Pakistan. La casta dei militari.


Una mappa del Pakistan con le sue regioni e le città principali.

Sommario

 

Il Cricket è ancora popolare

Un paese senza pace

Il politico più popolare, l’ex giocatore di cricket Imran Khan, è finito in carcere. A dettare l’agenda sono sempre i militari e, in particolare, l’agenzia di intelligence (Isi). In una nazione a grande maggioranza islamica ma con diverse etnie i problemi certamente non mancano.

Islamabad, gennaio. Quando atterro nella capitale del Pakistan, manca un po’ più di un mese alle elezioni. È stato un anno molto difficile per questa nazione: il Paese asiatico ha registrato il più alto numero di attentati degli ultimi vent’anni. Il governo attuale ha sostituito quello dell’ex campione di cricket, Imran Khan.

Khan era salito al potere nel luglio 2018, ma nell’aprile 2022 è stato sfiduciato. L’ex primo ministro, attualmente in carcere, scontava già una prima sentenza di tre anni; a gennaio 2024, è stato condannato in via definitiva ad altri 10 anni.

Kahn è stato dichiarato colpevole per aver abusato della sua carica politica, acquistando e vendendo illegalmente regali di Stato, doni ricevuti durante le sue visite all’estero. Il valore di questi «regali» si aggira sui 140 milioni di rupie pachistane (circa 500mila euro). Secondo i giudici, si tratta di sette orologi, sei dei quali Rolex, braccialetti e altri oggetti preziosi. Il suo partito, il Pti (Pakistan tehreek-e-insaf), non potrà usare il suo storico simbolo elettorale: la mazza da cricket. Khan è stato, infatti, uno dei più grandi giocatori pachistani di tutti i tempi, considerato come il Cristiano Ronaldo di questo sport. Dopo la sua carcerazione, il Paese sembra ancora più prigioniero dell’Isi (Inter services intelligence), l’agenzia di intelligence militare. Il sostegno segreto a mujaheddin e talebani afghani e la guerra clandestina in Kashmir (regione contesa con l’India) hanno rafforzato il potere e l’autonomia delle forze armate. I «neutrals», così si fanno chiamare per sottolineare la loro (presunta) neutralità, sono oggi l’organo che, di fatto, controlla il Pakistan.

Per queste ragioni, tutti, in particolare gli Stati confinanti, osserveranno attentamente le sorti politiche di questa nazione, soprattutto in vista dell’8 febbraio, giorno delle prossime elezioni (raccontate a pagina 35, ndr). A complicare ulteriormente la situazione c’è il suo tessuto culturale: il Paese è una società frammentata in diverse etnie e religioni minoritarie. In questo contesto complesso, la comunità pachistana fa fatica ad abbattere le barriere tra gruppi e convivere pacificamente.

La città vecchia di Lahore è un dedalo di viuzze e bazar. Foto Angelo Calianno.

I profughi afghani

Una delle questioni che, da tempo, spacca in due l’opinione pubblica pachistana, è quella della gestione dei profughi afghani. Un rapporto delle Nazioni Unite ha registrato, nell’ottobre 2023, tre milioni e 700mila rifugiati provenienti dal Paese confinante. Secondo le fonti governative, oggi, quel numero è salito a quattro milioni e mezzo di persone. È proprio dagli afghani che comincio la mia ricerca itinerante su quello che accade in questo Paese.

Già nell’inverno 2022, partecipando al massiccio esodo dei profughi verso il Pakistan, avevo potuto osservare la tragica situazione dei migranti, soprattutto di quelle etnie perseguitate dai Talebani, come gli Hazara (dossier MC, maggio 2022).

In un tragitto durato giorni, al freddo, in migliaia, picchiati a bastonate dai Talebani, abbiamo attraversato la frontiera passando da Jalalabad a Peshawar. Da allora il flusso di migranti, non si è mai fermato.

La maggior parte degli afghani che arriva qui non ha documenti: se scoperti potrebbero essere rimandati in patria. Patria dove, molto probabilmente, sono ricercati dai Talebani. Questi hanno i loro corrispondenti pachistani che, anche ad Islamabad, cercano i rifugiati segnati nelle loro «liste nere». È il caso, per esempio, di Zohra Wahedi Akhtari, giornalista afghana e attivista per i diritti delle donne. Zohra, oggi vive con la sua famiglia nella periferia di Islamabad. Per via delle minacce che continua a ricevere e per la paura di poter essere rimandata in Afghanistan, dove corre un grave pericolo di vita, Zohra ha cambiato casa quattro volte in 18 mesi.

Mi racconta: «Ho perso tutto quando sono tornati i Talebani. Hanno assassinato mio padre e mio fratello. Mia madre, invece, era già stata uccisa durante un bombardamento da parte degli americani. Per il mio lavoro di giornalista e attivista, sono stata arrestata e torturata con l’elettroshock. Per questo, ancora adesso, soffro di amnesia. Con la mia famiglia siamo dovuti scappare per sopravvivere, l’Afghanistan è la prigione delle donne. Il mio nome è sulla lista dei Talebani delle persone da eliminare. Quando esco di casa, anche qui a Islamabad, sono spesso seguita. Più volte mi sono rivolta all’agenzia internazionale per i rifugiati, ma non ho mai avuto risposta. Nonostante le minacce che ricevo continuamente, le autorità pachistane vorrebbero deportarci in Afghanistan».

Wahid, suo marito, continua: «Anch’io sono stato arrestato, due volte, a causa del lavoro di mia moglie. La prima volta i Talebani mi hanno accusato di non essere un musulmano osservante, perché avevo permesso a Zohra di protestare. Quando ho risposto che, nel Corano, non esiste nessuna legge che lo vieti, mi hanno preso a schiaffi. Al mio secondo arresto invece, sono stato frustato».

Benzir è la figlia di Zohra e Wahid, ha 18 anni. «Io sogno di studiare – mi racconta con la voce rotta dal pianto -, ma questo ci è vietato. Non solo a me ma a tutte le donne afghane. Vorrei dire al mondo che anche noi siamo esseri umani e che vorremmo essere trattate come tali. Per il fatto di non poter uscire o studiare, soffro di depressione».

Vista notturna della moschea di Badshahi, a Lahore; conosciuta anche come la «moschea imperiale», fu commissionata da Aurangzeb, imperatore Moghul, nel 1671. Foto Angelo Calianno.

Hazara, perseguitati due volte

Islamabad ha diversi campi di rifugiati per gli afghani. La maggior parte di loro però, per paura di essere espulsi, affitta illegalmente case di fortuna in alcuni quartieri di periferia.

In uno di questi sobborghi, incontro Qais, afghano hazara che ha vissuto e lavorato in Inghilterra: «Siamo Hazara, saremo sempre perseguitati dai Talebani. Quando sono fuggito, ho pagato il viaggio, per me e per la mia famiglia, 80mila afghani (circa mille euro). Qui viviamo nascosti, se l’intelligence dovesse scoprirci, ci rimanderebbe indietro. Sono riuscito a trovare una scuola per i miei tre figli, dove non ci chiedono documenti e pago in nero. Cerco in tutti i modi di farli studiare. I nostri risparmi però, stanno terminando, la gente che ci vende da mangiare, o chi ci affitta le case, sovraccarica i prezzi. Sanno della nostra paura di essere scoperti e allora ne approfittano. Ho fatto domanda come rifugiato e perseguitato, in quanto Hazara ne avrei diritto, ma dopo un anno e mezzo non ho ancora ricevuto risposte. Essere Hazara è complicato anche in Pakistan, siamo mal visti anche dai Pasthun locali. I miei figli piccoli, spesso, mi chiedono perché non possiamo uscire e fare cose normali come andare al parco o fare una passeggiata.

È molto difficile spiegare a un figlio perché deve nascondersi. Anche se l’Afghanistan cambiasse governo, non penso che riusciremmo mai a tornare. Indipendentemente da chi governerà, per noi Hazara l’Afghanistan rimarrà sempre un luogo troppo pericoloso».

Oltre a quelle di chi si nasconde, sono tantissime le testimonianze di afghani che subiscono abusi da parte delle forze armate pachistane. Human rights watch, in diversi dossier, ha segnalato furti di gioielli e oggetti preziosi ai danni dei rifugiati. In altri casi, si parla di ricatti e tangenti per velocizzare le pratiche di richiesta d’asilo. Tante sono anche le testimonianze di stupri e molestie ai danni delle donne. Sempre secondo la Ong per i diritti umani, dall’ottobre 2023, sono stati più di 400mila gli afghani espulsi e fatti tornare in patria. Quasi sempre, si tratta di persone che rischiano la vita perché non gradite al regime di Kabul.

Angelo Calianno

Giovani in preghiera nella moschea di Wazir Khan Masjid, a Lahore. Foto Angelo Calianno.

Perseguitato, ma Khan resiste

Dopo le elezioni dell’8 febbraio

In dubbio fino all’ultimo, alla fine le elezioni si sono tenute con i candidati di 14 partiti. Abbiamo incontrato lo scrittore B.J. Sadiq. Secondo lui, senza brogli e violenze, il partito di Khan avrebbe vinto, mentre ora si trova a dover convivere con la Lega musulmana e il Partito popolare.

Islamabad, primi di febbraio. Mancano pochi giorni alle tanto attese elezioni dell’8 febbraio. Tuttavia, per strada, la campagna elettorale è praticamente inesistente. Non ci sono manifesti, non ci sono comizi pubblici. Gli unici indizi che ricordano le imminenti votazioni si trovano online. Molti esponenti, soprattutto quelli supportati dal partito, tengono i propri discorsi su YouTube e Telegram, ma, proprio durante questi interventi, l’intelligence oscura internet. Molte persone pensano che, vista la situazione, le elezioni verranno rimandate. Diversi sono stati, in questa settimana, gli attentati e gli omicidi a Peshawar e Islamabad. La maggior parte degli elettori ritiene che non importa chi andrà al potere, alla fine sarà sempre l’agenzia di intelligence a comandare il Paese.

Compromessi difficili ma inevitabili

È il 13 febbraio. Le complicate elezioni pachistane hanno avuto finalmente un risultato. Il popolo ha scelto, contro ogni pronostico, di votare per i candidati appoggiati da Imran Kahn. Allo stesso tempo, però, anche la Lega musulmana e il Partito popolare reclamano la propria vittoria. In conclusione, nessuno dei tre grandi blocchi politici ha la maggioranza per poter governare, quindi si è formata una coalizione. Il primo ministro scelto è Shehbaz Sharif, esponente della Lega musulmana.

Una persona che, di certo, può fare chiarezza sulla complicata situazione attuale è B. J. Sadiq. Giornalista, poeta, scrittore e intellettuale pachistano naturalizzato inglese, B.J. ha scritto un best seller su Imran Kahn: «Let there be justice: the political journey of Imran Kahn». Il libro oggi, per ragioni ancora poco chiare ma facilmente immaginabili, non si trova più in vendita.

Il Pakistan secondo B.J. Sadiq

B.J. Sadiq è uno scrittore, poeta e giornalista pachistano; la sua biografia sull’ex primo ministro Khan è stato un best seller in Inghilterra, ma in Pakistan è introvabile. Foto Angelo Calianno.

Lo scrittore comincia a raccontarmi gli ultimi eventi, partendo proprio dalla situazione dell’ex primo ministro: «Nel mio libro non cerco di trasformare Khan in una figura divina, ha commesso di certo degli errori. Non è un uomo molto affabile, è molto ostinato e davvero poco diplomatico. Non piace all’élite intellettuale pachistana, anche se questa non smette mai di nominarlo. Però Kahn è un nazionalista di razza, la sua lealtà nei confronti della sua patria non può essere messa in discussione. Per questo è adorato da milioni di persone. Prima della politica, Kahn ha vinto, per il suo Paese, come campione di cricket. A mio parere, il suo sbaglio più grande è quello di non essere riuscito a reprimere la destra radicale, a sconfiggere quell’estremismo che danneggia l’immagine del Pakistan e scoraggia gli investimenti stranieri. In più, un altro problema è stato quello di avere un gabinetto pieno di politici corrotti. Imran Kahn è stato estromesso nel 2022 con un voto di sfiducia; da allora, sta combattendo contro una tempesta giudiziaria. Io penso che tutte le accuse nei suoi confronti siano infondate. Il fatto è che le forze militari pachistane fanno praticamente quello che vogliono.

In queste elezioni, il partito sostenuto da Khan ha conquistato 99 seggi. È stato un chiaro voto contro i militari e quelli da loro sostenuti, persone come Nawaz Sharif. Quasi 60 milioni di persone si sono recate a votare, un numero astronomico per la nostra nazione. La gente è stremata dall’inflazione persistente, dall’élite politica e militare amante di sé stessa che ha reso lo Stato quasi ingovernabile. Il partito di Khan è stato, inoltre, oggetto di diffusi brogli preelettorali. Per esempio, è stato costretto a presentarsi alle elezioni senza il simbolo della mazza da cricket, cosa che, secondo l’intelligence, avrebbe potuto confondere gli elettori. Inoltre, anche nel giorno dello scrutinio ci sono state irregolarità e violenze. Il governo ha ordinato la sospensione delle reti mobili e l’oscuramento di internet in tutto il Paese. Diversi, ancora, sono stati gli episodi di terrorismo nella travagliata provincia del Balochistan. In realtà, si pensa che i seggi conquistati siano stati 175. Se tutto si fosse svolto regolarmente e se fosse stata fatta giustizia, il partito di Khan avrebbe governato senza ricorrere a una coalizione.

Le elezioni in Pakistan – continua Sadiq – sono sempre state truccate, ma questa volta è stato anche peggio. Abbiamo assistito a un massacro della democrazia. I militari pachistani, insieme a una classe politica connivente, hanno toccato nuovi abissi di scorrettezza. L’opinione pubblica è arrabbiata. Ha tutto il diritto di esserlo.

Il Pakistan è un Paese di quasi 240 milioni di persone; i suoi giovani sono alla disperata ricerca di migliori opportunità, ma la sua economia è diventata troppo fragile per offrire loro qualcosa. Le sue imprese locali sono al collasso e i suoi contadini sono allo sbando. In queste circostanze precarie, qualsiasi scorrettezza elettorale non farà altro che provocare un maggiore sconvolgimento sociale. Continuo a credere che il Pakistan abbia un futuro brillante, perché ha una delle popolazioni più giovani del mondo e la gente ha voglia di un vero cambiamento. Ci sono però seri ostacoli. Il Paese è geograficamente situato in una regione da sempre segnata dall’ascesa dell’estrema destra religiosa, e da un regime fascista in India che non mostra segni di conciliazione nei confronti del Pakistan. Questo pone lo Stato in una sorta di crisi esistenziale. Se, in qualche modo, i suoi leader riusciranno a superare questo lungo periodo di incertezza e tristezza, e a introdurre serie riforme economiche, la situazione potrebbe migliorare nei prossimi cinque-sette anni», conclude B.J. Sadiq.

Veduta diurna della moschea di Badshahi, a Lahore; tornata luogo di culto nel 1852, il suo restauro è terminato soltanto nel 2008. Foto Angelo Calianno.

Tanti motivi per scappare

Nonostante la giovane età media della popolazione e la speranza che le cose possano cambiare, il Pakistan è ancora un luogo da dove si cerca di fuggire. Il 2023 ha visto un nuovo record di emigrazione dal Paese: 860mila sono le persone che hanno lasciato la propria nazione. Per numero di presenze, la prima meta è l’Arabia Saudita, Stato che ha accolto più di 400mila lavoratori pachistani. All’Arabia seguono gli Emirati arabi uniti e altre nazioni dell’area come Qatar e Oman.

In Europa (escludendo il Regno Unito), la maggior parte della comunità pachistana risiede e cerca asilo in Grecia, seguita da Italia e Spagna.

Oltre a quelle già elencate, una delle maggiori cause d’instabilità del Paese è il conflitto sul fronte del Kashmir. India e Pakistan si contendono questa regione dal 1947, cioè da quando il Pakistan è diventato uno Stato indipendente. Fino a oggi, sono state tre le guerre per il controllo del Kashmir, in particolare per usufruire delle sue risorse idriche, che peraltro interessano anche la Cina. Oltre ai conflitti ufficiali, centinaia sono gli scontri contro guerriglieri indipendenti, gruppi di estremisti e spie indiane infiltrate.

La tensione tra Pakistan e India preoccupa la comunità internazionale, soprattutto per il numero di armi nucleari a disposizione di queste due nazioni, arsenali tra i più grandi del mondo (quello pachistano dovrebbe contare 170 testate nucleari, mentre quello indiano circa 160, secondo i dati del Bulletin of the atomic scientists).

Durante il suo governo, Imran Khan ebbe modo di dire: «Voglio parlare ai capi di Stato, e portare all’attenzione di tutti la situazione attuale del Kashmir. Se la questione si risolverà con una guerra, ricordate che entrambi i Paesi hanno armi nucleari. E nessuno vincerebbe una guerra nucleare, perché la distruzione non si limiterebbe solo a questa regione: il mondo intero dovrebbe affrontarne le conseguenze».

Angelo Calianno

La cattedrale della Resurrezione, a Lahore, è una chiesa protestante consacrata nel 1887; come tutte le chiese cristiane, anche questa è circondata da alti muri, filo spinato e telecamere di sorveglianza. Foto Angelo Calianno.

Cristiani sotto attacco

L’islam e le minoranze religiose

Muri, filo spinato, telecamere proteggono le chiese. In Pakistan, professare una fede diversa dall’islam è difficile e pericoloso. La storia di Akash Bashir.

Lahore. Chiesa di san Giovanni, quartiere di Youhanabad, 15 marzo del 2015. Migliaia di cattolici si affollano nelle proprie parrocchie per la messa domenicale. Le chiese sono sempre protette da muri, filo spinato, telecamere di sorveglianza. Eppure, nemmeno queste misure di sicurezza sono sufficienti per scacciare la paura di attacchi. La violenza contro i cristiani è, infatti, una costante. Così, molto spesso, accade che volontari della comunità decidano di costituire gruppi di guardia.

Akash Bashir ha 21 anni ed è uno di questi volontari. Nato da una famiglia molto povera, così come praticamente tutte le famiglie cristiane di Lahore, Akash ha studiato all’Istituto tecnico industriale presso la scuola salesiana e, da circa due anni, è membro attivo del gruppo di sorveglianza della parrocchia di San Giovanni. Sono duemila le persone che, tra cortile e interno della chiesa, si radunano in questa domenica di marzo. Pochi minuti fa, è arrivata la notizia di un attentato contro la chiesa anglicana, non lontano da qui. I ragazzi del turno di guardia raddoppiano la sorveglianza.

A un certo punto, Akash vede un uomo correre verso l’entrata della chiesa. Intuendo il pericolo, prima che questo si avvicini troppo alla folla, il giovane gli si getta addosso placcandolo. L’attentatore si fa esplodere. Akash muore insieme ad altre quarantuno persone. L’attacco viene, in seguito, rivendicato da una cellula dei talebani pachistani: il Tehrik-i-Taliban Pakistan, gruppo attivo dal 2007.

L’ennesima strage ai danni dei cristiani innesca la furia della comunità dei fedeli di Lahore. Per i tre giorni successivi, più di quattromila cristiani si radunano sul luogo dell’attentato. La folla distrugge le strade e ingaggia scontri con la polizia. Due fratelli musulmani, accusati di essere militanti del gruppo estremista talebano, vengono linciati.

Per Akash Bashir, esattamente nove anni dopo la sua morte, lo scorso 15 marzo si è chiusa a Lahore l’inchiesta diocesana della causa di beatificazione (aperta il 15 marzo 2022), primo passo ufficiale prima della valutazione degli atti a Roma, da parte del dicastero delle cause dei Santi. Akash potrebbe diventare il primo santo martire pachistano.

Daniel è un cristiano di Lahore; come per molti altri cristiani per lui non esiste sicurezza; molto spesso la sua casa è oggetto di lanci di oggetti da parte dei vicini musulmani più estremisti. Foto Angelo Calianno.

La minoranza cristiana e la blasfemia

A Lahore oggi, gennaio 2024, nove anni dopo il tragico attacco alla chiesa di Youhanabad, per i cristiani la situazione non è per niente migliorata. L’ultimo censimento sul loro numero in Pakistan è del 2018. Pur essendo la terza religione del Paese, i cristiani sono meno del 2% della popolazione totale con circa 2,6 milioni di praticanti. In Pakistan, il 96% della popolazione è rappresentato da musulmani. La seconda corrente religiosa è quella degli induisti, anche loro con una piccola percentuale, leggermente al di sopra del 2%.

La tensione è sempre altissima, le chiese sono ancora più blindate. Si può entrare solo nella propria parrocchia, mostrando dei documenti che ne attestino l’appartenenza. Ripetuti sono gli attacchi e gli atti vandalici. Uno degli ultimi, e più sanguinosi, è accaduto ad agosto 2023 nella città di Jaranwala. Una folla, formata da musulmani sunniti, ha attaccato la chiesa locale, bruciandola. La ragione di quest’atto, nella rivendicazione del gruppo musulmano, era l’accusa di «blasfemia» rivolta ai cristiani. Uno dei testimoni di questa violenza, membro della comunità cattolica di Lahore, è Daniel.

Pericoli e ingiustizie

Daniel è un insegnante di pianoforte. La sua famiglia, cattolica da quattro generazioni, è arrivata qui dall’India. Lo incontro a casa sua, a Lahore. Le festività sono passate da poco, nel soggiorno sono presenti ancora il presepe e l’albero di Natale.

Sul suo divano, Daniel, seduto accanto a suo padre, mi mostra video e foto dell’attacco di agosto a Jaranwala: «Non hanno bruciato solo la chiesa, hanno anche distrutto le case attorno la parrocchia. Si è speculato tanto su questa storia. Si è addirittura detto che fosse colpa di un debito non pagato da parte di un cristiano. Ma ti dico io quello che è davvero accaduto. Un signore, della nostra comunità, aveva prestato dei soldi a un uomo musulmano. Questo debito tardava a essere saldato. La moglie del primo si è ammalata gravemente e, avendo bisogno di soldi, il creditore è andato a sollecitare per riavere il suo denaro, mai ricevuto. Qualche giorno dopo c’è stato l’attacco al quartiere della parrocchia, tra gli uomini a capo della spedizione punitiva, c’era proprio il debitore. È facile aizzare l’odio contro di noi e usarlo per risolvere i propri problemi. Sono tante le cose che non vengono dette o che non si sanno. Non c’è solo la paura per la nostra incolumità, è anche il nostro quotidiano a essere difficile. Per esempio, a Natale, ci è proibito scambiarci gli auguri per strada. Dobbiamo farlo in chiesa o di nascosto. Quando siamo in giro, molti si avvicinano insultandoci. Ci urlano: “Cos’ è questa blasfemia del figlio di Dio. Gesù era un profeta e basta, Dio è solo uno”. Per strada ci lanciano oggetti, anche trovare lavoro per noi è più difficile che per gli altri. Quando riusciamo a ottenerlo, i nostri stipendi sono comunque più bassi di quelli dei musulmani. Ti hanno detto che qui si convive tutti in armonia, ma non è affatto così. Certo, ufficialmente non siamo perseguitati come potremmo esserlo in altri Paesi, ma la realtà è molto diversa da quella che ti hanno raccontato. Poco tempo fa, anche casa mia è stata attaccata da circa quindici persone. Volevano prendere la nostra proprietà. Dicevano che, in quanto cristiani, non avevamo diritto di stare qui. È così che viviamo».

La sorella di Daniel ci prepara la cena, non c’è luce. Lahore è soggetta a blackout programmati, per circa 6-8 ore al giorno, si vive senza corrente elettrica. Chiedo a Daniel se c’è qualcuno che li aiuta, se la chiesa, o la diocesi locale, potrebbero in qualche modo proteggerli.

Mi risponde: «È proprio dalla Chiesa che ci sentiamo abbandonati. Soltanto le famiglie ricche vengono prese in considerazione. Ti faccio un esempio, per i nostri figli non possiamo permetterci una scuola cattolica: è troppo costosa. I nostri bambini vanno nelle scuole musulmane e imparano il Corano. Per noi, è anche complicato ottenere un visto per viaggiare all’estero, ed è pure più costoso che per gli altri cittadini. Scriviamo lettere ai vescovi e alle autorità, ma non cambia mai nulla. È difficile trovare lavoro anche all’interno delle stesse chiese, dove, ad esempio, il personale di scurezza è musulmano. Ci sentiamo come dei bambini che hanno prima battezzato, e poi abbandonato per strada. Per tutte queste ragioni, la maggior parte dei cristiani fugge dal Pakistan. Il mio unico momento di conforto è la notte. Mi sveglio prima dell’alba, leggo il Vangelo e prego. Quel momento di preghiera dove sono solo, in silenzio, quel momento tra me e Dio, è l’unica cosa che mi fa resistere».

Angelo Calianno

Mappa con i numeri (esigui) dei cristiani del Pakistan, minoranza sotto costante attacco, il Paese asiatico ha una popolazione al 96 per cento di fede islamica.


Nel Balochistan, la regione ribelle

Una questione grave ma ignorata

È una regione nella quale sono forti le istanze indipendentiste. E, per questo, sotto costante controllo da parte del potere centrale e dell’Isi. Nonostante i divieti, l’abbiamo raggiunta in treno avendo l’opportunità di parlare con molti «balochi».


N.B. Nel testo è usata la scrittura del nome all’inglese, invece di quella italiana di Belucistan e beluci


Lahore. È una città vibrante e caotica, una delle più popolate in Pakistan con circa 14 milioni di abitanti. L’architettura varia dai palazzi e le stazioni ferroviarie di epoca coloniale, alle grandiose moschee del periodo Moghul. I vicoli della città vecchia richiamano l’India: qui si affollano mendicanti e «medici» (molti, sia per ragioni culturali che economiche, si affidano ancora alla medicina tradizionale, invece che a quella moderna). Per strada, sono decine i curatori che, tenendo tra le mani serpenti o sanguisughe, vendono ogni tipo di medicamento spacciato per miracoloso. Si può trovare davvero di tutto: da chi incolla denti di seconda mano, a chi cura le infiammazioni con il veleno di scorpione.

A ogni angolo è possibile mangiare, ma l’igiene è completamente assente. Il pesce viene sviscerato e venduto per strada, la carne è esposta senza nessuna refrigerazione. Frequenti sono le epidemie di febbre tifoide. Una, in particolare, ha colpito Lahore nel maggio 2023, protraendosi per tutta l’estate e portando gli ospedali al collasso.

Questa città vanta anche il triste primato di essere uno dei luoghi più inquinati del mondo. È al terzo posto dopo Mumbai, in India, e Dacca, in Bangladesh. L’aria è spesso irrespirabile e, soprattutto al tramonto, una coltre di smog avvolge il paesaggio.

Al mercato del pesce di Lahore tutto si fa per strada e, di conseguenza, le condizioni igieniche sono sempre al limite. Foto Angelo Calianno.

Gli abitanti «balochi»

Durante le mie ricerche a Lahore, i suoi sobborghi e villaggi, incontro diverse persone provenienti dal Balochistan. Dalle loro parole traspare un forte nazionalismo, un grande senso di appartenenza ma anche di dolore.

L’Isi, oggi, si scontra continuamente con i separatisti «balochi» che, da 20 anni, reclamano la propria indipendenza. Quello che accade in Balochistan è cruciale per l’equilibro del Pakistan: gli attacchi da parte dell’Iran, l’interesse della Cina, e le continue violazioni dei diritti umani da parte dei militari contro la popolazione locale, fanno di questa regione una delle più pericolose e inaccessibili dell’Asia centrale.

In treno verso Quetta

Mappa del percorso del «Jaffar Express», treno che parte da Peshawar e arriva fino a Quetta; il viaggio completo dura circa 36 ore.

Entrare in Balochistan, da giornalista europeo, è quasi impossibile. Anche riuscendo a ottenere i permessi, si rimane confinati in un hotel e si è costantemente sotto scorta della polizia, quindi impossibilitati a effettuare interviste o, comunque, «pilotati» dall’intelligence.

Alcuni dei miei contatti a Quetta, capitale del Balochistan, mi suggeriscono di provare a entrare illegalmente, in treno, così da evitare i controlli. Vestito con abiti tradizionali pashtun, in modo da camuffarmi, prendo il «Jaffar Express», unico treno che da Lahore porta a Quetta. Il viaggio dura circa 28 ore. I vagoni straripano di persone e bagagli, si dorme su poltroncine a castello poste su tre livelli e con pochissimo spazio.

«C’erano molti più treni fino a poco tempo fa – mi confessa un viaggiatore -, ma ora le compagnie degli autobus, che sono ben ammanicate con il regime dei militari, hanno preso il controllo di quasi tutta la viabilità. Hanno addirittura rubato i binari e demolito le stazioni. Così adesso, per andare in Balochistan, ci è rimasto solo questo treno».

Dopo il lunghissimo viaggio, riesco ad arrivare a Quetta, capoluogo del Balochistan. Entro senza problemi nel centro città per raggiungere uno dei miei informatori. Per passare inosservati, decidiamo di spostarci con una vecchia motocicletta.

Quetta si trova in una valle circondata da montagne, siamo a pochi chilometri dall’Afghanistan. La città è divisa in settori, ogni accesso è presenziato da forze armate locali.

Le ricchezze del Balochistan

Le etnie che oggi abitano il Balochistan sono: i Baloch, quasi tutti musulmani sunniti, i Brahui, gruppo etnico asiatico, anche loro musulmani sunniti. Altre minoranze presenti sono quelle sciite degli Hazara, provenienti dall’Afghanistan, e una piccolissima minoranza cristiana che, data l’instabilità, sta cercando di scappare dalla regione.

Arqam (nome di fantasia), guidandomi per alcune strade fangose, mi racconta: «Il Balochistan è ricco di minerali come il quarzo, la cromite e il carbone. In più abbiamo enormi cave di marmo e pietra. Quello che però fa gola al Governo, e anche a tutti gli altri Stati vicini, sono le nostre riserve di petrolio, oro e rame. Queste ultime due tra le più grandi del mondo. Le nostre ricchezze naturali però, come vedi, non sono per niente commutate in benessere per la popolazione. Viviamo arrangiandoci, sotto la soglia della povertà e in maniera sempre precaria. Paghiamo carissimi anche gas e benzina, pur essendone praticamente circondati. È facile trovare famiglie che, illegalmente, cercano un modo per allacciarsi ai gasdotti. Cosa pericolosissima, come puoi immaginare».

Il Balochistan è la regione più povera del Pakistan. Negli ultimi 20 anni, il governo ha progettato piani e stipulato accordi con aziende e multinazionali, senza mai consultare la popolazione locale. Tantissime terre sono state espropriate per costruirvi infrastrutture, come nel caso del Cpec (China-Pakistan economic corridor). L’enorme progetto cinese, attualmente in costruzione, mira a creare un collegamento di 3mila chilometri dalla Cina fino al porto pachistano di Gwadar. Questo corridoio attraversa tutto il Balochistan. Se il progetto dovesse essere completato, il porto di Gwadar diventerebbe il secondo hub commerciale cinese più grande, dopo quello di Honk Kong.

I luoghi attorno alla costruzione del Cpec, in Balochistan, sono diventati una polveriera. Tantissimi sono gli attacchi e i sabotaggi da parte dei separatisti baloch, contro le infrastrutture cinesi.

«La commissione per i lavori del Cpec ha promesso di portare ricchezza nelle nostre terre – continua Aqram -, di costruire strade e dare lavoro. Ma, per anni, abbiamo visto solo la nostra terra depredata sotto i nostri occhi, è comprensibile che nessuno di noi si fidi più delle promesse. I movimenti di indipendenza vengono dipinti dai giornali, e dal governo, come terroristi. Ci sono attacchi e scontri, è vero, ma questi sono volti a ottenere libertà e diritti per il Balochistan».

I movimenti di ribellione non sono i soli a interferire con la costruzione del corridoio. Tra i principali oppositori c’è anche l’India, rivale storica del Pakistan. Questa, appoggiata dagli Usa (soprattutto durante l’amministrazione Trump), bloccando il progetto danneggerebbe economicamente il Pakistan. Inoltre, frenerebbe un ulteriore espansione cinese, invisa anche agli Stati Uniti.

L’entrata della stazione dei treni di Quetta, capoluogo del Balochistan. Foto Angelo Calianno.

Il Bla, le sparizioni e le fosse comuni

La battaglia per l’indipendenza del Balochistan non è qualcosa di nuovo: i primi gruppi di combattenti sono sorti nel 1948, quando la divisione post coloniale aveva consegnato il Paese nelle mani della maggioranza etnica dei Punjabi.

Oggi, il gruppo più attivo è quello del Bla (Balochistan liberation army), considerato da Pakistan e Usa come organizzazione terroristica. Per la popolazione locale, invece, è un esercito di liberazione. In Balochistan, peraltro, non ci sono solo militanti armati.

Sono tanti i giornalisti, gli intellettuali, gli insegnanti che da anni si battono pubblicamente per far valere i propri diritti. L’agenzia di intelligence militare pachistana, per scoraggiare qualsiasi moto separatista, ha messo in pratica una «sparizione sistematica» degli attivisti e dei loro parenti. Un metodo molto simile a quello usato dalla dittatura argentina a fine anni Settanta.

Secondo i gruppi di attivisti baloch, negli ultimi venti anni, sono state 26mila le persone scomparse in seguito a un arresto da parte dell’Isi. Di nessuno di loro si sono più avute notizie.

Nel 2014, a Tootak, cittadina della regione balochi, sono state trovate le prime fosse comuni. È stato possibile riconoscere i cadaveri: si trattava di persone scomparse, rapite da militari legati al governo. Nel primo sito di scavo, sono stati trovati quindici corpi. Successivamente, un gruppo di cittadini ha deciso di condurre una propria investigazione indipendente, trovando così un’altra fossa comune. In questo secondo caso, si sono scoperti altri 103 corpi. Per prevenire ulteriori ritrovamenti, oggi, questi siti sono sotto il controllo militare: è proibito effettuare qualsiasi scavo senza il permesso delle autorità.

Una protesta lunga 1.600 chilometri

In questa situazione, un gruppo di donne, a cui l’intelligence ha rapito fratelli, mariti e figli, ha deciso di non rimanere più in silenzio. Il 6 dicembre 2023, guidate dalla dottoressa Mahrang Baloch, una delle voci più importanti per i diritti umani in Balochistan, in 150 hanno marciato per 1.600 chilometri da Quetta fino a Islamabad. Il cammino è durato 15 giorni.

Passando per villaggi e città, tanti si sono uniti alla marcia. All’arrivo nella capitale, il 21 dicembre 2023, il gruppo contava 700 persone. Pur essendo una protesta pacifica, la polizia ha attaccato i manifestanti con lacrimogeni, cannoni ad acqua e manganellate. Nel corteo erano presenti anche molti bambini e anziani. Nei primi giorni del sit in di protesta, sono stati arrestati 300 uomini e 70 donne. Per conoscere meglio la storia di questa protesta, voglio incontrare la dottoressa Mahrang.

Per persone come lei parlare con un giornalista è sempre molto pericoloso. Per questo organizzo un’intervista affittando una stanza in un luogo segreto a Islamabad. Mahrang arriva con altre tre donne. A tutte è stato arrestato o rapito un familiare, senza che se ne sia saputo più nulla. Le donne mi mostrano le foto che ritraggono i loro padri e fratelli.

Mahrang Baloch, di professione medico, è la più famosa tra le attiviste per i diritti della popolazione del Balochistan. Foto Angelo Calianno.

Donne coraggiose

Mahrang mi spiega: «Siamo qui per chiedere una negoziazione con il governo. Abbiamo dei punti fondamentali che abbiamo bisogno di affrontare con le cariche dello Stato. Su tutti: la fine del genocidio, lo stop agli arresti extra giudiziali, la cessazione dei rapimenti. I diritti che chiediamo vengano rispettati rientrano tra quelli tutelati dalla Costituzione del Pakistan e dalla dichiarazione sui diritti umani. Inoltre, vogliamo sapere che fine hanno fatto i nostri familiari. Anche se fossero morti, vogliamo sapere dove sono seppelliti, vogliamo che il governo parli con noi. In più, chiediamo che una commissione delle Nazioni Unite venga a investigare su tutte le violazioni contro il nostro popolo. Quello che sta accadendo in Balochistan, da 20 anni, è un genocidio. Ci hanno soprannominato “la piccola Gaza”. La differenza, però, è che la Palestina è sotto gli occhi di tutti, ne sta parlando il mondo. Nessuno invece sa quello che accade in Balochistan. La nostra storia rimane inascoltata».

Sammi Deen, che ha partecipato alla grande marcia da Quetta a Islamabad con la foto del Dr. Deen Mohammad Galoch fatto scomparire dall’esercito pakistano il 28 giugno 2009

Sammi Deen, studentessa di 25 anni e attivista, continua: «Queste sparizioni distruggono le famiglie. Mio padre era un leader politico, è scomparso 15 anni fa. Non abbiamo più avuto sue notizie. La mia vita, da allora, è totalmente cambiata. Ho dovuto prendermi cura della mia famiglia mentre studiavo e mi battevo per la causa di mio padre. Negli ultimi 15 anni, sono andata spesso davanti alla Corte suprema per chiedere giustizia, per avere qualsiasi notizia su di lui. Quando finalmente otteniamo udienza, provano a scoraggiarci, a umiliarci. Ci fanno domande inutili. Arrivano a insinuare che, in realtà, i nostri cari non sono spariti, che ci siamo inventate tutto. Oppure ci dicono che ci hanno lasciate per combattere tra le file dei militanti terroristi. Anch’io sono stata rapita dall’intelligence e detenuta per sette giorni. Molto spesso subisco minacce e intimidazioni. Quello che sto raccontando, la mia storia, è la storia di tutte le famiglie del Balochistan».

 

Alla dottoressa Mahrang chiedo se i giornalisti abbiano mai raccontato queste vicende. «I media rimangono per lo più in silenzio – spiega -. Quando mi intervistano, non sanno nulla di quello che accade e non cercano nemmeno di approfondire la situazione. I network pachistani hanno le mani legate, ma nemmeno i media internazionali raccontano davvero la verità. I giornalisti stranieri sono “pilotati” dal governo e, spesso, le storie che si raccontano sul Balochistan sono solo fatti di costume o di cronaca locale».

Il dialogo respinto

A Islamabad, il sit in di protesta è terminato il 25 gennaio. Per 34 giorni, centinaia di donne e uomini di tutte le età sono rimaste per strada dormendo al freddo. Hanno sopportato le cariche e gli arresti della polizia, contando solo sul supporto della gente locale. Alla fine, il corteo è ritornato a Quetta, marciando ancora per più di mille chilometri. Al ritorno in Balochistan, sono nuovamente scomparse diverse persone. La maggior parte sono familiari di chi ha protestato. A oggi, il governo di Islamabad non ha risposto a nessuna delle richieste delle donne baloch e non ha mai avviato con loro un dialogo.

Angelo Calianno

La valle di Quetta; Quetta è il capoluogo della regione del Balochistan, centro nevralgico del Pakistan per le sue ricchezze e la vicinanza all’Afghanistan. Foto Angelo Calianno.

 




Nicaragua. Una Chiesa in esilio


Cacciati il nunzio apostolico, alcuni vescovi, presbiteri e persino le suore di Madre Teresa. Il regime di Daniel Ortega accusa la Chiesa cattolica di sostenere gli oppositori. Ma i vescovi del Paese centroamericano replicano che loro sono solo dalla parte degli ultimi.

Era la fine di giugno del 2022 quando Daniel Ortega ha deciso l’espulsione delle Missionarie della Carità dal Paese.

Presenti a Managua dal 1986, le suore di Madre Teresa hanno dovuto lasciare il Nicaragua perché non avevano rispettato le leggi sul «finanziamento del terrorismo e sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa». Questa almeno era l’accusa rivolta loro dalla «Direzione generale di Registro e controllo delle organizzazioni senza scopo di lucro» del ministero dell’Interno nicaraguense. La stessa motivazione con la quale sono state messe al bando, in questi ultimi anni, oltre cento organizzazioni non governative (Ong).

(Photo by Cesar PEREZ / Nicaraguan Presidency / AFP)

Fuori chi contesta il regime

Il caso dell’espulsione dal Paese delle suore di Madre Teresa che, con una mitezza divenuta addirittura proverbiale, portano la loro assistenza agli ultimi in quasi tutti gli angoli del mondo, anche in contesti di guerra come sono oggi Gaza o l’Ucraina, ha fatto il giro del mondo. Le fotografie e i video che le ritraggono mentre, con le poche cose che avevano deciso di portare con loro, attraversavano a piedi il confine con il Costa Rica, sono tra le immagini simbolo della persecuzione dei cristiani in Nicaragua.

Un’oppressione che negli ultimi anni non ha avuto riguardo per nessuno, neanche per il Papa che si è visto cacciare su due piedi il nunzio apostolico dal Paese.

Monsignor Waldemar Stanislaw Sommertag, vescovo polacco, ambasciatore vaticano a Managua da quattro anni, il 6 marzo del 2022 è stato, infatti, accompagnato all’aeroporto della capitale in tutta fretta. Gli erano state concesse poche ore per raccogliere le sue cose prima di essere espulso.

L’ambasciatore della Santa Sede era arrivato in Nicaragua nel 2018, proprio quando esplodevano le proteste contro il governo di Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo.

La Chiesa già allora era nel mirino per avere sostenuto la popolazione che protestava.

Venivano assaltate le chiese dai paramilitari e minacciati i vescovi. Uno di loro, il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Managua, monsignor Silvio Josè Baez, nel 2019 era stato costretto a lasciare il Paese. Una sorte che sarebbe toccata a molti, fino a monsignor Rolando Alvarez, il vescovo di Matagalpa che, dopo oltre cinquecento giorni di carcere duro, e con una condanna a 26 anni di detenzione, il 14 gennaio del 2024 è arrivato a Roma, accolto in Vaticano insieme ad altri diciotto ecclesiastici scarcerati. Liberati grazie a una delicata trattativa condotta dalla Santa Sede, ma espulsi. Tutti messi su un aereo con un biglietto di sola andata.

La cacciata del nunzio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Il nunzio Sommertag i primi anni aveva cercato di tenere il dialogo aperto con il Governo consumando anche qualche frizione con la Chiesa locale.

La volontà era di utilizzare gli strumenti diplomatici per pacificare il Paese. E nel 2019 era stato anche mediatore nei colloqui tra Governo e oppositori.

Negli anni, però, la situazione si è fatta via via più difficile. Uno dei motivi è stato certamente la vicinanza espressa dal nunzio ai familiari dei tanti prigionieri, molti dei quali oppositori al regime di Ortega, che gli avevano chiesto di mediare per la loro liberazione. Una vicinanza che non è stata gradita dal Governo.

La situazione è poi precipitata quando il rappresentante della Santa Sede ha utilizzato l’espressione «prigionieri politici». A novembre 2021 è arrivato il primo segnale concreto del «non gradimento» quando è stato tolto al nunzio Sommertag il titolo di «decano» degli ambasciatori. In seguito, la situazione si è sempre più deteriorata fino all’espulsione. Oggi la Nunziatura apostolica è vuota, ed è custodita dal personale dell’ambasciata italiana a Managua.

Minacce, confische, arresti

«Le sofferenze inferte alla Chiesa in Nicaragua sono immani», commenta Alessandro Monteduro, il direttore della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) che sostiene i cristiani nelle terre di persecuzione. «Dall’aprile del 2018 sono stati centinaia gli attacchi nei confronti di religiosi, religiose e fedeli perpetrati dalla polizia fedele al regime di Ortega. Con la parola attacchi si indicano atti come minacce, rapine, profanazioni, arresti arbitrari, espulsioni, confische, divieti di ogni genere».

Tra le mosse per tagliare le gambe alla Chiesa, a metà del 2023, il Governo ha deciso anche il blocco dei suoi conti correnti. Questo ha portato come conseguenza la difficoltà, quando non la vera e propria impossibilità, di pagare qualsiasi cosa, persino le bollette della luce e dell’acqua. Per non parlare di tutte le opere di sostegno alla popolazione in difficoltà, dalle mense agli aiuti in denaro.

«Il Governo da anni è quotidianamente impegnato nel tentativo di mettere a tacere la Chiesa – riferisce ancora Monteduro -. Sacerdoti e vescovi sono stati arrestati, molte Ong sono state cacciate. Ma anche alcune manifestazioni di pietà popolare come la Via Crucis o le processioni sono state impedite. Succede anche che le spie del regime si presentino alle messe per registrare le omelie. I sacerdoti versano in uno stato di reale persecuzione».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

L’università dei Gesuiti

Fanno paura al regime di Managua anche i centri del sapere. La storica Uca, l’Università centroamericana del Nicaragua, ad agosto del 2023 è stata sottoposta a sequestro, e tutti i suoi beni, mobili e immobili, sono stati trasferiti allo Stato nicaraguense.

Sono stati gli stessi Gesuiti, che avevano fondato il prestigioso ateneo nel 1963, a rendere nota, in quei giorni, la notifica da parte del decimo Tribunale penale di Managua, con la quale si accusava l’Uca di essere «un centro di terrorismo che organizza gruppi criminali».

La Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù ha obiettato a quelle accuse definendole «totalmente false e infondate» e affermando con coraggio, in un comunicato del 16 agosto del 2023, che il sequestro e la confisca altro non erano che il frutto «di una politica governativa che viola sistematicamente i diritti umani e che sembra essere finalizzata al consolidamento di uno Stato totalitario». Da allora l’Uca ha sospeso le sue attività accademiche.

Scout, Ong e vie crucis

La scure è caduta anche sugli Scout, la cui associazione, a metà febbraio 2024, ha perso la personalità giuridica. Questo a causa, sostiene il Governo di Managua, di irregolarità nella presentazione dei bilanci.

Con gli Scout, in quella stessa data, hanno subito la medesima sorte altri dieci organismi, tra cui la Fraternidad misioneras del fiat de María. Un mese prima, il 16 gennaio, a farne le spese erano state sedici Ong, dieci delle quali cattoliche o evangeliche.

Le organizzazioni non governative soppresse o cacciate sono ormai innumerevoli.

A tutto questo si aggiunge il fatto che anche in questo 2024, come era già accaduto negli anni scorsi, ai cristiani è stato impedito di celebrare la Via Crucis nelle strade durante la Quaresima. I divieti sarebbero stati almeno quattrocento, secondo quanto ha denunciato alla stampa indipendente l’avvocata e attivista Martha Patricia Molina, anche lei, come tanti, da anni in esilio.

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

La delicata posizione della Santa Sede

Gli interventi pubblici del Papa e del Vaticano sulla situazione della Chiesa in Nicaragua sono stati in questi anni centellinati al contagocce. La situazione è troppo pericolosa per i cattolici che vivono nel Paese, per questo la Santa Sede è impegnata in un paziente lavoro diplomatico quanto più possibile lontano dai riflettori dei media.

Quando a gennaio di quest’anno sono arrivati a Roma due vescovi (monsignor Rolando Alvarez e monsignor Isidoro Mora Ortega), quindici sacerdoti e due seminaristi scarcerati, e sono stati presi in carico dal Vaticano, su di loro è scesa una cappa di protezione. L’unica informazione trapelata è che sono ospitati da diverse diocesi italiane, da quella di Roma a quella di Civitavecchia-Tarquinia. Ma c’è il massimo riserbo sulle località o le parrocchie nelle quali alloggiano e continuano, per quanto possibile, il loro ministero.

Il Papa in questo 2024 ha parlato del Nicaragua pochissime volte, e sempre per chiedere il rispetto dei diritti umani e lo spazio per aprire un dialogo.

All’Angelus del primo gennaio ha lanciato un vero e proprio appello: «Seguo con preoccupazione quanto sta avvenendo in Nicaragua, dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà. Esprimo ad essi, alle loro famiglie e all’intera Chiesa del Paese la mia vicinanza nella preghiera. Alla preghiera insistente invito pure tutti voi qui presenti e tutto il popolo di Dio: che si cerchi sempre il cammino del dialogo per superare le difficoltà».

In seguito, la situazione del Paese è emersa nelle parole del Pontefice nel discorso dell’8 gennaio al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, «desta ancora preoccupazione la situazione in Nicaragua: una crisi che si protrae nel tempo con dolorose conseguenze per tutta la società nicaraguense, in particolare per la Chiesa cattolica. La Santa Sede non cessa di invitare ad un dialogo diplomatico rispettoso per il bene dei cattolici e dell’intera popolazione».

Scalata la classifica dei Paesi a rischio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Nella classifica dell’organizzazione Open doors, la World watch list che misura i Paesi con il più alto tasso di persecuzione dei cristiani, il Nicaragua nel 2023 si è collocato al trentesimo posto, mostrando un peggioramento della situazione rispetto all’anno precedente.

«L’obiettivo del Governo – spiega la Ong nel suo rapporto presentato lo scorso gennaio – non è semplicemente quello di mettere a tacere la voce dei cristiani, ma, data la loro influenza nel Paese, di ostacolare la loro credibilità e impedire la diffusione del loro messaggio. Va notato che mentre molti cristiani sono in prima linea, c’è una minoranza di credenti che, per paura o convinzione, sceglie di tacere. In alcune comunità ecclesiali ciò sta causando divisioni, che probabilmente stanno facendo il gioco del Governo».

Tra le tante storie colpisce quella del pastore evangelico Wilber Alberto Perez. Prima di essere espulso dal Paese, nel 2021 era stato arrestato e condannato a dodici anni di carcere. L’accusa inizialmente era di avere sollecitato una rivolta solo perché era stato trovato seduto in un luogo dove si erano assembrate molte persone. Dato che lui era riuscito a dimostrare di essersi trovato in quel luogo a riposare in compagnia di amici, è stato allora accusato di traffico di droghe illegali. Detenuto per un po’ di tempo, anche in una cella al buio, infine, gli è stato dato il foglio di via.

Un Paese cristiano

Ma che cosa è successo in questo Paese, a larghissima maggioranza cristiana?

Secondo i dati più recenti, riferiti al 2020, dell’Association of religion data archives, i cristiani in Nicaragua sono il 95% della popolazione. La maggior parte cattolici. Secondo altre stime più prudenti, i cristiani superano comunque l’80 per cento della popolazione. Perché dunque il Governo mette in atto la repressio- ne di un sentimento così diffuso? Perché la distruzione di chiese, la cacciata di religiosi e religiose?

Secondo gli osservatori è proprio la larga adesione alla Chiesa, l’unica che può dare voce a coloro che si sentono oppressi, che intimorisce il regime di Ortega.

Uno dei primi a essere stato esiliato e, dal febbraio 2023, anche privato della cittadinanza nicaraguense, è monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, che vive attualmente tra Miami, negli Stati Uniti, e il Vaticano.

Il 16 novembre del 2023, nel ricevere la «Medaglia per il servizio alla democrazia» dell’istituto statunitense National endowment for democracy, ha dichiarato: «Questa onorificenza non è solo un onore personale, ma una testimonianza della resilienza collettiva del popolo nicaraguense e dell’impegno incrollabile della Chiesa cattolica del Nicaragua nel difendere la libertà, la pace e la giustizia». Parole inequivocabili sulla posizione della Chiesa nel Paese e che dunque mettono paura al regime che ha scelto la strada del non dialogo e della repressione.

Secondo mons. Báez, «nel corso della storia, il popolo del Nicaragua ha dimostrato un coraggio eccezionale di fronte a sfide immense. Abbiamo affrontato il dominio oppressivo di una dittatura brutale e abbiamo assistito alla lenta erosione dei valori democratici, fino alla loro completa scomparsa». In questo contesto, sottolinea il vescovo, la Chiesa cattolica in Nicaragua «è sempre stata un rifugio sicuro per i poveri e gli oppressi e continua a essere un faro di speranza nella società».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Un futuro incerto

«La liberazione ad opera del regime Ortega-Murillo dei diciannove religiosi il 14 gennaio scorso – commenta Alessandro Monteduro, rispondendo sulle prospettive future dei cattolici in Nicaragua – ha consentito all’intera comunità cattolica mondiale di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, non è ancora chiaro se sia stata il frutto di un nuovo clima o una manovra politica.

Certamente ha influito la pressione internazionale che si è intensificata sia sul fronte politico, dagli Stati Uniti all’Alto commissariato dell’Onu per i Diritti umani, sia su quello mediatico.

Tutto ciò avrebbe indotto il regime a trattare con la Santa Sede. È probabile – prosegue Monteduro – che abbia inciso anche la volontà del Governo di non alienarsi completamente la comunità cattolica. Tuttavia, è anche vero che Ortega ha espulso un gruppo di leader caratterizzati da notevole spessore pastorale e ampia visibilità pubblica. Cosa che, agli occhi del regime, rappresenta un’azione di successo nel più ampio tentativo di reprimere e depotenziare la Chiesa.

Al di là dei toni apparentemente rassicuranti del Governo, è pertanto opportuno valutare l’accaduto con molta cautela».

Manuela Tulli

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com




Nord Corea. Anche Kim tiene famiglia


Il leader nordcoreano rafforza i legami con Russia e Cina. E fa la voce grossa con Corea del Sud e Stati Uniti. Accanto a lui sono cresciuti il ruolo e la visibilità della sorella Kim Yo Jong.

Pyongyang. La tensione tra la Corea del Nord e la Corea del Sud torna a essere elevata dopo che Kim Jong Un (il Grande Leader) ha annunciato di non voler proseguire il dialogo con Seoul dissipando le illusioni di una unificazione della penisola coreana.

La dichiarazione del leader nord-coreano, a cui si è aggiunta la richiesta di eliminare dalla Costituzione l’articolo che impegna Pyongyang a prodigarsi per la riunificazione, è giunta al termine di una lunga serie di provocazioni iniziate subito dopo il fallimento dell’incontro con l’allora presidente statunitense Donald Trump ad Hanoi (Vietnam), nel 2019.

Da allora, mentre Kim Jong Un continuava a mantenere un atteggiamento il più possibile neutrale verso l’esterno, la sorella Kim Yo Jong si è lanciata in crociate oratorie contro il presidente sudcoreano Moon Jae-in culminate con la distruzione dell’ufficio di collegamento intercoreano nel 2020. L’intento della famiglia Kim era chiaro: attendere che l’incertezza della situazione mondiale si chiarisse un po’ così da poter prendere posizioni più nette e vantaggiose per rafforzare un potere interno che si dimostrava essere meno saldo di quanto si pensasse. Nel frattempo, si dovevano percorrere entrambe le strade: quella della fermezza (Kim Yo Jong) e quella della diplomazia (Kim Jong Un).

Le vicende del 2022 e del 2023 – l’invasione della Russia in Ucraina e la conseguente crisi energetica, l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza della Corea del Sud (da maggio 2022), le tensioni su Taiwan, le difficoltà di Biden e il prepotente ritorno di Donald Trump nella scena politica statunitense – hanno indotto Kim Jong Un a rompere gli indugi e adottare una politica frontale nei confronti dell’Occidente.

Una stazione della metro nella capitale nordcoreana, Pyongyang. Foto Micha Brandli – Unsplash.

L’escalation militare tra le due Coree

Pyongyang cerca oggi di inserirsi nell’asse anti Usa schierandosi accanto a Cina e Russia, suoi alleati storici. I Kim hanno estremo bisogno di protettori in un momento in cui il potere della famiglia nel Paese è debole come mai prima: la pandemia ha costretto a sigillare i confini invertendo una rotta che, almeno fino al 2019, aveva visto una loro maggiore permeabilità. L’economia, florida e vivace come non lo era mai stata in tutta la sua storia, tra il 2020 e il 2023 ha subito una flessione che si è ripercossa sulla vita dei cittadini. Il primo decennio di leadership di Kim Jong Un era stato caratterizzato da un progressivo allontanamento dai circoli di potere delle personalità più conservatrici nel Paese, quelle legate alla politica tradizionalista del padre Kim Jong Il e, al tempo stesso, del trasferimento di molti centri decisionali dall’ambito militare a quello civile e tecnocratico.

La crisi ha consentito agli oppositori interni di rialzare la testa e, per evitare il tracollo e vanificare le riforme varate, Kim Jong Un ha dovuto cercare, suo malgrado, sostegno tra i generali intensificando i test missilistici, riattivando il programma nucleare, rimpolpando l’arsenale delle forze armate. Al tempo stesso, il suo omologo sudcoreano ha stretto le relazioni con Tokyo e Washington potenziando la cooperazione militare. Si è così innescato un circolo vizioso che ha alimentato l’escalation: più Pyongyang perfezionava i suoi armamenti, più Seoul si sentiva minacciata aumentando perciò le esercitazioni militari con l’alleato statunitense. Questo forniva ai generali nordcoreani l’opportunità per chiedere ancora maggiori finanziamenti.

Il tutto ha portato alla situazione attuale che molti analisti giudicano simile a quella del 2017, quando i media ritenevano inevitabile e imminente lo scoppio di una guerra nucleare. Allora la guerra non ci fu e, anzi, Kim Jong Un saldò ancora più fortemente il suo controllo sulla nazione, ma oggi la situazione è leggermente diversa. Pur restando ancora lontani da un confronto militare che coinvolga testate nucleari, la contrapposizione tra Nord e Sud si è fatta sicuramente più complicata. Le forze armate di Pyongyang, da sempre tecnologicamente inferiori (tanto da sapere di non poter iniziare una guerra con la speranza di vincerla), oggi hanno diminuito (anche se non colmato) questo divario permettendo ai militari nordcoreani di guardare con più ottimismo un eventuale conflitto.

Questa situazione si innesta in un contesto internazionale nel quale gli scontri e le tensioni, dal fronte ucraino e quelli mediorientali fino a Taiwan, hanno creato un’atmosfera nettamente più favorevole per Pyongyang.

A Pyongyang si rende omaggio alle enormi statue in bronzo di Kim Il Sung e Kim Jong Il. Foto Alexander – Pixabay.

Lontani da Seoul

Kim cerca di ritagliarsi un ruolo tutto suo nello scacchiere asiatico nordorientale per eliminare Seoul da ogni futuro negoziato. Non per nulla il Grande Leader ha definito, non senza compiacimento, l’attuale situazione come una nuova guerra fredda, una condizione che non è difficile ricondurre alla famosa frase di Mao Zedong «Grande è la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente».

Se prima la Corea del Sud rappresentava un intermediario valente, efficace e affidabile, oggi non lo è più. Nei quattro anni di amministrazione Biden, gli Stati Uniti non hanno intrapreso alcun passo per riaprire quei negoziati che Trump aveva inaugurato contribuendo a una distensione delle relazioni nella regione.

A questo punto, Seoul non serve più a Pyongyang che spera in un ritorno di Trump alla Casa Bianca per riaprire i colloqui senza l’intermediazione del Sud. In attesa dei risultati delle urne statunitensi a novembre, Kim Jong Un continua ad alzare il tiro consapevole che, oggi, ha dalla sua un esercito più forte, competente e tecnologicamente più avanzato di quanto fosse sette anni fa.

La politica è comunque sempre la stessa: tendere la corda testando sino a quando questa può resistere senza tuttavia giungere al punto di rottura. E, a quel punto, iniziare le trattative da una posizione di forza.

La famiglia Kim ha bisogno di questa trazione per allontanare il pericolo di un rientro in grande stile degli oppositori, così faticosamente allontanati dal leader e dalla sorella.

Kim Jong Un e Vladimir Putin a Vostochny (Amur, Russia) lo scorso 13 settembre. Foto Korean Central News Agency – AFP.

L’Ucraina e le armi a Mosca

La guerra ucraina è stata un toccasana in questo senso: la pandemia aveva intossicato l’economia nordcoreana più di quanto avesse infettato la popolazione. La chiusura dei confini, ordinata sin dall’inizio del 2020, aveva messo in enorme difficoltà le riforme implementate: le merci provenienti dalla Cina dovevano restare in quarantena per diverse settimane prima di poter essere messe sul mercato e i prezzi dei prodotti avevano subito impennate verticali. Ciò che ha impedito alla popolazione di non ripiombare nell’incubo dell’«Ardua marcia» (la carestia del periodo 1994-1998) con malnutrizione, malattie, inedia, sono state proprio le riforme economiche volute da Kim Jong Un durante i primi anni della sua salita al potere.

Tuttavia, per mantenere viva la ristrutturazione sociale e politica serviva anche una crescita economica che, negli anni del Covid, è stata invece azzerata. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’alleato russo ha, almeno in parte, aiutato l’economia nordcoreana a risollevarsi. Kim ha inviato equipaggiamenti militari a Putin e i campi di battaglia sono serviti anche per testare nuovi prototipi di armamenti prodotti dalle fabbriche militari nordcoreane. In cambio, Mosca ha corrisposto il favore spedendo a Pyongyang considerevoli quantità di petrolio, carbone, gas naturale, pezzi di ricambio per mezzi agricoli e militari.

L’aumento delle disparità

Vigilessa nordcoreana nella capitale. Foto Peter Anta – Pixabay.

Tutto questo ha aiutato, da una parte, la famiglia Kim a mantenersi alla guida del governo, dall’altra ai nordcoreani di avere una ventata di ossigeno per i loro commerci privati.

Non dobbiamo però pensare che questi aiuti siano indolori: le disparità tra campagna e città, ma soprattutto tra chi ha collegamenti con il Partito dei lavoratori e chi, invece, ne è escluso, in questi tre anni sono aumentate.

La superficie delle terre abbandonate è incrementata, soprattutto nelle zone montuose dove la mancanza di macchinari agricoli rende il lavoro estremamente faticoso, mentre gli appezzamenti di terreno privati hanno registrato un aumento di produttività.

Le cooperative hanno quasi smesso di rifornire i negozi statali della merce più richiesta, visto che questa è ormai reperibile nei mercatini privati senza limiti di quantità, anche se a prezzi ben superiori a quelli stabiliti dallo Stato. Ma il denaro è un problema secondario: la nuova economia, introducendo attività private, ha permesso a molte famiglie di incamerarne una discreta quantità, tanto che oggi si calcola che almeno l’80% delle entrate finanziarie dei nordcoreani arrivi da nuovi mestieri e occupazioni private.

Il contrabbando con la Cina e, recentemente, anche con la Russia, ha immesso sul mercato prodotti che altrimenti sarebbero reperibili solo nei grandi centri commerciali delle principali città. Oltre a elettrodomestici, telefonini, computer, liquori, snack, cosmetici di varie marche (anche sudcoreane, giapponesi, europee, statunitensi), i pannelli solari sono tra gli oggetti più richiesti. L’ormai endemica penuria di elettricità con frequenti blackout, hanno costretto le famiglie a dotarsi di impianti di produzione elettrica autonomi per evitare gli sbalzi di tensione.

Chi soffre meno questa situazione sono gli alti dirigenti del Partito, i manager delle industrie, nonché scienziati e tecnici impegnati nelle attività considerate più vitali e importanti per il Paese.

L’esperienza personale mi offre una conferma di questa situazione.

Chi sono i privilegiati

Kim Yo Jong, sorella del leader e in prepotente ascesa, durante un evento per celebrare la vittoria sul Covid, nell’agosto 2022. Foto Korean Central News Agency – AFP.

Approfittando del (raro) invito fattomi da un ricercatore scientifico e professore universitario per assaporare la cucina locale, ho modo di vedere da vicino l’appartamento di una famiglia privilegiata. Ben riscaldato (a differenza delle case di campagna che devono centellinare il carbone per la stufa) e ben tenuto, è fornito di un grande televisore a schermo piatto che trasmette una serie cinese. I mobili sono pieni di suppellettili e souvenir dei numerosi viaggi all’estero fatti con l’intera famiglia: Cina, Russia, Thailandia, Mongolia, India, Europa e persino Stati Uniti (una Statua della Libertà e un pupazzo in pezza di Topolino). La cena che mi viene offerta è abbondante e innaffiata da vino francese e birra nipponica. Sia la figlia che il figlio parlano un buon inglese, ma anche cinese e giapponese. Entrambi studiano materie scientifiche, la prima alla Kim Il Sung University mentre il secondo sta terminando il corso di medicina nell’unica università privata esistente in Corea del Nord (il che indica l’alto livello sociale occupato dalla famiglia).

Sognano di studiare in Europa, Giappone o negli Stati Uniti, «ma per tornare poi in Corea per dare il nostro contributo alla crescita della nazione», si premurano di aggiungere di fronte allo sguardo severo del padre. Sia lui che la moglie sono accaniti sostenitori del Partito e della famiglia Kim e non accetterebbero con facilità che la loro prole abbandonasse il Paese. Del resto, dal governo hanno sempre avuto il meglio che potevano ricevere (istruzione, assistenza sanitaria, benefit, sicurezza economica, carriera).

Come pensare di tradire chi ti ha concesso il miglior tenore di vita che si possa avere nella nazione?

In altre situazioni, meno privilegiate, le critiche a membri del Partito sono invece più comuni. Una delle grandi rivoluzioni introdotte da Kim Jong Un è proprio quella di aver invitato il popolo a biasimare gli amministra- tori più negligenti.

I Kim non sbagliano mai

Il Grande Leader è stato il primo a dare il buon esempio già pochi mesi dopo la sua salita al potere. In una mossa assolutamente nuova nel mondo politico nord-coreano, Kim ha più volte attaccato pubblicamente dirigenti del Partito, fino ad allora ritenuti intoccabili.

Resta comunque sottinteso che nessuno della famiglia Kim può essere soggetto a giudizio.

La mia guida (in Corea del Nord si è sempre accompagnati da una guida) s’infuria quando le faccio notare gli errori compiuti dai diversi membri, Kim Il Sung compreso, durante i loro settantacinque anni di potere ininterrotto. Il mantra di assoluzione è sempre lo stesso: gli sbagli sono stati fatti dai collaboratori, dagli approfittatori, dai controrivoluzionari che hanno ingannato i vari leader i quali, anzi, grazie alla loro lungimiranza, hanno allontanato questi traditori appena hanno avuto modo di accorgersi delle loro azioni ai danni del popolo e della nazione. Questo tabù è uno dei motivi per cui la dirigenza nordcoreana, dopo aver espresso l’intenzione di invitare papa Francesco a Pyongyang, non si sente ancora pronta ad accoglierlo. Un papa che parla di diritti umani e che bastona tutti può essere sicuramente comodo fuori dalla Corea del Nord, ma parlare di questo tema a Pyongyang, di fronte a migliaia di cittadini, rischierebbe di essere una mina vagante.

Piergiorgio Pescali

La chiesa protestante di Bongsu, a Pyongyang; nel paese, classificato come il meno libero del mondo per le confessioni religiose, le chiese sono pochissime. Foto korea.travel.art.


La condizione religiosa: Un triste primato

Nonostante la Costituzione non lo vieti, in Corea del Nord professare una fede religiosa è complicato e spesso pericoloso.

«Open doors», l’organizzazione olandese fondata nel 1955 da Andrew van der Bijl che stila rapporti annuali sulla libertà religiosa dei cristiani nel mondo, ha affermato che il Paese dove la religione è più perseguitata nel pianeta è la Corea del Nord. Secondo quanto si legge nella relazione, se «scoperti, i cristiani sono deportati assieme alle loro famiglie in campi di lavoro come criminali politici o uccisi sul posto».

Più generico, invece, il rapporto di Human Rights Watch, che cita violazioni di «libertà fondamentali inclusa la libertà di espressione, associazione e di religione».

L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana afferma che «i cittadini godono libertà di culto» e che nel Paese viene garantita la «costruzione di edifici religiosi nonché la possibilità di celebrare cerimonie religiose». Aggiunge, altresì, un paragrafo che è determinante nelle analisi che si dovrebbero fare su come le pratiche di culto vengono viste da Pyongyang: si afferma, infatti, che «la religione non deve essere usata come pretesto per favorire la presenza di forze esterne e per mettere in pericolo lo Stato o l’ordine sociale».

Per questo le associazioni religiose presenti nella nazione non possono essere indipendenti dal governo, sono tutte guidate da membri dell’esecutivo e nel loro statuto devono avere chiari riferimenti patriottici. A parte le persone che ne sono a capo, chi fa parte di un culto, sia essa cristiana, buddista o ceondanista (seguaci del ceondoismo, religione coreana che mescola elementi di sciamanesimo, taoismo e buddismo, ndr), non può essere membro del Partito dei lavoratori.

In Corea del Nord esistono chiese protestanti, templi buddisti, almeno una chiesa cattolica, una ortodossa e anche una moschea nell’ambasciata iraniana. Si hanno notizie anche di luoghi di culto (pure cattolici, ma non solo) sparsi in diverse province del Paese in cui si svolgono incontri di studi biblici.

Tra timide aperture e improvvise chiusure

Negli anni Novanta e sino all’inizio dell’attuale secolo, diverse organizzazioni caritative di ispirazione cristiana, come la Caritas, hanno condotto programmi di aiuto medico, alimentare e sociale. Erano attività attentamente sorvegliate dalle autorità del governo che non lasciavano molti spazi decisionali sulla destinazione di questi aiuti. Quando l’emergenza della carestia iniziò a terminare, molte di queste Ong lasciarono il Paese criticando l’ingombrante presenza dei funzionari locali.

La presenza religiosa comunque non scomparì mai del tutto, tanto che, nel 2008, un’associazione che faceva capo alle Chiese evangeliche della Corea del Sud riuscì ad aprire quella che ancora oggi è l’unica università privata esistente nel Nord.

Tra il 2017 e il 2018, con la distensione tra Pyongyang e Washington e l’intermediazione del presidente sudcoreano Moon Jae-in, ci fu anche la concreta possibilità che papa Francesco potesse decidere di accogliere l’invito fatto in almeno due occasioni da Kim Jong Un di visitare la Corea del Nord. Quando le trattative sembravano a buon punto, la pandemia e l’elezione di Biden alla Casa Bianca interruppero ogni ulteriore sforzo per concludere un accordo di un viaggio che sarebbe sicuramente passato alla storia come uno dei più importanti segnali di distensione mondiale.

La chiusura dei confini (che oggi solo in parte si stanno riaprendo), l’interruzione del dialogo con gli Usa e l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza sudcoreana hanno portato Kim Jong Un a rivedere la politica di parziale intesa che aveva fatto sperare in una nuova era per la penisola.

Chiese evangeliche e Chiesa cattolica

A farne le spese sono state anche le Chiese presenti sul territorio, in particolare quelle cristiane evangeliche e protestanti i cui fedeli, a differenza dei cattolici, sono molto più legati ai movimenti politici anti comunisti e anti nordcoreani.

È in questo senso, dunque, che va vista la seconda parte dell’articolo 68 della Costituzione, nella quale si ammonisce ogni credo religioso a non sovvertire l’ordine costituito. In realtà, la persecuzione cristiana da parte del regime di Pyongyang, è idealmente rivolta più verso le comunità protestanti che a quelle cattoliche, anche se i funzionari di partito, poco edotti sui principi dogmatici che differenziano le due fedi, non sempre riescono a distinguere la diversità. La Chiesa cattolica è sempre stata vista dal regime di Pyongyang come un’entità molto meno pericolosa rispetto alle sorelle protestanti. I cattolici, al pari del regime, hanno una struttura verticale molto pronunciata al cui culmine risiede il papa. Questo ordine gerarchico viene visto dai funzionari nordcoreani come qualcosa di rassicurante perché limita l’anarchia ideologica e interpretativa.  Inoltre, la Chiesa cattolica, proprio per i rapporti diplomatici (non ufficiali) che intrattiene con Pyongyang, ha sempre dimostrato di voler accettare le regole dello Stato limitando la diffusione di concetti che non siano religiosi.

Le Chiese evangeliche e protestanti sono invece spesso legate a organizzazioni politiche che fanno capo a centrali statunitensi con ramificazioni in Sud Corea e, in forma più o meno clandestina, in Cina. Dai confini di questi due Stati i missionari fanno entrare illegalmente in Corea del Nord oggetti di culto, Bibbie ma anche libri non religiosi, testi che inneggiano alla formazione di una rete di opposizione religiosa con risvolti politici.

Spegnere i possibili «focolai»

Per esempio, dal territorio sudcoreano, a ridosso del 38° parallelo, capita spesso che fedeli di comunità evangeliche si riuniscano per lanciare palloni aerostatici che, con l’aiuto delle correnti atmosferiche, trasportano pacchi di aiuti contenenti anche testi considerati sovversivi al Nord.

Il tentativo da parte delle autorità nordcoreane di smantellare questa rete di potenziali oppositori al regime, si estende quindi anche alle comunità cristiane. Poco importa se cattoliche, evangeliche o protestanti: la presenza di una Bibbia, di un crocifisso o di un’immagine sacra è comunque intesa come indicazione che in quel luogo esiste un «focolaio» destabilizzatore che, come tale, deve essere soffocato.

Pi.Pes.

 




Pakistan. L’eredità di Bhatti, difensore delle minoranze

 

Sono passati tredici anni dall’assassino del ministro per le Minoranze del Pakistan Shahbaz Bhatti che difendeva i cristiani e le altre persone discriminate nel suo paese. Parla il fratello Paul Bhatti che oggi ne ha preso l’eredità.

«Shahbaz ci manca, ma il suo messaggio è arrivato in tutto il mondo e il suo sacrificio ha portato tanti frutti», ci dice Paul Bhatti, fratello del ministro per le Minoranze del Pakistan ucciso il 2 marzo del 2011 per la sua azione di difesa delle persone discriminate del suo Paese. A partire dalla sua comunità: quella cristiana.

Oggi Paul, medico che vive tra l’Italia e il Pakistan, ne ha assunto la difficile eredità.

Lo abbiamo incontrato l’11 marzo scorso al Senato della Repubblica italiana in occasione di un evento dedicato proprio all’opera di Shahbaz Bhatti a tredici anni dalla morte.

«II Pakistan è un Paese che ha avuto, e che ancora ha, gravi problemi dal punto di vista economico, sociale e politico – sottolinea Paul Bhatti -. Per quanto riguarda la libertà religiosa e l’integrazione delle persone più emarginate, i problemi restano, ma molto è stato fatto da Shahbaz. È quanto riconoscono in Pakistan ma anche a livello internazionale. La sua perdita ci ha fatto soffrire, mio fratello Shahbaz ci manca. Però il messaggio che è stato percepito a livello nazionale in Pakistan e anche internazionale in qualche modo ha ridotto questa sofferenza. Ci dà sollievo che il suo sacrificio in qualche modo non è stato vano».

Paul racconta quanto la perdita del fratello abbia inciso sulla sua vita personale: «Io facevo il medico in Italia, ero contento. Lui mi diceva sempre: “Devi tornare in Pakistan, anche qui ci sono gli ospedali”. Io gli rispondevo: “Ma tu vuoi che io passi dal paradiso all’inferno…”. E invece con la sua morte ho capito che dovevo tornare e fare qualcosa per il mio Paese».

Parla dei suoi incontri per pacificare il Pakistan: «Nei giorni scorsi ho avuto un incontro con politici, leader religiosi musulmani, vescovi cattolici. Tutti riconoscevano quanto fatto da Shahbaz e questo mi dà sostegno e coraggio.

Dopo la morte di mio fratello – confida – ho avuto alti e bassi. Però ci sono state anche grandi soddisfazioni. Prima mi ero limitato al mio lavoro in campo medico e alla famiglia. Ora sono esposto al mondo intero e spesso non riesco a credere a quante persone ritengono importante il messaggio di fratellanza e di pace di Shahbaz».

Paul Bhatti nel corso di questi anni ha incontrato più volte Papa Francesco ed è in stretto collegamento con la Segreteria di Stato vaticana per portare avanti le sue iniziative.

Per Shahbaz Bhatti, che aveva scelto la via politica per difendere gli ultimi del suo Paese e ha pagato con la vita il suo impegno, è in corso il processo di beatificazione. «La fede è stata fondamentale. Lavorare in Pakistan parlando contro determinate leggi, come quella sulla blasfemia, e contro alcune ideologie fondamentaliste, comporta dei rischi. Lui con grande coraggio ha affrontato questi temi. Noi, in famiglia, quando ha cominciato, eravamo tutti terrorizzati. Non riuscivamo a capire da dove gli arrivava questo coraggio, poi abbiamo capito – dice Paul Bhatti – che la sua fede era talmente forte che non aveva paura».

Shahbaz, infatti, diceva che «lui aveva scelto di seguire Gesù Cristo e che non faceva altro che quello che Lui gli aveva insegnato».

Manuela Tulli




Donne. Perseguitate due volte


Le donne delle minoranze religiose sono la fascia più colpita dalle persecuzioni. La maggior parte sono cristiane, ma non mancano altri casi, come quello delle musulmane rohingya o delle yazide. Rapite, convertite forzosamente, picchiate, violentate, tenute segregate.

Rapite, violentate, schiavizzate. Le donne delle minoranze religiose sono spesso perseguitate due volte: innanzitutto perché appartenenti a gruppi tenuti ai margini della società, poi perché, appunto, donne.

Accade in Pakistan, Nigeria, Burkina Faso, Egitto, solo per fare qualche esempio, e per la gran parte si tratta di donne cristiane.

Non mancano, però, casi che riguardano altri gruppi religiosi.

In Myanmar, per esempio, Paese a maggioranza buddhista nel quale da anni viene perseguitata la minoranza musulmana dei Rohingya, una donna non può sposare un musulmano se non a rischio della vita.

Qualche anno fa a Pegu, una delle più grandi città del Paese, una folla impazzita incendiò l’intero quartiere di una ragazza buddhista per punirla della sua relazione con un musulmano.

Stesso destino di discriminazione spetta alle donne rohingya. «Nascere donna ed essere di origine rohingya significa, molto probabilmente, essere destinata a una vita fatta di privazioni e discriminazioni di natura etnica, religiosa e sessuale», sottolinea Amnesty international.

Amina, donna nigeriana fuggita in Niger dopo l’uccisione del marito da Boko Haram

Cristiane, le più perseguitate

Tornando alle donne cristiane che vivono in paesi nei quali la loro fede è in minoranza, come in molte zone dell’Asia, del Medio Oriente o dell’Africa, esse «sono le prime vittime», afferma la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) in un rapporto di novembre 2022: «Se credere in Gesù Cristo implica seri rischi in molte parti del mondo, essere una donna cristiana è ancora più difficile. In molti paesi in cui vige la persecuzione religiosa, la violenza contro le donne è spesso usata come arma di discriminazione».

Sulla stessa linea sono i dati emersi nella ricerca The 2023 gender report presentata, in occasione della giornata internazionale della donna dell’8 marzo 2023, da Porte Aperte/Open Doors, organizzazione internazionale che sostiene i cristiani perseguitati e che aggiorna ogni anno, con la sua World watch list, la classifica dei paesi dove si registrano le maggiori persecuzioni a causa della fede.

«Per le donne – sottolinea il rapporto – la violenza sessuale e fisica, il matrimonio forzato e la riduzione in schiavitù, uniti alle minacce e al controllo dei cellulari, sono elementi che le intrappolano in una ragnatela soffocante».

Il report presenta anche la classifica dei paesi nei quali le donne sono perseguitate sia per la loro fede che per il loro genere.

Al primo posto troviamo la Nigeria. A seguire Camerun, Somalia, Sudan, Siria, Etiopia, Niger, India, Pakistan e Mali.

Nelle regioni settentrionali della Nigeria, dove i cristiani subiscono i livelli più alti di violenza, le donne cristiane sono vittime di rapimenti, spostamenti forzati, traffico di esseri umani, uccisioni e violenza sessuale.

La punta di un iceberg

I casi di donne rapite, violentate, convertite forzosamente, uccise che emergono nelle cronache sono solo la punta di un iceberg. Spesso, infatti, le famiglie, per paura o per vergogna, non denunciano i crimini subiti.

È quanto emerge dalla ricerca Ascolta le sue grida, pubblicata da Acs Italia nel 2021, nella quale si evidenzia che, tra i membri delle minoranze religiose, le ragazze e le giovani donne cristiane sono le più esposte agli attacchi.

Secondo l’Associazione cristiana della Nigeria, per esempio, il 90 per cento delle donne e delle ragazze detenute dagli islamisti è di fede cristiana. In Pakistan, il Movimento per la solidarietà e la pace ha stimato che le cristiane costituivano, già dal 2014, fino al 70 per cento delle ragazze e delle giovani di minoranze religiose che ogni anno erano costrette a convertirsi e a contrarre matrimonio.

Ma le denunce non corrispondono mai alla reale entità del fenomeno.

Un altro dato chiave, che emerge frequentemente nelle ricerche sull’argomento, è la maggiore incidenza di persecuzioni sessuali e religiose ai danni delle donne in aree di conflitto.

Questo è stato particolarmente evidente durante la presa del potere da parte dell’Isis (Daesh) su alcune aree della Siria e dell’Iraq. In quelle zone, in quegli anni – secondo il dossier del luglio 2020 della Coalition for genocide response intitolato Without justice and recognition the genocide by daesh continues – vigeva «un sistema organizzato di schiavitù sessuale delle minoranze».

Rohingya women with kids are walikng to the camp with relief food. Near Block D5, Kutupalong extension Camp, Cox’s Bazar, Bangladesh
2 July 2018.

Nadia Murad e le schiave sessuali

A raccontare le atrocità subite in prima persona, perché yazida, cioè donna della minoranza religiosa che vive per lo più nella Piana di Ninive, in Iraq, è stata Nadia Murad, Premio Nobel per la pace 2018. Nel suo libro L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis, edito da Mondadori, l’attivista per i diritti umani racconta: «A un certo punto non restano altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio». È il racconto dello stupro usato come arma di guerra. È la storia del rapimento e della prigionia che nel 2014 ha cambiato la vita di questa ventenne yazida che sognava una vita normale.

Nadia ha deciso di denunciare al mondo le violenze subite nella speranza di essere lei «l’ultima» del suo popolo ad aver vissuto quel genere di sofferenze.

La prassi di ridurre le donne delle minoranze religiose in schiave sessuali è presente anche altrove. Ad esempio in Mozambico e in altri paesi nei quali il fondamentalismo religioso ha gettato nel caos intere comunità.

Le violenze dei gruppi terroristici e islamisti hanno inoltre determinato una forte intensificazione del traffico di esseri umani.

C’è poi il caso della Nigeria dove si sono ripetuti diversi rapimenti di massa nei confronti delle donne cristiane da parte del gruppo jihadista di Boko Haram.

L’intento della milizia vicina all’Isis è, tra gli altri, quello di cacciare le comunità cristiane dai loro villaggi (cfr. MC 10/2016).

Asia Bibi e le altre

La persecuzione e le sofferenze non sono però solo numeri e dati, sono soprattutto storie di persone concrete.

Il caso che ha avuto maggiore rilievo sui media internazionali è stato quello della donna cristiana pachistana Asia Bibi che, dopo dieci anni di carcere duro e con una condanna a morte che pendeva sulla sua testa con l’accusa di blasfemia, ha ritrovato la libertà nel novembre 2018.

Oggi vive in Canada con la sua famiglia perché restare in Pakistan sarebbe stato per lei e i suoi familiari troppo pericoloso.

Ma ci sono tante altre Asia Bibi nel mondo. In Somaliland, ad esempio, due donne sono in carcere dal 2022 perché colpevoli di essere cristiane. Una delle due donne si chiama Hanna Abdirahman Abdimalik. Il 30 maggio 2022 è stata arrestata per essersi convertita al cristianesimo e per aver condiviso la sua fede attraverso un gruppo cristiano su
Facebook. La polizia non ha esibito un mandato d’arresto, ha interrogato la ragazza senza la presenza di un avvocato e le avrebbe ripetutamente domandato chi l’avesse convertita, aggiungendo che, qualora avesse rivelato l’identità della persona, oppure si fosse nuovamente convertita all’islam, sarebbe stata rilasciata. Hanna ha rifiutato di abiurare e il 27 giugno le forze di polizia del Somaliland hanno concluso le indagini presentando un fascicolo a suo carico al procuratore regionale di Hargeisa. Il procuratore ha quindi formalizzato le accuse di «crimini contro la religione dello stato» nei suoi confronti. I capi di accusa sono: blasfemia, oltraggio alla religione islamica e al Profeta dell’islam tramite social media, e diffusione del cristianesimo. Il 6 agosto 2022 il tribunale regionale l’ha condannata a cinque anni.

Il secondo caso riguarda la ventisettenne Hoodo Abdi Abdillahi, condannata a sette anni di carcere per essersi convertita, anche lei, al cristianesimo.

La donna è reclusa dall’ottobre 2022 presso il carcere femminile di Gebiley. Nel corso del processo non avrebbe avuto un avvocato difensore, mentre durante la reclusione non avrebbe potuto avere contatti con la famiglia.

Attualmente i due casi sono all’esame della Corte d’appello del Somaliland, in attesa di una sentenza definitiva.

Bangladesh, istruzione negata

Rahima Akter Khushi, 20 anni, è una giovane rifugiata rohingya, la maggiore di cinque fratelli nati nel campo profughi di Kutupalong a Cox’s Bazar, in Bangladesh. A raccontare la sua storia è Amnesty international.

Dopo aver completato gli studi superiori, a gennaio 2019 Rahima si era iscritta alla Cox’s Bazar international university con il sogno di conseguire una laurea in giurisprudenza. Dopo che un’agenzia di stampa internazionale l’aveva inserita in un video come una delle pochissime giovani donne rohingya in grado di raggiungere l’eccellenza accademica, il 6 settembre 2019, l’università le ha proibito di proseguire gli studi poiché «secondo le regole del governo del Bangladesh, nessun Rohingya può studiare in alcuna università pubblica o privata».

Negare l’istruzione alle giovani delle minoranze religiose è una delle armi di persecuzione: ad esempio in Nigeria è accaduto più volte che Boko Haram rapisse studentesse il giorno prima degli esami per negare loro un futuro.

Magda, rapita in Egitto

In Egitto, negli ultimi anni, la situazione dei cristiani è migliorata dopo l’ondata di attentati e vittime che c’erano stati nel periodo in cui era forte la presenza nel Paese del movimento dei Fratelli musulmani.

Se in generale nel Paese rimangono strascichi di emarginazione, ad esempio nel mondo del lavoro, situazioni nelle quali i cristiani continuano a essere penalizzati, è soprattutto nel Sud che si manifestano ancora oggi le forme più forti di persecuzione: una di queste è la piaga dei rapimenti di donne copte che avvengono lontani dagli occhi dei media, anche a causa del fatto che la maggior parte dei casi non viene denunciata.

Magda Mansur Ibrahim, cristiana copta ventenne, il 3 ottobre del 2020 è stata sequestrata mentre viaggiava dalla sua casa di Al-Badari verso il college di Assiut.

A riferire la sua vicenda è stato il portale Coptic solidarity. Sebbene la famiglia abbia denunciato il caso alla polizia, le autorità non hanno preso provvedimenti.

Tre giorni dopo il rapimento, è stato pubblicato sui social media un video in cui Magda appariva con indosso un hijab e dichiarava di essersi convertita all’islam sei anni prima, di essere fidanzata con un musulmano e, alla fine del filmato, chiedeva di non essere cercata.

I suoi genitori non si sono arresi e alla fine, poco meno di una settimana dopo, Magda è stata restituita loro. Dopodiché la famiglia ha chiuso ogni comunicazione senza fornire ulteriori informazioni circa il rapimento. Alcuni ipotizzano che tra le condizioni poste per la liberazione della ragazza vi fosse il divieto di parlare con i media, di sporgere denuncia o di cercare di scoprire l’identità del rapitore.

Rifugiata rohingya

Gli stupri in Pakistan

Era il 14 febbraio 2021 quando la trentenne Neelam Majid Masih, cristiana, è stata aggredita da Faisal Basra. Lui era armato quando è entrato in casa di Neelam nel villaggio di Nanokay, Punjab, Pakistan. Sotto minaccia della pistola la ragazza è stata trascinata nella camera da letto, picchiata e violentata. Poi un vicino e cugino di secondo grado della donna è intervenuto costringendo Basra alla fuga.

A raccontare la vicenda è il portale persecution.org: «Pretendeva che lo sposassi e che mi convertissi, ma io ho rifiutato dicendo che non ero disposta a rinnegare Gesù. Lui ha risposto che mi avrebbe uccisa se non avessi accettato», ha raccontato la ragazza. La giovane, che ha riportato ferite al viso, alla spalla e alle gambe, ha sporto denuncia contro Faisal Basra, accusandolo di stupro. L’avvocato della vittima, Sumera Shafique, chiedendo aiuto all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha sottolineato: «Neelam è determinata a raccontare la propria storia per porre fine alle aggressioni contro le ragazze e le giovani donne cristiane».

Schiava in Mozambico

Nel rapporto Ascolta le sue grida già citato si racconta la storia di Aana (nome di fantasia), giovane cristiana del Mozambico, rapita da un gruppo armato.

La giovane, dopo la sua liberazione, ha riferito che alle ragazze cristiane veniva imposta una «scelta»: «Avevamo tre opzioni. Le prime due erano essere selezionate da uno dei soldati per diventarne la moglie oppure essere scelte da alcuni uomini, non per il matrimonio, ma per seguire le norme più radicali dell’islam. Loro istruivano le giovani donne a diventare vere islamiche e brave madri perché credono che la donna sia colei che educa la famiglia a seguire i precetti nel modo corretto. La terza opzione riguardava le cristiane che non volevano convertirsi. Queste sarebbero state scelte dai soldati per essere loro schiave».

Aana ha spiegato che il suo indottrinamento è iniziato non appena è stata presa in ostaggio: «Il giorno in cui siamo arrivate ci hanno letto dei passi del Corano e hanno parlato dell’ingiustizia nel Paese, degli abusi sociali e della corruzione. Una delle cose che ripetevano più spesso era che la democrazia era demoniaca, perché in Mozambico permetteva ai politici di rubare e alla gente di morire di fame senza alcun tipo di assistenza. Cercavano di indottrinare le donne perché accettassero la loro proposta». Alla fine, la pressione psicologica conduceva le ragazze a «cambiare parte», ha spiegato la giovane. In condizioni di riduzione in schiavitù, spesso è l’unica via d’uscita.

Aana è riuscita a scappare e a denunciare. Oggi non è più prigioniera.

Manuela Tulli

 

 




Pakistan. La chimera della libertà


I rapimenti e le conversioni forzate di ragazze cristiane e di altre minoranze religiose sono solo la punta dell’iceberg delle violazioni alla libertà religiosa nel Paese asiatico. L’instabilità politica, le leggi anti blasfemia, le formazioni estremiste rendono pericolosa la vita del 4% di popolazione non musulmana.

Huma Younous, Zarvia Pervaiz, Meerab Mohsin, Arzoo Raja. Sono alcune delle ragazze pachistane che in questi anni hanno subito rapimenti, violenze, matrimoni forzati e conversioni all’islam.

Conosciamo i loro nomi perché le loro famiglie hanno avuto il coraggio di denunciare, ma rappresentano solo la punta di un iceberg. Il fenomeno delle ragazze rapite in Pakistan a causa della loro fede è una piaga enorme della quale non si conosce precisamente la dimensione.

Si tratta di giovani cristiane in un Paese in cui il 96 per cento della popolazione è musulmana. A finire in questa spirale di violenze, però, ci sono giovani anche delle altre minoranze religiose.

Una tragedia inascoltata

Secondo un rapporto del Center for social justice (Csj), Ong guidata dal cattolico pachistano Peter Jacob, nel 2021 si sono verificati 78 casi di donne e ragazze (cristiane e indù) rapite, convertite con la forza e sposate da uomini musulmani. Il 76 per cento di queste erano minorenni.

Il numero di casi registrati nel 2021, afferma il Csj, è aumentato dell’80 per cento rispetto all’anno 2020. Ma le famiglie che, per mancanza di soldi o coraggio, vivono nel silenzio questa situazione sono molto più numerose di quelle registrate.

Una tragedia che spesso si consuma nell’indifferenza della comunità internazionale.

C’è voluto il docufilm The losing side, presentato al Festival di Cannes 2022 e vincitore di un premio nella categoria Best human rights film, per fare conoscere al grande pubblico questo dramma.

Protezione legale

A sostenere da anni i diritti di alcune di queste giovani c’è una coraggiosa avvocata cattolica, Tabassum Yousaf. Lei stessa in passato ha ricevuto minacce e ora è schierata per la difesa dei diritti delle minoranze. «Fornisco assistenza legale alle nostre donne vulnerabili e alle ragazze minorenni che sono state vittime di abusi sessuali, discriminazioni, conversioni e matrimoni forzati», cioè soggetti non adeguatamente tutelati «a causa delle lacune nella legge».

Il Pakistan, spiega l’avvocata che porta avanti progetti sui diritti umani anche con la diocesi di Karachi, è «firmatario di trattati internazionali» per cui «abbiamo fatto leggi, ed emendamenti alle leggi, per dare protezione alle minoranze, alle donne e ai bambini», ma, nonostante ciò, «molti di questi provvedimenti sono rimasti sulla carta».

Le minoranze

Se il fenomeno dei rapimenti e delle conversioni forzate delle giovani donne è tra le questioni più gravi, complessivamente in Pakistan si registrano violazioni della libertà di fede tra le maggiori nel mondo.

La popolazione è quasi interamente musulmana, composta principalmente da sunniti (circa l’85 per cento della popolazione) mentre gli sciiti rappresentano il 10 per cento. Le minoranze religiose, prevalentemente cristiane, indù e ahmadi, più alcuni baha’í, sikh, parsi e una comunità ebraica, sono in calo. Tutte le minoranze messe insieme costituiscono complessivamente tra il 3,6 e il 4 per cento della popolazione. Tutte subiscono discriminazioni, quando non vere e proprie persecuzioni.

La comunità ebraica è praticamente in via di estinzione: secondo le statistiche ufficiali conterebbe tra le 2.000 e le 2.500 persone, ma fonti della stessa comunità ritengono che nel Paese ne siano rimaste circa ottocento, sugli oltre 200 milioni di abitanti complessivi.

Per quanto riguarda la persecuzione relativa alla minoranza cristiana, il Pakistan, nella World watch list della ong Open doors, è collocato al settimo posto nel mondo, ovvero tra i Paesi dove meno è rispettata la libertà di fede (dopo Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia e Nigeria).

Le leggi sulla blasfemia

Lo status delle minoranze religiose è ulteriormente influenzato dalle cosiddette «leggi sulla blasfemia», introdotte nel Paese dal generale Zia-ul-Haq tra il 1982 e il 1986. Non si tratta propriamente di leggi, ma di emendamenti al codice penale pachistano che, di fatto, limitano la libertà di religione e di espressione. I reati punibili includono la «profanazione» del Corano e le offese al profeta Maometto, che comportano rispettivamente come pena massima l’ergastolo e la condanna a morte.

Nonostante i richiami, a dire il vero timidi, della comunità internazionale affinché venga abolita questa normativa, essa, dall’inizio del 2023, ha invece visto un’ulteriore stretta.

Se prima veniva condannato chi era accusato di avere insultato il Corano o il profeta Maometto, «ora può essere applicata anche per sanzionare chiunque è accusato di avere insultato persone legate al Profeta. Il giro di vite è stato disposto dal Parlamento per inasprire le già rigide leggi nazionali», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

Quanti vengono accusati di avere «insultato» mogli, compagni o parenti del profeta Maometto rischiano, dall’inizio del 2023, 10 anni di carcere, pena che può essere estesa all’ergastolo, oltre a una multa di un milione di rupie.

L’accusa di blasfemia diventa inoltre un reato per il quale non è possibile la cauzione.

L’inasprimento delle pene scaturisce da un disegno di legge presentato da Abdul Akbar Chitrali, parlamentare appartenente a un partito politico religioso.

«L’approvazione del disegno di legge rappresenta un segnale estremamente preoccupante», commenta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia. «La normativa finora ha di fatto favorito la persecuzione ai danni delle minoranze religiose, a cominciare da quelle cristiana e induista. Ora la situazione inevitabilmente peggiorerà», aggiunge Monteduro. «Spesso i cristiani vengono accusati strumentalmente di blasfemia da soggetti che vogliono semplicemente perseguire interessi privati. Il risultato è che gli accusati o vengono arrestati o diventano preda della reazione violenta delle folle.

La normativa anti blasfemia viene usata anche come arma contro gli avversari politici e il suo inasprimento creerà maggiori opportunità per un suo uso improprio. Così le minoranze religiose, a cominciare da quella cristiana, sono ancora più minacciate».

AFP PHOTO/ Rizwan TABASSUM (Photo by RIZWAN TABASSUM / AFP)

Il caso di Asia Bibi

Il caso più noto, rispetto all’uso di questa legge sulla blasfemia, è quello di Asia Bibi. Per lei, che ha subito dieci anni di carcere duro per essere stata accusata ingiustamente di blasfemia, e che ha rischiato fino all’ultimo momento la pena di morte, c’è stata una mobilitazione internazionale che ha visto in prima linea l’Italia e la Francia.

Il 31 ottobre del 2018 è stata scagionata dalla Corte suprema del Pakistan, ma la donna e la sua famiglia hanno comunque dovuto lasciare il loro Paese per le minacce degli islamisti. Ora vivono in Canada.

«In Pakistan ci sono ancora troppe “Asia Bibi”, nelle prigioni», fa presente Shahid Mobeen, fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia e docente di Filosofia presso la Pontificia università urbaniana.

Mobeen contesta il fatto che, in questi anni, quando si è parlato delle minoranze religiose, in Pakistan si è fatto riferimento al «modello della Carta di Medina dei tempi di Maometto» che stabiliva diritti per gli immigrati di altre religioni. «La protezione ben venga ma noi non siamo immigrati sul territorio – sottolinea Shahid Mobeen -, noi abbiamo fondato il Pakistan insieme a Mohammad Ali Jinnah e siamo figli di quella terra. Come cristiani siamo presenti in quel territorio prima ancora che arrivasse l’islam e quindi chiediamo di essere trattati con uguali diritti, con pari dignità e pari opportunità nell’istruzione e nel lavoro perché vogliamo contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese».

Anche nei casi in cui non ci siano veri e propri atti persecutori, i cristiani e gli altri appartenenti a fedi diverse dall’islam sono comunque discriminati nella quotidianità, dall’accesso al lavoro agli aiuti. Nei mesi del Covid sono stati diversi gli appelli alla comunità internazionale affinché venisse condannata anche la discriminazione sanitaria.

I fedeli non appartenenti alla grande comunità musulmana sono a lungo rimasti privi dei dispositivi di protezione o comunque delle condizioni minime che potevano evitare il contagio da coronavirus.

Ahmadi: musulmani, anzi no

In questa situazione nella quale la libertà di fede in Pakistan risulta essere una chimera, c’è il caso particolare degli ahmadi, comunità nata nel 1898 a Qadian, in India, nel periodo in cui vigeva il potere britannico. Il suo fondatore è Mirza Ghulam Ahmad Ahmad.

Alcuni articoli del codice penale pachistano, promulgati nel 1984, hanno reso un reato penale per gli ahmadi definirsi musulmani o chiamare la propria fede islam.

«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita a una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo», spiegava Ataul Wasih Tariq, imam della comunità ahmadi in Italia nell’ambito di un incontro interreligioso in Vaticano con papa Francesco il 5 settembre del 2022.

Secondo Omar Waraich, responsabile del Dipartimento dell’Asia del Sud di Amnesty international, «ci sono poche comunità in Pakistan che hanno sofferto tanto quanto gli ahmadi».

«Alcune fonti – afferma Aiuto alla Chiesa che soffre nel Rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo – riportano che tra il 1984 e il 2019, 262 ahmadi sono stati uccisi a causa della loro fede, 388 hanno subito violenze e 29 moschee ahmadi sono state distrutte. Per legge gli ahmadi non possono avere moschee proprie, né chiamare alla preghiera e, per poter votare, devono essere necessariamente classificati come non musulmani o aderire a una delle correnti principali dell’islam».

Le tensioni politiche, nuovi rischi per i cristiani

Il Pakistan non ha mai goduto di grande stabilità politica e questo ha consentito negli anni la crescita di formazioni estremiste.

I ripetuti attentati nei luoghi di culto e nei quartieri delle minoranze, compresa quella dei musulmani sciiti, non hanno trovato mai una risposta decisa da parte del governo.

Da aprile 2022, con il cambio della guardia, dal governo di Imran Khan a quello del suo principale avversario Shahbaz Sharif, l’instabilità è aumentata. Le sanguinose manifestazioni, sia pro che contro l’ex premier, accusato anche di corruzione, mostrano che la nuova leadership politica è tutt’altro che salda.

L’11 agosto scorso, poi, Sharif ha sciolto l’Assemblea nazionale al termine della legislatura. Il presidente Arif Alvi, al posto di Sharif, ha nominato primo ministro provvisorio Anwaar-ul-haq Kakar per guidare il Pakistan verso le elezioni nazionali.

Il Paese, tra l’altro, ha vissuto in questi ultimi anni anche rovinose alluvioni causate dai cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, questa situazione di incertezza «non aiuta di certo», afferma la ong Open doors. «Negli ultimi anni, con il premier Imran, la radice e i danni del passato sono rimasti intatti, anzi, una certa “narrazione estremista” ha continuato ad essere perpetuata e a far breccia nella popolazione a vari livelli. Quell’estremismo strisciante, spesso sfociato in attacchi alle comunità cristiane oltre [che in] minacce a chiunque difendesse cause [contro le] violazioni dei diritti umani […], non è sparito e purtroppo in momenti di instabilità politica come questo – sottolinea ancora Open doors -, rischia di aumentare la propria influenza».

Presto un giovane santo?

La persecuzione religiosa è talmente radicata in Pakistan che i cristiani di fatto vivono in una perenne trincea. Nella capitale Karachi, la maggior parte dei cristiani vive nel quartiere Essa Nagri (tradotto dall’urdu «il quartiere di Cristo»), dove vivono ammassati e, in qualche modo, trincerati innalzando muri di protezione per sentirsi più sicuri.

Essa Nagri è un quartiere dove le fogne sono a cielo aperto, i collegamenti elettrici precari e anche la sicurezza non è sempre garantita. Nel 2016 qui sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani dai fondamentalisti islamici.

Nella città di Lahore, nel nord del Paese, il quartiere cristiano è invece quello di Youhanabad. Qui vivono circa 130mila cristiani tra cattolici e membri di altre confessioni. Nel quartiere si trovano due chiese, la Saint John, cattolica, e la Christ church, protestante, entrambe attaccate in due attentati contemporanei il 15 marzo del 2015.

In quell’attentato persero la vita molte persone tra le quali il giovane cattolico Akash Bashir, proclamato Servo di Dio (il primo nella storia della Chiesa del Pakistan) il 31 gennaio del 2022, festa di San Giovanni Bosco.

Akash Bashir, nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pachistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa, era uno studente del Don Bosco technical institute di Lahore, ed era tra i giovani attivi nella comunità parrocchiale.

Akash era in servizio al cancello d’ingresso della chiesa, quel 15 marzo del 2015, quando notò un uomo che voleva entrare con una cintura esplosiva sul corpo.

Il giovane ha abbracciato l’uomo, bloccandolo e tenendolo fermo al cancello d’ingresso, facendo sì che il piano del terrorista, quello di fare una strage all’interno della chiesa, fallisse.

L’attentatore si è allora fatto esplodere uccidendo se stesso e il giovane Akash.

Nel 2019, durante un nostro viaggio in Pakistan per documentare la situazione dei cristiani, abbiamo incontrato a Lahore Emmanuel Bashir e Naz Bano, il padre e la madre del giovane. «È morto per salvare la vita degli altri, è un martire della Chiesa e noi ne siamo orgogliosi perché questo è testimoniare il Vangelo», ci hanno detto, auspicando che il Papa potesse riconoscere il loro Akash martire e santo, anche per dare coraggio alla martoriata comunità cristiana locale.

Manuela Tulli




Nigeria. Perseguitati, uccisi, ignorati


Da anni in Nigeria, soprattutto dove vige la Sharia, le milizie di Boko Haram, gli estremisti fulani e, sempre più, generici predoni, compiono violenze, stragi, rapimenti. Spesso contro le comunità cristiane. Centinaia di migliaia di sfollati interni vivono nella paura. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale.

Il gruppo di pastori fulani, popolazione nomade di fede islamica, è arrivato nella notte da diverse direzioni. È entrato nel campo per sfollati gestito da padre Remigius Ihyula nello Stato di Benue, nel centro nord della Nigeria, e ha sparato all’impazzata: 38 morti e 51 feriti. Tra loro diversi cristiani.

È successo lo scorso aprile, durante la Settimana santa: «Un sabato santo nero», afferma il religioso che dirige la sezione di Benue della Commissione per la giustizia, lo sviluppo e la pace (Jdpc), organizzazione cattolica nigeriana che cerca di rendere meno difficile la vita delle persone scacciate dalle loro terre.

Pochi giorni prima, la Domenica delle palme, era stata assalita la chiesa pentecostale di Akenawe, sempre nello Stato di Benue.

Gli assalitori, anche in questo caso si sospetta una banda di pastori fulani, avevano ucciso un uomo, ferito diverse persone e rapito il pastore della chiesa con alcuni fedeli.

Sono solo alcuni degli ultimi episodi di violenze e persecuzioni in Nigeria, uno dei paesi più pericolosi al mondo per i cristiani.

Children and friends gave Amina these colourful bracelets. “It cheers me up to wear them and look at them, they remind me of Nigeria when it was peaceful,” she confides. UNHCR / H. Caux / January 2014

Le cifre della persecuzione

Secondo uno studio del 2022 di Genocide watch, intitolato Nigeria is worst in the world for persecution of christians, tra gennaio 2021 e giugno 2022, in Nigeria oltre 7.600 cristiani sono stati uccisi e più di 5.200 sequestrati. Nel 2021 si sono registrati più di 400 attacchi a luoghi cristiani.

In base ai dati Onu, si stima che 36mila persone siano morte e due milioni sfollate a causa di due decenni di violenze da parte di Boko Haram.

Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha riferito che la metà delle oltre 40mila persone scomparse in tutta l’Africa in questi anni, provengono dalla regione nord orientale della Nigeria, teatro di attacchi e rapimenti da parte di Boko Haram.

Se da una parte ci sono i terroristi di Boko Haram, jihadisti che nel 2015 hanno giurato fedeltà allo Stato islamico, dichiarando di fatto guerra a tutte le comunità cristiane, dall’altra i villaggi soffrono quotidianamente l’incursione dei pastori fulani, popolazione nomade appartenente alla comunità islamica. Alcuni fattori, tra i quali i cambiamenti climatici, hanno spinto questi allevatori a cercare nuovi terreni per i loro pascoli. Di fatto si impossessano, a mano armata e perpetrando ogni genere di violenza, dei terreni degli agricoltori appartenenti per lo più alla comunità cristiana. Omicidi, devastazioni, rapimenti di sacerdoti e cristiani, sono all’ordine del giorno nel paese affacciato sul Golfo di Guinea. Nonostante la gravità della situazione, però, le notizie riguardanti questi eventi faticano a trovare spazio nel circuito dell’informazione internazionale.

La Via Crucis delle donne

Ci sono storie di violenza contro i più indifesi, a partire dalle donne, che per la loro efferatezza sembrano inverosimili, ma che invece sono reali e lasciano ferite difficili da rimarginare.

Lo sanno bene al Trauma center della diocesi di Maiduguri, Stato di Borno, nato grazie al sostegno della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

«Arrivano qui dopo aver subito le violenze più terribili, dopo essere state anche torturate», dice padre Joseph Fidelis, responsabile del centro che offre cure e sostegno psicologico, e che vaglia, caso per caso, se sia necessario un supporto più specialistico, a livello psichiatrico e ospedaliero.

Quando hai visto qualcuno uccidere davanti a te un figlio, un fratello o un padre, quando sei stata violentata e torturata, quando hai vissuto in una gabbia come un animale per mesi, fai fatica anche a trovare le parole.

Per questo al Trauma center opera personale formato ai massimi livelli in grado non solo di accogliere le donne che hanno subito violenze, la maggior parte delle quali cristiane, ma anche di indicare un futuro di speranza.

This photo taken and handout on March 8, 2023 by The Vatican Media shows Pope Francis blessing Janada Marcus, a young Nigerian victim of Islamist group Boko Haram, during the weekly general audience on March 8, 2023 at St. Peter’s square in The Vatican. (Photo by Handout / VATICAN MEDIA / AFP)

Maria e Janada

Arrivano proprio dal Trauma Center di Maiduguri le storie di Maria e Janada, due giovani donne vittime di Boko Haram che, nel marzo scorso, sono state in Italia. Esse hanno incontrato papa Francesco per fare conoscere al mondo che cosa significhi essere cristiane oggi in Nigeria, quale scelta difficile sia resistere alle violenze per mantenere la propria fede in Cristo e non abbracciare, come i terroristi chiedono, quella islamica.

Le abbiamo incontrate a Roma, in occasione dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna. Minute, con lo sguardo triste, una voce flebile che si sentiva a fatica. La testa bassa per il dolore e la paura delle violenze subite, e anche la vergogna.

Nei loro occhi abbiamo visto soprattutto le lacrime che, a distanza di mesi dalla loro liberazione, Maria e Janada non riescono ancora a trattenere.

Maria Joseph, 19 anni, e Janada Markus, 22, sono state vittime di Boko Haram, il gruppo jihadista che imperversa in Nigeria grazie anche alla sostanziale inerzia delle autorità locali.

Maria ha vissuto nel bosco con i terroristi per nove anni: «Avevo sette anni – ci ha raccontato -. Sono arrivati nel nostro villaggio in silenzio, senza sparare, e ci hanno catturati tutti. Io sono stata messa in una gabbia. Poi ci hanno insegnato a leggere il Corano». Le hanno dato un nome islamico e hanno anche provato a farla sposare con uno dei capi del gruppo terrorista, ma lei si è rifiutata. Dopo nove anni di prigionia, violenze e torture è riuscita a scappare.

Janada Markus aveva invece 17 anni quando è stata rapita da Boko Haram: era in ospedale, dove aveva appena subito un intervento. «Mi hanno portata via dall’ospedale che non mi ero neanche ripresa dall’anestesia. Mi sono risvegliata nelle loro mani». Dopo un po’ è riuscita a scappare, ma in seguito è stata di nuovo catturata. È scappata un’altra volta ed è stata ripresa.

Ci ha raccontato che il secondo rapimento l’ha subito mentre era nella sua fattoria con la famiglia: «All’improvviso siamo stati circondati dagli uomini di Boko Haram. Hanno puntato un machete contro mio padre e gli hanno detto che ci avrebbero rilasciati se lui avesse fatto sesso con me davanti a tutti. Lui si è rifiutato, e loro gli hanno tagliato la testa». La terza volta è accaduto a novembre del 2020, quando i miliziani di Boko Haram l’hanno rapita e torturata per sei giorni.

Campo UNHCR per sfollati interni. Maiduguri, Stato del Borno, Nigeria. novembre 2020

Segni di rinascita e speranza

Entrambe, Maria e Janada, ora sono accolte dal Trauma Center di padre Fidelis. «Quando sono arrivate non riuscivano neanche a parlare», racconta il sacerdote.

Ma anche lui, a volte, davanti alle storie che incontra, resta senza parole e si chiede: «Perché l’uomo è diventato un lupo, un animale? Questi terroristi fanno violenze in nome di una religione? Non è possibile: la religione ci aiuta ad avvicinarci a Dio, non a infliggere sofferenze. È il male, questo, non è Dio».

Il sacerdote nigeriano, che dopo avere studiato alla Pontificia Università Gregoriana a Roma, ha deciso di tornare nella sua terra proprio per aiutare i cristiani perseguitati, ammette: «La mia fede è stata provata. A volte mi chiedo dove sia Dio. In quei momenti, però, cerco di avere fiducia e gli chiedo aiuto. E Lui, nel silenzio e nella sofferenza, mi risponde attraverso le persone che cerchiamo di aiutare».

Le ragazze accolte del Trauma Center, infatti, tornano un po’ per volta, cura su cura, a riprendere in mano la loro vita.

Alcune vengono anche aiutate a trovare un lavoro: imparano a cucire, a cucinare, a realizzare cosmetici con prodotti locali.

«Piano piano i segni del trauma cominciavano a sparire – ci ha detto Maria -, e ho iniziato a relazionarmi con gli altri. Potevo parlare, e quello che i terroristi mi avevano inculcato nella testa ha cominciato a sparire».

Janada, invece, dopo aver lentamente superato il trauma, ha chiesto di andare a scuola: oggi studia al college e sogna di diventare un medico specializzato in medicina tropicale.

da un campo per sfollati nel nord est della nigeria. Novembre 2020

Rapimenti e indifferenza

In Occidente, il tema della persecuzione dei cristiani fatica a entrare nel dibattito generale, «come se la libertà religiosa fosse un diritto di serie B», argomenta Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) Italia. In Nigeria ci sono violenze, ma anche frequenti sequestri di religiosi e cristiani che poi, in molti casi, finiscono in omicidi. Secondo i dati diffusi a fine marzo dalla Conferenza episcopale nigeriana, dal 2006 al 2023 nel paese sono stati rapiti 53 sacerdoti, dodici aggrediti e sedici uccisi: un totale di 81 sacerdoti in diciassette anni.

È il nord della Nigeria l’area dove i rapimenti sono legati alla presenza di varie formazioni terroristiche, a iniziare da Boko Haram. Da questo gruppo jihadista, a causa di diverse scissioni, ne sono nati altri, il più importante dei quali è l’Islamic state of west Africa province (Iswap).

Il fenomeno dei rapimenti, però, negli ultimi anni si è esteso a diverse altre zone della Nigeria, compreso il sud (a maggioranza cristiana, ndr).

In tutti i casi non è facile distinguere tra i sequestri compiuti dai terroristi e quelli compiuti da gruppi criminali che cercano solo un ritorno economico. Terroristi e banditi hanno modi simili di operare: assaltano villaggi saccheggiandoli alla ricerca di cibo e bestiame, e rapiscono le persone. L’unica differenza è che i banditi comuni non rivendicano le loro azioni su basi ideologiche.

Sta di fatto che la comunità cristiana, a partire dai sacerdoti, è la più bersagliata dai sequestri. «Ma su queste vicende impera il silenzio – osserva Monteduro -. Non sono considerate meritevoli di attenzione da parte della comunità internazionale e della maggior parte dei media occidentali. Ma soprattutto sono ignorate dalle autorità civili, politiche e militari della stessa Nigeria. A urlare il proprio dolore, a chiedere aiuto, è solo la Conferenza episcopale della nazione».

Che siano estremisti appartenenti all’etnia dei fulani, o terroristi aderenti a gruppi jihadisti come Boko Haram, oppure semplici gruppi criminali interessati al riscatto, importa poco. Ciò che importa, spiega Monteduro, è che «in Nigeria oggi è terribilmente pericoloso professare la propria fede. Importa la sostanziale incapacità e inadeguatezza delle autorità e istituzioni federali e locali. Importa l’altrettanto sostanziale disinteresse che registriamo in Europa.

Ora, poiché non possiamo e non dobbiamo considerarlo un fenomeno irreversibile, abbiamo il compito far sentire in Occidente, in quell’Europa dalle radici cristiane, la nostra indignazione. Certamente sarà un modo sincero per esprimere la nostra vicinanza alle vittime».

Burned villages and fields, from the UNHAS helicopter transporting humanitarian workers to the camps, from the UNHAS helicopter transporting humanitarian workers to the camps

Al top della classifica

Nel gennaio 2023 Porte aperte (un’organizzazione evangelica, www.porteaperteitalia.org ndr) ha pubblicato il suo ultimo dossier sulla libertà religiosa nel mondo. La Nigeria risulta al sesto posto nella classifica dei paesi che negano questo diritto umano fondamentale, soprattutto per i cristiani, dopo la Corea del Nord, la Somalia, lo Yemen, l’Eritrea e la Libia. «La Nigeria sale ancora nella classifica – si legge -, confermandosi la nazione dove si uccidono più cristiani al mondo: 5.014, mai così tanti».

Nonostante i cristiani siano quasi metà dei circa duecento milioni di abitanti del paese, ci sono zone, come ad esempio lo Stato di Kaduna nel Nord, dove è impossibile costruire nuove chiese o insegnare il catechismo.

«I cristiani vivono sotto schiavitù», dice l’arcivescovo di Kaduna, Matthew Manoso Ndagoso.

In alcuni stati a maggioranza musulmana vige la Sharia (la legge islamica), ed è sempre più difficile costruire chiese o altre strutture per i cristiani negli stati settentrionali di Kano, Sokoto, Katsina e Zamfara.

«Da oltre sessant’anni – aggiunge l’arcivescovo – non viene rilasciato ufficialmente nessun certificato alle comunità cristiane per costruire una chiesa. Solo nei primi anni Novanta, quando ci fu un governatore cattolico, venne rilasciato un singolo permesso.

In questa parte del nostro paese, nonostante le garanzie della Costituzione, i cristiani non sono liberi di praticare la loro fede. Perché se non posso costruire una chiesa, se non posso comprare un terreno, non potete dirmi che sono libero. Ai bambini cristiani non si può insegnare la loro religione. Nelle scuole non vengono assunti insegnanti cristiani, ma nelle stesse scuole il governo non solo permette l’insegnamento dell’islam, ma vengono anche utilizzati fondi pubblici per assumere insegnanti per insegnare la fede islamica. C’è una chiara discriminazione e persecuzione», conclude.

“Sono venuti a bussare molto forte alla nostra porta. Ero così spaventato che stavo tremando troppo per aprire la porta. Alcuni di loro sono entrati con la forza e hanno fatto irruzione in casa mentre gli altri hanno scavalcato la recinzione ed sono entrati. Hanno ucciso mio marito e tutti i miei figli tranne uno”.
Asma, 45 anni, trema ancora mentre ricorda quello che ha subito due anni fa. Dopo il brutale attacco, è fuggita dal suo villaggio nel nord-est della Nigeria ed è diventata una delle 1,7 milioni di persone sfollate all’interno del paese a causa della violenza. Classificata come molto vulnerabile, Asma riceve un sostegno finanziato dall’UE dall’NRC – Norwegian Refugee Council per aiutarla a sbarcare il lunario. © Unione europea 2018 (foto di Samuel Ochai)

Un grido inascoltato

A lanciare il proprio grido di aiuto è, ogni volta che si verifica un crimine contro la comunità cristiana, la Conferenza episcopale nigeriana.

Come il 5 giugno di un anno fa, quando un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco e lanciato ordigni contro i fedeli riuniti nella chiesa di San Francesco a Owo, nello stato di Ondo, mentre si celebrava la veglia di Pentecoste. Una cinquantina i morti, tra i quali diversi bambini.

Il presidente dei vescovi cattolici nigeriani, monsignor Lucius Ugorji, sottolineava dopo quell’attacco che «nessun luogo sembra essere al sicuro nel nostro paese, nemmeno entro i sacri recinti di una chiesa. Condanniamo con la massima fermezza lo spargimento di sangue innocente. I criminali responsabili di tale atto sacrilego e barbaro dimostrano la loro mancanza del senso del sacro e del timore di Dio».

«Il governo – ha aggiunto ancora – dovrebbe assumersi la sua responsabilità primaria di garantire la vita e la proprietà dei suoi cittadini. Il mondo ci sta guardando. Soprattutto, anche Dio ci guarda».

Papa Francesco, il giorno dopo, ha inviato un messaggio ai vescovi: «Prego per la conversione di coloro che sono accecati dall’odio e dalla violenza e perché possano scegliere la strada della pace e della giustizia».

Appelli che si ripetono ciclicamente dopo ogni massacro o rapimento. Ma restano di fatto inascoltati, non solo dalle autorità locali, ma anche dalla comunità internazionale.

Manuela Tulli*

 *Giornalista dell’Ansa, si occupa di Vaticano e informazione religiosa. Autrice, tra gli altri, di Eroi nella fede (Acs), sui cristiani in Egitto, e de Il grande tema del senso della vita (Shalom), per la collana dei Quaderni del Giubileo del Dicastero vaticano per l’Evangelizzazione.

Binta Ali is a beneficiary of emergency relief items to displaced families hosted at a camp in Borno State, in north-east Nigeria. © 2018 European Union (photo by Samuel Ochai)




Iraq. Una fuga che non si arresta


Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.

Baghdad. È la mattina del 31 ottobre 2010 quando, nel centro della città, si sente una forte esplosione. Un’autobomba salta in aria vicino alla sede della borsa valori, nel cuore della capitale. Due uomini di guardia rimangono gravemente feriti. Le forze di sicurezza si mobilitano, circondano l’area dell’attacco, un elicottero sorvola la scena. Il vero obiettivo però è un altro, questo primo attentato forse serve solo da diversivo.

Ore dopo, nella chiesa siro cattolica di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza), una delle più grandi di Baghdad, si sta celebrando la messa.

Cinque uomini appaiono ai cancelli, indossano uniformi da guardia di sicurezza privata. Un’auto bomba deflagra in strada, uno dei cinque si fa esplodere all’ingresso della chiesa. Gli altri quattro entrano sparando sulla folla e prendono in ostaggio 120 fedeli.

Molti si nascondono sotto le panche, altri si mettono in ginocchio. I terroristi urlano di fare silenzio, uno di loro telefona al canale televisivo di Al-Baghdadiya. Dichiarano di essere una cellula affiliata ad Al Qaeda e pretendono la liberazione di alcuni compagni rinchiusi nelle carceri irachene e libanesi.

Nel frattempo, le forze di sicurezza circondano l’edificio, l’elicottero sulla scena dell’attentato alla borsa valori si è spostato sulla zona del nuovo attacco.

Nella chiesa ci sono due giovani sacerdoti che stavano celebrando la messa. Provano a far ragionare i terroristi e tenere calmi i fedeli. Padre Saad Abdal Tha’ir e padre Waseem Tabeeh vengono messi in ginocchio e freddati sull’altare.

Le forze di sicurezza irachene decidono di non negoziare. Irrompono nell’edificio. Si sente un’altra esplosione e un lungo scontro a fuoco.

Quando la chiesa viene liberata e messa in sicurezza, i morti sono 58: due sacerdoti, 46 fedeli, inclusi due bambini e una donna incinta di tre mesi. Un terzo sacerdote presente alla messa, padre Raphael Qatin, morirà in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il resto dei corpi sono di poliziotti e terroristi.

Settanta sono i feriti gravi, 26 dei quali, grazie all’intervento della Chiesa, vengono trasferiti a Roma per essere curati.

Quattro anni dopo, quella cellula terroristica affiliata ad Al Qaeda, verrà conosciuta dal mondo come «Isis».

Una strada di Baghdad con, in lontananza, la chiesa armena ortodossa di Meskenta. Foto Angelo Calianno.

Per i cristiani la fuga continua

Oggi la chiesa di Nostra Signora della Salvezza è stata totalmente ricostruita. Le mura che circondano l’edificio sono dipinte con le immagini di papa Francesco, venuto qui in visita a marzo del 2021 per onorare e ricordare le vittime dell’attentato. Per i 46 fedeli e i 2 sacerdoti, il 31 ottobre 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione.

Il sagrestano Natiq Anwar, sopravvissuto all’attentato del 2010. Foto Angelo Calianno.

Attorno ai muri, tra scritte e pensieri di pace con le immagini del pontefice, ci sono anche reti metalliche, filo spinato, telecamere di sicurezza e sbarre di metallo. Natiq Anwar è il sagrestano della chiesa, uno dei sopravvissuti all’attacco del 2010 e tra quelli curati a Roma. Mentre mi guida all’interno della chiesa e nella cripta racconta: «È accaduto tutto molto velocemente. Io sono stato ferito da una delle esplosioni, ricordo l’arrivo di questi uomini in divisa, il boato, le urla che provenivano dalla chiesa e tanto sangue ovunque. Sono invalido da allora, ho subito diverse operazioni a reni e fegato e ho gravi problemi di vista».

«Dopo quello che hai vissuto e data l’instabilità della sicurezza nel paese, hai paura che ci possano essere altri attacchi?», gli chiedo. «Sì, io ho sempre paura che possa riaccadere, ogni volta che entro qui e che guardo verso i cancelli, mi immagino che improvvisamente possano ricomparire degli uomini e che tutto si ripeta. Ma sono un servo di Dio, non rinuncio a lavorare qui, questo è il mio posto».

In uno dei cortili della chiesa incontro Burnahnuddin Assaq Ibrahim, uno dei cinque rappresentanti cristiani del parlamento iracheno, una piccola minoranza dei 329 membri.

«Ognuno di noi è responsabile di una provincia. Devo essere sincero però, negli ultimi anni soprattutto, ci sentiamo rispettati. Quando parliamo, i nostri colleghi ci ascoltano e cercano di venire incontro alle nostre richieste. Il vero problema è che i cristiani scappano da questo paese. La paura degli attacchi e l’instabilità causano la fuga. Nel 2003 eravamo quasi un milione e mezzo, oggi siamo circa 300mila. Però noi cristiani, anche se di diverse confessioni, siamo uniti tra noi».

Sono giorni particolari in Iraq, è l’anniversario della morte dell’Imam Musa Al Kadhim, settimo imam e martire sciita seppellito qui a Baghdad.

Per tre giorni, pellegrini sciiti da tutto il mondo arabo e dall’Asia centrale, vengono qui per pregare davanti al grande santuario. Per strada ci sono tende e migliaia di banchetti allestiti con cibo gratuito. I pellegrini arrivano a piedi, a volte camminando scalzi, non solo dalle province irachene ma anche da Iran, Libano, Pakistan, Uzbekistan.

«Ogni anno, solo per organizzare le baracche con il cibo gratuito per i pellegrini, i leader politici di fede sciita spendono migliaia e migliaia di dollari. Tutto questo è una manovra politica per ottenere voti e consensi, molte di queste persone mangiano carne forse una volta l’anno, non hanno mai visto così tanto cibo tutto insieme nella loro vita e arrivano da zone veramente povere», confessa un poliziotto di pattuglia.

Straordinarie sono anche le misure di sicurezza. Le chiese e le comunità cristiane non sono i soli bersagli dei terroristi, ma anche, e di recente soprattutto, i santuari e le moschee sciite. Proprio durante i giorni del pellegrinaggio, puntualmente l’Isis minaccia di attaccare la moschea di Al Khadim. Molti, in questi anni, sono stati gli attentati sventati, ma anche quelli arrivati a segno, come l’autobomba del 2014 che uccise 21 persone, o le granate che, nel marzo 2021, uccisero dieci uomini tra i pellegrini in visita al santuario.

La chiesa di Nostra Signora del Rosario, a Baghdad. Foto Angelo Calianno.

Identità: musulmano o non musulmano

Il parlamentare cristiano Burnahnuddin Assaq Ibrahim. Foto Angelo Calianno.

In questo contesto, con l’attenzione dei media e delle forze di sicurezza concentrata sulle strade del pellegrinaggio, con il traffico, le cucine a cielo aperto, è molto complicato scorgere e raggiungere le chiese cristiane di Baghdad.

Spesso sono situate in quartieri periferici e molti degli edifici religiosi non si differenziano dalle case attorno. Per intravedere una croce, quasi mai visibile da lontano, occorre arrivare molto vicino all’entrata.

Raggiungo la cattedrale latina di San Giuseppe, fondata nel 1632, elevata a sede di arcidiocesi il 19 settembre 1848, dove mi accoglie padre Francis Domenique.

Padre Peter, sacerdote di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.

La chiesa si affaccia su una strada anonima in un quartiere residenziale, all’interno delle mura però si apre un altro mondo: un campetto da pallavolo, una sala lettura, dei cortili dove i pochi giovani cristiani possono incontrarsi e socializzare.

Uno di questi ragazzi è Raed.

«Non è facile essere cristiani qui. Non dico che viviamo degli episodi di razzismo direttamente, ma, ad esempio, se faccio domanda per un lavoro e c’è un candidato musulmano con la mia stessa preparazione, in questo caso sicuramente si preferirà lui. Oltre a questo, i ragazzi sono davvero pochi, moltissimi vanno via: in Kurdistan o magari in Europa. Ho tanti amici che sono via e mi raccontano come va lì. Non è che hanno una vita semplice, certo, le difficoltà si trovano in tutto il mondo, però sono liberi di professare la propria religione senza imbarazzo o discriminazione. I miei amici all’estero non sono giudicati per la propria religione, questa è una grande libertà che qui non è affatto scontata».

«E tu, se potessi, o magari ci stai pensando, andresti via?». Sorride: «Sì, penso che potrei andare via se mi si presentasse un’occasione».

Padre Dominque Francis, sacerdote di San Giuseppe e Teresa. Foto Angelo Calianno.

All’interno del cortile, impegnato a giocare a pallavolo con i ragazzi, incontro anche Zayed, frate domenicano. «Padre Zayed, com’è la vita dei cristiani oggi in Iraq? Alcune persone, tra le autorità che ho intervistato, mi hanno detto che le varie correnti cristiane sono unite tra di loro. Secondo lei, è davvero così?».

«No – risponde -, non penso che i cristiani in Iraq siano uniti e credo che questa disunione sia una delle cause dei nostri problemi. La discriminazione è reale, come il grande esodo dei cristiani che preferiscono andare via. La verità è che all’estero, anche se in un paese straniero, è comunque più facile che qui. La discriminazione può manifestarsi in diverse maniere, sia diretta che indiretta. Ti faccio un esempio pratico: sui nostri documenti deve esserci scritta la religione, ma si può solo scrivere musulmano o non musulmano. Potrà sembrare cosa da poco, ma è così che poi funziona anche il resto. Le altre religioni non sono contemplate, o sei musulmano oppure no».

La difficile quotidianità dei convertiti

In un altro quartiere periferico, fuori dalla chiesa della Madonna del Rosario, incontro Joseph (nome di fantasia), che mi chiede di mantenere segreta la sua identità.

Joseph è di origine musulmana, ma si è convertito al cristianesimo. Racconta: «In Iraq, la vita più difficile ce l’abbiamo noi che ci siamo convertiti. Io ho sempre voluto essere cristiano, da quando ero bambino e giocavo a calcio con gli altri ragazzini nel cortile di una chiesa qui vicino. Prima di convertirmi dovevo andare in chiesa di nascosto, una volta presa la decisione, la mia famiglia non mi ha più rivolto la parola. Da quel momento sono cominciati tutti i miei guai, lavoravo in un ufficio che aveva relazioni con l’estero e mi è stata fatta molta pressione per andare via. Trovare e mantenere un lavoro è la cosa più difficile per i cristiani in Iraq, per chi come me, poi, si è convertito, è anche peggio».

«Hai mai vissuto episodi di violenza?». «Personalmente, violenza fisica no. Sono stato insultato molte volte, anche dalla mia famiglia. Purtroppo, i miei genitori, fratelli e sorelle, sono stati vittime di vessazioni a causa della mia conversione. Le violenze peggiori si perpetrano contro le donne, soprattutto quelle di origine musulmana che decidono di sposare un altro convertito. La moglie di un mio amico in una zona a Sud del paese, poco tempo fa, è stata vittima di un lancio di pietre perché non portava il velo. Baghdad è più libera da questo punto di vista, ma la discriminazione è dietro l’angolo. Non dimenticarti poi, che in caso di attacco da parte degli estremisti, noi siamo sempre il loro bersaglio preferito».

«L’Isis continua a operare?», chiedo. «Certamente, soprattutto nei villaggi sulle zone di confine. Hanno bisogno di cibo e denaro per finanziarsi. E le comunità cristiane sono viste come una nuova risorsa per ottenere riscatti».

Angelo Calianno*

(*) Dello stesso autore, sul sito MC, si possono trovare due altri reportage dall’Iraq
– aprile 2019
– e maggio 2019.

 


Croce con le foto dei 48 «martiri» uccisi nell’attentato islamista del 2010 nella chiesa di Sayidat al-Nejat. Foto Angelo Calianno.

Cristiani in Iraq, qualche numero

Resistono in trecentomila

In Iraq, il grande esodo della comunità cristiana non si è mai fermato. Nel 2003, erano un milione e 300mila. Oggi, stando alle ultime statistiche, sarebbero soltanto 300mila i cristiani rimasti in questa nazione. Negli ultimi quindici anni, in tutto il paese, sono state più di sessanta le chiese danneggiate o distrutte da attentati terroristici e
conflitti.

Centomila cristiani, provenienti dalla Piana di Ninive a Mosul, occupata dall’Isis fino al 2017, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case distrutte dalla guerra e oggi vivono in Kurdistan. Un grande sforzo economico, da parte della comunità cattolica internazionale, è stato fatto per ricostruire case e luoghi di culto a Mosul, con la speranza del ritorno dei fedeli.

La visita di papa Francesco (*), nel marzo dello scorso anno, ha acceso una flebile speranza che le cose possano migliorare. Questa comunità, che per secoli si è sentita abbandonata, con la visita del pontefice per la prima volta si è sentita riconsiderata.

Già Carol Wojtyla aveva programmato un viaggio qui nel 1999. Il progetto poi venne ostacolato dagli Stati Uniti e da Bill Clinton. Questi temeva che la presenza del papa avrebbe rafforzato Saddam Hussein.

Oggi il paese si dibatte tra gli attentati dell’Isis e le milizie filoiraniane tornate molto attive soprattutto dopo la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso proprio a Baghdad.

Durante la sua visita in Iraq, papa Francesco ha detto: «Il terrorismo quando ha invaso questo caro paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese». Oggi i cristiani in Iraq si dividono tra caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, ortodossi e protestanti.

A.Cal.

(*) Su quella visita: Luca Lorusso, MC, aprile 2021.

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Cambogia. Ancora pochi sorrisi per i Khmer


Raccolta del riso con sorrisi per il fotografo. Foto Piergiorgio Pescali.

Indice

 

 

1985-2022, nulla di nuovo al potere.

Dispotismo (per il bene del popolo)

La monarchia cambogiana è dominata da Hun Sen e dalla sua famiglia. L’economia del paese asiatico cresce, ma i costi sociali e ambientali sono molto alti.

Dopo le elezioni amministrative, svoltesi nel giugno di quest’anno, la Cambogia si prepara ad affrontare la sfida, ben più impegnativa e importante, del rinnovo del parlamento in un clima di tensione e di incertezza.

Hun Sen, da decenni indiscusso padre padrone dell’intero paese assieme alla sua famiglia (approfondimento pp. 40-41), è al potere, pressoché ininterrottamente, dal 1985, e in questi ultimi due anni, con la scusa del Covid-19, ha rafforzato il suo dispotismo limitando ulteriormente i diritti civili e politici. Nel marzo 2020, sulla base delle restrizioni pandemiche, è stata approvata una legge che prevedeva il carcere fino a 20 anni e 5mila dollari di multa per chiunque violasse le regole restrittive. Approfittando di queste disposizioni, il governo ha abusato del suo già enorme potere colpendo la debole struttura sindacale e i diritti dei lavoratori. Tra il marzo e l’ottobre 2021, con l’accusa di violazione delle leggi sul Covid, sono state arrestate circa settecento persone, la maggior parte delle quali scese in sciopero per chiedere maggiori tutele sui luoghi di lavoro1.

È questa una delle tante (e neppure l’ultima) denunce, fatte dagli organismi internazionali, di abusi e violazioni dei diritti umani che hanno colpito tutti i settori della società del paese del Sud Est asiatico. L’ultima ondata di «repulisti» che ha interessato la parte politica più critica verso il dispotismo di Hun Sen e del suo partito, il Partito del popolo cambogiano (Cambodian people’s party, Cpp), è iniziata nel 2012 concentrandosi verso le due principali figure dell’opposizione, Kem Sokha e l’inaffidabile (ma, a quanto pare, inaffondabile) Sam Rainsy.

Vista parziale della residenza reale, a Phnom Penh. Foto Piergiorgio Pescali.

Ascesa e caduta di Kem Sokha

Sokha è forse il politico più rispettato a livello nazionale: dopo aver fondato il Centro cambogiano per i diritti umani, nel 2012 è entrato prepotentemente in politica fondando il Cnrp (Cambodian national rescue party), un partito nato dalla fusione del Human rights party con il Sam Rainsy party. L’alleanza, criticata da molti per la figura poco limpida, ambigua e ondivaga di Sam Rainsy, ha però trovato il consenso degli elettori, tanto che nel 2013, il Cnrp ha sfiorato il sorpasso sul Cpp2. Sokha ha ravvivato la scena politica nazionale portando una ventata di democrazia diretta, invitando la popolazione ad esprimere liberamente il suo pensiero in incontri settimanali a cui lui stesso partecipava nei villaggi della nazione. È stato anche il primo oppositore di Hun Sen a ricoprire una carica istituzio- nale, divenendo nel 2014 vicepresidente del parlamento. La sua popolarità è cresciuta verticalmente, tanto che in Cambogia, dopo il successo ottenuto nelle elezioni amministrative del 2017, si prospettava addirittura un cambio di governo nelle elezioni generali dell’anno seguente3.

Anche il Cpp, dopo anni di indiscusso potere, si sentiva braccato e così ha allestito la più spettacolare e contorta messinscena dopo quella del 1997 per estromettere il diretto rivale. Kem Sokha è stato prima condannato a 5 mesi di galera per sfruttamento della prostituzione (Khem Chandaraty, la principale testimone ha poi ritrattato le accuse affermando di aver avuto forti pressioni da parte degli investigatori del governo per montare il caso contro Kem Sokha)4, poi, il 3 settembre 2017, in una scenografica operazione di sapore hollywoodiano che ha coinvolto più di cento agenti di polizia, è stato arrestato con l’accusa di aver cospirato con gli Stati Uniti per scalzare Hun Sen dal governo e instaurare un regime asservito a Washington. Dopo aver trascorso più di un anno nella prigione di Trapeang Phlong, nell’isolata provincia di Tbong Khmun, al confine con il Vietnam, è stato posto agli arresti domiciliari il 10 settembre 2018 in attesa di processo.

Nel frattempo, nel novembre 2017, la Corte suprema cambogiana, controllata dal partito di governo5, ha sciolto il Cnrp obbligando molti attivisti a fuggire all’estero e ha vietato a 118 dei suoi membri di fare politica per i successivi cinque anni6. Senza alcuna opposizione, le elezioni del 2018 hanno visto la totalità dei seggi parlamentari andare a favore del Cpp7.

Giornali chiusi e repressione

La dissoluzione del Cnrp è stato l’inizio di una repressione più generale e feroce verso Ong, giornali indipendenti, associazioni per i diritti umani e ambientaliste, tanto che Phil Robertson, vicedirettore della sezione asiatica di Human rights watch, ha detto che «i governi stranieri, le Nazioni Unite e i paesi donatori dovrebbero chiedere la fine di questi attacchi verso oppositori politici e a ciò che rimane della democrazia in Cambogia»8.

Nel settembre 2017 lo storico quotidiano Cambodia Daily è stato costretto a chiudere, mentre nel maggio 2018 l’editore dell’altro quotidiano di punta, il Phnom Penh Post, fondato da Michael Hayes e la moglie Kathleen O’Keefe, è stato acquisito da una compagnia malese di proprietà di Sivakumar Ganapthy, un editore strettamente collegato con Hun Sen e che ha diretto l’ufficio stampa e le relazioni pubbliche del governo cambogiano9.

Non contenta, la Corte municipale di Phnom Penh ha condannato il 17 marzo 2022, venti appartenenti al Cnrp a 5-10 anni di prigione. Tra gli accusati figurano personaggi di spicco dell’opposizione cambogiana, come Sam Rainsy che, assieme a Eng Chai Eang e Mu Sochua, dopo essersi autoesiliati all’estero, nel novembre 2019 avevano affermato di avere intenzione di tornare in Cambogia per preparare la loro partecipazione alle elezioni del 2023. Le accuse verso i venti oppositori coprono un ampio ventaglio di imputazioni: dall’aver creato una rete segreta che avrebbe avuto l’obiettivo di destabilizzare il paese, al rovesciamento violento del potere con l’aiuto di militari, per terminare con l’aver utilizzato la pandemia per minare la credibilità del governo e organizzare sommosse popolari.

Ad oggi più di settanta avversari politici di Hun Sen sono detenuti nelle carceri cambogiane10.

Opposizione frastagliata e divisa

Mappa della Cambogia. Immagine CIA.

A rivendicare il posto occupato dall’ormai defunto (o, per meglio dire, soffocato) Cambodia national rescue party è il Candlelight party (Partito della luce della candela, Cp), voluto da Sam Rainsy dopo che con Kem Sokha, nel 2021, si è consumato l’ennesimo brutto divorzio politico dell’opposizione cambogiana, scandito da insulti e recriminazioni che i due leader si sono lanciati a vicenda11,12. Presidente del Cp è Thach Setha, che si è chiaramente definito leader del movimento successore del Cnrp, ma il cui partito ha adottato un logo ereditato dal Sam Rainsy party.

La partita si deciderà nei prossimi mesi quando la Corte di giustizia sarà chiamata a decidere sulla sorte dei due leader, uno agli arresti domiciliari in attesa di processo, l’altro in esilio. Probabilmente, come già accaduto in passato per altri rivali del Cpp, a Kem Sokha sarà concessa un’amnistia da parte del re Norodom Sihamoni. Questo gli permetterebbe di partecipare alle elezioni del 2023, sebbene monco del suo partito e della sua dirigenza.

Anche il vecchio contendente del Cpp, il Funcinpec, il cui nome – «Fronte unito nazionale per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cooperativa» – è più lungo della lista dei suoi elettori, intende ripresentarsi alle elezioni in veste rinnovata dopo un lungo periodo di ibernazione. Nel febbraio 2022, il principe Norodom Chakravuth, è stato eletto presidente del partito, espressione della monarchia cambogiana e fondato dal suo inconcludente padre Norodom Ranariddh che, negli anni Novanta, aveva conteso al Cpp la direzione del governo13.

Durante il suo primo discorso da presidente, Chakravuth ha detto di avere intenzione di riunire «sihanoukisti e ranariddisti» in un’unica compagine politica così da poter competere alle prossime elezioni nazionali con Hun Sen14. Ma il Funcinpec oggi raccoglie pochissimi voti ed è spesso visto più come compagine d’appoggio al Cpp di Hun Sen che come suo avversario.

Un altro partito dell’opposizione, spin off del Funcinpec, è il Partito di unità nazionale Khmer, guidato dall’ex generale Nhek Bun Chhay, ex fedelissimo di Ranariddh, ma oggi in rotta con suo figlio Chakravuth.

Il Cpp probabilmente permetterà a un’opposizione frastagliata e divisa di partecipare alle elezioni: oltre a non rappresentare una minaccia per il monopolio politico di Hun Sen, la presenza di piccoli movimenti indipendenti permetterebbe al primo ministro di presentarsi come politico democratico e ottenere la fiducia economica delle potenze occidentali.

Sempre per «il bene del popolo»

Per prepararsi al meglio, Hun Sen sfrutta ogni apparizione pubblica e, approfittando delle numerose inaugurazioni di strutture statali e private, monopolizza il dibattito per convincere l’elettorato cambogiano sul motivo per cui dovrebbe votare per il Cpp.

«Il Cpp è il partito al governo. Noi non vogliamo sfruttare elettoralmente le manifestazioni pubbliche, ma abbiamo un ritorno di immagine per i risultati che abbiamo ottenuto con la nostra amministrazione», ha detto Sok Ey San, portavoce del Cpp, aggiungendo che «il presidente del Cpp è anche primo ministro, così il presiedere e partecipare a cerimonie è anche un modo per mostrare ciò che abbiamo fatto per il bene del popolo».

Il 30 marzo 2022 il premier giapponese Fumio
Kishida ha visitato la Cambogia chiedendo a Hun Sen che le prossime elezioni politiche siano libere e regolari ponendo termine a cinque anni di monopolio del partito unico e di repressione da parte del Cpp e dei suoi dirigenti.

Due settimane dopo però, un centinaio di membri dell’opposizione del Candlelight party che avrebbero dovuto partecipare alle elezioni comunali tenutesi il 5 giugno 2022, sono stati banditi dalla consultazione elettorale, mentre altri sono stati arrestati e picchiati.

Con l’opposizione alle corde, divisa al suo interno e il clima di intimidazione, l’interesse delle elezioni del 2023 non sarà tanto su chi le vincerà, ma sulla percentuale con quale il Cpp surclasserà gli altri concorrenti.

Da Hun Sen a Hun Manet?

Hun Sen, ormai settantenne, si prepara a espletare quello che, con tutta probabilità, sarà il suo ultimo mandato, e sfrutterà i prossimi cinque anni per assicurare la successione al figlio primogenito, il quarantacinquenne generale Hun Manet, già da lui presentato come futuro primo ministro15.

Diplomato alla West Point e plurilaureato, Hun Manet sembra essere assai differente dal padre, anche se, sino a oggi, si è tenuto ai margini della politica preferendo la carriera militare.

La serie di battaglie combattute nel 2011 con la Thailandia per il controllo del tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.47-48), è stata il suo battesimo del fuoco ed è servita per proiettarlo ai vertici delle forze armate cambogiane.

Per molti, Hun Manet potrebbe essere il giro di boa per un cambio nella politica nazionale: mentre il padre è cresciuto tra le file dei Khmer Rossi in un clima di guerra e di oppressione portando con sé tutto il fardello di violenza e insicurezza in cui si è sviluppata la sua formazione, il figlio ha speso gli anni della maturità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Nel 2020 è stato nominato membro permanente del Comitato centrale del Cpp e capo della Commissione giovanile del partito16.

Molti si aspettano che con Hun Manet cambi in meglio l’immagine che il governo cambogiano ha dato di sé sino ad ora.

Con le mani sulla Bibbia in lingua khmer. Foto Tep Ro – Pixabay.

Segnali contrastanti

Negli ultimi anni si sono registrati sviluppi che possono far ben sperare: l’economia nel 2021 è cresciuta del 3% rispetto a una contrazione del 3,1% del 202017. Nel 2022 e nel 2023 ci si aspetta un aumento rispettivamente del 5,3% e del 6,5% nonostante l’invasione russa dell’Ucraina18.

Il Pil pro capite, che nel 2000 era di 288 Usd, nel 2020 era salito a 1.543 Usd. Secondo la Banca mondiale, nel 2030 raggiungerà i 3.896 Usd per balzare a 12.056 Usd nel 2050. Un aumento che proietterà la Cambogia tra i paesi a più alto sviluppo nel Sud Est asiatico19.

I progressi economici non vanno di pari passo con quelli dei diritti umani, di cui la Cambogia non rappresenta certo un modello da seguire, ma l’errore è pensare che il Cpp, Hun Sen e il governo siano i soli responsabili di questi problemi. L’opposizione, in particolare quella che fa a capo a Sam Rainsy, al Funcipec e al Cnrp, ha sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo Khmer in versione antivietnamita e antiislamica per raccogliere consensi tra l’elettorato.

Nel 2010 Sam Rainsy incitò i contadini cambogiani di alcuni villaggi del distretto di Chantrea, nella provincia di Svay Rieng, a spostare i paletti che marcavano il confine con il Vietnam affermando che funzionari del Cpp cambogiano e del Partito comunista vietnamita si erano accordati per rimuovere i picchetti originari all’interno del territorio della Cambogia20.

Nel 2013 i gruppi di opposizione organizzarono proteste fuori l’ambasciata vietnamita a Phnom Penh che sfociarono in violenti attacchi della folla contro cittadini cambogiani di origine vietnamita e attività da loro gestite.

La messa al bando del Cnrp nel 2017, se da una parte ha portato il regime di Hun Sen a spazzare ogni pericolo di competizione e di controllo sul suo operato nel parlamento e nel paese, dall’altro ha avuto come effetto quello di calmare le proteste e i sentimenti xenofobi all’interno della popolazione khmer.

È indubbio che, negli ultimi 20 anni, sotto l’attuale regime la Cambogia abbia fatto grandi progressi nella riduzione della povertà e nello sviluppo umano21.

Tra il 1990 e il 2019, l’Hdi (Human development index, Indice di sviluppo umano) cambogiano è aumentato da 0,368 a 0,594 con un’aspettativa di vita aumentata da 53,6 anni a 69,8 anni e un indice Gini salito da 1,008 a 4,24622,23. Ci si aspetta che, entro il 2023, la Cambogia diventi un paese con uno stipendio medio di livello medio alto24.

Il governo, da parte sua, ha approfittato delle proteste nazionaliste per arrestare e sopprimere movimenti scomodi, sia in ambito politico, che economico. Nel luglio 2020 il presidente della Confederazione dei sindacati cambogiani, Rong Chhun, che si batte da anni per i diritti dei lavoratori tessili, è stato arrestato dopo aver visitato una comunità lungo il confine cambogiano vietnamita e aver criticato, come aveva fatto Sam Rainsy, il governo per aver rivisto il tracciato di confine facendo perdere terra ai contadini cambogiani. È stato rilasciato il 5 novembre 202125.

Templi ad Angkor. Foto Piergiorgio Pescali.

Giornalisti e Ong in pericolo

Oltre alla gente comune, chi fa le spese di questa situazione sono le Ong e le associazioni che si occupano di diritti umani.

Il 10 luglio 2016 Kem Ley, uno dei più acuti giornalisti politici fortemente critico non solo nei confronti di Hun Sen, ma anche dell’opposizione, venne ucciso in una stazione di servizio a Phnom Penh.

Ai suoi funerali parteciparono decine di migliaia di persone che accompagnarono il feretro al tempio buddhista dove venne esposto con una bandiera cambogiana e letteralmente coperto da fiori.

Ancora oggi, mentre l’assassino (Oeuth Ang) è stato arrestato, non si è scoperto il mandante. Come altri attivisti anche loro uccisi (Chea Vichea nel 2004 e Chut Wutty nel 2012), Kem aveva pesantemente criticato Hun Sen e la sua famiglia per la deforestazione del paese e per essere coinvolti in casi di corruzione. Pochi giorni prima, il giornalista aveva firmato quella che per molti fu la sua condanna a morte commentando Hostile Takeover, il dettagliato rapporto di una Ong, la Global Witness, pubblicato tre giorni prima, il quale rivelava tutti gli intrallazzi politici e finanziari della famiglia di Hun Sen, nonché i collegamenti con alcune delle «principali compagnie internazionali inclusa la Apple, Nokia, Visa, Procter & Gamble, Nestlé e Honda»26.

Phay Siphan, portavoce del governo, disse allora che, mentre la gente è libera di onorare la memoria di Kem Ley, non è accettabile accusare il governo o Hun Sen di essere il mandante della sua uccisione: «Se qualcuno ha delle prove concrete, venga e le mostri al governo e al tribunale. Non vogliamo sentire accuse gratuite verso Hun Sen. Se ci sono delle prove, che vengano mostrate».

Proprio qui sta il problema: dal 2015 una legge permette al governo di chiudere e bandire dal paese le Ong che criticano apertamente la politica cambogiana27.

Inoltre, dopo la pubblicazione di Hostile Takeover, chiunque voglia approfondire notizie e valutare dati riguardanti attività pubbliche e ministeri, deve registrarsi sui relativi siti lasciando così tracce che possano ricondurre all’identità della persona e, quindi, all’identità della persona.
Raccogliere prove significa spesso condannarsi e questo rende più difficile la democratizzazione del paese e la lotta alla corruzione.

L’entrata di Anlong Veng, cittadina al confine con la Thailandia, già ultima roccaforte dei Khmer Rossi. Foto Piergiorgio Pescali.

Il problema ambientale

Questo vale anche nel campo ambientale, un tema particolarmente attuale e scottante, tanto da divenire uno dei principali campi su cui si affrontano i diversi schieramenti del paese.

Nel 2021, dieci Ong che operano in Cambogia, impegnate in questioni e progetti idrici, hanno lodato il governo cambogiano per aver affermato, durante la Conferenza sui cambiamenti climatici Cop 26 di Glasgow, di non volersi impegnare in progetti di costruzione di centrali idroelettriche sul Mekong28.

Il coordinatore del Forum delle Ong, Mak Bunthoeurn ha però aggiunto che l’esempio della Cambogia sarà inutile se non verrà seguito dagli altri stati che hanno progetti simili lungo i tratti del Mekong che scorrono sul loro territorio29,30.

Più ambigua è la posizione del governo nella questione della deforestazione. Sebbene sia difficile quantificare la velocità di disboscamento in Cambogia (i dati variano anche di molto a seconda degli studi), una media approssimativa giunge alla conclusione che nel 2010 il 60% del territorio cambogiano era ricoperto da foreste; nel 2020, la percentuale era scesa al 45,7%31.

Tra il 2000 e il 2019 la perdita di foreste cambogiane è stata di 27mila km2, pari al 14,8% della superficie del paese e al 26,4% delle foreste.

La deforestazione è aumentata a partire dalla fine degli anni Novanta quando i Khmer Rossi furono sconfitti definitivamente e il loro movimento sciolto. Da allora le dispute sui terreni sono cresciute anche in modo violento e i litigi, principalmente tra villaggi, sono stati utilizzati da governo e opposizione per loro fini sia elettorali che economici (la deforestazione arricchisce anche gruppi dell’opposizione cambogiana). Il prepotente ingresso di gruppi economici con ramificazioni internazionali e con appoggi politici sia dell’una che dell’altra parte ha aumentato esponenzialmente questo problema.

Secondo Hun Sen, la perdita di foreste in Cambogia è principalmente dovuta all’aumento demografico: «Il 7 gennaio 1979, quando i Khmer Rossi vennero sconfitti, in Cambogia vivevano circa cinque milioni di persone; oggi la popolazione è aumentata a 16 milioni. […] Negli anni Ottanta la Cambogia aveva un milione di ettari coltivati a uso agricolo; oggi, a causa dell’aumento della popolazione la richiesta di terra per coltivazioni è aumentata a quattro milioni di ettari. Da dove credete che venga questa terra? Alcuni si lamentano che le foreste stanno scomparendo. Ma voi potete ben vedere che le foreste scompaiono perché enormi superfici una volta coperte da foreste, oggi sono diventate terre coltivate dai contadini»32.

Le Ong ambientaliste hanno però accusato il governo di non far nulla per contrastare il commercio illegale di legname verso il Vietnam, che già dal 1986 ha iniziato a sfruttarlo. Secondo l’Eia (la Environmental investigation agency), tra il 2016 e il 2018 più di mezzo milione di metri cubi di legname, per un valore di 290 milioni di dollari, è transitato illegalmente attraverso la Cambogia per raggiungere il Vietnam33,34.

E, a differenza di quanto afferma Hun Sen, tra il 2001 e il 2019, il 92% della deforestazione è stato causato dalle compagnie del legname35.

Il governo cede concessioni a multinazionali, compagnie locali o anche a piccoli proprietari terrieri al fine di generare «sviluppo nazionale, creare lavoro nelle aree rurali e sfruttare le aree non utilizzate» per scopi agricoli o, nella maggior parte dei casi, per sviluppare piantagioni a monocoltura.

Tutte le aree soggette a taglio devono essere all’interno delle Concessioni economiche terriere (Economic land concessions, Elc) e le Concessioni sociali terriere (Social land concessions, Slc) che legalmente non dovrebbero superare i 10mila ettari per ciascuna, limite che spesso viene superato.

È compito del ministero dell’Ambiente identificare le Elc, ma sempre più spesso i funzionari del ministero tracciano i confini anche dentro le aree protette. Fino al 2018 il ministero dell’Ambiente aveva concesso 227 Elc per un totale di 1.225.254 ettari, pari al 6,8% dell’intera superficie cambogiana a cui si devono aggiungere 28 piantagioni di caucciù private per un totale di 176.297 ettari.

Una nuova «tigre asiatica»

La Cambogia si sta avviando verso un ambizioso programma di sviluppo economico. Gli indicatori socioeconomici indicano che il paese sarà la prossima «tigre asiatica». Saranno in molti a beneficiarne, ma se non si pone un limite al degrado ambientale e non si pensa anche agli strati più deboli ed emarginati della società, il progresso rischierà di trasformarsi in instabilità.
E negli anni Settanta la Cambogia ha già sperimentato questa strada.

Piergiorgio Pescali

Bambine cambogiane cercando l’oro. Foto Piergiorgio Pescali.


Note:

  1. Phorn Bopha, Cambodia “bleeding” as space for civil society shrinks, Al Jazeera, 3 novembre 2021.
  2. Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 28 luglio 2013. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 48,83% dei voti, mentre il Cnrp raggiunse il 44,46% dei consensi.
  3. Amaël Vier e Karel Jiaan Galang, The 2017 International Election Observation Mission (Ieom) of the Asian Network for Free Elections (Anfrel) to the Kingdom of Cambodia’s Commune and Sangkat Council Elections – Final Report, §Voter Turnout and Election Results, Asian network for free elections (Anfrel), Bangkok, luglio 2017, p. 25. Il Cpp, che ottenne in totale il 50,76% dei voti, si aggiudicò 6.503 seggi consigliari e la guida di 1.156 comuni. Il Cnrp, con il 43,83% dei voti, ottenne 5.007 seggi consigliari e la guida di 489 comuni.
  4. Khmer Times, Adhoc on Defensive after Accusations, 26 aprile 2016 e Human rights watch (Hrw), Cambodia: Drop Fabricated Charges against “Adhoc 5”, 26 agosto 2018.
  5. Alec Thomson, A fork in the road: a civil rights case study of Cambodia and Somaliland – §Modern Law, Cambridge University – Law Society.
  6.  Human rights watch (Hrw), Cambodia: Supreme Court Dissolves Democracy, 17 novembre 2017.
  7.  Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 29 luglio 2018. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 76,78% dei voti e tutti i 125 seggi parlamentari.
  8. Human rights watch (Hrw), Cambodia, Opposition Politicians Convicted in Mass Trial, 17 marzo 2022.
  9. The Phnom Penh Post, Post senior staff out in dispute over article, 8 maggio 2018.
  10.  Human rights watch (Hrw), Political Prisoners Cambodia, 10 marzo 2022
  11. Ben Sokhean, Sokha slams Rainsy for accusing him of being under threat from PM, Khmer Times, 2 dicembre 2021.
  12. Ananth Baliga e Ouch Sony, Cnrp Rift Out in the Open as Kem Sokha Distances Himself from Rainsy, Vod, 29 novembre 2021.
  13. Khmer Times, Prince Norodom Chakravuth elected as Funcinpec party president, 9 febbraio 2022.
  14. (Yin Soeum, Prince Norodom Chakravuth unanimously elected Funcinpec president, Khmer Times, 10 febbraio 2022.
  15. Sorn Sarath, Hun Manet could be PM as soon as next mandate, Hun Sen, CamboJA News, 20 dicembre 2021.
  16. Mao Sopha e Torn Chanritheara, Hun Manet Appointed Head of CPP’s Youth Wing, Cambodianess, 9 giugno 2020.
  17. Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic performance, 2021, p. 1.
  18. Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic prospects, 2021, p. 2.
  19. The World Bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
  20. Meas Sokchea, PM dismisses possible pardon for Sam Rainsy over VN border charges, The Phnom Penh Post, 6 gennaio 2010.
  21. Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, Aprile 2021, p.1.
  22. Undp, Human Development Report 2020 – The Next Frontier: Human Development and the Anthopocene – Briefing note for countries on the 2020 Human Development Report – Cambodia, § 2.1- Cambodia’s Hdi value and rank, p. 2.
  23. L’indice Gini misura la disuguaglianza di reddito della popolazione: maggiore è l’indice Gini meno equamente distribuito è il reddito. Secondo uno studio del World Institute for Development Economics Research, l’indice Gini ottimale è compreso tra 0,25 (paesi del Nord Europa) e 0,40 (Cina, Usa).
  24. Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, aprile 2021, p.1.
  25. Front Line Defenders, Cambodian human rights defenders released after more than one year in prison, 16 novembre 2021
  26. Global witness, Hostile Takeover, luglio 2016, p. 13.
  27. Licadho, New Draft Law Reaffirms Culture of Control , 11 giugno 2015
  28.  Le 10 Ong sono Culture and Environment Preservation Association (Cepa); Fisheries Action Coalition Team (Fact); North-eastern Rural Development (Nrd); Nak Akphivath Sahakum (Nas); Ngo Forum on Cambodia (Ngof); Mlup Promviheathor Center Organization (Mpc); My Village Organization (Mvi); Oxfam in Cambodia, Women’s Community Voices (Wvc); 3S Rivers Protection Network (3Spn).
  29. La Cina ha già costruito undici dighe sul corso del Mekong (Wunonglong, Lidi, Huangdeng, Dahuaqiao, Miaowei, Gongguoqiao, Xiaowan, Manwan, Dachaoshan, Nuozhadu e Jinghong), il Laos due (Xayaburi e Don Sahong). La Cina ha in progetto la costruzione di altre tre dighe (Toba, Ganlanba e Mengsong) e il Laos di altre sette (Pak Beng, Luang Prabang, Pak Lay, Sanakham, Pak Chom, Ban Koum, Phou Ngoy). La Cambogia ha cancellato le previste dighe di Stung Treng e Sambor.
  30. Lo sviluppo del bacino del Mekong è deciso dalla cooperazione di 13 organismi appartenenti a sei paesi – Cina, Laos, Myanmar, Thailandia, Cambogia, Vietnam -, che operano in vari campi.
  31. The world bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
  32. Kouth Sophak Chakrya, Hun Sen blames forest loss on population rise, Phnom Penh Post, 7 giugno 2018.
  33. Environmental investigation agency (Eia), Repeat offender: Vietnam’s persistent trade in illegal timber, maggio 2017.
  34. Environmental investigation agency, Eia responds to Vietnam wood industry over criticism of timber crime exposé, 17 luglio 2018.
  35. Global forest watch, Primary forest loss in Cambodia, 2 maggio 2022.

La chiesa flottante di San Paolo, sul lago di Tonlé Sap (Siem Reap), prima nel villaggio flottante di Chong Khneas, poi a Prek Toal. Foto da siemreapcatholic.com.

Scheda Cambogia (Kampuchea)

Piccole minoranze in un paese buddhista

  • Superficie: 181mila Km2;
  • Popolazione: 16,7 milioni (2020);
  • Capitale: Phnom Penh (2,2 milioni di abitanti);
  • Orografia: pianura alluvionale attraversata dal Mekong da Nord a Sud; bacino idrografico del Tonlé Sap (lago e fiume);
  • Sistema politico: monarchia parlamentare;
  • Re e primo ministro: re Norodom Sihamoni (dal 2004); primo ministro Hun Sen (dal 1985, Partito del popolo cambogiano);
  • Date essenziali: 802-1431, Impero khmer; 1953 (novembre), indipendenza dalla Francia; 1970-’75, Repubblica khmer; 1975-’79, regime dei Khmer rRossi; 1979-’89, occupazione da parte del Vietnam; 1997, Tribunale speciale per i Khmer Rossi;
  • Principali gruppi demografici: khmer 87% (lingua khmer, religione buddhista theravada), vietnamiti, laotiani, thailandesi;
  • Religioni principali: buddhisti 95% (corrente theravada); musulmani 2% (in particolare, i Cham); cristiani 2% (0,5% cattolici);
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la produzione più importante è quella del riso; industria tessile e turistica (in particolare, per Siem Reap che ospita il sito archeologico di Angkor);
  • Regioni contese: la zona del tempio di Preah Vihear contesa con la Thailandia;
  • Problemi principali: grado di corruzione molto elevato; presenza di lavoro minorile e schiavo; traffico di droga; l’organizzazione Freedom House definisce la Cambogia un paese «non libero».

(a cura di Paolo Moiola)

Il primo ministro Hun Sen e la moglie Bun Rany pregano durante una cerimonia buddhista in un tempio di Angkor Wat, a Siem Reap (2 dicembre 2017). Foto Charly Two-AFP.

Il ritratto

Hun Sen e famiglia, i padroni

Il 5 agosto 1952, in un piccolo villaggio della provincia di Kompong Cham, nacque Hun Bunal. Suo padre, Hun Neang, era un monaco di un piccolo tempio locale prima di aderire alla resistenza anticoloniale. La famiglia Hun era una Khmer Kat Chen, cioè di origini cinesi. Ricca, proprietaria terriera, fu costretta a trasferirsi a Phnom Penh a causa di un tracollo economico. Qui Hun Bunal cominciò a frequentare la scuola buddhista cambiando il nome in Ritthi Sen.

Dopo il colpo di stato di Lon Nol, nel 1970, Bunal si unì ai Khmer Rossi facendosi chiamare Hun Samrach e poi, dal 1972, Hun Sen.

Comandante militare della Regione orientale durante il periodo di Kampuchea Democratica, nel 1977 fuggì in Vietnam per scappare dalle purghe che stavano decimando i quadri del partito ostili a Pol Pot.

Assieme ad altri leader militari e politici che disertarono le fila dei Khmer Rossi, partecipò all’invasione vietnamita della Cambogia nel 1979 divenendo vice primo ministro e ministro degli Esteri sotto il governo di Heng Samrin.

Nel lontano 1985

Il primo ministro Hun Sen parla all’inaugurazione di un tratto della strada nazionale 7 (provincia di Kratie) finanziato dalla Cina (7 febbraio 2022). Foto Ly Lay-Xinhua-AFP.

La svolta politica avvenne nel 1985 quando fu eletto primo ministro. Da allora Hun Sen non ha mai smesso di ordire trame e intrallazzi per mantenere il potere, anche quando i risultati elettorali lo vedevano sconfitto, e disporre le sue pedine nei posti chiave delle istituzioni cambogiane.

Già due anni dopo essere stato nominato primo ministro, Amnesty International espresse «preoccupazione per rapporti di torture di prigionieri politici imprigionati senza accuse o processi»1.

Nel 1997, dopo che le elezioni di quattro anni prima avevano consentito al Funcipec di Ranarridh Sihanouk di raggiungere la maggioranza e di dividere la poltrona di primo ministro con Hun Sen, quest’ultimo inscenò un colpo di stato in cui vennero giustiziate almeno cento persone a lui ostili. Recentemente una corte francese2 ha emanato un mandato di arresto per Hun Sen e altri due generali, Huy Piseth e Hing Bun Heang, con l’accusa di aver pianificato, organizzato ed essere mandanti di un attentato compiuto il 30 marzo 1997 durante un raduno del partito di opposizione Khmer nation party di Sam Rainsy che costò la vita a 16 manifestanti e il ferimento di altri 150, tra cui lo stesso leader del movimento3.

Immense ricchezze familiari

La copertina di «Hostile Takeover», duro report di Global Witness sulla Cambogia di Hun Sen (luglio 2016).

La carica di capo del governo, però, garantisce a Hun Sen l’immunità, rendendo impossibile ogni attuazione del procedimento internazionale, come hanno chiaramente fatto sapere sia il ministero degli Esteri che il ministero per l’Europa francese. Fino al 2016, quando la Ong Global Witness pubblicò un dettagliato rapporto, Hostile Takeover, nessuno era riuscito a stabilire con esattezza l’estensione dei gangli della famiglia Hun nell’economia cambogiana e internazionale. A causa di questa inchiesta, il ministero del Commercio cambogiano, ha ristretto ogni accesso alle informazioni delle aziende, nazionali ed estere, che operano sul territorio.

Secondo il rapporto della Global Witness, la famiglia di Hun Sen deterrebbe una ricchezza stimata tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari4.

I ventuno membri della famiglia hanno interessi in 114 compagnie nazionali con un capitale di 200 milioni di Usd5 e detengono il monopolio della produzione di caucciù, la seconda voce agricola del paese dopo il riso, di sei compagnie minerarie, di sette compagnie di costruzioni edilizie, di cinque compagnie energetiche (settore di enorme sviluppo in Cambogia).

Moglie, figli, nipoti in ruoli chiave

La moglie di Hun Sen, Bun Rany, è presidente della Croce Rossa cambogiana ed è stata accusata da più parti di usare la sua posizione per promuovere la politica del Partito popolare cambogiano (Cpp).

Due dei tre figli maschi di Hun Sen, Hun Manet e Hun Manith, sono ufficiali delle Forze armate cambogiane e hanno frequentato l’Accademia di West Point. Hun Manet ha avuto un ruolo prominente nella vicenda di Preah Vihear che nel 2011 ha visto l’esercito cambogiano fronteggiare quello thailandese per il controllo di un’area di 4,6 km2 in cui sorge il tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.46-47). Il terzo figlio, Hun Many, il più giovane, è parlamentare, mentre le due figlie, Hun Mana e Hun Maly, si sono spartite il controllo dei media nazionali (Hun Mana) e dei servizi, come i settori medico-farmaceutico, energetico e del commercio (Hun Maly).

I fratelli di Hun Sen, Hun Neng (morto il 5 maggio 2022) e Hun San controllano le maggiori compagnie nel settore del commercio e dei trasporti, mentre la sorella Hun Seng Ny è direttamente coinvolta nella direzione di compagnie accusate di causare i disboscamenti nel paese e nella repressione degli scioperi nelle industrie tessili.

Hun Seang Heng, figlio di Hun Neng e nipote di Hun Sen, è padrone della compagnia che importa e rivende nel territorio cambogiano i prodotti della Apple. L’altro figlio di Hun Neng, Hun To, oltre a presiedere la compagnia petrolifera Lhp Asean Import Export e la Lhp Asean Investment, proprietaria di catene di stazioni di servizio in Cambogia, è implicato nel traffico di eroina in Australia per un miliardo di dollari. Una delle due figlie di Hun Neng, Hun Kimleng, ha importanti partecipazioni nella Hard Rock Cafè e nella Gloria Jeans Coffee.

Praticamente ogni membro della famiglia Hun Sen ha interessi finanziari, politici, economici, militari con istituzioni cambogiane e, spesso, anche internazionali.

Piergiorgio Pescali

Note

  1. Amnesty International, 1987 Report – Kampuchea (Cambodia), 1987, p. 241.
  2. Il caso è stato portato alla corte francese da Sam Rainsy, che ha doppia cittadinanza (francese e cambogiana).
  3. Human rights watch, Cambodia: French Court Indicts Hun Sen Cronies, 29 marzo 2022.
  4. Global Witness, Hostile Takeover – Executive Summary, luglio 2016, p. 3.
  5. Global Witness, Hostile Takeover – Annex 1 – Our finding in full, luglio 2016, pp. 33-37.

Pescatori sul Mekong. Foto Piergiorgio Pescali.


Storia e religioni

L’islam dei Cham

Dopo il buddhismo, la seconda religione in Cambogia è l’islam. Il 2% della popolazione, secondo il censimento effettuato nel 2019, è musulmano1 e vive principalmente nelle province di Tbong Khmun (11,8% della popolazione), Kratie (6,6%), Kompong Chhnang (5,8%), Stung Treng (4,7%), Koh Kong (4,6%) e Mondulkiri (4,4%)2.

La componente etnica maggioritaria, sebbene non unica, dei fedeli islamici è composta da popolazioni di etnia cham di origine maleo-polinesiana che parlano una propria lingua (il cham). Dopo essere migrati verso le coste vietnamite a partire dal II secolo d.C., i Cham si installarono nel regno induista di Champa, nell’attuale regione centrale del Vietnam per poi convertirsi all’islam nell’XI secolo quando mercanti arabi e indiani del Gujarat, assieme alle loro mercanzie, portarono anche il loro credo e copie del Corano. Nel XII secolo, i Cham riuscirono anche a conquistare Angkor, seppur per soli quattro anni, la capitale dell’Impero khmer (il tempio di Bayon ha pregevoli bassorilievi che illustrano battaglie tra Khmer e Cham). La presenza stabile delle prime popolazioni cham in Cambogia risale proprio a questo periodo e venne rafforzata nel XV secolo dopo la sconfitta del loro regno a favore dei Viet provenienti dal Tonchino. All’interno del gruppo, si distinguono i Chvea che, pur condividendo la provenienza etnica, provengono dalla Malesia e hanno adottato la lingua khmer, e i Jahed, di lingua cham, ma giunti in Cambogia tra il XVIII e il XIX secolo, dopo la completa dissoluzione del regno di Champa da parte di Minh Mang.

Infine, una componente aristocratica si installò nella vecchia capitale khmer, Oudong, dove ancora oggi risiedono i discendenti (circa 20mila) che hanno adottato una forma di sincretismo religioso che ingloba elementi induisti e, a differenza dei loro correligionari, oltre a non usare l’arabo come lingua religiosa, hanno mantenuto la forma scritta della lingua cham.

Sotto i Khmer Rossi

Durante la Seconda guerra del Sud Est asiatico le forze militari in lotta in Cambogia cercarono di accaparrarsi l’appoggio della comunità cham: sia Sihanouk che Lon Nol garantirono la cittadinanza cambogiana ai Cham a differenza dei cambogiani di origine vietnamita e cinese, a cui invece venne negata. I Khmer Rossi, dal canto loro, accettarono i Cham anche perché Sos Man e suo figlio Mat Ly, erano due dei membri più autorevoli del Partito comunista di Kampuchea. Per assimilare i Cham al movimento khmer e nascondere la discendenza Champa, troppo legata al Vietnam, vennero chiamati Khmer islamici.

A partire dal 1972 i Khmer Rossi iniziarono a deportare i Cham in diverse province con l’intento di dividere e indebolire la comunità causando diverse sommosse represse con purghe ed esecuzioni.

Dopo la conquista del potere da parte dei Khmer Rossi e, ancora più, dopo l’ascesa di Pol Pot nel 1976, l’introduzione di cooperative agricole e mense comuni furono oggetto di nuove ribellioni da parte dei musulmani, costretti a mangiare cibo a loro proibito e a seguire tradizioni estranee alla loro cultura e religione.

La moschea di Al-Serkal, a Phnom Penh, la più grande della Cambogia. Foto Piergiorgio Pescali.

L’opportunismo di Hun Sen

Oggi i Cham possono praticare la loro fede anche se i movimenti d’opposizione lamentano un aumento dell’influenza economica della comunità musulmana all’interno del paese, in particolare per i cospicui finanziamenti che le organizzazioni islamiche ricevono da istituzioni e paesi arabi,
Malaysia e, ultimamente, anche da parte della Turchia.

Proprio per attirare investimenti da Ankara, Hun Sen ha recentemente chiesto che, in ogni provincia, vi sia almeno un vicegovernatore cham3.

E proprio il Cpp è il principale sostenitore dei musulmani cambogiani, garantendo loro appannaggi economici e licenze negate ad altre comunità. Il mufti del paese è un okhna4, Kamaruddin bin Yusof che è stato posto dallo stesso Hun Sen a guida degli islamici cambogiani nel lontano 1996. Kamaruddin, oltre a controllare le scuole islamiche madhhabi all’estero, ha anche influenti amicizie politiche ed economiche in Malaysia.

La totalità dei musulmani cambogiani è sunnita; il 90% segue la scuola madhhab, la scuola Shafi’i, mentre il restante, concentrato nella comunità di Oudong, appartiene alla Comunità di imam San (Krom Kan Imam San) che si rifà all’imam Sen, un religioso vissuto nel XIX secolo e particolarmente venerato nella regione. La tradizione islamica malese, introdotta a partire dalla seconda metà del XIX secolo, è quella più seguita e di conseguenza anche i testi religiosi (sia letterari che di istruzione) sono in lingua malay. I fedeli della Comunità di Imam San, guidati da Ong Gnur Mat Sa, si distinguono dai loro confratelli per seguire regole che inseriscono nelle pratiche religiose e rituali islamiche elementi cham e animisti. Nella preghiera del venerdì hanno inserito elementi di possessione degli spiriti ancestrali che prendono origine da testi cham, indiani e arabi.

P.Pes.

Note

  1. Kingdom of Cambodia, Ministry of Planning, National Institute of Statistics, General Population Census of the Kingdom of Cambodia 2019 – Capitolo 2, Population Size, Growth and Distribution, §2.5 Population and religion, Ottobre 2020, p.23.
  2. Idem, §Tabella 2.5.1 Percentage distribution of population by religion, area, and province, Cambodia, 2008-2019, Ottobre 2020, p.24.
  3. UcaNews, Hun Sen wants to appoint Cambodian Muslims to higher office, 24 febbraio 2022.
  4. Titolo onorifico dato a chi si distingue come benefattore o mecenate. Oggi può essere comprato versando al governo una certa somma in denaro.

Comunità di Khmer Krom lungo le sponde del fiume Mekong. Foto Piergiorgio Pescali.

Cambogia versus Vietnam

Il destino dei Khmer Krom

Sono circa un milione e 200mila i Khmer che abitano nel delta del Mekong, nella regione meridionale del Vietnam, discendenti di quelle popolazioni che, seguendo l’onda dell’espansione dell’Impero khmer nel IX secolo, occuparono le fertili aree solcate da innumerevoli corsi d’acqua.

Pur conservando la stessa lingua, cultura, religione dei Khmer delle regioni del Tonle Sap e del corso superiore del Mekong, i Khmer Krom (Khmer meridionali) nel XVII secolo iniziarono a distinguersi dal ceppo originario. La dinastia Nguyen, da Hué dilagò verso Sud prima strappando Prey Nokor, la principale città Khmer Krom all’amministrazione cambogiana e rinominandola Sai Gon, poi favorendo la migrazione dei Kinh1 verso Sud lambendo la catena annamita. Nel 1845 il principe cambogiano Ang Duong fu costretto a cedere al Siam (l’attuale Thailandia) le province di Sisophon, Battambang e Siem Reap e al regno dell’Annam (parte dell’attuale Vietnam) la provincia di Kampuchea Krom. Mentre i territori occidentali, in cui tra l’altro si trovava sito di Angkor, il 23 marzo 1907 vennero riconsegnati alla Cambogia, allora protettorato francese, nulla di simile venne fatto per le 21 province orientali del delta del Mekong.

Le scelte dei colonizzatori francesi

Il 4 giugno 1949 la Francia confermò i confini politici vietnamiti cambogiani che aveva ereditato ed accettato nel 1862 e nel 1874, quando il regno di Annam cedette le province del delta del Mekong ai colonizzatori, che le chiamarono Cocincina.

A nulla valsero le proteste del re cambogiano, il giovanissimo Norodom Sihanouk, che ne richiedeva la restituzione: «La Francia ha ricevuto tutti i territori del Sud Vietnam dalla corte di Hue e con essi il diritto di condurre operazioni militari contro i mandarini annamiti e non contro le autorità khmer. […] La storia contraddice la tesi secondo cui la parte occidentale della Cocincina fosse, al tempo dell’arrivo francese, soggetta alla corona khmer», si legge in un documento inviato a Sihanouk in cui le autorità coloniali respingevano la richiesta avanzata dal monarca.

La colonizzazione francese non fece altro che sancire il definitivo affrancamento della cosiddetta Cocincina dalla Cambogia, che venne confermato nel 1954, quando il Vietnam del Sud ottenne l’indipendenza inglobando la regione meridionale a maggioranza khmer.

La Seconda guerra del Sud Est asiatico divise politicamente anche i Khmer Krom: gli Stati Uniti e il governo di Saigon organizzarono i Khmer del delta nel Mike Force, il corpo militare che comprendeva le minoranze etniche addestrate a combattere i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, in cui invece confluirono le «Sciarpe bianche», i Khmer Krom del monaco buddhista Samouk Sen.

Fiori di loto.

Le scelte del Vietnam

Dopo la vittoria del 1975, e ancora più dopo l’unificazione del Sud con il Nord nel 1976, il Vietnam, timoroso che l’omogeneità etnica delle popolazioni del Delta del Mekong potesse portare una rivendicazione delle regioni storicamente reclamate dalla Cambogia, adottò una politica di diluizione demografica, trasferendo milioni di Kinh (vietnamiti) verso Sud e concedendo loro larghe estensioni terriere e di sfruttamento da allevamento ittico che distrussero gran parte delle attività in precedenza appannaggio dei Khmer Krom.

I Khmer residenti in Vietnam iniziarono quindi a vedere i Khmer Rossi come possibile appoggio per le loro rivendicazioni e cominciarono a chiedere aiuto o asilo in Cambogia. Invece di trovare solidarietà, i Khmer Krom, sospettati di essere ormai troppo vietnamizzati, vennero sistematicamente massacrati. Solo dalla metà del 1978, quando Phnom Penh iniziò a guardare sempre con più attenzione quella che era definita dal governo come Kampuchea Krom e gli scontri di frontiera divennero più seri, i Khmer Rossi cercarono appoggi tra le comunità khmer oltrefrontiera.

La guerra che ne scaturì vide il Vietnam scalzare il gabinetto di Pol Pot dalla capitale dando inizio ad una guerra civile che si protrasse fino alla fine degli anni Novanta.

Oggi, dopo le difficoltà e le discriminazioni verso le minoranze compiute dal governo di Hanoi, l’attenzione verso i diritti delle popolazioni minoritarie è cresciuta, grazie anche all’attenzione internazionale portata dalla presenza di diverse associazioni che lavorano nel campo dei diritti umani.

Mancano comunque ancora le garanzie necessarie per la sopravvivenza della nazione Khmer Krom: la sola lingua riconosciuta ufficialmente dal governo è quella vietnamita e i Khmer in Vietnam sono spesso esclusi da posti pubblici. La vietnamizzazione include anche il cambio dei nomi, che devono essere traslitterati in vietnamita con una distorsione fonetica che spesso rende questi nomi difficilmente comprensibili agli stessi Khmer.

Nelle scuole si parla e si insegna vietnamita e con la crescente privatizzazione, le attività produttive appartengono o sono dirette da Kinh, che preferiscono escludere i Khmer dai posti dirigenziali. La percezione dell’inadeguatezza del carattere khmer nel condurre attività di amministrazione o di comando, già presente nella cultura kinh e rafforzata durante il periodo coloniale francese, è ancora comune e allontana sempre più la comunità dei Khmer Krom dalla vita economica, sociale e politica del paese.

La Chiesa buddhista

La Chiesa buddhista khmer, nel tentativo di mantenere vive le tradizioni della comunità khmer in Vietnam, organizza corsi di lingua khmer nei templi. La Costituzione vietnamita, pur garantendo la libertà di credo, aggiunge che «nessuno può utilizzare le fedi per contravvenire la politica e le leggi dello stato»2.

Questo porta a far intervenire le autorità governative che chiudono questi centri e a volte giungono anche a imprigionare gli stessi monaci, alcuni dei quali si sono rifugiati in Cambogia per evitare l’arresto. Inoltre, data la laicità dello stato, le Chiese non sono viste come tali, ma come organizzazioni religiose che devono confluire in associazioni controllate dal governo come la Viet Nam buddhist sangha (Vbs) in cui confluiscono i 454 templi khmer theravada della nazione3. La Vbs ha, tra le altre cose, la prerogativa di scegliere gli abati dei templi.

Il Cambodian people party di Hun Sen, che nel 1978 disertò dai Khmer Rossi rifugiandosi in Vietnam, ha sempre avuto buoni rapporti con Hanoi. Meno idilliaci, invece, sono le relazioni tra il Vietnam e le opposizioni cambogiane, in particolare con Sam Rainsy, il Funcinpec e il Cnrp, i quali hanno sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo khmer in versione antivietnamita per raccogliere consensi tra l’elettorato.

Piergiorgio Pescali

Note

  1. I Kinh sono l’etnia maggioritaria del Vietnam, quelli chiamati impropriamente Viet.
  2. Costituzione del Vietnam, Capitolo 5: Diritti fondamentali e doveri di cittadini, Articolo 70.
  3. National Vietnam Buddhist Sangha, The 16th United Nations Day of Vesak Celebrations 2019.

Vista del sito archeologico di Preah Vihear (su un’area di circa cinque chilometri quadrati), oggetto di un lungo contenzioso con la Thailandia. Foto Piergiorgio Pescali.

Cambogia versus Thailandia

Le rovine contese di Preah Vihear

Le rovine di Preah Vihear, al confine settentrionale della Cambogia con la Thailandia, non sono note quanto quelle del sito di Angkor. I resti tra cui possiamo camminare oggi, risalgono principalmente al complesso templare costruito tra il 1000 e il 1150 da Suryavarman I e Suryavarman II. Dedicato inizialmente a Shiva, come lo furono anche la maggior parte dei templi di Angkor, divenne uno dei centri religiosi più importanti dell’Impero khmer.

Arrivarci oggi è abbastanza semplice, ma fino a pochi decenni fa l’accesso dalla Cambogia, entro i cui confini si trova il tempio, era molto più difficoltoso di quanto fosse da quello thailandese. Preah Vihear, infatti, si trova sull’altipiano dei monti Dângrêk e domina la pianura cambogiana da una scarpata alta 500 metri. Questa sua particolare posizione ha fatto sì che il tempio sia stato l’ultimo lembo di terra cambogiana difeso dalle truppe governative di Lon Nol conquistato dai Khmer Rossi nel 1975, ma in più occasioni ha creato anche un contenzioso con la Thailandia che ne reclama il possesso, specie dopo il 2008, quando il sito è stato inserito dall’Unesco nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità.

Bangkok rivendica la continuità geografica dello spartiacque naturale su cui poggia il tempio, mentre Phnom Penh si rivale della linea di confine tracciata dalla commissione francese nel 1907, la cui validità è stata riconosciuta nel 1962 dalla Corte internazionale di giustizia, a cui la Cambogia si era rivolta sperando di porre termine alle pretese del vicino. In totale, l’area contesa è di 4,6 chilometri quadrati, ma il problema ha assunto un carattere di propaganda nazionalista sia dall’una che dall’altra parte.

Nazionalismi e scontri

Nel 2011 le truppe dei due paesi confinanti si sono confrontate per diversi mesi in battaglie che hanno visto l’uso di artiglieria pesante e carri armati causando diversi morti e l’evacuazione di migliaia di civili.

Il conflitto da una parte ha destabilizzato l’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico fondata l’8 agosto 1967 proprio a Bangkok), a cui appartengono sia Cambogia che Thailandia, tra i cui compiti vi è quello di «promuovere la pace e la stabilità della regione»1, e dall’altra è servito a un terzo paese, l’Indonesia, per promuovere i propri interessi e uscire dal limbo di paese ai margini della politica internazionale, nonostante la sua preminenza geografica e demografica nell’associazione.

Secondo il trattato del 1904 stipulato tra la Francia (a cui la Cambogia era assoggettata come colonia) e il Siam, il confine avrebbe dovuto seguire lo spartiacque naturale, ma la commissione francese, incaricata nel 1907 di tracciare la frontiera, assegnò il tempio di Preah Vihear alla Cambogia.

La zona era allora disabitata, difficilmente raggiungibile e ritenuta poco importante dal Siam che non prestò attenzione al tracciato. Inoltre, mentre il confine dal mare fu marcato da 73 paletti per 600 chilometri, la frontiera lungo la zona di Preah Vihear venne disegnata solo sulle carte, visto che la commissione congiunta franco siamese non si addentrò sino al tempio.

Le prime discordie iniziarono nel 1954, quando le truppe thailandesi occuparono il sito fino al 1962, allorché la Corte internazionale di giustizia assegnò Preah Vihear a Phnom Penh, accettando la linea di confine tracciata dal trattato franco siamese del 19072.

Nei decenni che seguirono ci furono scaramucce e diverbi politici, ma fu principalmente dal 2006 che Preah Vihear divenne un motivo di scontro politico in Thailandia e, di riflesso, con la Cambogia. Il 3 ottobre 2008 iniziarono i primi scontri che si protrassero, tra momenti di pace e distensione, per i successivi tre anni. Hun Sen ne uscì decisamente rafforzato, sia perché sotto il suo governo la Cambogia aveva ottenuto un altro patrimonio Unesco, sia perché veniva visto come garante dell’integrità territoriale del paese3.

In Thailandia, invece, il caos politico in cui era precipitato il paese venne esasperato anche con la propaganda ultranazionalista delle camicie gialle del Pad (People’s alliance for democracy) contro il principale partito avversario guidato dalla famiglia Shinawara, che aveva legami politici ed economici con Hun Sen4.

Situazione in sospeso

Nel gennaio 2011 la Thailandia iniziò la costruzione di una strada carrozzabile sul territorio conteso e gli scontri furono inevitabili. Nonostante la contrarietà dell’Asean, la Cambogia portò la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu che diede all’Indonesia il compito di mediare tra i due contendenti. A causa dell’opposizione della Thailandia, la missione indonesiana non venne mai alla luce e, anzi, gli scontri aumentarono d’intensità. Solo dopo le elezioni thailandesi del 3 luglio 2011, che videro la vittoria di Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, le relazioni tra i due paesi si fecero meno rigide. La questione di Preah Vihear è oggi di nuovo messa a tacere, ma rimane comunque pronta ad esplodere appena se ne presenterà l’occasione.

P.Pes.

Note

  1. The Asean Declaration (Bangkok Declaration), Bangkok, 8 Agustus (sic) 1967, Articolo 2, paragrafo 2.
  2. Case concerning the Temple of Preah Vihear (Cambodia v. Thailand), ICJ Reports , 15 giugno 1962.
  3. Survey of Cambodian Public Opinion, International Republican Institute, 22 ottobre-25 novembre 2008, 31 luglio-26 agosto 2009.
  4. Thaksin Shinawara, il principale esponente della famiglia, fu per un certo periodo consigliere speciale del governo di Hun Sen e la Cambogia rifiutò la sua estradizione in Thailandia.

Coltivazione del riso in cambogia. Foto Piergiorgio Pescali.


Hanno firmato questo dossier:

Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sud Est asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È autore dei libri: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, Nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015), La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019), Capire Fukushima (Lekton, 2021), Cappuccino bollente senza schiuma (Porto Seguro, 2021), Il pericolo nucleare in Ucraina (Mimesis, giugno 2022). Da anni è un assiduo collaboratore di MC.

Dossier a cura di Paolo Moiola.




La Cina è grande, ma non ha spazio per noi

testo di Luca Lorusso |


Un uomo di 37 anni, una donna di 30. Entrambi cinesi e fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente, nuovo movimento religioso perseguitato in Cina. Sono richiedenti asilo in Italia con il rischio concreto di essere espulsi.

Un dialogo con due perseguitati

«A giugno del 2003, mentre andavo a un incontro di preghiera, la polizia mi ha fermato per un controllo. Nel mio borsello hanno trovato il libro sacro della Chiesa di Dio Onnipotente, e me l’hanno portato via. Arrivati al posto di polizia mi hanno fatto un interrogatorio per avere informazioni sui miei fratelli [di fede, nda], ma io non ho dato nessuna informazione, così mi hanno tirato uno schiaffo, mi hanno preso a calci e pugni e poi mi hanno portato in un posto segreto».

L’uomo che ci parla via Skype dalla sede dell’associazione della Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) di Milano, dice di chiamarsi Marco (nome di fantasia), richiedente asilo per motivi religiosi di 37 anni, proveniente dalla Cina. Capisce poco l’italiano e lo parla ancora meno. Si fa aiutare da una giovane «interprete», sorella della sua stessa fede, seduta alla sua sinistra, con qualche difficoltà in meno nella lingua.

foto in CC da evanse1_flickr – https://www.flickr.com/photos/145837323@N08/39243506842/

Fedeli a Dio Onnipotente

Marco indossa una t-shirt a righe orizzontali bianche e grigie. È un po’ spettinato. Il suo volto sembra sereno, nonostante quello che ci racconta. Appare come un uomo molto semplice. Accanto a lui, alla sua destra, c’è Vivian (altro nome di fantasia), donna di trent’anni dal viso tondo e un po’ dolente. Indossa una camicetta color panna, con motivi floreali. Anche lei si fa aiutare nelle traduzioni da un’altra giovane cinese dall’italiano incerto, Sabrina.

Marco e Vivian sono fuggiti entrambi nel 2015 dalla Cina a causa della persecuzione.

Tutti e quattro sono membri della Cdo, un movimento religioso nato in Cina nel 1991, e dal 1995 perseguitato con crescente violenza dal regime del Partito comunista cinese (Pcc).

Attualmente i seguaci di questo nuovo movimento sono circa 4 milioni, soprattutto in Cina. Secondo un rapporto pubblicato dalla stessa Cdo, «tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente».

Reclusione arbitraria

Marco prosegue il suo racconto: «Arrivati in quel posto segreto, la polizia voleva informazioni sulla chiesa. Mi ha ordinato di divaricare le braccia e le gambe, anche se mi mancavano le forze per sostenermi. Il poliziotto mi ha schiaffeggiato diverse volte, poi mi ha picchiato sulla testa usando un libro. Mi ha colpito il viso. Mi ha proibito di andare in bagno. Mi ha coperto di insulti. Senza nessun tipo di processo legale, il governo mi ha condannato a un anno di lavori forzati con l’accusa di avere violato l’articolo 300 del codice penale [quello che definisce reato l’appartenenza a una delle xie jiao, le “sette malvagie” considerate associazioni sovversive, tra le quali figura anche la Cdo, nda].

Nella prigione, i poliziotti hanno istigato gli altri detenuti a tormentarmi. Sono stato costretto a spogliarmi completamente e a mettermi a gambe e braccia divaricate, poi mi hanno quasi soffocato puntandomi un getto d’acqua sul viso.

In prigione, i credenti sono considerati criminali politici, e quindi i secondini e i prigionieri m’insultavano e maltrattavano.

Quella in cui ero recluso, era una struttura di rieducazione. Si viveva una vita inumana: in 50 metri quadrati stavamo in più di 70 persone. Le condizioni igieniche erano pessime. Ogni giorno dovevo fare 14 ore di lavori forzati in una fabbrica di pelletteria per scarpe. Solo la Parola di Dio Onnipotente mi ha dato fede e forza per sopportare quella vita in prigione».

Una vita latitante

Marco è stato informato del motivo della sua condanna, ma non ha mai visto un avvocato, né un giudice: «In Cina, i comunisti non rispettano la legge. Se una persona crede in Dio, non ha diritto di difendere i suoi diritti. Non ho potuto difendermi in nessun modo».

La prima volta che Marco ha potuto rivedere i suoi famigliari è stata tre mesi dopo l’arresto. Le visite erano concesse una sola volta al mese. Gli incontri avvenivano attraverso un vetro, e Marco poteva parlare con i suoi famigliari tramite un telefono.

«Dopo aver lasciato la prigione, io, mia sorella e i miei genitori siamo stati costretti ad andare a vivere in un’altra provincia per continuare la nostra vita. Io poi non avevo la carta d’identità, nessun documento. Non potevo lavorare né affittare un appartamento in modo regolare. Però vivevo la mia vita e la mia fede.

In Cina, i documenti dei credenti che sono stati arrestati sono bloccati. Sono registrati dalla polizia su internet, quindi io non potevo usarli per fare altre cose.

Dal 2004 al 2012 sono stato senza documenti, poi, nel 2012, con l’aiuto di un amico che aveva le conoscenze giuste, sono riuscito a fare il passaporto. Nel 2015 un fratello di fede che viveva con me, è stato arrestato. Di conseguenza anche io ero in pericolo. Allora ho deciso di scappare». Il 2015 è stato l’anno dell’Expo di Milano e del giubileo straordinario. In quell’anno era semplice ottenere un visto per l’Italia. «Con l’aiuto dell’amico che mi aveva procurato il passaporto, ho ottenuto un visto e sono partito per fare richiesta di protezione internazionale in Italia».

Paura di tornare

La questione del passaporto è spesso uno dei punti critici per l’ottenimento dello status di rifugiato in Italia. Le commissioni territoriali, e poi i tribunali dei ricorsi, si domandano come sia possibile per una persona «schedata» ottenere un regolare passaporto dalle stesse istituzioni che perseguitano. È opinione comune di chi si occupa di questa tipologia di richiedenti asilo, però, che l’alto livello di corruzione in Cina possa aprire maglie abbastanza grandi nella fitta rete dei controlli.

Oggi Marco è in attesa della sentenza della cassazione sulla sua richiesta di asilo, dopo il diniego in prima istanza e la perdita del ricorso in appello. Grazie al permesso di soggiorno temporaneo, lavora come rider per un ristorante, consegnando cibo a domicilio, e ciò che guadagna lo usa anche per pagare l’avvocato. Marco ci racconta che finalmente in Italia può vivere liberamente la sua fede, ma che comunque continua ad avere paura: ad esempio per i genitori e la sorella, anch’essi credenti in Dio Onnipotente, rimasti in Cina e mai più sentiti dal momento della sua partenza per evitare di essere intercettato dal governo che controlla telefono e internet, e quindi creare problemi ai suoi. La sua paura più grande, poi, è quella (concreta) di essere espulso e di dover tornare in Cina, dove è certo che verrebbe nuovamente arrestato.

foto in CC da guandoandelei_flickr – Una cristiana indonesiana femminile espresse i suoi sentimenti dopo aver creduto in Dio Onnipotente – https://www.flickr.com/photos/160458804@N06/32309036097/in/photostream/

La storia di Vivian

Mentre Marco parla, alla sua destra intravvediamo Vivian, inquadrata a metà dalla webcam, che annuisce a tutte le parole di Marco. Quando ci rivolgiamo a lei, Vivian sposta la telecamera su di sé e inizia il racconto: «L’11 dicembre 2011 stavo andando a un incontro di predicazione del Vangelo con alcune sorelle che lavoravano nella stessa azienda, ma siamo state arrestate. La polizia non ha mostrato nessun documento, però ci ha costrette a salire su un’auto e ci ha portate in una caserma. Lì, ci minacciavano dicendoci che in Cina non possiamo credere in Dio, ma solo nel Pcc. Poi ci hanno portate in un posto dove non ci hanno dato da mangiare e bere. Quella sera il direttore dell’azienda è venuto in caserma per salvarci. I poliziotti ci hanno minacciate dicendoci che se avessimo continuato a credere in Dio, saremmo state arrestate di nuovo e condannate. Al direttore della compagnia, invece, hanno detto che doveva convincerci a rinunciare alla nostra fede».

Quando Vivian è tornata nell’azienda, i colleghi non le parlavano e lasciavano in vista giornali con informazioni negative sulla Chiesa di Dio Onnipotente: «Il governo cinese ha fabbricato false notizie sulla Cdo, e le divulga».

Dato che la situazione era sempre più pesante, a un certo punto la donna ha deciso di rinunciare al lavoro e di trasferirsi in un’altra città.

Pregare nascosti

«In Cina non possiamo vivere la nostra fede apertamente. Normalmente per pregare ci troviamo in tre o quattro persone a casa di un fratello. Quando si entra, si controlla che non ci sia nessuno che ha visto, poi si chiudono porte e finestre per non far sentire le voci, e lasciamo qualcuno fuori a fare il palo. Tra fratelli non usiamo internet e telefono, scriviamo lettere da portare a mano.

Nel giugno 2013 il governo ha arrestato il capo locale della Cdo e alcuni fedeli della regione nella quale mi ero trasferita, e sono stati condannati. Quel capo aveva informazioni su di me, quindi mi sentivo in pericolo. Allora mi sono di nuovo trasferita in un’altra provincia, e mi sono nascosta in una casa. Sono stata nascosta 14 mesi. Mi mancavano i miei genitori, ma non osavo fare una chiamata. Non osavo fare niente».

Vivian è diventata credente della Cdo nel 2012. I suoi genitori, invece, lo erano già dal 1998. Quando parla di loro, ha la voce rotta dalla commozione, e si asciuga le lacrime: «Non li ho mai più sentiti. Anche mia mamma nel gennaio 2013 è stata arrestata. Da quando è stata rilasciata non ho avuto più contatti. In quel periodo avevo molta paura: il governo continuava ad arrestare membri della chiesa che sapevano dove vivevo, quindi ogni volta dovevo cambiare casa. In questa situazione ho deciso di andare all’estero. Anche se la Cina è grande, per i credenti non c’è un posto per vivere.

Nel 2015 grazie a un amico che lavorava nella polizia e che poi è stato condannato, sono riuscita ad avere il visto per l’Italia e sono partita».

Richiesta di asilo

Vivian, quando viveva in Cina era designer per un’azienda di scarpe. Ora, in Italia, lavora nei fine settimana in un ristorante. Ci tiene a dire che usa molto del suo tempo libero per fare volontariato: «A Roma, a Torino e a Milano, i fedeli della Cdo organizzano attività religiose, oppure iniziative per promuovere i diritti umani o i diritti della donna. Gli Italiani sono sempre molto gentili e ci aiutano. Quando ho tempo, vado volentieri a fare volontariato per aiutarli».

Anche la sua domanda per il riconoscimento dello status di rifugiata è stata respinta. A differenza di Marco, che è già all’ultimo passaggio, lei è in attesa della sentenza di secondo grado. «Sto facendo il ricorso al tribunale dopo il rifiuto della mia richiesta», ci dice, poi il suo volto si scurisce: «Quando ho fatto il colloquio con la commissione, non mi lasciavano raccontare la mia storia. M’interrompevano. Mi facevano domande sui miei genitori. Non ho potuto raccontare la mia storia completa».

Marco interviene per dirci che anche a lui è successa la stessa cosa: «A causa della pressione del Pcc sui paesi stranieri, e delle notizie false prodotte dal governo cinese, è difficile per i rifugiati cristiani ottenere l’asilo. Io ho sperimentato la persecuzione del Pcc, ma la commissione territoriale alla quale mi sono rivolto non l’ha riconosciuta e non ha accettato la mia domanda. In commissione, è successo anche a me che mentre raccontavo sono stato interrotto».

Rischio espulsione

«In Italia la situazione per la fede religiosa è migliore che in Cina», dice Marco. «Qui posso parlare della mia fede. Come ha detto Vivian, in Cina non posso raccontare quello in cui credo, non posso predicare il Vangelo, perché il Pcc incoraggia a denunciare i credenti. La situazione è molto pericolosa.

La mia richiesta di asilo in Italia è stata rifiutata due volte. Se anche la cassazione dovesse rifiutarla, la mia situazione sarebbe grave. So di altri che sono stati rimandati in Cina, anche da altri paesi, e sono stati arrestati di nuovo e condannati a tre anni e anche di più. Ho sognato diverse volte la scena di essere di nuovo arrestato. La mia speranza è che il giudice accetti la mia richiesta per rimanere in Italia e poter continuare a vivere la mia fede».

«In Italia sono più tranquilla», conclude Vivian, «ma sono comunque ancora preoccupata, perché qui la libertà religiosa è garantita, ma la mia richiesta di asilo è stata rifiutata. Se anche il ricorso che ho fatto venisse rifiutato, sarebbe molto brutto. Ho molta paura di essere rimpatriata in Cina».

Luca Lorusso

Archivio MC sui richiedenti asilo cinesi in Italia:
Luca Lorusso, Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione, in MC agosto 2019.


La Chiesa di Dio Onnipotente

La Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) è un nuovo movimento religioso cinese, fondato nel 1991 da Yang Xiangbin, donna nella quale, secondo la fede dei suoi credenti, si è incarnato Dio Onnipotente.

Nata nel 1973 nella Cina Nord Occidentale, dal 2001 Yang Xiangbin è rifugiata politica negli Usa insieme al numero due della Cdo Zhao Weishan.

La Cdo è nota anche come Folgore da Oriente o Lampo da Levante, definizione che viene dal Vangelo di Matteo (24,27) che profetizza la seconda venuta di Cristo: «Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’Uomo». Il dato dottrinale di fondo, infatti, è la nuova incarnazione di Cristo in Cina per inaugurare la terza Età dell’umanità.

Alcuni studiosi definiscono questo credo come «cristiano», con una teologia che differisce dalle chiese tradizionali per diversi aspetti, ma che per altri sembra radicata nel filone del protestantesimo. Yang Xiangbin, infatti, prima di rivelarsi come Dio Onnipotente, era membro degli Shouters, una delle molte chiese domestiche diffuse (e perseguitate) in Cina e nate da rami fondamentalisti delle chiese riformate.

La donna, nel febbraio 1991, durante alcune riunioni degli Shouters, ha cominciato a parlare della realizzazione del Regno di Dio Onnipotente. Le sue parole, da subito, sono state considerate da molti come ispirate dallo Spirito Santo e paragonate per autorità e potenza a quelle di Gesù Cristo.

La diffusione delle parole di Dio Onnipotente ha subito poi un’accelerata grazie a Zhao Weishan, nato nel 1951, leader di un ramo degli Shouters, «convertito» alla nuova rivelazione e divenuto, di fatto, la guida principale della Cdo, dopo Yang Xiangbin.

La Cdo è stata inserita dal governo cinese nella lista degli xie jiao, i «culti malvagi», già nel 1995. In seguito alla persecuzione, nel 2000, i due leader Yang e Zhao, hanno raggiunto gli Usa, dove nel 2001 hanno ottenuto asilo politico.

Nonostante la rigidità della dottrina, le «purghe» interne che pare abbiano portato nei decenni ad alcune centinaia di migliaia di espulsioni, e nonostante le persecuzioni del Pcc, la Cdo ha continuato a crescere fino a raggiungere la cifra stimata di 4 milioni di fedeli.

Dal 2014, la persecuzione si è inasprita, tanto da spingere molti a fuggire e a fondare comunità in tutto il mondo.

Teologia

Il testo sacro fondamentale della Cdo è La Parola appare nella carne, pubblicato nel 1997. Contiene una raccolta di affermazioni di Yang Xiangbin, cioè Dio Onnipotente, il Signore Gesù ritornato per inaugurare la terza età dell’umanità, l’Età del Regno. Le prime due sono state l’età della Legge, cioè l’epoca dell’Antico Testamento, e l’età della Grazia, iniziata con la vita pubblica di Gesù. La Bibbia cristiana non viene rinnegata, ma riconosciuta come scrittura «imperfetta» delle due età della Legge e della Grazia.

Se con Gesù i peccati degli uomini sono stati perdonati, però la loro natura depravata non è stata cancellata.

Nell’Età del Regno, Dio si fa carne in Cina per compiere in modo definitivo la sua opera e rendere perfetto un gruppo di persone. Non vi sarà un’altra incarnazione di Dio dopo quella attuale in Dio Onnipotente.

Negli ultimi giorni, quando un gruppo di credenti sarà reso perfetto, i giusti saranno riconosciuti e i malfattori additati, Dio Onnipotente distruggerà la natura peccaminosa degli uomini, ed entrerà nel riposo eterno insieme ai perfetti.

L’età del Regno è l’ultimo periodo di purificazione, al termine del quale ci sarà il Regno Millenario: quando Dio Onnipotente tornerà al Cielo, seguiranno le catastrofi annunciate nell’Apocalisse. Ma la Terra non sarà distrutta, bensì trasformata per essere la dimora eterna dei seguaci purificati di Dio che vivranno per sempre nel Regno di pace e bellezza.

Cdo e comunisti

La teologia della Cdo identifica il Partito comunista cinese con il «grande drago rosso» dell’Apocalisse. Il Pcc, infatti, oppone resistenza a Dio perseguitando i fedeli proprio come la figura menzionata nell’ultimo libro della Bibbia. Detto questo, però, la Cdo è anche convinta che il drago cadrà da solo sotto il peso dei propri errori, quindi non è necessario ribellarsi, e anzi vieta ai fedeli di prendere parte a qualsiasi attività politica. Il fatto quindi che il governo cinese tema un’attività eversiva di questo movimento religioso, non ha un fondamento concreto.

Le persecuzioni

A inizio 2020 la Chiesa di Dio Onnipotente ha pubblicato un rapporto sulle persecuzioni subite in Cina dai suoi fedeli. In esso si legge: «Tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente, ed è ampiamente documentato che i credenti morti in seguito alle persecuzioni dalla fondazione della Chiesa sono 146».

Secondo il rapporto, nel solo 2019 almeno 32.815 fedeli della Cdo hanno subito qualche forma di persecuzione, 6.132 sono stati arrestati, 4.161 dei quali detenuti per brevi o lunghi periodi e 3.824 hanno subito torture e indottrinamento forzato. Sono stati condannati 1.355 membri, 481 dei quali a pene di 3 anni o più, 64 a pene di 7 anni o più e 12 a pene di 10 anni o più. Tra gli arrestati, il rapporto c’informa che il più giovane aveva 14 anni, il più vecchio 86. «Nel 2019 almeno 19 cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente sono morti a causa della folle caccia all’uomo[…]. Alcuni per le torture subite durante la detenzione; altri hanno contratto malattie gravi ma sono rimasti ugualmente reclusi e alla fine hanno perso la vita per il peggioramento delle loro condizioni dopo essere stati assoggettati a prolungati maltrattamenti e lavori forzati […]».

Il sito d’informazione Bitter Winter riferisce che «a tutto giugno 2019, 2.322 fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente hanno chiesto asilo nei paesi dell’Unione europea. Sebbene alcune recenti decisioni giudiziarie siano incoraggianti, finora l’asilo è stato concesso solo a 265 di loro, ovvero l’11,4%. […] Nell’Ue, 307 rifugiati hanno ricevuto ordini di rimpatrio e rischiano ogni giorno di essere rimandati in Cina, 227 di loro si trovano in Francia. Alcuni sono stati effettivamente espulsi. Studiosi e Ong hanno documentato che quando coloro che vengono espulsi giungono in Cina, normalmente vengono arrestati o “scompaiono”».


Due libri per conoscere: