. «In ragione della sua funzione, il centro è sempre stato visto come una minaccia da parte degli invasori, garimpeiros o arrozeiros. Per questo lo attaccarono». Il cippo incontrato all’entrata del centro non riportava soltanto il motto «Saggezza, lavoro, pazienza», ma anche tre altre parole, che sintetizzano il progetto politico delle comunità indigene: terra, identità e autonomia. Un progetto malvisto dalle autorità locali. «Il governo di Roraima - spiega Anselmo - continua ad attuare una politica anti indigena. A tal punto che ha creato proprie organizzazioni indigene per dividerci e per contrastarci dal di dentro, cercando di impedirci di attuare i nostri progetti»6. Quello di Anselmo non è un giudizio influenzato dall’essere parte in causa. I governi di Roraima hanno sempre contrastato i diritti indigeni e in particolare la demarcazione in area continua. Il progetto era (ed è) di demarcare le terre indigene in isole, dividendo in tal modo non soltanto l’area geografica, ma le stesse popolazioni indigene (demarcação contínua versus demarcação em ilhas).   Risaliamo sull’auto di dom Roque. Lasciamo la comunità makuxi e Raposa Serra do Sol. Ci aspettano 200 chilometri sull’asfalto della Br-174 prima di rientrare a Boa Vista, capitale di Roraima. Una capitale bianca che non ha mai nascosto la propria insofferenza per le terre indigene e i suoi abitanti.

Paolo Moiola (fine terza puntata - continua)

Note

1 - Cfr. Instituto Socioambiental (Isa), Diversidade Socioambiental de Roraima, São Paulo 2011, pag. 19. 2 - Il termine «makuxi» si può incontrare scritto anche come «macuxi». L’eventuale accento di makuxí e Surumú viene utilizzato soltanto per facilitare la pronuncia in lingua italiana. 3 - Il sito del Consiglio indigeno di Roraima: www.cir.org.br. 4 - Sulla missione di Surumu si veda il dossier firmato da Consiglio indigeno di Roraima, Benedetto Bellesi e Carlo Miglietta, Anche gli angeli perdono le ali, in MC luglio-agosto 2001. 5 - Si tratta della chiesa evangelica della Assembléia de Deus, una delle più potenti in Brasile. Sul tema si veda: Folha de S.Paulo, 28 agosto 2008. 6 - Si tratta delle organizzazioni Arikon, Alicidir e Sodiur (Sociedade de Defesa dos Índios Unidos do Norte de Roraima). Quest’ultima, in particolare, si è resa responsabile della distruzione della missione di Surumu nel settembre del 2005.

Paolo Moiola