Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo


La sola vera religione

Re.mo padre direttore,
desidero da lei un consiglio spirituale. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata e leggo con piacere sulle sue riviste le notizie delle grandi religioni del mondo trasmesse dai Missionari della Consolata nelle diverse parti del mondo.

Le chiedo con precisione e in breve come possiamo noi cristiani confermare che la religione cristiana è l’unica e sola religione [dove] si adora e crediamo in un unico solo Dio e non come le altre religioni che adorano altri dei. Qual è la differenza? A quale religione dobbiamo credere?

In attesa di una sua cortese risposta, ringrazio vivamente e invio cordiali saluti di pace e bene.

Giuseppe, 11/02/2024

Caro signor Giuseppe,
grazie della lettera che ha scritto (a mano). Perdoni se l’ho tagliata un po’  per evidenziare la questione centrale: il cristianesimo è l’unica vera religione?

Credo dobbiamo partire da un principio fondamentale del nostro credo: tutti gli esseri umani sono creati da Dio a sua immagine e somiglianza, che essi lo sappiano o no. La conseguenza è che ogni uomo ha, consciamente o inconsciamente, nostalgia della sua origine. Quindi tutti gli uomini, di tutte le culture e di tutti i tempi, hanno trovato una loro via (legittima e doverosa) per arrivare a Dio e, soprattutto, per rispondere alle domande più profonde che ciascuno porta in sé: il senso della vita, le ragioni del dolore, il futuro dell’universo, le relazioni con gli altri, il perché della morte e tante altre.

Le religioni sono la risposta concreta a questo bisogno interiore degli uomini che hanno cercato a tentoni di dare un volto a un Dio (l’unico Dio di tutti) che non conoscono, spesso facendosi degli dèi a loro immagine e somiglianza. C’è chi ha fatto questo con malizia, usando Dio per dominare gli altri, c’è chi l’ha fatto con fede sincera per dare un volto a quella nostalgia profonda di Dio che sentivano.

Di questa ricerca è stato partecipe anche il popolo di Dio, Israele. La storia di Abramo è emblematica in proposito. Israele lo ha cercato sì, ed è uscito dall’idolatria solo grazie all’autorivelazione di Dio attraverso la parola dei profeti. Ma quanta fatica ha fatto per rimanere fedele e non ricadere nelle forme religiose dei popoli vicini e dominanti. Dio si è, però, rivelato a Israele non per fare di lui un popolo privilegiato e separato dagli altri, ma per realizzare una duplice missione: quella di far conoscere il vero volto di Dio a tutti gli uomini e diventare un «popolo di sacerdoti» che intercede e loda a nome di ogni creatura nel mondo.

Tutti i popoli del mondo sono coscienti che Dio è il creatore del mondo, ma spesso lo ritengono troppo alto e irraggiungibile per quelle povere e cattive persone che possono essere gli uomini; quindi, hanno preferito rivolgersi a intermediari più vicini e simili a noi, come gli spiriti o altri dei.

In questo contesto, perché diciamo che la religione cristiana è l’unica vera, anzi, meglio, che è l’unica che ci fa conoscere e amare il vero Dio?

Perché questa verità ci è stata trasmessa da Dio stesso attraverso Gesù Cristo, suo figlio, che si è incarnato, ha vissuto in mezzo a noi, ci ha comunicato la sua parola di Verità e per questo è stato ucciso e poi è risorto. Di questo sono diventati testimoni i suoi discepoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo.

Gesù, nella sua persona, ha portato a compimento le promesse e le profezie fatte da Dio ad Abramo e ai suoi discendenti, Mosè compreso. Gesù è la testimonianza viva che Dio è uno solo e non esistono altri dei. Solo attraverso Gesù noi possiamo vedere il vero volto di Dio. «Chi vede me, vede il Padre», ha detto.

Tutto bello, mi può dire, ma sono passati duemila anni da quando Gesù è venuto. Come possiamo dimostrare oggi che il Cristianesimo è l’unica vera religione?

Ecco, probabilmente l’unico modo per provarlo davvero è mettere in pratica i principi fondanti di questa religione: vivere cioè secondo l’esempio di Gesù, amando Dio e il prossimo come lui ha fatto. Una vita da santi, cioè da persone che davvero vivono sullo stile di Gesù la loro umanità come immagine di Dio è la prova migliore della verità di Gesù e della religione da lui trasmessa. Forse la prova più bella della verità della fede cristiana sono i martiri, anche e soprattutto quelli di oggi: persone che rispondono alla violenza con il perdono, all’odio con l’amore, all’avidità con la gratuità del dono, alla logica di morte con scelte di vita.

Si possono fare tutte le discussioni possibili sulle varie religioni, ognuna delle quali porta in sé un germe della verità di Dio, ma non c’è prova migliore di una vita d’amore per garantire che il Cristianesimo è la vera religione e che Gesù non è morto e risorto invano.


Beato Allamano, grazie

Vorrei condividere con voi una cosa bella successa proprio oggi, 16 febbraio 2024, festa del beato Giuseppe Allamano.

Il 13 novembre del 2022 hanno diagnosticato un tumore ad un ragazzo che conosco: Simone (nome di fantasia), 30 anni. Era un tumore molto brutto con due metastasi, una sulla spalla e l’altra sulla schiena, e inoperabile in quanto molto grande e troppo vicino alla colonna vertebrale. Pochi giorni dopo è stato operato con urgenza per asportare la metastasi sulla spalla. L’operazione è riuscita bene, ma l’istologico ha confermato la gravità della massa non operabile.

I medici purtroppo non hanno dato molte speranze perché sostenevano che, trattandosi di un ragazzo così giovane, il tumore sarebbe stato galoppante. Decisero comunque di iniziare la chemioterapia. All’inizio di gennaio 2023 era comparsa un’altra metastasi sulla spalla. Altra operazione d’urgenza con poche speranze di miglioramento. La situazione era sempre più critica. Sembrava non reagire alle cure.

La settimana successiva abbiamo accompagnato padre Francesco Peyron a Torino (da Fossano) per il terzo sabato del mese. Prima della messa ci ha accompagnati nella cappella del beato Allamano. Prima di entrare aveva detto: «Quando si visita per la prima volta una chiesa con la tomba di un santo o di un beato si può chiedere una grazia».

Abbiamo sostato un po’ sulla tomba dell’Allamano. Ho pensato a Simone. Non ho chiesto niente, ho soltanto detto: «Stai con lui e la sua famiglia». Poi qualche settimana dopo, a febbraio dell’anno scorso, il primo giorno del triduo dell’Allamano nella casa dei missionari a Fossano, all’inizio della messa, padre Francesco ha detto: «Il triduo è un momento di grazia. Ora faremo un momento di silenzio nel quale ognuno di voi può presentare al Signore, con l’intercessione del beato Allamano quello che sente più vero nel cuore». Io ho di nuovo pensato a Simone. Non ho chiesto nulla. Ho solo detto: «L’affido a Te, Tu hai guarito l’Allamano». E ho detto un’Ave Maria.

Nel frattempo Simone proseguiva con la chemioterapia, senza miglioramenti ma neanche peggioramenti. Il 5 aprile (mercoledì santo) i medici gli hanno comunicato che avrebbero sospeso la chemioterapia due settimane prima del previsto perché inaspettatamente i valori si erano normalizzati. Gli esami successivi hanno confermato che i valori erano rientrati. I medici erano stupiti e sorpresi. Non riuscivano a spiegare l’accaduto. L’11 maggio (mese di Maria), dopo ulteriori accertamenti, Simone, ha ricevuto una telefonata dall’oncologo che lo seguiva. Gli ha detto: «Simone, sei seduto?». E lui ha subito pensato al peggio. Ha proseguito dicendo: «Inspiegabilmente sei guarito, gli esami sono perfetti, i linfonodi quasi completamente rientrati». Gli ha detto che non aveva mai visto una reazione del genere, assolutamente inaspettata.

Il linfonodo nella schiena c’è ancora, ma non risulta più pericoloso. Altra cosa che i medici non sono riusciti a spiegare: dal mese di giugno 2023 si è sottoposto periodicamente ad esami e controlli, risultati tutti ok. A fine di gennaio di quest’anno aveva i primi esami di controllo generale: tutti ok.

Lode a Dio e a Maria e un grazie immenso e specialissimo al beato Allamano.

Ultima cosa che vorrei ancora raccontarvi per lodare e ringraziare è questa. Durante i mesi della terapia, nonostante fosse debole e sofferente, spesso diceva: «Sto male, ma mi sento sereno». In quei mesi abbiamo pregato tanto, l’ho portato ogni giorno nella messa. L’Allamano è proprio stato con lui. «Il bene va fatto bene» e lui è stato di parola. Gesù con Maria sono andati oltre, sorprendendo come sempre. Che bello.

Nadia Luciano,
Villanovetta, Cn, 16/02/2024


Nelle steppe di Gengis Khan

Alla fine del 2023 è uscito in libreria, pubblicata dalla Effatà editrice, il corposo libro (oltre 270 pagine) intitolato «Nelle steppe di Gengis Khan» di Pier Giuseppe Accornero, un sacerdote giornalista di Torino che si occupa di informazione sociale ed ecclesiale.

Più che un semplice libro, quello di Accornero è quasi un’enciclopedia dedicata alla vita missionaria della Chiesa piemontese. Partendo dal cardinal Giorgio Marengo, e quindi anche dal beato Giuseppe Allamano che ha fondato i Missionari della Consolata di cui il cardinale è parte, l’autore ci conduce per mano a scoprire la vitalità missionaria della regione fin dai tempi del Regno di Sardegna. Pagine piene di informazioni e curiosità di estremo interesse e poco conosciute.

Ma lascio la parola a padre Stefano Camerlengo che ne ha scritto la prefazione.

«Il libro di Pier Giuseppe Accornero si prefigge di offrire ai lettori lo spaccato di una realtà, per certi versi, ignota al grande pubblico. Nei primi capitoli illustra come nell’immensa distesa della Mongolia, un figlio della terra pedemontana guida con mano sicura e con grande apertura di cuore e di intelligenza il suo «pusillus grex, piccolo gregge» di cristiani e riesca a intessere relazioni fraterne e fruttuose con uomini e donne di altre fedi religiose. Un seme che sta spuntando e che annuncia un futuro promettente. La fecondità del Piemonte per la sua poliedrica personalità merita attenzione e diffusione. Un attore giovane ha raggiunto quella terra e vive ora nella lontana Mongolia.

Questa terra dalle dimensioni enormi merita attenzione anche perché ha attirato l’amore apostolico di papa Francesco. […]

Dal capitolo terzo l’autore continua la sua opera con mano decisa e con un linguaggio svelto e leggero a presentare i grandi protagonisti, principalmente subalpini, che hanno segnato le tappe più importanti della diffusione del Vangelo, sotto il patronato di grandi papi che si sono succeduti nella Sede apostolica […].

In questa sezione del libro, l’autore presenta in sequenza un grandissimo numero di grandi missionari, tutti, eccetto qualcuno, figli e figlie della terra pedemontana. La loro azione missionaria abbraccia l’intero globo terraqueo. Si va dalle numerose nazioni latinoamericane alle molte nazioni africane e ad alcune regioni dell’Asia. Il loro idioma piemontese si riverbera su molte latitudini e longitudini del globo e semina nel cuore dei popoli il seme della Parola eterna del Padre, la quale darà frutto a suo tempo perché irrorata anche dal sangue di molti che hanno pagato la loro testimonianza a Cristo risorto con la loro vita. Tertulliano ha detto: “Il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani”. Il Piemonte ha dato anche questo meraviglioso contributo alla propagazione del Vangelo.

Ci permettiamo di raccomandare questo libro a tutti coloro che amano essere edotti del cammino, anche se faticoso, della Chiesa di Cristo. Tra le pagine di questo libro, che raccoglie la testimonianza di gente generosa infiammata dall’amore del Vangelo, si respira un’aura di fede e uno sviscerato amore per la Parola del Vangelo. A un lettore attento germoglierà nel cuore, oltre che l’ammirazione di tanta fedeltà al Vangelo anche una timida preghiera per coloro che consumano ogni giorno la loro esistenza nei diversi angoli della terra».

padre Stefano Camerlengo
superiore generale emerito

Si può ordinare il libro direttamente su https://editrice.effata.it


Settimana biblica a Caserta

Egregio Direttore,
anche quest’anno la diocesi di Caserta organizza la Settimana biblica, giunta alla XXVII edizione, con il patrocinio dell’Associazione biblica italiana, in collaborazione con l’Istituto superiore di Scienze religiose interdiocesano «SS. Apostoli Pietro e Paolo» e con la segreteria del Centro apostolato biblico diocesano.

La Settimana biblica si terrà a Caserta da lunedì 1° luglio 2024 e fino a venerdì 5 luglio 2024.

Tema della XXVII edizione sarà «La comunità e i discepoli nel Vangelo secondo Matteo», con i biblisti Giulio Michelini e Francesco Filannino.

Questa esperienza di conoscenza del testo biblico ci pone davanti il cammino sinodale della Chiesa aperta all’ascolto della Parola di Dio per discernere secondo lo spirito del Vangelo, il cammino da seguire tutti insieme. Tutto il popolo di Dio è convocato in assemblea per ascoltare ciò che lo Spirito dice alla Chiesa.

Sul sito del Centro apostolato biblico trovate tutte le notizie utili per iscriversi e partecipare alla Settimana biblica di Caserta.

Cordiali saluti

don Valentino Picazio,
Caserta, 25/02/2024

Per partecipare alla settimana biblica vai al sito
www.centroapostolatobiblicocaserta.it
email: centroapostolatobiblicogmail.com




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

 


Dall’umiliazione alla dignità

Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.

È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.

Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.

La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.

Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.

«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.

Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.

Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.

Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.

Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.

Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.

Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.

Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).

Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.

Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.

José Auletta
missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024

PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria

La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.

Non è possibile. Non K’Okal.

Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.

«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez.  I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.

Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.

Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.

«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.

Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».

Marco Bello
Torino, 19/01/2024

Una risata indimenticabile

Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).

Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.

Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.

Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.

Paolo Moiola
Torino, 19/01/2024


ICE, Iniziative dei Cittadini Europei

Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.

Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.

A questo proposito mi riferisco  al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?

La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).

L’altra è «Dignity in Europe, per garantire un’accoglienza dignitosa dei migranti in Europa».

L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.

Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.

Penso che anche questi strumenti  possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.

Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.

Giovanna Golzio
02/01/2024

 

Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.

Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).


Dossier sul Canada

Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.

Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.

Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada

Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.

Ghislaine Crête,  03/01/2024, Montreal, Canada




Lettori e Missionari in dialogo


Parlami nel silenzio

Padre Giampietro Casiraghi (© AfMC/Gigi Anataloni)

Abituato a parlarti
con troppe parole,
mi rivolgo a Te, Signore,
nel silenzio.
Parole belle e gradevoli,
ma astratte e lontane,
ripetute all’infinito.

Nel frastuono che mi circonda
non sento più la Tua voce.
Parlami, o Signore, nel silenzio.

Ho bisogno del tuo silenzio
che mi penetri dentro
nell’intimità del cuore,
che mi avvolga e mi parli
per ridare slancio
alla mia preghiera.

Ho bisogno del tuo silenzio.
Che possa ascoltarlo a lungo!
Mentre mi immergo
nel mistero del Tuo amore,
parlami nel silenzio.

Che possa sempre ascoltare
la Tua voce, Signore.

Giampietro Casiraghi

Questa preghiera era nella stanza di padre Giampietro Casiraghi, missionario della Consolata che il Signore ha chiamato a sé il 16 novembre scorso. Una preghiera particolarmente intensa per uno come lui che era un maestro della parola.

Nato il 23 aprile 1936 a Osnago, allora provincia di Como, a vent’anni emette i primi voti come missionario della Consolata ed è ordinato sacerdote il 7 aprile 1962. Brillante e preparato, è mandato prima come professore nel seminario minore di Bevera (Como, ora Lecco) fino al 1964, e poi è trasferito a Rivoli (Torino) nella redazione di questa rivista e di altre due che erano pubblicate allora: «La vedetta» (per ragazzi) e «Selezione missionaria». Il suo compito è pubblicare quest’ultima, che vuole essere la versione missionaria di Selezione del Reader’s Digest per far conoscere in Italia il meglio di quanto si pubblica nel mondo sulle riviste missionarie degli altri paesi. La bella avventura si conclude nel 1970 e nel 1971 diventa insegnante di Cristologia (lo studio approfondito della figura di Gesù Cristo) nella scuola di teologia della Fist (Federazione italiana studentati teologici) a Torino dove studiano i seminaristi della Consolata (tra cui lo scrivente) e di altri istituti.

Da quel momento la sua vita è segnata dall’insegnamento e, quando nel 1990 la Fist chiude, passa a insegnare all’Università di Vercelli dove può condividere un’altra delle sue passioni, l’Epigrafia e lo studio della storia medioevale, campo nel quale diventa uno degli esperti più qualificati sulla storia della Sacra di San Michele e delle pievi del Piemonte.

Impegnato a livello della diocesi di Torino nell’ufficio della pastorale, assistente del Movimento Rinascita cristiana, responsabile degli studi nell’Imc, padre Casiraghi vive una vita intensa, pubblicando diversi libri e collaborando attivamente con questa rivista fino al 2015, quando la sua salute è condizionata pesantemente da una malattia cerebrale che gli impedisce di dedicarsi agli studi e alla predicazione come era nel suo stile brillante e profondo.

Nel 2021 deve essere trasferito nella residenza per missionari anziani ad Alpignano (Torino), dove il Signore lo chiama a sé.

Una cosa importante abbiamo imparato da lui, noi che siamo stati suoi studenti, quella di non accontentarci mai delle risposte più ovvie e popolari, ma di mantenere sempre un forte senso critico e continuare ad approfondire la conoscenza a tutto campo. Grazie.

Il testamento di una mamma

Caro padre,
mi faresti un grande regalo se potessi pubblicare questa lettera testamento che mia mamma scrisse nel lontano 1955 prima di andare all’ospedale per l’asportazione di un rene, un’operazione molto rischiosa allora. Grazie a Dio tutto è andato bene e lei è vissuta ancora per molti anni, fino al 1994. Ho sempre conservato gelosamente questa lettera. Allora avevo solo undici anni, ora vivo anch’io nell’attesa di andare in Paradiso a fare festa con lei e mio padre Guido. Grazie

padre Carlo Laguzzi, Imc
Torino, 02/11/2023

 

«Caro Guido e carissimi figli miei,
se per caso non tornassi più (sia fatta la volontà di Dio! Adoriamola) raccomando a voi che siete i miei amatissimi, di avere l’un verso l’altro un grande amore scambievole; ed ai maggiori raccomando anzitutto di sopportare ciascuno col suo carattere, e di aver cura dei più piccoli.

Abbiate tutti voi figli cura di vostro padre, che è sempre stato verso di voi generoso e affettuoso, e pei quali non ha risparmiato sacrifici.

Quel poco che è mio egli lo dividerà equamente fra di voi: abbiate sacri i suoi pareri e i suoi consigli. Vi manifesto i miei ultimi desideri che avrei piacere fossero ottemperati:

Non fate avvisi per la mia morte: se proprio il babbo lo vuole, a funerali avvenuti e senza lutto per mio espresso desiderio. Il funerale deve essere il più umile possibile, e desidero essere sepolta nel campo comune, senza tomba, senza pietra. Quando potete mi porterete qualche fiore di campo, qualche margherita, che io ho sempre prediletto.

Quello che invece caldamente vi raccomando, è che mi facciate dire, e soprattutto che ascoltiate per me, il maggior numero di Messe possibile.

Avrei voluto andarci sovente, per voi non ho potuto; riparate per quel che potete alla mia negligenza. Vestitemi col mio vestito nero solito e bruciate tutti gli scritti miei che troverete in casa, soprattutto quelli (lettere) riuniti in una scatola nella parte inferiore della libreria, e quelli (quaderni) in uno scatolone posto sopra la libreria.

Ho pregato spesso perché a tutti i miei cari fosse concessa la grazia della perseveranza finale: possa essere veramente il nostro viatico comune per l’aldilà. Vi bacio tutti e porto tutti con me nel cuore».

La vostra mamma
Torino, 27/01/1955

 

I racconti di padre Rondina

Camminare nella foresta, di notte…

Storia che ho raccolto dalla bocca del novantaquattrenne padre Aimone Rondina, ospite nella Residenza Allamano ad Alpignano.

«Quella mattina dovevo alzarmi presto per recarmi in un dispensario a qualche chilometro da Matiri (la mia missione, nella regione del Meru in Kenya). Mi avrebbero dato un passaggio ma solo all’andata, il ritorno era affidato alle mie stanche gambe, che conoscevano bene il sentiero attraverso il bush (lett. cespuglio, figurativamente indica una zona disabitata con folti cespugli e piante, ndr). Non avevo però fatto i conti con l’unica e più subdola variabile, le chiacchiere; una tira l’altra e il tempo passò senza che me ne rendessi conto. Fu solo quando osservai l’orologio che tornai alla realtà, erano quasi le sei del pomeriggio e fra un po’ si sarebbe fatto buio, quel buio che qui in Kenya arriva all’improvviso. Mi affrettai a salutare e ripresi la via di casa. Il tramonto mi colse quando ero già sulla piccola strada sterrata. La sicurezza iniziale cominciò a lasciare il posto a un po’ di ansia, mentre sentivo chiaramente i mille rumori della foresta venirmi incontro.

Frugai in tasca alla ricerca della torcia, che sciocco, non l’avevo presa con me tanto sarei tornato presto. Solo, nel buio che più buio non si può, compresso fra due “muri” di vegetazione da dove poteva spuntare qualsiasi cosa da un momento all’altro. Non sapevo quanto avevo camminato (l’orologio non era fosforescente), né quanto mi restasse da camminare, soprattutto se avevo tenuto il sentiero giusto. Unica fonte luminosa che mi dava un po’ di sicurezza: una grande luna sempre di fronte.

Cominciai a pregare per rassicurarmi, ma per fortuna dopo appena qualche minuto intravvidi una flebile luce in lontananza che faceva capolino fra la vegetazione. Era proprio la missione! La raggiunsi abbastanza velocemente, entrai e il missionario mio collega mi accolse con un “era ora, cominciavamo a preoccuparci”.

Da allora andai nei villaggi sempre in auto, andata a e ritorno, anche quando pensavo di rientrare presto».

R.L. Rivelli
Torino, novembre 2023

 

Sete di verità

Spett. Redazione,
grazie mille della vostra preziosa risposta su MC di novembre. Considero il dialogo, anche per email, sempre fonte di crescita, specie se con persone speciali come vi ritengo.

La famosa frase del papa che lei cita «chi sono io per giudicare» forse è stata un po’ strumentalizzata dai sostenitori dell’omosessualità. Non si tratta di giudicare le persone ma lo sbaglio, infatti occorre separare l’errore dall’errante. Drogarsi è sbagliato e da condannare, i drogati sono da accogliere e da guidare verso il superamento dell’errore, liberarli.

Il mio discorso non era un voler giudicare ma una preoccupazione per i giovani. Chi è genitore sa quanto sia difficile crescere i figli in una società che non sa più ciò che è bene e ciò che è male. Siamo in un tempo in cui è di moda il relativismo, il «così è se vi pare».

Invece esiste la verità, abbiamo un grandissimo bisogno di verità, di sapere ciò che è realmente buono e non solo apparentemente. Quando non distinguiamo più ciò che è veramente bene dal falso bene unica ancora di salvezza è la chiesa, il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Conosco la preoccupazione di tanti genitori che vedono i giovani alla deriva specie quelli che sono più soli, per un motivo o per l’altro abbandonati a se stessi e che si trovano senza guida senza sapere più ciò che è bene o ciò che è male.

Non si tratta di essere progressisti o meno, di diritti o meno, ma di salvaguardia della natura umana e di riconoscimento di molti casi di omosessualità come malattia psicologica. Le malattie per guarirle bisogna prima riconoscerle come tali. Malattia causata sovente dalla moda e dal fatto che i media, il libero accesso a internet anche a 9/10 anni spingono i giovani a una sessualità sempre più precoce. Gli insegnanti lamentano preoccupazioni e interessi in età in cui si dovrebbe poter crescere serenamente, giocare, studiare, ecc. ma non essere precocemente spinti alla sessualità. Unica luce è il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Al riguardo ci sono brani contro l’ipocrisia, contro chi vede la pagliuzza nell’occhio altrui e non vede la trave nel proprio, ma ci sono sapientemente altri brani che rappresentano una guida sicura.

I comportamenti dei sodomiti continuano ad essere indicati come errori, considerati tali nella Bibbia ma anche nel Vangelo. Nella lettera di san Paolo ai Romani si legge: «Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo mortale, di uccelli, di quadrupedi e di rettili, invece di adorare Dio glorioso e immortale. Per questo Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fino al punto di comportarsi in modo vergognoso gli uni con gli altri … Dio li ha abbandonati lasciandoli travolgere da passioni vergognose: le loro donne hanno avuto rapporti sessuali contro natura invece di seguire quelli naturali. Anche gli uomini, invece di avere rapporti con le donne, si sono infiammati di passioni gli uni per gli altri. Uomini con uomini commettono azioni turpi, e ricevono così in loro stessi il giusto castigo per questo traviamento…» (Rm 1,20-32).

Nella lettera di Giuda, fratello di Giacomo, si legge: «Ricordate Sodoma e Gomorra e le città vicine: anche i loro abitanti si comportavano male, si abbandonarono ad una vita immorale e seguirono vizi contro natura. Ora subiscono la punizione di un fuoco eterno, e sono un esempio per noi» (Giuda 1,7).

Il Vangelo è veramente luce del mondo e i preti che con fatica e con eroismo annunciano la Parola di Dio sono grandi portatori della luce evangelica. Il mondo ha tantissima sete della verità evangelica.

Con ammirazione per le vostre missioni e per il vostro lavoro porgo cordiali saluti

Enrica B.
11/11/2023

La tentazione era quella di tagliare alcune delle frasi della sua lunga lettera perché possono suscitare reazioni polemiche, in un tempo come il nostro in cui sembra che il dialogo non sia più consentito e sperimentiamo una forte radicalizzazione delle posizioni. Un esempio è l’accesissimo dibattito che stiamo vivendo a proposito della guerra in atto in Palestina, dove chi cerca veramente il dialogo è ostracizzato ed emarginato.

Nello stesso tempo, i temi che lei affronta, così scottanti e conflittivi, trovano conferme terribili quasi ogni giorno. Mentre scrivo, la scena è occupata dall’uccisione di Giulia, centocinquesima nella lista dei femminicidi del 2023 (il cui numero sta tristemente continuando a crescere) è un segnale di allarme che sfida tutti a un ripensamento forte del nostro modo di relazionarci.

Probabilmente l’umanità ha sempre avuto gli stessi problemi che abbiamo oggi. I testi nel libro della Genesi e le tirate di Paolo, ne sono una prova. Certo noi oggi stiamo vivendo le stesse problematiche ma con nuove dimensioni, forse anche perché, soprattutto nella nostra società, l’educazione sembra essere scappata dalle mani della famiglia, della scuola e della comunità cristiana.

Basti pensare alla pervasiva influenza che hanno sui nostri bambini i contenuti da cui sono raggiunti tramite i molteplici schermi e piattaforme, incantati dai cartoni animati e dalla pubblicità consumista (io sono il centro e ho diritto ad avere tutto, se non ce l’ho sono un fallito e un infelice) che subiscono senza possibilità di reagire. Senza poi parlare della realtà dei social, spesso usati acriticamente e soprattutto senza un supporto di relazioni di amicizia sane e concrete.

È un tempo, questo, che non ha bisogno solo di preti testimoni autentici della Parola di Dio, ma soprattutto del risveglio di ogni cristiano, che diventi soggetto vivo e attivo nella comunità, nella società, nella politica. È lo spirito del Sinodo che stiamo celebrando. Nessuno può dire «non tocca a me». Solo così si evita il rischio di dividere il mondo in «buoni e cattivi», in «noi e loro», «padroni e servi» o negli altri mille stereotipi che siamo abilissimi a creare.

L’ascolto della Parola di Dio ci fa allora sperimentare che il vero amore non è possedere l’altro e avere tutto, ma è la felicità dell’altro. La vera felicità è far felici gli altri, è diventare «servi» degli altri e non padroni, custodi del creato e non rapinatori di risorse.

Il giorno in cui davvero impareremo a vivere questo, sarà un mondo nuovo, pur nella diversità e unicità di ogni persona.

Ambiguità

Gentile Sig. Pescali,
ho letto con interesse il dossier del numero 8-9 2023 di MC sull’Islanda. Lei dice che con il sindaco Gnarr la città si arricchita di riferimenti alla pace. Siccome mi incuriosiva mi sono informato e sono rimasto molto deluso nel constatare che le strade della città in realtà sono/erano dipinte con l’arcobaleno… a sei colori (senza l’azzurro). Ma scusi, lei conosce la differenza tra la bandiera arcobaleno a sei colori e quella della pace a sette colori? Credo che confondere le due cose sia molto grave! Non so se pensare ad una ingenuità (grave per chi intende fare giornalismo di buon livello) o voluta ambiguità, che sarebbe ancora peggio. Rischio di fare il sapientone ma ci tengo a evitare queste confusioni nelle quali siamo purtroppo quotidianamente immersi. La bandiera della pace è un arcobaleno a sette colori e il viola è in alto (spesso con la scritta Pace). C’è l’azzurro. La bandiera arcobaleno a sei colori è l’emblema della lobby Lgbtiq+ per rivendicare diritti (secondo me non tutti legittimi e quindi solo presunti) e con la pace non c’entra nulla. Sarebbe auspicabile almeno che sulle riviste cristiane, e comunque sulle riviste serie, questa confusione non venga più fatta. Cordiali saluti

Andrea Sari
14/11/2023

Abbiamo passato la sua lettera all’autore del dossier. Qui il nocciolo della sua risposta.

Gentile sig. Sari,
nell’articolo in questione non ho scritto che «con il sindaco Gnarr, la città (Reykjavik, ndr) si è arricchita di riferimenti alla pace». Ad una più attenta lettura, ciò che invece ho scritto è che «viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore». Il riferimento, quindi, non era limitato alla città di Reykjavik, ma all’Islanda tutta, dove ho visto strade e bandiere (lo ribadisco) arcobaleno.

Arcobaleno perché, se la fisica non ci inganna, i colori dell’arcobaleno sono… sette. Quindi, da uomo di scienza, nessuna ingenuità, nessuna voluta ambiguità, nessuna confusione e, soprattutto, nessun deterioramento della serietà dell’articolo e della rivista. Anzi, semmai questa distinzione razionale e scientifica denota una maggiore autorevolezza della stessa.

Piergiorgio Pescali
04/12/2023

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Chi è al top

«Eat the rich» è la scritta posta su una scatoletta di cibo con il disegno di un ricco che viene «cotto» sopra un fuoco. È questa l’immagine provocatoria che fa da copertina alla 13ª edizione di «Top200», il report annuale (basato sui dati relativi al 2022) sulle principali multinazionali curato dal «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it), curato da Francesco Gesualdi. Il motto provocatorio richiama una celebre frase di Jean-Jacques Rousseau: «Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi». Così si capisce chiaramente da che parte stia chi ha predisposto il dossier.

Nel merito si tratta – come nelle precedenti edizioni – di uno studio puntuale, sia perché i dati riportati forniscono un quadro preciso della ricchezza delle imprese multinazionali, sia per l’attualità della problematica in un mondo che presenta enormi disuguaglianze.

Il sottotitolo – «la crescita del potere delle multinazionali» – sintetizza il risultato che emerge dal report. Anzitutto i profitti delle prime 200 imprese internazionali sono raddoppiati in dieci anni, passando da 1.089 a 2.054 miliardi di dollari. Nella classifica delle «top 200» società troviamo 62 multinazionali con sede principale negli Usa e 61 in Cina, che insieme rappresentano il 64,1% del fatturato: 17.770 miliardi su un totale di 27.722 miliardi di dollari. Al terzo posto si colloca il Giappone con 18 imprese e al dodicesimo l’Italia con tre società (Assicurazioni Generali, Eni e Enel).

Assai significativo per comprendere il potere delle imprese è il confronto tra le entrate degli stati e i fatturati delle multinazionali. Al primo posto ci sono gli Usa con 8.010 miliardi di dollari di introiti, al decimo troviamo l’India con 682 miliardi, seguita dalla prima delle multinazionali – la Walmart – con un fatturato di 611 miliardi. In questa classifica ibrida (stati e multinazionali insieme), ai primi 100 posti ci sono 72 multinazionali.

Il dossier, oltre a numerose classifiche sulle top 200 imprese mondiali, contiene quattro approfondimenti relativi ai finanziamenti pubblici alle imprese private, agli affari delle società che producono programmi di intrattenimento, alla crescita dei privati nel settore della sanità e alla presenza di mercenari nei teatri di guerra nel mondo. Proprio questi quattro focus rappresentano la parte più attuale e originale del report. Da non perdere.

Rocco Artifoni
17/09/2023

Meno Cpr più umanità

Complimenti per la rivista. A mio modesto parere per quanto riguarda gli immigrati che vengono in Italia via mare occorre trovare una soluzione in Africa, visto che il numero di affamati è enorme. Si può creare punti mensa nelle zone con maggiori problemi utilizzando i canali delle missioni e ong. Meno Cpr in Europa e più aiuti diretti in Africa. Cordiali saluti,

Giorgio Tagliavini
23/09/2023

Grazie signor Giorgio per le brevi parole che hai scritto alla vigilia della giornata mondiale dei migranti e rifugiati, a cui abbiamo dedicato il nostro editoriale del mese di agosto-settembre.

Su questo tema le parole di papa Francesco sono sempre di una profondità e chiarezza unica, che spesso però trovano resitenze incredibili e cuori duri come pietre. Più grave ancora è la strumentalizzazione dei drammi dei migranti a uso elettorale e la chiusura totale nel nome della propria identià culturale da difendere. È decisamente penosa l’impocrisia di chi grida contro certe parole denigranti, come «tribù», perché ritenute umilianti, ingiuste e discriminatorie, da sostituire quindi con altri lemmi più rispettosi della dignità di tutti, e poi di fatto ha idee, atteggiamenti e comportamenti decisamente tribalisti nella pseudo difesa della propria superiorità e soprattutto dei propri interessi.

Come già scritto e riscitto, non è con la chiusura delle frontiere e l’incolpare i trafficanti e scafisti che si risolvono i problemi, ma con una vera rivoluzione sociale ed economica nelle relazioni tra stati e popoli, soprattutto da parte dei paesi più ricchi.

 

Opinioni post Lisbona

Egregia Redazione,
leggo da tempo il vostro interessante giornale e sentendomi quasi in famiglia ho pensato di condividere con voi queste riflessioni, benché modeste.

La giornata della gioventù a Lisbona ha radunato molti giovani. Bello vederli attenti e in silenzio ad ascoltare le parole del Papa. Il messaggio di verità del Vangelo attira sempre ed è indispensabile per l’umanità. I media hanno sintetizzato il discorso del Papa con le parole «tutti inclusi nella Chiesa». Va benissimo tutti inclusi, ma ciò non vuol dire che si debbano accettare e avallare gli errori e i grandi peccati che si fanno. Bisogna distinguere la persona dall’errore. Va bene tutti inclusi nella Chiesa ma i pedofili per esempio sono stati fin troppo inclusi. Il Vangelo richiede verità; bisogna dire chiaramente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I giovani devono sapere ciò che è sbagliato e chi compie tali errori deve essere invitato a correggersi. La pedofila è stata per molti la madre dell’omosessualità. A 14/15 anni i giovani sono ancora ragazzini e avrebbero bisogno di essere lasciati crescere serenamente in pace senza caricare sulle loro giovani spalle pesi così grandi come quelli dei dubbi sulla propria identità sessuale, come invece è di moda in questi tempi.

Personalmente ho visto il nascere di un atteggiamento gay in un ragazzo che aveva avuto esperienza di pedofilia. Nella scuola dove lavoravo c’era un quindicenne che si vantava con i compagni di sapere cose particolari sulla sessualità, gli altri rispondevano alle sue vanterie deridendolo. Alcuni invece lo ascoltavano perplessi e incuriositi. Lui voleva farsi vedere più emancipato e sperava così di attirarsi tanti amici, di essere più stimato ma a volte finiva col prendersi spintoni e insulti. Convocati i genitori, ignari di tutto, era emerso che, quando dovevano uscire di casa per il lavoro o per spese, mandavano il figlio da un loro vicino che sembrava affidabile ma che invece intratteneva questo ragazzino facendogli vedere video sulla omosessualità e rischiando così di creare nel giovane la «forte distorsione cerebrale e psichica che comporta l’omosessualità» (parole di un importante psicologo membro dell’Associazione internazionale di psicologia applicata). In seguito a queste esperienze subite questo ragazzo a 15/16 anni risultava quindi volersi indirizzare verso l’omosessualità. Un comportamento gay derivato da una pedofilia.

Purtroppo, la pedofilia risulta essere veramente all’origine di tanti casi di comportamenti gay. La chiesa ha il dovere di proteggere e salvaguardare ogni persona specie i giovani e per farlo deve dire ciò che è errore e danno e quindi peccato. La pedofilia e l’omosessualità che in genere ne è una derivazione sono un errore, un peccato, un danno più o meno cosciente per sé e per la società. Il normale bisogno di amicizia e affetto viene confuso con comportamenti sbagliati e contro natura.

Nella parabola sulla indissolubilità del matrimonio, a Pietro che di fronte all’impossibilità del divorzio dice che allora è meglio non sposarsi, Gesù risponde che non a tutti è dato di capire e che a volte occorre farsi eunuchi per il regno dei cieli. È però un linguaggio figurato. Non intende dire che occorre veramente farsi eunuchi ma che in certe situazioni bisogna comportarsi come se non sentissimo attrazione sessuale per l’altro sesso. Per rimanere fedeli a volte occorre veramente farsi eunuchi, cioè non ascoltare l’attrazione verso la donna che non è la propria moglie o viceversa verso l’uomo che non è il proprio marito.

Nella Chiesa invece sembra che alcuni abbiano preso alla lettera il farsi eunuchi traducendolo anzi in farsi omosessuali, per cui ci sono preti gay che continuano a svolgere il loro ministero pur comportandosi da omosessuali. Altri prelati sono sommessamente favorevoli ai rapporti gay causando così grande scandalo. Va bene accogliere tutti nella Chiesa ma non accogliere l’errore. Accogliere l’errante, ma dirgli chiaramente che deve impegnarsi a cambiare vita, non comportarsi più da gay ma vivere l’astinenza e non praticare rapporti sbagliati e contro natura.

[…] La chiesa anziché avallare i comportamenti omosessuali dovrebbe piuttosto rivedere l’ordine di celibato per i preti. Accettare anche preti sposati ma con una fede sincera, forte e disinteressata economicamente.

Certo, essere liberi da impegni familiari per poter andare ovunque ad annunciare il Vangelo è più generoso ed eroico ma si potrebbe accogliere anche chi desidera sposarsi. Meglio questo anziché accettare i comportamenti omosessuali. Non è assecondando le persone nei loro grandi errori che si guadagnano i fedeli. Cordiali saluti

Enrica B.
18/09/2023

Onestamente non credo che il messaggio centrale della Gmg di Lisbona fosse «Tutti inclusi», soprattutto nella sua interpretazione, come se papa Francesco avesse avvallato pedofilia e omosessualità. Lo slogan «Maria si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39), ha una portata molto più vasta e missionaria ed è un forte invito a non chiudersi, a non fare una vita da «seduti sul divano» e diventare concreti testimoni di amore in questo nostro mondo dilaniato da guerre, ingiustizie sociali, cambiamento climatico, povertà, disciriminazioni e intolleranza di molti tipi.

La sua lettera rivela comunque una sofferenza vissuta sulla sua pelle di fronte a fatti nei quali sono coinvolti anche dei sacerdoti dagli atteggiamenti certamente non evangelici. E questo mi richiama il dialogo che ho avuto pochi giorni fa con una catechista che mi raccontava della perplessità di una famiglia a mandare i suoi bambini al catechismo dopo aver sentito e letto di episodi di pedofilia da parte di sacerdoti.

Vorrei solo confermare che su omosessualità e pedofilia di persone religiose, la presa di posizione di papa Francesco e della Chiesa intera è senza equivoci. Occorre però tanta vigilanza e intelligenza per non cadere nella trappola della generalizazzione che conduce dalla colpa di un singolo sacerdote, o vescovo, o religioso o religiosa a mettere sotto accusa tutto e tutti.

Probabilmente nel futuro vedremo anche i preti sposati nella nostra Chiesa, ma non certo come soluzione alla pedofilia. Le statistiche dicono che gran parte degli abusi sessuali sui minori avviene tra le mura di casa.

Credo che per affrontare seriamente la situazione occorra smettere di cercare il capro espiatorio e di puntare il dito, ma impegnarsi a vivere con maggior coerenza, tutti e in fretta, l’insegnamento del Vangelo, consci che tutti siamo fragili e peccatori.

Per quanto riguarda il legame causa effetto tra pedofilia e omossesualità, non mi trova d’accordo. Non penso sia un caso particolare (da lei conosciuto), a dare la regola generale. Preferisco quindi separare le due situazioni.

Se la pedofilia è senza dubbio sempre un «errore, un peccato», come lei la definisce, più complesso è il discorso per l’omossessualtà, che può essere un «sentire» differente, un voler vivere i propri sentimenti sulla base di quello che si prova davvero, senza ipocrisia. In questo caso non è un «errore, un peccato». Papa Francesco ha detto infatti: «Essere omossessuali non è un crimine» e, inoltre, «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?».

In visita a un luogo sacro dei Kikuyu (tempio sacro dei Gekoyo) sull’Aberdare, Kenya: padre Delfino Bianciotto (seduto), can. Giacomo Camisassa (in piedi), coad Umberto Rosso, padre G. Cavallero e padre Panelatti, suor Maria Bonifacia e suor Cristina del Cottolengo

Ricordando Don Delfino

Gent. Direttore,
vorrei ringraziarvi per quanto realizzate, in particolare sono stato molto sorpreso dall’articolo del 12 giugno 2023 «La grande avventura». Sono pronipote di don Delfino Bianciotto, da lui battezzato nel suo 49° anno di sacerdozio. Era lo zio e il padrino di battesimo di mio padre che portava il suo nome. Io fin da piccolo venivo premiato con dei favolosi soggiorni presso don Delfino. Il missionario Delfino era un mito di saggezza e di fede. Lo ammiravo passeggiare per ore nel giardino in preghiera leggendo il Vangelo. Quando si accorgeva di me, mi avvicinava facendomi ammirare Dio nel creato, in un fiore, un’ape, nel volo di un uccello. Mi diceva che la preghiera si svolge in ogni luogo e in ogni istante.

Avevo 11 anni quando don Delfino, il 2 aprile 1961, festeggiò i 60 anni di sacerdozio. Fu felice che in quell’occasione molti si ricordassero di Lui: (tra questi) padre Carlo Masera, suo coadiutore in Abissinia (così era chiamata allora l’Etiopia, ndr) nel Kaffa, il vice superiore generale dell’Istituto, padre Giuseppe Caffaratto, il provicario della diocesi (di Pinerolo) don Giovanni Barra. Gli arrivò anche il telegramma d’auguri di papa san Giovanni XXIII (io gli recitai una breve poesia).

La mia curiosità ed ammirazione di bambino per don Delfino era immensa. Chiedevo che mi raccontasse le sue straordinarie avventure e venivo accontentato.

Mi raccontava dei suoi viaggi favolosi e pericolosi, dei bambini felici come me, ma dal destino tragico che aveva conosciuto e soccorso, chi aveva perso i genitori per incidenti con animali della foresta, chi era stato rapito dai predoni ed era venduto schiavo dagli stessi. Si rammaricava di non aver potuto riscattare tutti quegli innocenti che aveva consolato avvicinandoli a Gesù. Salì al cielo il 27 luglio 1962. Il 16 agosto 2023 don Delfino sarà stato molto felice, per l’elezione a superiore generale dei Missionari della Consolata di padre James Bhola Lengarin del Kenya (un «pronipote» dei bambini che lui aveva incontrato e soccorso in Kenya). Cordiali saluti

Franco Bianciotto
02/09/2023

Padre Delfino Bianciotto nacque a Frossasco (To) il 27 marzo 1874. Ordinato sacerdote il 23 marzo 1901, dopo aver esercitato per alcuni anni il ministero nella diocesi di Pinerolo, il 4 agosto 1906 entrò nell’Istituto. Partì per il Kenya il 10 dicembre dello stesso anno e là lo troviamo quando il canonico Giacomo Camisassa compì la sua visita nel 1910/1911. Il 15 ottobre 1917 entrò avventurosamente in Etiopia come commerciante e si unì a monsignor Gaudenzio Barlassina aprendo una prima casa a Ghimbi, nel Kaffa. Nel 1922 tornò in Italia come rappresentante dei missionari d’Etiopia per il primo capitolo generale dell’Istituto. Nel 1932, scaduto il periodo per il quale si era legato all’Istituto, ritornò nella sua diocesi di Pinerolo.

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Rivista scomoda

Buonasera, quest’anno ho voluto aggiungere al bonifico per il vostro progetto natalizio (la cardiologia di Neisu) un secondo bonifico specifico per la vostra rivista, perché la vostra rivista è «scomoda».

La ritiro dalla buca delle lettere, la poso sul tavolino, la ignoro per un po’, voglio rimanere nel mio guscio di «sicurezze», non voglio sentire di altri guai, non voglio pensare (ci sono già le mille preoccupazioni del lavoro, figli, genitori anziani…), voglio solo pensieri leggeri. E poi?

Passa qualche giorno, faccio uno sforzo e riprendo in mano la rivista e poi la leggo dalla prima all’ultima pagina, mi appassiono perfino all’economia che, spiegata da Francesco Gesualdi, ha tutto un altro sapore! E quindi questa mail per dirvi grazie perché la vostra «scomoda» rivista rompe la cappa di comodità in cui vuole rifugiarsi la mia mente e vuole nascondersi il mio cuore, grazie perché mi portate lontano dal mio rassicurante piccolo mondo, mi fate conoscere realtà di cui l’informazione di massa si disinteressa come non esistessero, grazie e un incoraggiamento a continuare, sotto gli occhi amorevoli della Consolata, nonostante tutte le difficoltà che incontrate.

Manuela Pogliano
23/12/2022

 Trent’anni di penna

Nel febbraio del 1993, esattamente 30 anni fa, veniva pubblicato il mio primo articolo. Si trattava in realtà di due pezzi, la storia di una mia esperienza diretta, vissuta con l’amico Roberto Minetti, in alcune favelas di Rio de Janeiro, e una piccola riflessione personale sullo stesso tema.

Io e Roberto, nel 1992, eravamo in viaggio in Sudamerica e, in quel periodo, eravamo stati accolti da padre Claudio Fattor, missionario della Consolata, alla missione nel quartiere Benfica, area di Rio de Janeiro nel mezzo delle favelas (foto qui in basso): la famosa Mangueira, Morro do Telegrafo, Arará, Tuiutí e altre. Nonostante fossimo in viaggio già da mesi (avevamo attraversato la Patagonia in autostop, arrivando fino alla Terra del Fuoco), in quei giorni entrammo in contatto con una realtà assolutamente nuova per noi, scioccante, scomoda, che ci metteva in discussione. Una realtà che, decidemmo, si doveva raccontare, meglio, denunciare. E così fu.

Rientrati in Italia, Roberto mi portò alla Casa Madre dei missionari, in corso Ferrucci a Torino. Era la fine del 1992. Qui incontrammo per primo padre Franco Cellana, all’epoca superiore della comunità. Fu molto accogliente e, dopo i nostri racconti, non esitò ad alzare il telefono e chiamare il direttore della rivista Missioni Consolata, padre Francesco Bernardi.

Francesco ci ricevette subito. Ci ascoltò, e con i suoi occhi vispi, un mezzo sorriso incorniciato dalla barba che all’epoca aveva, manipolando una penna, ci disse che poteva pubblicare qualcosa, se gli avessimo proposto un testo.

Radunate le idee, di getto, iniziai a scrivere. In quei mesi mi capitava spesso di scrivere delle riflessioni, ero ancora pieno di immagini del Sudamerica e di sentimenti contrastanti. Mi sentivo un disadattato in Italia ed ero particolarmente ispirato. Roberto, invece, non mi seguì in questa iniziativa.

Fu così che nacquero quei due primi articoli, quasi spontaneamente, mentre dentro di me cresceva qualcosa, lo stimolo per un mio nuovo ruolo nella vita. Da un lato, occorreva fare qualcosa per ridurre le disuguaglianze di cui ero stato testimone e, dall’altro, bisognava far sapere alla gente di questa parte del Mondo che quelle situazioni esistevano.

A Rio avevo incontrato altri due personaggi particolari. Il primo era il giornalista Giuseppe Nava, che all’epoca lavorava per Missões Consolata, la rivista dei missionari in Brasile. Un giornalista che si occupava di temi sociali, in particolare di popoli indigeni, che affascinò me e Roberto con i suoi racconti e con il tipo di lavoro che faceva, dandomi sicuramente diversi stimoli.

E poi, monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Boa Vista, di passaggio a Rio per andare in Italia, con il quale visitammo i cantieri preparatori della conferenza di Rio92. Lui ci parlò molto della sua missione e dei popoli indigeni. Ma ci fece anche riflettere sul nostro futuro. Voglio ricordare che eravamo neolaureati in ingegneria elettronica, con il massimo dei voti, e avevamo preso un periodo per visitare, in economia massima, il Sudamerica. Al nostro rientro tutte, o quasi, le strade ci erano aperte.

Questa è la storia del mio primo articolo con le prime foto pubblicate, per combinazione o per genesi, proprio su Missioni Consolata. In seguito, pubblicai su diverse testate italiane, e alcune estere.

Quindi iniziai a mettermi in testa l’idea di continuare a scrivere e a produrre immagini. Ma sempre con l’obiettivo di far conoscere e di denunciare realtà difficili.

La fotografia, che mi aveva appassionato fino dall’infanzia, la vedevo ora come il più potente mezzo per comunicare queste realtà. Il testo scritto avrebbe contribuito a descriverle.

Incontrai il mio primo giornalista in Italia, Sante Altizio, nella stanza della nostra comune amica Gabriella Roux, nel collegio femminile di via delle Rosine a Torino. Sante mi spiegò come funzionavano le cose per la professione giornalistica nel nostro paese.

Poi cercai altre storie, altri soggetti. Andai in Centro America e incontrai il movimento civile dei guatemaltechi, in particolare le Comunità di popolazioni in resistenza. Documentai la loro lotta.

In seguito, in Italia, mi presentarono il fotogiornalista Paolo Siccardi, il quale mi diede diversi consigli che si sarebbero rivelati preziosi.

Nel 1996 mi iscrissi all’Ordine dei Giornalisti, grazie a diverse collaborazioni che avevo messo in piedi negli anni precedenti. Fu per me un primo traguardo: ero ufficialmente giornalista.

Era deciso, avrei continuato anche su questa strada (intanto vivevo facendo il ricercatore nel settore delle telecomunicazioni), ma non sapevo ancora quanto spazio avrebbe preso nella mia vita.

Marco Bello
Torino, febbraio 2023

Energia e soffio vitale

Caro padre,
ho già scritto altre volte su queste pagine. In particolare, in uno dei miei scritti parlavo di Dio come fonte di energia. «Allora, il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). E commentavo: «Come non interpretare quel soffio come Energia?».

Ebbene, nella vostra rivista di novembre, ho apprezzato molto l’articolo su Albert Einstein e qui mi ha fatto ricordare la famosa formula: E=mc2. Da qualche tempo questa formula mi ronza nelle orecchie cercando di andare oltre la materia rappresentata in poche lettere per descrivere tutto l’universo. Pensavo: ma non è anche divina questa Energia che impregna tutta la materia?

Un giorno, in un «lampo» intravvidi qualcosa che va oltre la materia: «ED=mc2+F2».

Mi spiego: alla E di energia ho aggiunto la D di divino, alla mc2 ho aggiunto la F di fede col 2 inteso come fede al quadrato, ossia grande fede. Badi che non intendo dire che la formula di Einstein sia errata, assolutamente no! È solo un tentativo di comprendere l’universo per coloro che credono in qualcosa che va oltre la materia (e qui sono comprese tutte le forme di religione).

Lei cosa ne pensa? Mi piacerebbe segnalarla a Piergiorgio Pescali autore dell’articolo, ma non so come fare. La ringrazio anticipatamente per l’interessamento. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
14/12/2022

Ho passato questa email al nostro Piergiorgio Pescali, ovviamente. Ecco qui la sua breve email di risposta quasi immediata.

Gent.mo sig. Brugnoni,
capisco che il verso biblico da lei citato possa indurre a interpretazioni scientifiche; personalmente, però, ho sempre interpretato che il soffio vitale che Dio ha instillato nell’uomo sia l’unicità che Dio stesso ha voluto per l’essere umano, concedendogli un dono unico che altri esseri non hanno. Quel soffio divino, quindi, è assai diverso dalla materia.

Le formule scientifiche hanno significato perché utilizzano parametri matematicamente riconducibili a realtà concrete. Nella fattispecie, la formula di Einstein ha avuto conferme e continua ad averle nel nostro mondo fisico. Inserire in questa formula (ma il discorso vale anche per tutte le altre) indici non quantificabili dal punto di vista matematico, non avrebbe senso dal punto di vista scientifico. «E», «m» e «c» sono grandezze fisiche ben determinate, che trovano riscontro nelle sperimentazioni fisiche.

Quali valori e quale unità di misura si potrebbero dare a D e F? Penso che chi ha il dono della fede non abbia bisogno di formule matematiche per spiegare il mondo in cui viviamo, la sua natura, la sua genesi e il suo termine.

Con cordialità.

Piergiorgio Pescali
15/12/2022

Unità: cantiere di fraternità

A fine gennaio, come di consueto, si celebra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Da noi in Italia, dove si è in gran parte cattolici, non si avverte il problema della divisione tra cristiani. Né si mostra grande sensibilità. Ma in terra d’Africa o d’Asia, dove sono stato come missionario, suonava invece come uno scandalo. «Portateci il Cristo e non le vostre divisioni!», sentivo implorare. Riunirsi in nome dello stesso Cristo da una parte protestanti e dall’altra cattolici – quasi due mondi separati – era, infatti, una ben triste testimonianza.

Ora i tempi stanno cambiando… In Marocco si è perfino costituita nel 2012 a Rabat, insieme, in corresponsabilità tra protestanti e cattolici, una originale Università di teologia, unica al mondo, dal nome «Almowafaqa» (significa accordo). Rappresenta una vera novità nel panorama teologico, includendo persino professori musulmani. La Chiesa cattolica in Marocco, d’altronde, accoglie fraternamente nei suoi luoghi di culto o di accoglienza comunità protestanti. Per gli ortodossi, ricordo quando qualcuno chiedeva a père Michel, cattolico, di celebrare la Pasqua ortodossa. Ma di fronte all’imbarazzo del sacerdote, si mostrava rassicurante. «Non si preoccupi, padre, faccia come il solito, metta solo un po’ più di candele sull’altare!». Gli ortodossi, infatti, nel celebrare adorano la luce, segno vivo del Risorto.

Come missionario ho avuto l’occasione di accompagnare comunità di migranti italiani a Londra, nel mondo anglicano e nella città di Ginevra, definita la «Roma di Calvino». Ricordo quando con due ragazze italiane siamo stati al culto nella centralissima St. Martin in the Fields a Londra e la loro viva sorpresa di vedere officiare una donna pastore in talare romana. Il sermone, poi, fu di una brevità, un’efficacia e un’ispirazione esemplari. La sorpresa più grande, alla fine, quando la donna pastore alla porta d’uscita saluta come sempre ad uno ad uno tutti i presenti. Arrivato il loro turno, sapendo che non erano anglicane ma italiane, con un sorriso inesprimibile le invitava a un caffè nel bar della cripta! Sì, distanza e prossimità, allo stesso tempo, sorprendenti.

A Ginevra, invece, ci venne l’idea di invitare alla preparazione della cresima dei nostri giovani, Philippe, il pastore calvinista della parrocchia accanto. Venne con tutta la preparazione dotta della Parola di Dio, con l’esperienza di padre di famiglia di ben cinque figli e con l’amabilità sorridente del vicino di casa. Il campo da trattare era precisato, anche se sconfinato: lo Spirito Santo nella Bibbia.

Quale, però, fu la nostra sorpresa nel vedere, alla fine del lungo incontro, i nostri ragazzi pronunciare disinvoltamente termini in greco o in ebraico come «pneuma», «ruah» dopo un bel percorso filologico! Ma entusiasti, soprattutto, della loro ultima scoperta: la creazione dell’uomo. Fu un bacio in bocca dato ad Adamo da Dio. È così che Dio stesso trasmise il suo soffio di vita. Evidentemente, il pastore era ricorso alla scioltezza di linguaggio dei suoi figli, ottenendo un vero e insperato successo!

In altra occasione, in una celebrazione funebre, ci si era divisi i momenti con un pastore calvinista: a lui la spiegazione della Parola e il percorso di vita di un migrante italiano che conosceva, a me i gesti del rito e il loro commento simbolico (che i protestanti non contemplano). Alla fine, non posso dimenticare come la moglie stessa del pastore, raggiante, ci venne incontro per ringraziare entrambi. La complementarità dei nostri interventi pare aver dato alla celebrazione senso, interiorità, fede convinta e condivisa. Anche allora il pastore aveva fatto brillare due qualità della tradizione protestante: l’essenzialità e l’efficacia della parola.

Un altro giorno, alla messa per una defunta italiana, notavo la presenza di un pastore protestante nell’assemblea. Durante il corteo verso il camposanto, allora, discretamente avvicinandomi gli chiedevo di improvvisare la preghiera al cimitero. Mi rispondeva con un’occhiata indecifrabile. Ma, poi, in quel luogo sacro che sembrava un giardino, mentre scendeva lentamente la bara nella terra, incominciava forte: «Tu ci hai fatti di terra, Signore, e alla terra noi ritorniamo…», improvvisando così una commossa preghiera finale. Con il suo linguaggio biblico ci inchiodò alla terra. Ci fece sentire tutti semplice argilla. E ci depose, allo stesso tempo, nelle palme accoglienti delle mani di Dio. Per i presenti fu un momento forte, indimenticabile, di speranza.

Per me sono occasioni incredibili di fraternità con pastori protestanti, da sempre appassionati della Parola di Dio. Parola che essi hanno conosciuto, elaborato e interiorizzato non da sessant’anni come noi, ma da ben cinque secoli!

Ecumenismo è costruire dei ponti, lanciare delle passerelle con quelli dell’altra riva. Sapendo che, un giorno, Dio stesso prosciugherà il mare che ci separa.

Renato Zilio, missionario scalabriniano
 a Casablanca, Marocco, autore di  «Dio attende alla frontiera», EMI, 30ª ristampa
11/01/2023

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Cartine e mappe

Sono una lettrice ed estimatrice della vostra rivista che leggo con piacere perché interessante, ricca di notizie, aggiornata, con immagini ma soprattutto apprezzo che ogni articolo sia corredato di cartine geografiche che invece difettano in altre riviste.

Vi scrivo perché vorrei che manteneste quest’ultima caratteristica che ritengo utile e istruttiva. Nell’ultimo numero di Missioni Consolata 8-9 scarseggiano. Cordiali saluti.

Carla Guidi
13/08/2022

Grazie dell’apprezzamento e dell’invito all’uso regolare di cartine. A dire la verità qualche volta ci sembra di stancarvi riproponendovele numero dopo numero. Cercheremo di fare del nostro meglio.

Baba Camillo

Spett.le Redazione,
purtroppo baba Camillo ci ha lasciati. Ha trascorso molti anni (40?) in Tanzania, soprattutto
a Kipengere. Mi auguro di leggere presto, sulla vostra rivista, un articolo a lui dedicato che renda merito alla sua persona e alle opere compiute. Ringraziando, cordiali saluti.

B. Panebianco
29/07/2022

Padre Aldo Pellizzari e padre Cammillo Calliari (Baba Camillo), alle prese con l’acquedotto della missione

Baba Camillo (padre Camillo Calliari nato a Romeno, Trento) è tornato alla casa del Padre lo scorso 25 luglio all’ospedale di Ikonda. Aveva 83 anni, di cui 53 passati in Tanzania. Di questi, ben 34 nella missione di Kipengere.

Su di lui ha scritto un appassionante libro Giorgio Torelli (Baba Camillo, Istituto geografico De Agostini, Novara 1986).

L’ho conosciuto personalmente nel 1985 a Matembwe, dove sono stato alcuni giorni di passaggio anche per incontrare Luciano e Pia, due volontari che venivano da Torino, con il gruppo del campo di lavoro Kisinga ‘85, la missione dove c’erano padre Remo Villa (+ 20/02/2022 a Tura) e padre Masino Barbero (+ 16/09/2021) .

Nella foto scattata allora, baba Camillo (con la barba) sta controllando con padre Aldo Pellizzari (+ 23/08/2003 a Makambako) l’impianto da lui costruito per provvedere l’acqua alla missione situata sulla collina almeno cento metri più in alto. Fornire l’acqua alla gente era una delle sue passioni, come ha scritto Vita Trentina: «Molti i suoi campi di azione, con un’attenzione speciale per quanto riguarda l’acqua: ha costruito vari acquedotti nelle varie realtà dove si è trovato ad operare per agevolare la vita delle persone».

Il desiderio di scrivere di lui (e non solo queste poche righe) c’è, come anche quello di ricordare un altro grande missionario che ci ha appena lasciato, monsignor Luis Augusto Castro Quiroga, vescovo di San Vicente prima e arcivescovo di Tunja in Colombia poi, andato in cielo a 80 anni il 3 agosto 2022, pochi giorni dopo baba Camillo (vedi p. 9 e p. 12). È una promessa.

Taiwan

Sono un dilettante e certamente Lamperti ne sa molto più di me. Però non mi sembra che Taiwan sia il problema più importante per la Cina popolare che da quando Deng Tsiao Ping ha sconfitto la «banda dei 4» ha dato largo spazio all’iniziativa privata e probabilmente agli investimenti in Cina da parte dei loro emigrati arricchitisi in occidente. Se la Cina ha interessi di espansione geografica, sicuramente riguardano l’accesso diretto alla rotta polare resa libera dal disgelo e che dimezza (almeno) il percorso dalla Cina al mare del Nord, che resta il centro dello sviluppo industriale europeo. E per avere un accesso diretto la Cina deve prenderlo, con le buone o con le cattive, alla Russia, che peraltro sta rendendosi militarmente ridicola di fronte al mondo con un esercito potente sulla carta che non riesce a imporsi a quattro gatti male armati di Ucraini.

Claudio Bellavita
30/06/2022

Un cardinale ora, poi Allamano Santo?

Penso che il postulatore della beatificazione del canonico
Allamano abbia quasi finito il suo lavoro. Quale maggior miracolo dell’elevazione a cardinale di un giovane responsabile della più piccola e sperduta missione della Consolata, che vive e celebra sotto una tenda mongola?

Claudio Bellavita
04/07/2022

Lo speriamo anche noi. Se venisse presto anche la notizia della canonizzazione, sarebbe proprio un grande dono!

Scrivete di Pietro di Brazzà

Gentilissima Redazione,
penso che sarebbe interessante e bello far conoscere ai lettori della rivista MC l’esempio umano in Africa di Pietro Savorgnan di Brazzà. Grazie per la vostra attenzione.  Pax et bonum.

Giorgio de Francesco
Torino, 24/06/2022

Pietro Savorgnan di Brazzà (1852-1905) è un esploratore italiano che ha dato il nome alla città di Brazzaville, da lui fondata nella Repubblica del Congo. Il suo stile era tutto il contrario di quello usato dal contemporaneo re Leopoldo del Belgio nel colonizzare il Congo Zaire. Grazie del suggerimento, è una persona che vale la spesa conoscere meglio.

Di Cambogia e Don Mazzolari

Buongiorno,
leggendo la rivista di luglio, fra gli altri interessanti come l’Iraq, trovo due articoli a me particolarmente cari: Cambogia e Obiezione di coscienza con una citazione relativa a don Primo Mazzolari. Circa la Cambogia avevate già pubblicato una mia testimonianza a fine 2018 (MC 12/2018).

Aggiungo solo che in quell’occasione visitai una missione in una zona periferica di Phnom Penh molto difficile da trovare anche per il tassista poiché non c’erano nomi delle vie. Ero stato incaricato da amici del missionario di cui allego la foto (sotto), ma non ricordo il nome. La Chiesa non era enorme, ma sicuramente molto dignitosa. Circa don Primo Mazzolari, allego una testimonianza che mi era stata richiesta per ricordarlo. Avevo avuto l’opportunità di conoscerlo a 11 anni. Era stato per me un incontro sconvolgente poiché nella sua omelia, sentii parole mai udite prima. Cordiali saluti

Mario Beltrami 
09/07/2022

Don Primo Mazzolari, un personaggio scomodo

«Ma come fa a scrivere queste bestialità, gente che dovrebbe invece fargli un monumento…». Non riesco a capire dove voglia andare a parare mio fratello. Sta leggendo un settimanale che entrava in casa mia negli anni ’40-50 e che trattava prevalentemente cronache di vita parrocchiale. Buttando sul tavolo il giornale, mi indica un titolo ben evidenziato in cui riesco a leggere solo un nome: Don Mazzolari. Senza darmi il tempo di leggere altro, comincia a parlare di uno straordinario sacerdote, osteggiato soprattutto da chi avrebbe dovuto essere dalla sua parte. Eravamo a Cremona nel 1951, periodo in cui l’Italia era spaccata in due: democristiani da una parte, comunisti e socialisti dall’altra. Questo sacerdote era in pratica accusato di fare prediche troppo sinistrorse, troppo vicine all’area socialista.

A me, poco più che undicenne, chierichetto, cresciuto in una famiglia molto religiosa, frequentante solo ambienti oratoriani, queste parole sembravano abbastanza forti, ma ero troppo legato al mio fratellone, ormai uomo, di 16 anni più vecchio, per metterle in discussione.

Mio fratello era nato nel 1924, ancora giovanissimo era stato chiamato alle armi da cui aveva poi disertato per unirsi ai partigiani. Aveva presumibilmente sentito parlare di Don Mazzolari proprio in quel periodo.

Una domenica di primavera, forse maggio, mi chiama mentre stavo finendo i compiti:

«Dai, prendi la bicicletta, andiamo a fare un bel giro, devo incontrare amici in un paese a una trentina di chilometri».

Parlare di macchine allora era quasi fantascienza e i 30+30 chilometri, fra andata e ritorno, era cosa normalissima in una zona piatta come il tagliere della polenta, dove il ciclismo era lo sport più popolare. Senza quasi rendermene conto, dopo aver attraversato diversi paesi: «Ci siamo», mi dice. Il cartello all’entrata del paese indicava Bozzolo, località che non avevo mai sentito prima. Davanti a un bar, in prossimità della chiesa, un gruppo di giovani ci saluta calorosamente. Uno in particolare si rivolge a me:

«Benvenuto campione. Sei bartaliano o coppiano?». Il dualismo Bartali-Coppi era allora più sentito di qualsiasi derby calcistico.

Mio fratello, dopo aver dato la mano a tutti, mi invita a fare un giro perché dovevano parlare. Mi avrebbe raggiunto più tardi per la messa direttamente in chiesa.

Fu una messa per me straordinaria che mi fece conoscere
una faccia nuova della Chiesa di Cristo. Nell’omelia di questo sacerdote udii parole semplici ma capaci di arrivare a tutti. Parole che non avevo mai sentito in centinaia di prediche. Si rivolgeva alla gente come stesse parlando a tu per tu con ognuno di loro. Ebbi persino l’impressione che, ogni volta che si girava dalla mia parte, mi sorridesse e, rivolgendosi direttamente a me, cercasse di farmi capire le brutture, le disuguaglianze, le incongruenze che governavano il mondo affinché io mi dessi da fare per migliorarle (questo ovviamente nella mia fantasia).

«Quello è Don Primo, uno che ha aiutato tanta gente e ha ricevuto solo pedate. Dai suoi superiori in particolare, vescovo compreso».

Il giovane che mi aveva dato il benvenuto mi avvicinò all’uscita della Chiesa dicendomi, quasi sottovoce, parole che il mio condizionamento di allora rifiutava di credere. Continuò creandomi un certo fastidio:

«Figurati che vive qui confinato come se fosse in galera. Non può nemmeno andare a predicare in altre chiese».

Seppi più tardi da mio fratello, a cui avevo riferito la cosa, che quel giovane era stato uno dei più convinti partigiani (come lo erano tutti gli altri), ora era iscritto al Partito comunista, e, purtroppo, tutto ciò che aveva detto su Don Mazzolari corrispondeva al vero.

Il mio più grande rammarico è stato per anni quello di non essere riuscito a parlare direttamente con lui, soprattutto quando ho cercato di conoscerlo meglio attraverso i suoi scritti. Quando ho cercato di capire meglio chi fosse Don Primo Mazzolari e la grandezza di ciò che aveva fatto ma, purtroppo, era ormai scaduto il tempo.

Ebbi tuttavia la grande soddisfazione, qualche anno più tardi, nel vedere questo povero prete di campagna ma grandissimo uomo, riconosciuto come tale anche dai più autorevoli rappresentanti del Cattolicesimo. Rivalutato da due fra i personaggi che cambiarono radicalmente il volto della Chiesa di quegli anni.

Nel 1957, infatti, il Cardinal Montini, futuro Paolo VI, lo volle come predicatore alla Missione di Milano e nel 1959 Papa Giovanni XXIII lo ricevette in Vaticano con tutti gli onori definendolo «La tromba dello Spirito Santo in terra padana».

Mario Beltrami


Risparmio carta

Buongiorno, prego depennare dalle vostre liste di invio la signora G. M. […] La signora è deceduta 13 anni fa e la vostra rivista non interessa più a nessuno, quindi, per evitare a voi spese d’invio inutili, spese di stampa, carta buttata, lavoro per il postino, etc, etc, etc, prego non inviare più la vostra rivista, grazie.

16/08/2022

Come vi ho già comunicato in passato (la prima volta molti anni fa) la signora M. P. Anna, mia madre, è purtroppo deceduta nel 2009. Quindi risparmiate una copia e non inviate più la rivista.

11/07/2022

Spett. Redazione,
sono la figlia di Alessandra B. M. abbonata alla vostra rivista. Vi informo che, poiché la mamma non è più in grado di leggere e non risiede più al solito indirizzo, intende disdire l’abbonamento alla vostra rivista.

Ringrazio per l’attenzione e porgo cordiali saluti anche a nome della mamma.

L. M. 08/07/2022

Ho riportato qui alcuni messaggi ricevuti che chiedono la cancellazione dell’invio della rivista. Purtroppo, non tutte le richieste sono gentili come quella della signora Alessandra che ringraziamo di cuore. Altre volte hanno un tono accusatorio, come se noi avessimo per anni approfittato della bontà dei nostri lettori per spillare i loro soldi.

Fateci sapere comunque in tempo, che non volete più la rivista. Non è nostra intenzione invadere la vostra privacy.

Colgo anche l’occasione per ringraziare di cuore quei vicini di casa che ci avvisano del decesso o del trasferimento di uno dei nostri lettori. Grazie.

Una parola sul tema del risparmio di carta, in questi tempi in cui il suo prezzo è andato alle stelle e la cura dell’ambiente ci sta a cuore.

Primo: il vero spreco della carta avviene con gli imballaggi, sempre più invadenti, e con i milioni di copie di stampe pubblicitarie che riempiono le cassette postali, non certo con i giornali o le riviste di informazione che fanno fatica a trovare la carta necessaria.

Secondo: «il depennamento» di un indirizzo fa risparmiare i soldi della spedizione, ma la copia viene comunque stampata, almeno fino a quando non si fa un nuovo contratto con la tipografia che deve provvedere con ampio
anticipo la carta necessaria alla stampa.

Da ultimo un invito a far conoscere la nostra rivista ai vostri amici, anche nelle scuole. Contribuirebbe a aggiungere sempre nuovi lettori.

MC non rifugge dai nuovi mezzi di comunicazione su cui sta investendo cercando di mantenere la qualità dell’informazione senza cedere alla banalizzazione. Ma crediamo ancora con forza nella carta stampata come mezzo di conoscenza, riflessione e approfondimento. Siamo convinti che i temi legati alla «missione» non debbano essere bruciati nell’usa e getta del consumismo informatico.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Versi di amore e di scienza

Mi è capitato di rileggere un articolo su un vecchio numero di
Missioni Consolata di aprile 2021. L’articolo riguardava un libro di poesie «Versi di amore e scienza». Interessante per alcuni aspetti però nell’articolo, a mio modesto parere, si confonde l’amore umano con l’amore divino. Si sostiene che l’amore non lascia scampo alla sua perdita con prima o poi la morte della persona amata. Perdita che l’autore ha direttamente sperimentato. [l’amore] divino è il Bene e non possiamo mai perderlo perché è dentro di noi. Un pezzetto di Bene c’è in ognuno, in qualche angolo del cuore anche solo in un ricordo materno. Il Bene c’è sempre in noi anche quando non lo pensiamo. Lo possiamo far rinascere quando compiamo azioni di bene. Ogni giorno dobbiamo scegliere tra fare bene o male. Se scegliamo il Bene, questo lo rendiamo presente in noi e in chi ci circonda. Il Bene non muore mai. Il Bene è verità, giustizia sociale, fratellanza, comprensione, laboriosità, sobrietà, sincerità, buona volontà, fare pace. Se ci fosse più giustizia più sincerità, ci sarebbe più pace in famiglia, sul lavoro, nella società ecc. Tante volte è difficile capire ciò che è veramente bene per noi ed anche per gli altri. Solo la preghiera, l’Eucarestia e l’insegnamento del Vangelo ci aiutano a capire ciò che è veramente Bene. Ci illuminano il cammino, se lo vogliamo, se li seguiamo sinceramente e con costanza. Gesù è il vero Bene, le sue parole, il suo insegnamento. In una parabola molto bella Gesù dice: «Io sono la luce del mondo». Nelle omelie durante la messa si parla tanto di amore, quasi in modo inflazionato mentre si parla poco del Bene. L’amore evangelico è il Bene. Il Bene è più forte del male e più bello del male. Ricevere e fare del bene ci fa star meglio.
Cordiali saluti

Enrica B., 24/05/2022

Buongiorno Enrica e grazie per la sua lettera che esprime una profonda fede. Il libro di poesie «Versi di amore e scienza» cerca di esprimere il vuoto e il dolore lasciato dalla perdita di una persona che si è stimata e amata e che, per la natura umana, non può essere colmato neppure con la consapevolezza (o speranza) di un ricongiungimento futuro. È l’amore umano, come giustamente osserva lei, che fisicamente trova espressione nel mondo quotidiano, nella percezione che due persone si trovino insieme contemporaneamente e fisicamente. Perché, alla fine, in questo mondo noi tutti abbiamo bisogno di tangibilità. Galileo, che era un fervente cristiano, affermava che: «È intenzione dello Spirito Santo d’insegnarci come si vada in cielo e non come vada il cielo».

Allo stesso modo nel libro non ho affrontato l’amore divino, perché, come si deduce anche dal titolo, ho voluto coniugare un sentimento astratto e insondabile della natura umana, con la scienza. Non tutti abbiamo il dono della fede e sull’eterna lotta tra Bene e Male si sono spese milioni di parole, sia di autori atei, che agnostici o religiosi. E penso convenga con me che è obiettivamente difficile per noi umani consolarci di una perdita fisica, sentimentale ed emotiva, rifugiandoci o sperando in qualcosa di astratto come il Bene. Ho usato il termine “astratto” non in senso dispregiativo, ma perché è da millenni che si proclamano buone intenzioni raggruppate nella parola Bene, ma è da altrettanti millenni che nessuna società ha mai portato il Bene a sconfiggere definitivamente il Male. E se è vero che ricevere e fare del bene ci fa stare meglio, è altrettanto vero che il bene non potrà mai colmare l’assenza fisica.

Piergiorgio Pescali, 31/05/2022

A-t salùt, Gabiàn!

Ieri, 6 giugno, ci ha lasciato Ermes Rinaldi, da quasi sessant’anni gestore, con la moglie Bruna, dell’omonima trattoria di via Ganaceto a Modena. Su quel locale si è scritto tanto, come anche di Ermes, della Bruna, e delle tante specialità della loro cucina, rigorosamente modenese, dispensate ai clienti amici, che ogni giorno provavano a entrare. Sì, perché il posto era piccolissimo, ed Ermes chiudeva il sabato sera e la domenica.

Tante volte invitò a pranzo me e mia moglie Marisa (naturalmente chiarì subito che avremmo poi pagato…). Però, noi lavoravamo fino alle 14.30, compreso il sabato, e lui non accettava prenotazioni, men che meno telefoniche. E allora gli dicevo: Ermes, può mai essere che per venire a magiare da te dobbiamo prendere un giorno di ferie? E allora ci spiegò il perché di quello strano orario: quando negli anni ‘50 iniziò a lavorare come garzone, la trattoria che poi diventò sua, era frequentata esclusivamente da operai e da povera gente, che di sera, e di domenica, mangiavano a casa. E lui ha mantenuto la tradizione. Questo lo raccontò in Kenya, durante un viaggio fatto con Romolo Levoni (vedi MC 1-2/2017, p. 5) e altri amici per portare un po’ d’aiuto, di solidarietà e di amicizia ai Missionari della Consolata di Torino, che da oltre un secolo si occupano delle tante povertà di quel paese.

D’altra parte, due personalità come Ermes e Romolo erano destinate a incontrarsi e collaborare. Siamo stati con loro in «giro» per il Kenya nel 2009 e nel 2011, e posso assicurarvi che ognuno era un vulcano d’idee e d’iniziative. Ricordo solamente le migliaia di pezzi di gnocco, fritti e venduti da Ermes e dai suoi amici, in piazza della Pomposa, il cui ricavato era interamente versato all’associazione G.R.G. (Gruppo Resurrection Garden), fondata da Romolo
Levoni nel 1991 col compianto padre Ottavio Santoro per portare aiuto ai bambini del Kenya.

Penso di avere scattato decine di fotografie di Ermes attorniato da bambini, che per lui era inconcepibile, soffrissero ancora la fame, la miseria, la mancanza di medicine e di scuolain questo mondo così progredito. Come aveva sofferto lui quando era bambino. Insomma, un omone col cuore d’oro, innamorato della sua Bruna. Così lo ricordo e lo saluto, con quel nome «Gabiàn» che affibbiava a tutti quelli che frequentavano il suo locale. Ma, attenzione, se gabiàn nel gergo modenese indica una persona scimunita, sciocca, per lui era esattamente il contrario: Gabìan erano i suoi migliori amici, quelli a cui più teneva. E allora caro Ermes, ti saluto, «a-t salùt, Gabiàn».

Marco Ghibellini, a nome del Grg, Modena, 18/06/2022

Abba Paolo con noi

Celebrazione a Riva di Vallarsa nel primo anniversario della morte di abba Paolo Angheben con eucarestia presieduta da padre Daniele Giolitti

Otto maggio 2021. Quanto lontano era da noi abba (padre) Paolo Angheben, missionario della Consolata in Etiopia, quando la sua vita terrena nulla poté contro la malattia, mentre quanto vicino a noi oggi, riuniti nella celebrazione ad un anno dalla sua morte, l’abbiamo sentito; presenza viva, non solamente spirituale all’aprirsi delle testimonianze, spontanea linfa che sorreggeva una narrazione di vita dedicata agli altri, alle sue missioni, all’Africa. La santa messa domenicale, nel giorno della ricorrenza del patrono di Riva di Vallarsa (Trento), è stata il contenitore nonché il motore per quanti hanno dovuto attendere un anno per esternare la personale vicinanza alla persona che tutto aveva dedicato agli altri: più di 40 anni in Etiopia, costruttore ispirato, consigliere sagace, supporto spirituale e materiale, trascinatore di uomini e donne, profondo conoscitore del mondo africano, in particolare di quello giovanile.

Un po’ alla volta questi aspetti, che uscivano dalle interviste che venivano riprodotte, costruivano e materializzavano la sua figura, animavano la voce che entrava nei cuori dei presenti, che ne veniva assimilata, cullata dalle musiche africane del coro Sacra Famiglia, per l’occasione intervenuto in forze.

Ognuno dei presenti aveva mantenuto un rapporto personale con lui: fosse un gesto, una parola, una discussione, un segreto, una confessione, un religioso ma anche laico confronto; un rapporto mai sopito, mai dimenticato, ma accantonato, nell’intesa, anche certezza, di poterne intraprendere la naturale prosecuzione al momento del suo ritorno in Italia.

Padre Daniele Giolitti, confratello di abba Paolo e concelebrante quel giorno, nel parlare di lui ha mosso i ricordi e le testimonianze che, scritte da più mani, hanno reso palesi le sue opere, la sua umanità e la vicinanza assoluta alle parole del Vangelo, primaria fonte di ispirazione delle Lectio Divinae da lui curate.

Le testimonianze rimbalzavano nel cuore dei presenti, colmavano quella sorta di vuoto fra noi e lui; parole che hanno quasi evocato la sua ieratica figura e che, impersonate in più voci, hanno trasmesso all’assemblea la serenità e umana accettazione della sua dipartita, nel rimpianto però di non averlo potuto salutare, di non averne assimilata tutta la sua carica spirituale, di non aver compreso a fondo quanto la sua presenza fisica ci mantenesse sulla retta via.

Lo stralcio di testimonianza che segue, esprime quanto abba Paolo avesse toccato il cuore di chi ricorreva a lui per una parola, un consiglio, un parere disinteressato. Un po’ quello che è stato per noi.

«Quando padre Paolo è partito per l’Etiopia, nel 2001, ho pianto tanto.
Non mi davo pace.
Ho cercato, senza trovarlo, un sostituto.
Dopo la sua morte ho di nuovo pianto tanto, ma senza la disperazione del primo distacco.
Penso che abbia compiuto la sua missione. Penso che abbia dato tutto ciò che poteva dare, fino alla fine.
Ringrazio per averlo conosciuto e frequentato».

Ciao abba Paolo.

Lucio Angheben e gli altri fratelli di padre Paolo

Celebrazione a Riva di Vallarsa nel primo anniversario della morte di abba Paolo Angheben con eucarestia presieduta da padre Daniele Giolitti

 




Noi e voi, dialogo lettori e missionari

Ucraina

Gentile redazione,
riguardo all’articolo a pag. 64 del numero di aprile 2022 vorrei sì ringraziare per aver affrontato l’argomento (non mi stupisce in realtà), ma anche far notare che l’argomentazione portata per spiegare il tentativo d’avvicinamento dell’Ucraina alla Ue sia in realtà tendenzioso. Capisco la ristrettezza degli spazi e non si può raccontare tutto in tre pagine, ma se non si dice che ai tempi del rifiuto di Janukovyc di sottoscrivere l’accordo di scambio in realtà si trattò di una scelta tra due proposte, una della Ue e Fmi (è fondamentale dirlo per capire correttamente) e l’altra della Russia, che poi lei dice non aver sborsato neanche un rublo per l’Ucraina. La scelta per la proposta russa fu spiegata dal governo ed era proprio dovuta alle richieste del Fmi… Mi stupirebbe se lei non sapesse di cosa si tratta. La proposta russa, la cui economia non è così potente come quella occidentale, puntava su un accordo con condizioni di favore. La Russia sapeva benissimo come era la situazione ucraina e non stupisce che il Fmi poi si lamentò dell’utilizzo dei fondi e credo anche che li sospese. Nell’articolo, oltre a dare per scontato il solito noiosissimo pregiudizio che la Russia sia sempre brutta e cattiva e dalla parte del torto, e che la Eu sia sempre e solo buona e il faro di ogni paese, sembra insinuare una sorta di disonestà congenita nella Russia.

Sarebbe auspicabile che nei prossimi articoli non si facesse come si fa su tutti i giornali e cioè, dicendo che c’è un aggressore e un aggredito (certo, se si guarda solo il 24 febbraio è cosi) si stabilisce a priori chi è il buono e chi è il cattivo, e ciò diventa un alibi per non analizzare tutte le vere cause di questo bruttissimo conflitto.

La Russia e la Gb-Usa (via Nato, perché la Eu purtroppo non conta nulla, soprattutto con una Von der Layen completamente supina al volere Usa), si contendono l’Ucraina da un bel po’, e se Putin ora non vuole più sentire ragioni e si siederà al tavolo di un negoziato solo quando lo riterrà conveniente, dall’altro lato abbiamo gli Usa con la Gb che vogliono solo prolungare più che si può questo conflitto. Degli interessi degli ucraini, quelli sfollati per intenderci, non interessa a nessuno, anzi forse un po’ più interessa alla Russia, non certamente agli Usa-Gb.

Cordiali saluti

Andrea Sari 
17/05/2022

Caro signor Andrea,
rispondo a nome della redazione che lei interpella.

Comincio sottolieando che l’articolo in questione è breve di sua natura e quindi non ha né la pretesa né lo spazio fisico per poter approfondire ogni aspetto della complicatissima situazione dell’Ucraina e neppure offrire un’analisi storica completa (fatta poi in MC 05/2022). Per questo, ad esempio, il prestito del Fmi è stato solo accennato in collegamento con l’accordo Ue del 2013, senza entrare in tutti i dettagli.

Poi vorrei far notare come non ci sia da parte nostra l’intenzione di demonizzare la Russia in quanto tale. Di fatto il testo condanna gli atteggiamenti di prepotenza da qualsiasi parte provengano e propone il superamento della logica dei blocchi, in modo da spezzare la spirale dell’inimicizia che porta inevitabilmente alla guerra. Da ultimo l’articolo reclama la pace per porre fine alle sofferenze di chi sta morendo sotto le bombe.

L’autore del testo, il nostro Francesco Gesualdi, se è partigiano, lo è dalla parte della pace, «che si prepara con la pace» non con il «para bellum».

Questa rivista, anche ospitando con libertà opinioni diverse, non intende essere spazio di scontro, ma luogo di incontro per persone che sono capaci di «piangere»    (cfr. Mt 5,4) con l’umanità che soffre, sia essa nell’Ucraina devastata dalla violenza che nelle famiglie di tanti giovani russi, specialmente provenienti dalle zone più povere e remote del paese, sacrificati al moloch della guerra. Vuole essere spazio per persone che, convinte che la guerra non costruisce la pace, diventano ogni giorno costruttori di pace, attenti alle persone concrete, a ogni persona, senza applicare etichette, senza dividere il mondo in buoni e cattivi, ispirati dall’esempio del buon samaritano (cfr. Lc 10,30-37).

Un cammino di libertà

Egr. Signori,
leggo con interesse e soddisfazione, anche se non sempre concordo o capisco, la rubrica «Un cammino di libertà» e chiedo a tal proposito se l’insieme delle puntate verrà raccolto in un unico documento leggibile nel futuro in Internet. Grazie per la risposta e buon cammino.

Saverio Compostella
17/05/2022

Caro signor Saverio,
sarà nostra cura raccogliere tutti i capitoli dedicati al cammino di libertà del popolo d’Israele e nostro. L’abbiamo già fatto con altri testi apparsi sulla nostra rivista, facilmente scaricabili dal nostro sito. Nel caso, se ce ne fosse richiesta, potremmo anche fare delle stampe cartacee delle stesse raccolte (costi da studiare) per chi preferisce leggere ancora su un buon vecchio libro.

Grazie, Annalisa Vandelli

Cara Annalisa,
io ti conosco solo un po’ per aver letto, tempo addietro, quanto hai scritto su padre Giuseppe Richetti (1933-1993), tuo zio e missionario della Consolata in Kenya.

Ora sei venuta alla ribalta con «Acqua in Bocca», un volume poderoso su fratel Peppino Argese (1932-2018), il missionario della Consolata che raccoglieva «le lacrime della foresta» del Nyambene (Meru, Kenya) e le incanalava in uno stupefacente acquedotto, portatore di vita per una marea di gente assetata.

Annalisa, hai composto un’opera con un protagonista «silenzioso», coadiuvato da altri personaggi di notevole spessore umano. L’ultimo è padre Daniele Giolitti, laureatosi in ingegneria al Politecnico di Torino proprio con una tesi sull’acquedotto del «silenzioso». Tuttavia, protagonista «ultimissima» sei tu, Annalisa, con la tua penna faconda.

A me «Acqua in Bocca» affascina perché è «un balcone spalancato sul mondo». Da tale balcone, puoi scorgere pure l’assassinio di Robert Kennedy, fratello del presidente statunitense John (anche lui ucciso), come anche il martirio della volontaria missionaria Annalena Tonelli (Somalia) e quello di padre Giuseppe Bertaina (Kenya). Inoltre, deplori la guerra americana in Vietnam. Non manca papa Francesco tra i profughi a Lampedusa.

E moltissimo altro. Per esempio, Regina, la domestica di fratel Peppino. Un giorno la donna apre la porta a tre individui che esigono dal «silenzioso» (prossimo alla morte) privilegi danarosi nella gestione dell’acquedotto nella foresta. Gli si sono presentati con il dono di alcune uova marce. Regina li caccia furiosa.

Che regina… quella Regina! Il «silenzioso» le sussurra: «Grazie, Regina. Però non avventarti contro le tenebre. Pensa piuttosto a tenere accesa la tua lampada».

«Acqua in Bocca» non è un racconto né una biografia. È una corale o un poema, un poema impregnato dalla sacralità della foresta del Nyambene. Il «silenzioso» vi «si inginocchia, perché lì c’è Dio. Questa è la sua chiesa». Ha concesso a fratel Peppino Argese di entrare, di ascoltare la sua parola appesa ai rami.

Cara Annalisa, ti ho scritto queste righe per dirti semplicemente: grazie.

padre Francesco Bernardi,
missionario della Consolata in Tanzania, 26/05/2022

Padre Francesco ricorda anche Regina, che ha servito fratel Mukiri con tanta dedizione (vedi la foto del 2012 con i figli e fratel Mukiri) . Regina ora è insieme lui nelle splendide foreste del Paradiso dove il Signore l’ha chiamata il 12 maggio 2022, dopo una breve e improvvisa malattia. Aveva cinquant’anni.

Ricordo che il «poderoso» libro «Acqua in bocca, storia di fratel Peppino Argese, il silenzioso che raccoglieva le lacrime della foresta» (368 pagine di cui 48 fotografiche) è disponibile su richiesta anche all’indirizzo della rivista con contributo minimo di 15€.

 

Monsignor Giorgio Marengo cardinale

«Il Papa ha annunciato la creazione dei nuovi porporati: tra di essi tre capi di dicastero della Curia. Sedici gli elettori, cinque ultraottantenni. Cinque italiani, tra cui il vescovo di Como Cantoni, l’emerito di Cagliari Miglio e il professor Ghirlanda. Il più giovane con i suoi 48 anni è Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, capitale della Mongolia». (Vatican News 28/05/2022)

Missionari carissimi,
il Signore continua a benedire il nostro Istituto con il suo immenso amore.

Oggi il papa Francesco ha nominato il nostro caro monsignor Giorgio Marengo cardinale. È il primo cardinale dell’Istituto, è un dono di Dio e un riconoscimento per il nostro Istituto, è un dono del nostro amato Fondatore il beato Giuseppe Allamano.

Mi trovo a Boa Vista, precisamente all’aeroporto pronto per partire per San Paolo: ho letto la notizia nel mio cellulare che è stato riempito di messaggi e di auguri. Che bello sentire e vedere tanta vicinanza e affetto, tanta gente che ama la Consolata nei suoi figli e figlie.

Grazie a Dio non passano solo le notizie brutte di guerre e ingiustizie, ma vengono anche comunicate le notizie belle, buone e vere, quelle che riscaldano il cuore e fanno del bene.

La notizia della nomina di Giorgio è una buona notizia che fa bene a tutti: alla chiesa, al mondo, all’Istituto, all’Asia e a tutti noi. La nomina di Giorgio è per noi tutti un messaggio e un invito all’impegno, alla generosità, alla disponibilità alla volontà di Dio nella nostra vita.

È conferma che la missione non ci appartiene ma è opera di Dio e che noi siamo semplici strumenti nelle sue mani.

Che questa notizia, che questo nuovo servizio di Giorgio alla Chiesa sia per noi tutti benedizione, consolazione e ringraziamento. La Consolata benedica e accompagni Giorgio, sostenga e doni salute a sua madre e a sua sorella, doni a tutti noi più gioia nel servizio, più generosità nella missione e più speranza per il futuro.

Al caro Giorgio, nuovo cardinale, a tutti voi, coraggio e avanti in Domino!

padre Stefano Camerlengo
Boa Vista, 28/05/2022

Chi è il nuovo cardinale

Monsignor Giorgio Marengo è nato il 7 giugno 1974 a Cuneo. Dal 1993 al 1995 ha studiato filosofia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e dal 1995 al 1998 teologia nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Dal 2000 al 2006 ha compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo la licenza e il dottorato in Missionologia. Ha emesso la professione perpetua il 24 giugno 2000 come membro dell’Istituto Missioni Consolata ed è stato ordinato sacerdote il 26 maggio 2001.

Dopo l’ordinazione sacerdotale è stato scelto come membro del primo gruppo di due missionari e due missionarie della Consolata destinati alla Mongolia. Ricevuto il mandato missionario nel santuario della Consolata il 19 maggio 2002, i quattro sono finalmente partiti il 20 luglio 2003 per la nuova missione nella capitale mongola. Nel 2007 hanno aperto Arvaiheer dedicata a Maria Madre della Misericordia, di cui padre Giorgio è stato parroco fino alla nomina a vescovo. Nel 2016 è nata la «Regione Asia» dell’Imc (Mongolia, Corea del Sud e Taiwan), di cui è diventato consigliere e responsabile per la sua nazione. Il 2 aprile 2020 il Santo Padre Francesco lo ha nominato Prefetto apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia), con carattere vescovile assegnandogli la sede titolare di Castra Severiana. È stato consacrato dal cardinal Luis Antonio Tagle l’8 agosto 2020 in quello stesso santuario della Consolata in Torino dove aveva ricevuto il suo mandato missionario.





Noi e voi, spazio di dialogo lettori e missionari


Dov’è Dio quando gli uomini sono in guerra?

La guerra è quanto di più tragico, disumano e folle possa accadere nel mondo. Lo possiamo constatare in questi giorni in cui
l’Ucraina è oggetto di occupazione e bombardamenti con innumerevoli morti tra i civili, fughe all’estero, ecc. Viene spontaneo chiedersi dove sia e che cosa faccia Dio di fronte alle ingiustizie e alle violenze a danno degli innocenti. Gli autori dell’Antico Testamento, per trascrivere l’esperienza del popolo d’Israele, hanno fatto ricorso al lessico e ai modelli culturali dell’ambiente mediorientale, compreso il fenomeno umano e storico della guerra; si trovano di frequente quindi episodi di eccidi, stermini e vendette senza limiti. Nella ricerca del volto di Dio è presente anche il titolo «Signore degli eserciti» (Is 10,24) e tra tutte le forme di conflitto vi è la «guerra santa» (Gl 4,9); si fa breccia, in ogni caso, la convinzione che Dio non corrisponda ai criteri elaborati dall’uomo, come avviene, ad esempio, nel libro di Giobbe, in cui si mette in dubbio l’idea che l’insuccesso sia dovuto all’abbandono divino, e nella letteratura profetica in cui si elabora l’idea che la giustizia di Dio non sia quella dei canoni umani. Il Nuovo Testamento rivela infatti un volto di Dio del tutto inatteso e, soprattutto, annuncia che Gesù, il Figlio, non rispondendo con la violenza alle accuse rivoltegli e accettando la morte, ha vinto definitivamente il male, in particolare il peccato. Dio non è all’origine del male e ha a cuore la vita (Gn 9,16), dinanzi alle gravissime derive causate dalle possibilità dell’uomo conseguenti alla sua libertà, interviene con l’incarnazione, la vita, la morte e resurrezione del Figlio Gesù, e propone un ideale (Mt 5,44), l’amore verso il nemico, che tanti martiri e santi hanno testimoniato nel corso dei secoli, non sminuendo in ogni caso il valore della lotta per la giustizia. Dio, che è vivo, sicuramente agisce con il suo Spirito ma in modo imperscrutabile; non interviene in modo magico e sostiene l’uomo che potenzia le sue «armi» quali l’impegno quotidiano nel superare i piccoli contrasti inevitabili, la pratica costante di azioni diplomatiche e politiche volte a mediare, la preghiera perseverante ed insistente. Dio soffre atrocemente per le vite interrotte con la violenza, i danni arrecati all’ambiente naturale e alle opere costruite dall’uomo, per l’uso delle armi sempre più sofisticate e l’incapacità di trovare intese durature, necessarie in quanto gli equilibri geopolitici non sono mai definitivamente risolti, è presente laddove si soffre, e «agisce» attraverso tutte le iniziative che l’uomo assume per porre rimedio ai conflitti, costruendo degli accordi, e attraverso coloro che, nella fede e nella grazia sacramentale, sono uniti intimamente a Cristo (Mc 11,24) nell’implorare la pace.

Milva Capoia
14/03/2022


Troppa popolazione?

In questi giorni sembra che sulla Terra abbiamo superato gli otto miliardi di abitanti. Eravamo 2.480 milioni a fine 1950, quindi in 71 anni siamo più che triplicati. È vero che in questi 71 anni non ci sono state guerre mondiali e neanche epidemie generalizzate: ma di una pandemia ci stiamo occupando adesso e sembra che Putin abbia voglia di trascinarci in una guerra mondiale per difendere il suo posto di padrone della Russia e magari diventarlo di tutto il mondo. In ogni modo, anche senza il suo aiuto non credo che la vecchia palla su cui viviamo sia in grado di reggere a lungo una popolazione che si triplica ogni 70 anni. Io ho avuto la possibilità di girarla tutta (e a forza di prendere sole mi son preso anche un tumore, ma tanto ho superato benissimo gli 80) e vi assicuro che è bellissima e che ha una popolazione meravigliosa che però si fa governare da troppi cialtroni e non pochi veri assassini.

Claudio Bellavita
24/03/2022

Grazie per le considerazioni e per l’amore alla nostra Terra. La questione della popolazione è ovviamente molto complessa e controversa. Di sicuro la soluzione non sta né nella pandemia né nella guerra, ma probabilmente neanche nelle «scelte di morte» che avvengono di fatto nel nostro mondo (figlio unico, aborto, messa in crisi della famiglia, esaltazione del gender, ecc.). Di fatto, e l’Italia ne è capofila, stiamo assistendo a un declino demografico preoccupante, come se non credessimo nel futuro. Invece la crisi che stiamo vivendo richiede un serio ripensamento degli stili di vita, dei consumi, dell’uso delle risorse del nostro pianeta e delle relazioni tra i popoli.


Tra guerriglia e sogni di pace

Carissimi amici,
riesco finalmente a raccontarvi un pezzo di vita della mia parrocchia in questi mesi del nuovo anno. Dopo la paura iniziale per il Covid-19, in questo ultimo periodo, qui a Solano la vita è ritornata quasi alla normalità.

In Colombia la distribuzione dei vaccini è iniziata dalle zone periferiche e ai confini con altri paesi come Perù ed Ecuador; quindi, possiamo dire che siamo stati privilegiati essendo stati tra i primi a essere vaccinati.

La situazione sociopolitica in Colombia è sempre più complicata nonostante l’accordo di pace avvenuto nel novembre 2016 tra il governo del presidente Santos e la Farc (guerriglia). Molti hanno lasciato le armi e, attraverso i programmi integrativi dello stato, si sono inseriti nella vita civile, ma molti altri hanno deciso di continuare la lotta armata ed è sorta la disidencia (dissidenza), mentre altri, dopo essersi consegnati, delusi per il mancato compimento delle promesse statali, sono ritornati alle armi.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia

Il 28 gennaio e 8 febbraio ho accompagnato tre giovani di Solano al seminario diocesano per un discernimento vocazionale: uno a San Vicente del Caguán, altri due a Florencia, il capoluogo della regione. Appena arrivato in canonica al mio rientro da Florencia, ricevo una chiamata: «Padre è tutto pronto». Mi reco al «Club Juvenil», punto d’incontro per le varie attività dei giovani costruito da padre Giuseppe Svanera, senza sapere perché richiedono la mia presenza. Entro e trovo davanti a me tre bare con i corpi di tre giovani fratelli che sono stati assassinati.

Viviamo in un territorio dove per sopravvivere si coltiva la pianta di coca da cui poi viene estratta la pasta basica per produrre la cocaina e, quindi, la violenza è fortissima.

Le bare. ancora aperte, sono poste sopra tavole di legno sostenute da casse vuote di birra. Attorno si brucia caffè per cercare di coprire l’intenso odore dovuto alla decomposizione dei corpi. Un giovane che è stato testimone dell’eccidio racconta la brutalità che i tre fratelli hanno subito: legati e uccisi con vari colpi alla testa e al torace da un gruppo di trafficanti di droga che si fa chiamare Sinaloa. Tutto risale al 5 febbraio.

I primi a parlare con me sono i padrini di battesimo di due dei giovani assassinati: sono molto addolorati e mi dicono che il papà sta sbrigando le pratiche con la giustizia. Hanno preso seriamente il loro impegno di padrini e sono una chiara testimonianza di fede per la gente del paese. Per questo li ringrazio. Mi presentano i genitori. La mamma già la conoscevo perché l’avevo aiutata economicamente comprando direttamente da lei alcuni dei suoi prodotti. Vive separata dal marito, e fa parte della «Iglesia evangelica pentecostal». Il papà, Pedro, desidera la messa cantata per il funerale dei figli.

Celebriamo il funerale in un ambiente militarizzato, con molta paura e tristezza. Durante l’omelia denuncio gli autori di questo assassinio, dicendo che non esiste nessun motivo per togliere la vita a qualsiasi persona: Dio dona la vita, non la toglie. Invito gli assassini a pentirsi del loro gesto e a non continuare con queste stragi che stanno colpendo molto duramente il nostro territorio, soprattutto contro i giovani.

Le tre salme sono caricate su tre mezzi e portate al cimitero in processione. Accompagno il corteo con la recita del rosario, benedico la tomba e durante la sepoltura alcuni giovani mettono musica colombiana, il «Vallenato», che esprime la disperazione che stanno vivendo.

Nel pomeriggio viene il papà dei tre giovani. È un antioqueño che ha lasciato la sua terra 36 anni fa in cerca di fortuna. È stato nel Caguán, a Remolino, dove ha conosciuto il padre Giacinto Franzoi, e ora si trova nel Yurilla, dove è proprietario di un piccolo negozio di alimentari e vende benzina. I figli vivevano in un villaggio più all’interno, nella foresta. Quando gli hanno comunicato della loro morte, superando il dolore con molta forza, ha coordinato tutto per portarli a Solano. Ha chiesto appoggio alle forze dell’ordine che gli hanno dato protezione e gli hanno consigliato di non ritornare da dove era venuto perché è a rischio la sua vita.

Gli chiedo: «Perché li hanno uccisi?», e lui ripete all’infinito: «Erano bravi ragazzi, non hanno fatto del male a nessuno. Io non posso lavorare perché sono anziano. Spesso andavo da loro e si chiacchierava e rideva, o loro venivano da me. Abbiamo passato momenti molto belli di amicizia, di fraternità e di gioia grande. Non mi spiego il perché».

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia

Prosegue: «Sono stato interrogato dall’esercito per più di due ore, e ho ripetuto che non abbiamo mai collaborato con nessun gruppo. Ho detto che quando venivano i guerriglieri mi chiedevano di trasportarli con la canoa. Non potevo dire di no e così davo loro le chiavi e la benzina. Mai ho guidato io l’imbarcazione. Loro andavano e me la riportavano. Chiedevano cibo e compravano la benzina, mai a loro abbiamo creato problemi. Ho anche dato all’esercito le coordinate dove poterli trovare, anche se i militari sono qui da più di un anno e non fanno assolutamente nulla, stanno a guardare. Padre, ho anche denunciato che l’anno scorso, quando è stato ucciso un dissidente della Farc, vi è stata una grande mobilitazione militare con barche ed elicotteri fino ad arrivare nel mio villaggio. Erano presenti circa 80 uomini del gruppo Sinaloa, ma l’esercito ha sparato verso le canoe dove c’erano i contadini, non a quelle dei guerriglieri. Sono arrivato alla conclusione che vi è una alleanza tra l’esercito e i Sinaloa, e che forse questo gruppo è stato creato dallo stesso esercito con ex combattenti della Farc per combattere la dissidenza».

Qualche giorno dopo il signor Pedro viene a chiedermi il certificato di sepoltura dei suoi tre figli perché vuole denunciare lo stato. È intenzionato ad andare a Bogotá per parlare con i mezzi di comunicazione a livello nazionale e internazionale. È arrabbiato e triste. Mi dice: «Non voglio che muoiano altri giovani, molti ne sono stati già uccisi. Dobbiamo fermare questa strage. Oggi la barca di linea portava più di cento persone che scappavano dal territorio dopo aver visto trucidare i miei tre figli senza alcun motivo».

Lo avviso che oggi passerà a Solano la Croce Rossa internazionale e che sarebbe importante mettersi in contatto con loro perché appoggiano questi casi di violazione dei diritti umani.

Vedo che si fa sempre più urgente un lavoro con gli adolescenti e i giovani. Già in parrocchia lo stiamo attuando, non solo con attività religiose di catechismo e con gruppi giovanili, ma con una presenza a tappeto nelle varie scuole e collegi del territorio dove operiamo, attraverso un accompagnamento di formazione sul progetto di vita e sui valori in cui credere per costruire il proprio futuro.

Approfitto per ringraziare le varie associazioni e persone che hanno collaborato in questi anni nell’appoggio economico delle varie attività realizzate nella parrocchia e a livello del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano (come il progetto di Amico, luglio 2019). Qualche frutto lo abbiamo visto in giovani che si sono inseriti nella società come lideres. A livello ecclesiastico abbiamo quattro giovani nel seminario.

Da quando sono arrivato il 3 dicembre del 2017 abbiamo diviso questo immenso territorio in tre parrocchie e come zona ci troviamo una volta al mese qui nella parrocchia madre. Siamo un bel gruppo: tre sacerdoti, sette suore, due seminaristi e una laica Missionaria della Consolata. Un gruppo di missionari/e molto giovani che, guidati dalla forza dello Spirito del Signore, vogliamo accompagnare i vari popoli che vivono in questo territorio amazzonico minacciato dalla violenza e dalla distruzione per interessi di potere e di soldi.

Grazie per la vostra vicinanza, sempre vi ricordo nell’Eucaristia che sta al centro della mia giornata e della mia vita.

Il beato Giuseppe Allamano (oggi è la sua festa) e la nostra madre Consolata siano di appoggio nel nostro cammino missionario per le strade del mondo.

Padre Angelo Casadei
da Solano, Colombia, 16/02/2022


Nuovo ausiliare a Caracas

È con gioia, e ringraziando Dio e la Vergine, che i Missionari della Consolata (Imc) in generale, e quelli del Venezuela in particolare, hanno ricevuto, il 23 dicembre 2021, la bella notizia della nomina di padre Rivas Durán Lisandro Alirio, fino ad allora rettore del Pontificio collegio missionario internazionale «San Paolo apostolo» di Roma, come vescovo ausiliare di Caracas.

L’ordinazione episcopale di mons. Lisandro e mons. Carlos Márquez è stata conferita dal cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Caracas, nella chiesa di san Giovanni Bosco nella capitale, con la partecipazione di molti vescovi del Venezuela, più alcuni vescovi di Rito greco e due vescovi Imc dalla Colombia.

Nella sua omelia, il cardinale, riferendosi al testo biblico del «Buon Pastore», ha ricordato ai vescovi eletti che sono «scelti, preferiti e sostenuti dal Signore» e che «il Signore li ha chiamati per nome perché sono di Dio» e li ha esortati a essere dei buoni pastori sull’esempio di Gesù.

Domenica 13 marzo 2022, monsignor Lisandro ha celebrato la sua prima messa come vescovo ausiliare nella parrocchia di San Joaquín e Santa Ana di Carapita, nell’area pastorale che è stato incaricato di accompagnare nella periferia della città.

Ha presentato il Vangelo come suo programma pastorale e ha sottolineato che sul suo emblema episcopale c’è la Bibbia aperta su cui sono incise A e Ω con il motto «Perché in Lui abbia vita». Ha espresso la volontà di dare il meglio di sé al servizio del popolo di Dio affidato alle sue cure.

adattato da «Vida nuestra», aprile 2022

Riportiamo in breve questa notizia, riservandoci di pubblicare quanto prima un’informazione più completa sull’avvenimento e sulla situazione pastorale di Caracas.

Foto di gruppo dopo la consacrazione episcopale di Rivas Durán Mons. Lisandro Alirio




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


La sofferenza dei bambini

Leggo sempre con interesse il vostro giornale, uno dei pochi che spaziano su tutto il mondo. Congratulandomi per il vostro lavoro vi invio queste poche riflessioni. Tutti noi abbiamo grande venerazione per il Santo Padre, un po’ di tristezza però domenica sera in Tv quando, alla domanda di Fazio sulla sofferenza dei bambini innocenti, il papa non ha puntato il dito contro la cattiveria degli adulti ma si è limitato a dire che non ne sapeva la causa, non aveva una spiegazione. Non è per fare i saccenti ma tantissime volte la sofferenza dei bimbi è causata dalla cattiveria di noi adulti. Bimbi che si ammalano per l’inquinamento causato dai grandi con la loro sete di guadagno eccessivo. Il denaro, i privilegi, il successo ai primi posti per cui cibo avariato venduto ugualmente con la conseguenza che mangiamo sovente alimenti dannosi per la salute specie dei piccoli indifesi. Aria inquinata, rifiuti tossici sversati ovunque, radioattività eccessiva. Tantissime altre volte i bimbi soffrono sempre per colpa dei grandi, per la loro cattiveria sotto forma di ingiustizie sociali o per violenze fisiche subite. Come si fa a dare la colpa a Dio se siamo noi adulti a causare più o meno indirettamente tali sofferenze? Un mafioso che, sparando a un altro mafioso, uccide per sbaglio un bimbo di passaggio è forse colpa del cielo o non piuttosto della cattiveria del mafioso che voleva uccidere? Come si fa a dare la colpa al cielo se un bimbo nasce malato quando siamo noi che inquiniamo e trattiamo male, con egoismo e cattiveria una mamma incinta? Si sente pure parlare di ragazze obbligate a prostituirsi anche durante la gravidanza senza rispetto né per la mamma né tantomeno per il nascituro. Poi ci si scandalizza della sofferenza degli innocenti, quando siamo noi adulti a causare tale dolore con sopraffazioni tra noi, cattiverie che si riversano sui bimbi, gelosie, invidie in famiglie. Bimbi che vivono con genitori che litigano in continuazione per i loro capricci e volontà di supremazia. Tantissime volte la cattiveria dei grandi ricade più o meno indirettamente sui bimbi innocenti. Siamo noi adulti che ci comportiamo male con orgoglio e presunzione di poter fare a meno degli insegnamenti del Vangelo e poi ci lamentiamo. Cordiali saluti

E. B.
email del 23/02/2022

Gentile E.,
pubblico volentieri la sua sul dolore dei bambini, senza però condividere la sua amarezza per la mancata risposta del papa. In realtà molte situazioni di sofferenza dei bambini non hanno una spiegazione e, probabilmente, come per la sofferenza degli adulti e degli anziani, dobbiamo accettare la finitezza, il limite insito nella nostra natura di uomini.

Non so lei, ma con questa realtà ho avuto a che fare fin dalla mia infanzia, andando con i miei genitori alla tomba della mia prima sorella, morta in 12 ore a sette mesi, mentre io ero ancora nella pancia di mia madre. Credo che il dolore provato da mia madre in quel momento abbia segnato la mia vita senza una spiegazione.

Ma tutto quello che dice circa la nostra responsabilità nel moltiplicare le sofferenze dei bambini – e non solo a loro -, è vero. Quanto sta succedendo in questi giorni in Ucraina ne è una prova evidente, così come l’incredibile numero di aborti fatti ogni anno nel mondo. Sono già oltre 7 milioni nei soli mesi di gennaio e febbraio 2022. Non sono pulci, ma bambini. Senza contare la sofferenza delle madri che non viene cancellata anche se – come qualcuno propone – l’aborto diventa un diritto.

Oggettivamente non ho risposte esaustive da dare sulle cause della sofferenza dei bambini «innocenti» – ce ne sono di colpevoli? -. Cerco anche di capire e approfondire le cause di tanto male, senza però farmi schiacciare dell’enormità dei problemi o diventare maestro nel blame game (il «gioco del biasimare», dare la colpa). È vero, sono urgenti anche prese di posizione a livello internazionale, ma, come fanno tanti miei confratelli nei paesi dove sono missionari, la prima cosa è che ciascuno faccia la sua parte facendosi carico di quei bambini che incontra con la vicinanza, la cura, l’attenzione, la tenerezza. In fondo solo l’amore può essere una risposta vera al dolore.

Sta a noi, con i nostri atteggiamenti, diventare alternativa d’amore alla cattiveria, senza aspettare grandi soluzioni, ma diventando prossimi per le persone, piccole e grandi, che incontriamo sulla nostra strada.

 


L’amico di Tura ci ha lasciato

Domenica 6 febbraio, puntuale come ogni settimana, da Tura, nella diocesi di Singida in Tanzania, padre Remo Villa ha mandato il suo solito cocktail di notizie e foto agli amici.

«Buona sera a tutti voi, Tura Friends. Oggi c’è questa barca che ci aspetta. Anche se quasi piena, il barcaiolo si è reso disponibile a fare la spola fino a che tutti i Tura Friends non siano arrivati a destinazione. Quindi mettiamoci in fila pazientemente.

Oggi, domenica, partenza alle otto e ritorno alle sei e mezzo, con il buio in arrivo, per la messa alla comunità di Loya, la più lontana ma senz’altro la più vivace.

Con la strada che comincia ad avere problemi, anche se siamo solo all’inizio delle piogge. Ma inserendo le 4 ruote motrici, diventa quasi una strada asfaltata.

Chiesa piena con tanti bambini, e la gente attenta dall’inizio alla fine della celebrazione.

Alex, il giovane catechista, è l’anima della comunità, con iniziative che spronano tutti a guardare sempre avanti. Ed in questo è affiancato da un vivace comitato di leader.

I preparativi per la costruzione della chiesa continuano: ogni domenica parte dei mattoni vengono avvicinati alla zona dove verrà edificata la nuova chiesa. Ci sono già cinque camionate di sabbia sul posto. L’ultima colletta ha fruttato più di una tonnellata di cemento. E oggi ho suggerito di far partecipare a questo sforzo anche i molti cristiani originari di Loya, ma che ora vivono – e molti di loro hanno fatto fortuna – in varie città del Tanzania. Proposta accettata e che verrà realizzata al più presto.

“Mattone su mattone”, cantavamo, quando una quarantina di anni fa mi trovavo a Santa Maria a Mare, in quel di Fermo (Ap).

Haba na haba hujaza kibaba, diciamo in swahili. Una goccia dopo l’altra riempiono il bicchiere.

Dopo un buon pranzo a casa di un maestro, una visita veloce al fiume il cui greto, in una delle ultime visite, avevo attraversato con la macchina.

Oggi almeno un metro e mezzo di acqua, dalla corrente veloce, solcata solo da qualche piccola barca per il trasporto di persone e di cose.

Tre settimane fa, come vi avevo accennato, hanno riaperto le scuole e, quindi, anche la nostra St. Raphael Primary school.

Ogni giorno vi è qualche nuovo arrivo, e anche oggi, domenica, due ragazzi si sono aggiunti. In totale, fino ad oggi, sono una settantina, una trentina dei quali vivono nel collegio provvisorio in attesa di poter iniziare la costruzione, ampia e funzionale come si deve, all’interno del terreno della scuola non appena saranno risolti i problemi di occupazione abusiva di gran parte dell’area».

Domenica 13 febbraio non arriva il solito messaggio. Allarme tra gli amici. Il 14, ne arriva uno breve breve:

«Ciao Tura Friends.
Alcuni amici mi chiedono se va tutto bene, dal momento che ieri il nostro appuntamento è saltato.
Causa di una forte malaria che mi ha preso ieri durante la seconda messa. Solo ora mi sento un po’ meglio.
Buon pomeriggio».

È stato l’ultimo messaggio. Domenica 20, alle 21.45, infatti, è arrivata una email dalla nostra segreteria generale di Roma: «Morte di padre Remo Villa».

Ho pianto. Se potete, tornate a vedere la foto in bianco e nero di pagina 68 del numero scorso. Remo è il primo a destra. Era il terzo giorno del nostro anno di noviziato. Compagno, amico, fratello di una vita. Liceo insieme, noviziato, divisi per teologia, lui a Roma e io a Torino, gli ho fatto da fotografo per la sua ordinazione al paese, Mori (Tn).
Uniti poi nel progetto di animazione missionaria e nel creare la rivista Amico, che nasceva dalla collaborazione tra noi (allora) giovani animatori. Quanta passione, quanti sogni. Per lui è stata fondamentale l’esperienza nel casale di Santa Maria a Mare e il contatto con la chiesa di Fermo.

Poi, nel 1981, parte, prima per Londra e poi per il Tanzania, dove arriva nel 1982 e rimane fino alla morte, 40 anni. Nel 2019 ha fatto la scelta che ha pagato con la vita. Una scelta difficile e dolorosa. Il Signore l’ha portato a Tura, dove non c’era niente ed è andato a vivere in una casetta in affitto. Tura è una missione nuova in uno dei territori più poveri di tutto il Tanzania. Qui ha cominciato con coraggio e creatività, senza risparmiarsi. Neppure il Covid lo ha fermato. L’ha fermato invece la malaria.
Ora è sepolto a Tosamaganga, nel cimitero di tanti Missionari della Consolata. Riposa in pace, Remo, e dal cielo continua a proteggere la tua gente di Tura.

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Acqua in bocca

Dopo un lungo lavoro, ha visto la luce Acqua in bocca. Storia di fratel Peppino Argese, libro di 320 pagine di testo e 48 di foto. Il testo è di Annalisa Vandelli che si è digerita una grande mole di appunti e documenti editi e inediti, ha ascoltato testimonianze, ha visitato i luoghi, ha avuto accesso ai diari del «protagonista».

Le foto sono state selezionate, tra migliaia, da padre Gigi Anataloni che ha avuto la grazia di conoscere (e fotografare, una volta in Kenya) il Silenzioso, «Mukiri», fin dai primi anni ’70.

«Acqua in bocca» è un libro intenso come una vita, eloquente come una storia d’amore, appassionante come la scalata di un monte che fa scoprire un nuovo mondo, appagante come un’opera d’arte, vero come può esserlo solo una vita vissuta nella gioia e nel dolore, tra sorrisi e lacrime, tra fatica e amicizia, nella povertà che diventa donare tutto. Il libro realizza il sogno di padre Adolfo De Col, un 94enne dal cuore giovane e innamorato del suo Meru, dove ha trascorso gli anni più belli della sua vita.

Se per caso qualcuno non sapesse chi è Mukiri, qui ha la possibilità di conoscerlo da vicino attraverso il suo impegno nel fare bene il bene e soprattutto nel dare acqua a migliaia di assetati andandola a cercare nelle viscere del monte Nyambene e nel cuore della foresta pluviale che lo ricopre, con il massimo rispetto dell’ambiente e l’utilizzo di tecniche non invasive.

L’opera di fratel Argese è stata possibile sia grazie all’impegno nella continua ricerca e studio di tecnologie e soluzioni innovative, sia grazie all’aiuto di tanti amici per i quali i fatti sono stati più importanti delle parole, ma soprattutto grazie a una fede incrollabile nel Figlio di Dio, al servizio del quale Mukiri ha dato la sua vita.

Potete richiedere il libro al nostro indirizzo spedizioni@missioniconsolataonlus.it Gradita un’offerta di € 20 tramite il nostro ccp o Pay Pal.


Padre Giovanni Dutto

La mattina del 10 febbraio 2022, nel pieno della notte, padre Giovanni ha ricevuto l’ultima chiamata. Il tempo di una richiesta d’aiuto ai confratelli e di un’ultima benedizione, ed era nella casa di Colui per cui ha vissuto la sua vita e la sua passione missionaria. Padre Giovanni, classe 1930, ha formato generazioni di missionari e gente comune all’amore per la preghiera, l’Eucarestia, la Parola di Dio e la missione. Due volte missionario in Kenya (1968-1970 e 2007-2011), dieci anni a Dublino (1976-1986), quindici come visitatore missionario dei seminari italiani (1986-2001), cinque come animatore a Torino e Rivoli. Dal 2011 era Fossano (Cn), da dove, in collaborazione con la diocesi di Alba, ha lavorato molto per far conoscere la figura di padre Paolo Tablino..