Niger: Siamo in un mondo al contrario


Nei paesi del Sahel l’islamismo sta assumendo varie forme. Gli stati non riescono a controllarlo. La strategia (imposta dall’Occidente) è quella di fargli la guerra, senza tentare il dialogo. Inoltre, si tende ad assimilare jihadismo e migrazione. In questa confusione qualcuno ne approfitta per mantenere lo status quo. L’analisi di un grande intellettuale nigerino.

Testo e foto di Marco Bello

Sguardo vivace, voce calda e accogliente. Moussa Tchangari, ci riceve nel suo piccolo ufficio, alla sede dell’associazione che ha fondato nel lontano 1994, Alternative espaces citoyens (Asc). «Un’associazione apolitica senza fini di lucro, la cui missione è operare per l’avvento di una società fondata sull’uguaglianza dei diritti umani e dei sessi, preoccupata per la preservazione dell’ambiente e della promozione della gioventù, e la valorizzazione della solidarietà tra i popoli», si legge sul sito.

Conosciamo Moussa dal 2009, ma in questi anni il contesto è molto cambiato. Tutta l’area del Sahel è sconvolta come non mai dal fenomeno degli attacchi terroristici. Tanti sono i gruppi jihadisti sul terreno, come abbiamo descritto in precedenti articoli (vedi archivio MC). Inoltre, nell’area, è diventato cruciale il fenomeno dei flussi migratori. Fenomeno che già esisteva, ma che gli occidentali hanno scoperto solo da qualche anno. Così diversi eserciti delle potenze ricche sono ora presenti nei paesi del Sahel: Francia, Usa, Germania, Belgio, contingenti misti dell’Unione europea e perfino poco meno di un centinaio di militari italiani proprio in Niger (Cfr MC marzo 2018). I contingenti hanno la doppia scusa di combattere il terrorismo e bloccare i flussi migratori.

Moussa Tchangari è molto conosciuto nel suo paese, come leader della società civile, come uno che non si piega nel difendere i suoi ideali. E per questo negli ultimi anni è stato anche incarcerato più volte, da un governo, quello di Issoufou Mahamadou, che si dice socialista. Con lui abbiamo parlato delle grandi preoccupazioni dell’area e delle sfide della società civile.

Gli islamisti, perché?

Moussa ci spiega quali possono essere le cause profonde dell’insediamento dei gruppi jihadisti in tutta l’area. «Gli islamisti sono la forza antisistema più visibile, più evidente e più attiva in questo momento storico. Nella maggior parte dei paesi del Sahel, Mali, Burkina e Niger, sono loro che fanno parlare di sé. Sono armati e portano avanti una sorta di guerriglia, compiono attentati contro obiettivi civili e militari». Ma, ci spiega Moussa, con la sua voce calma e calda, non è l’unico fenomeno importante di questi anni. «Vediamo anche una corrente islamista non armata, che sta progredendo nella società. I suoi adepti fanno un lavoro paziente di educazione, formazione, sensibilizzazione, inquadramento».

Si tratta di un movimento più morbido, ma egualmente molto incisivo in un paese al 98% musulmano. Chiediamo a Moussa se si può parlare di radicalizzazione dell’islam.

«Non so se il termine radicalizzazione dell’islam sia appropriato. Il fenomeno che osserviamo è un ritorno in forza di religiosi, nella vita di ogni giorno, anche in ambienti dove non erano presenti. Ad esempio, nelle università i temi dominanti sono cambiati. Qualche anno fa i discorsi erano di sinistra, oggi sono sorte ovunque zone di preghiera, e gli studenti sono più legati a questo aspetto. Nella società ci sono alcune correnti che si stanno imponendo, come i Salafiti, che predicano il ritorno ai valori di base, alla “società islamica primaria”, così la chiamano. Una pratica che segue alla lettera il Corano e non ammette sincretismo. Prima dominava la corrente sufi della Tijanyyah, più incline a coabitare con altre pratiche, con una certa tolleranza. Adesso la corrente Izala1 (un movimento salafita originario della Nigeria del Nord), che era minoritaria, si è propagata e ha molti adepti. Vedete le donne velate in modo diverso, un differente stile di vestirsi, di portare la barba».

Ci chiediamo come sia successo questo. «Oggi c’è un reflusso della sinistra tradizionale. In passato c’erano correnti marxiste leniniste che proponevano qualcosa di diverso. Assistiamo quasi alla scomparsa di queste forze che erano quelle anti sistema. Si è creato un vuoto che gli islamisti stanno riempiendo».

Due movimenti dunque, uno che ha scelto la via della lotta armata e l’altro quella della penetrazione sociale. Che contatti ci sono tra di loro?

«Non osserviamo ancora un’unione tra queste due correnti. Se si unissero, l’islamismo costituirebbe una forza notevole nei nostri paesi. Entrambi si oppongono a chi è al governo e propongono un loro progetto, che è un progetto antisistema. Essi dicono di essere contro la democrazia, anche se non è proprio la democrazia quello che stiamo facendo qui, la chiamiamo così anche se è imperfetta. Loro propongono qualcosa di diverso. Anche dal punto di vista legislativo, vogliono delle società rette dalla legge islamica».

Islam e politica

«Ma è anche un movimento politico, incoraggiato dall’interno come dall’esterno. Osserviamo l’ampliamento di una dinamica riformista della religione che introduce nuovi modi di pensare, di vivere, di intendere i rapporti tra le persone. È una trasformazione nel campo delle pratiche religiose e una proiezione del religioso sul campo politico».

Queste correnti islamiste sono in forte crescita, con un numero di seguaci in aumento continuo e quindi un peso politico sempre più importante.

«Ma le Costituzioni dei paesi del Sahel impediscono che i partiti siano creati su base religiosa, mentre è possibile in altri, come quelli arabi e nordafricani. Questo vuol dire che il sistema degli esclusi si sviluppa al margine di quello ufficiale, il quale non offre loro la possibilità di una partecipazione politica.

E alcuni (degli esclusi) hanno fatto la scelta della lotta armata, perché non ci sono possibilità legali per loro. Presto o tardi, si andrà allo scontro, e secondo me siamo già un po’ a questo».

I governi della regione stanno facendo la guerra ai gruppi che hanno scelto la lotta armata, i cosiddetti jihadisti. Hanno costituito il «G5 in Sahel», un coordinamento degli eserciti di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, con l’appoggio della Francia.

Ma Tchangari ci spiega: «Oggi gli stati saheliani sono molto deboli rispetto a tutte queste correnti sia armate che non armate. Questo perché non hanno la capacità di ingerenza negli affari religiosi. Forse non dovrebbero neppure farlo. In ogni caso non riescono a regolamentare questo settore, proprio perché questi movimenti non sono riconosciuti come entità legittime.

I problemi dei paesi saheliani si riassumono oggi in una formula: crisi di legittimità degli stati. Lo stato non è riconosciuto come entità legittima, quindi ci sono cose che non può fare, come intervenire sulle questioni religiose. Sarebbe criticato, perché tocca il sacro, e non ne ha la forza.

Gli stati hanno anche difficoltà ad adottare certi tipi di leggi, come il codice della famiglia in Mali, la legge sulla protezione delle ragazze qui, il dibattito sulla laicità.

Il Niger non è uno stato laico ma si definisce “non confessionale”. Ci sono stati dibattiti nei quali abbiamo visto l’influenza molto grande delle differenti correnti religiose sulla politica.

Se la crisi di legittimità dello stato non sarà risolta, esso non potrà regolamentare il settore religioso, che diventa una bomba a orologeria».

E questo fatto fornisce agli stati stranieri l’occasione d’ingerenza. Continua Moussa: «A livello politico si vuole continuare a tenere chiuso il sistema, senza offrire aperture a queste correnti. In alternativa si potrebbe dar loro un riconoscimento legale, al di là di associazioni apolitiche, caritative o culturali. Ma non so se sia la cosa migliore. Oggi non hanno la possibilità di avere un partito di tipo islamico». Ad esempio, in Algeria il Fronte islamico di salvezza (Fis), partito religioso, vinse le elezioni di fine 1991. Ma le forze laiche non lo lasciarono governare, così iniziò la guerra civile algerina con la nascita dei Gruppi islamici armati (Gia) che poi si propagarono, nel decennio successivo anche nei paesi saheliani. «Questa storia in parte spiega quello che è avvenuto qui. Ma almeno in linea teorica in Algeria le correnti islamiste hanno potuto avere un partito. Qui, invece, si fa la scommessa di vincere tutti questi gruppi unicamente per la via militare. Non si vuole riformare il sistema né politico né economico nel paese. Secondo me voler vincere senza cambiare nulla è una scommessa folle».

Quale può essere la soluzione? «Se possiamo avere cambiamenti politici importanti che vanno incontro alle aspirazioni profonde della gente, allora forse si potrebbe fermare l’avanzata di queste correnti, perché ci sarebbe un cambiamento che va verso quello che la gente chiede».

La doppia trappola

Ma questa non sembra essere la tendenza attuale. «Oggi i paesi del Sahel sono doppiamente in trappola: primo, i paesi occidentali dettano la condotta da seguire, non solo sul piano politico e pratico, anche dal punto di vista della riflessione. Ad esempio, nessun governo saheliano può cercare il negoziato con questi gruppi armati. Il solo momento in cui si attiva un dialogo è quando ci sono ostaggi occidentali. In quei casi si conoscono i nomi, gli indirizzi, si hanno contatti, ecc. Ma si considera che non ci siano discussioni politiche da fare.

Secondo: l’opzione di distruggere questi gruppi è irrealizzabile. Ma nessuno dei nostri governi osa dire che non abbiamo i mezzi per combattere i terroristi sul piano militare. Gli occidentali sono pronti a farlo, a dispiegarsi sul terreno, ma non a dare agli stati saheliani i mezzi per fare la guerra e neppure i mezzi per cercare altre soluzioni possibili, come il dialogo.

La strategia degli occidentali è mantenere lo status quo, che permette loro di essere presenti. Non hanno vinto, non hanno negoziato, ma sono qui. Questo è quello che interessa. Non so cosa vogliano fare nel futuro».

In realtà si dice che siano i jihadisti a non voler negoziare. «Loro dicono: noi abbiamo un progetto, opposto al vostro. Il rapporto di forza deciderà. Non hanno detto che vogliono negoziare. Vuol dire che sarebbero totalmente ostili a qualsiasi trattativa? Io penso di no».

La gente qui in Niger dice: visto che quello che chiedono è inaccettabile (ovvero la costituzione di repubbliche islamiche), cosa fare? «Si dice che è impossibile dialogare, e dunque facciamo la guerra. Però vediamo che altrove negoziano: in questi giorni gli Stati Uniti stanno negoziando con i Talebani (si riferisce ai negoziati in corso a Doha, in Qatar, per mettere fine al conflitto afghano, ndr). È normale: erano amici fino dall’inizio. Si conoscono hanno molti contatti, amicizie tra loro. Ed è la stessa cosa con i jihadisti nel Sahel: non sono certo caduti dal cielo, qualcuno li conosce e probabilmente è possibile discutere. Ma si preferisce fare la guerra. Ma la vinceremo questa guerra?».

Il business del secolo

Un altro tema fondamentale per il Sahel degli ultimi 5-8 anni è quello dei flussi migratori verso il Nord Africa e quindi l’Europa attraverso il Mediterraneo. Un tema che sta facendo muovere molti capi di stato e ministri degli esteri europei verso il Niger e non solo. L’Italia, ad esempio, ha aperto un’ambasciata in Niger (inaugurata nel gennaio 2018) e un’altra in Burkina Faso (entro il 2019), due paesi che erano sempre stati totalmente trascurati dalla nostra geopolitica.

«Per lo stato nigerino è una fortuna insperata, un’opportunità importante. L’interesse degli occidentali sulla migrazione è una risorsa diplomatica importante per il governo. Per essere più riconosciuto sul piano internazionale. Ed è pure una risorsa economica. Può negoziare dei fondi.

Ma il primo punto è quello che importa di più, perché questo governo è andato al potere con le elezioni del 2011 e poi è stato riconfermato con quelle dubbie del 2016, quindi è in cerca di legittimità internazionale. Oggi è riconosciuto come campione della lotta alla migrazione clandestina, minicampione della lotta al terrorismo. Inoltre, fa i discorsi che piacciono agli occidentali, come quello sul controllo demografico».

L’Europa non è la destinazione principale dei migranti (Cfr. Mc aprile 2019). I flussi migratori all’interno del continente africano sono molto più importanti. E anche i nigerini migrano per lavoro verso il Nord (Libia) e soprattutto la vicina Nigeria.

«Gli europei si sono imposti e il Niger ha messo in piedi un dispositivo per impedire ai migranti di circolare. Con Frontex, le cooperazioni, le basi militari. Così i militari lottano contro due pericoli, e si identificano migrazione e terrorismo come se fossero la stessa cosa. E si fa la caccia all’uomo. Ad esempio, anche Eucap Sahel Niger si interessa alla migrazione2.

Il Niger è diventato un paese tagliato in due: nel Sud le persone possono circolare liberamente, mentre il Nord è come facesse parte dell’Europa. Qui si cercano, si arrestano, si deportano migranti, in barba a tutte le leggi di diritto internazionale e nazionale».

L’attivista di lungo corso ha la sua idea precisa sulla migrazione: «Per me bisogna lasciare circolare la gente, le persone hanno il diritto di muoversi, andare dove vogliono. Abbiamo un pianeta per tutti gli esseri umani, non ci sono illegali, nessuno è straniero. Io difendo l’idea che le persone debbano poter circolare dappertutto. Le risorse ci sono per tutti, per fare vivere ognuno in modo felice».

Un mondo al contrario

Siamo in un mondo al contrario, analizza Moussa Tchangari: «È un peccato che oggi nei paesi ricchi siano i poveri a essere considerati una minaccia e non i potenti, ovvero quell’1% della gente che si accaparra l’essenziale delle ricchezze. Vedi il povero e pensi sia lui il pericolo, non quelli che posseggono fabbriche e banche, sfruttano e si arricchiscono sulla pelle degli altri. In passato era il contrario. Oggi si chiudono gli occhi sulle devastazioni del capitalismo e della borghesia mondiale che saccheggia e concentra la ricchezza nelle proprie mani e si guardano i poveri, che non hanno niente, come le minacce dell’umanità. È il mondo al contrario».

Oggi si sono fatti tanti progressi, ma al tempo stesso si è regrediti, sostiene l’intellettuale nigerino: «Esiste tanta informazione, ma la gente non è informata e può essere facilmente manipolata, e questo anche nei paesi dove esiste tutto. Dove si ha a disposizione tutta l’informazione che si vuole, stampa, libri, statistiche. Il sistema capitalista è capace di alienarti: osserviamo questa ondata di razzismo, xenofobia, il ritorno delle forze di estrema destra. Ma come è possibile, mi domando, nonostante tutti gli strumenti che si hanno per capire?

La questione essenziale – continua – è l’educazione: come educhiamo l’uomo, come formiamo l’uomo. Educhiamolo alla differenza, a comprendere, ad avere spirito critico. Senza questo, possiamo ancora rivivere tutte le cose gravi che abbiamo già vissuto in passato, le guerre.

Se accumuliamo tutte le guerre in corso oggi è come una guerra mondiale. Solo che non succede sul teatro europeo o nordamericano. Ma tutto il mondo vi partecipa».

E continua: «Abbiamo risorse, intelligenza, capacità a sufficienza, eppure vediamo lo stato del mondo oggi: abbiamo creato una situazione in cui pensiamo che la minaccia per il mondo sia il fatto che la gente possa circolare. Ma per gli esseri umani è essenziale spostarsi, donne e uomini hanno sempre viaggiato. E non è solo la povertà che fa muovere la gente, ma anche la prosperità.

Nei paesi ricchi, abbiamo delle sacche di povertà, milioni di persone disoccupate, ma non è perché non si ha la possibilità di farli lavorare. Negli Stati Uniti ci sono 40 milioni di poveri che se si ammalano possono morire perché non hanno l’assicurazione sanitaria. Gli Usa non hanno la possibilità di fare qualcosa su questo tema?

Il grande problema è che «non stiamo facendo il vero dibattito, quello sul sistema, ma un dibattito periferico. La migrazione è il “cache sex” del capitalismo (letteralmente: perizoma, qualcosa che nasconde, ndr). È questo che si mostra per non parlare di problemi di fondo».

Moussa Tchangarai

Che fa la società civile?

Moussa è impegnato per i diritti umani e per una società più equa dagli anni ‘90, quando con altri studenti nel 1994 fondò Asc. Gli chiediamo oggi che ruolo può giocare la società civile, ad esempio per far sì che si affrontino i veri problemi. «Informare, sensibilizzare e stimolare i dibattiti. Ma la società civile non è molto forte, ha diversi problemi, cerchiamo di fare delle piccole cose. Non è sufficiente, ma cerchiamo di parlare di questi temi, aiutare le persone a capire, dare dei nuovi orientamenti. È molto difficile. Occorre costituire una massa critica con un gran numero di organizzazioni e avere i mezzi per farsi sentire per portare avanti il messaggio. Esistono radio e televisioni, ma occorre avere accesso, organizzare discorsi strutturati. Tutto questo non è ancora acquisito.

Inoltre, dobbiamo essere capaci di portare il dibattito in posti dove non c’è, come nei nostri villaggi. È un lavoro di educazione, risveglio di coscienze, che presuppone molta mobilità, immaginazione, per riuscire a spiegare, convincere, coinvolgere.

Al tempo stesso il sistema ha la sua rete per fare il contrario. I paesi occidentali che vogliono diffondere un tipo di messaggio hanno i soldi, la tecnologia, le risorse. C’è molto da fare e dobbiamo intensificare questo lavoro. Dobbiamo sforzarci di essere creativi. È la grande sfida che abbiamo oggi».

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio

NOTE

(1) Movimento salafita originariodel Nord della Nigeria e poi diffuso nel resto del paese e in Niger, Ciad e Camerun. Si contrappone all’innovazione
e alle correnti sufi.
(2) Eucap, European union capacity building, è un corpo misto europeo composto da forze di polizia con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine – si legge sul sito ufficiale – allo scopo di combattere il terrorismo e il crimine organizzato, e di meglio controllare i flussi migratori e contrastare la migrazione illegale.
(3) Il Niger è il quarto produttore mondiale di uranio, lo precedono Kazakistan, Canada e Australia. Nel 2017 in Niger si sono prodotte 3.449 tonnellate di uranio (dati francesi) per il 7,5% della produzione mondiale.


Parla l’esperto in sfruttamento delle risorse minerarie

Paese ricco per gente povera

Il Niger è un paese dal clima ostile ma dalla grande ricchezza del sottosuolo. È poco abitato e ci sarebbero risorse per tutti. Ma perché si trova sempre tra i tre ultimi posti della classifica dello sviluppo umano, stilata annualmente dall’Onu? Incontriamo l’attivista Maman Sani a Niamey che ci spiega questo.

Maman Sani Adamou, si definisce militante altermondialista, collabora con diverse associazioni della società civile nigerina, ed è specializzato sulla tematica dell’industria estrattiva. Ma Sani è un signore pacato, tranquillo, con le idee chiare e competenza da vendere. Il suo lavoro ordinario è di ispettore al ministero dell’Educazione.

Dottor Sani, il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo3, perché è anche uno dei paesi più poveri del pianeta?

Incontro con l’attivista Maman Sani a Niamey

«Occorre partire dagli accordi di difesa dell’aprile 1961, che legano Niger, Benin e Costa d’Avorio alla Francia. In un allegato c’è un contratto di esclusività. I tre paesi si impegnano, nel caso non possano essi stessi utilizzare le risorse strategiche, come petrolio, berillio, uranio, a dare priorità alla Francia per sfruttarle. Sono inoltre autorizzati a cercare un altro partner solo nel caso in cui la Francia si dice non interessata. È un patto di tipo coloniale che ha fatto sì che dal ‘61 tutte le nostre risorse sono destinate in modo prioritario alla Francia.

Nel ‘68 è iniziata la realizzazione della prima miniera di uranio, la Somair ad Arlit. È stata firmata una convenzione di lunga durata, che dava alla Francia la possibilità di sfruttare tutto il minerale. È da notare che il Niger guadagnava molto poco, a livello forfettario solo un miliardo di Fcfa all’anno (circa 1,5 milioni di euro, ndr), quando i prezzi dell’uranio, sul mercato internazionale erano molto elevati. Nel ‘74 è stata aperta una seconda miniera, la Cominak. Il governo dell’epoca si era reso conto che dall’inizio dello sfruttamento dell’uranio nel ‘71 non aveva avuto abbastanza profitto. Tentò quindi di rinegoziare, per avvicinarsi al valore delle risorse come il petrolio. Si era fatto uno studio che equiparava le due materie prime: un kg di uranio produce tanta energia quanto 10mila kg di petrolio. Ma quel governo è stato rovesciato da un colpo di stato nel ’74. Dopo l’apertura della seconda miniera, si era riusciti ad avere 20 miliardi di Fcfa, ma senza negoziare sulla base dell’equivalenza energetica tra il petrolio e l’uranio.

La Francia prendeva tutto l’uranio, e pagava un prezzo fisso, anche se a livello internazionale c’era una fluttuazione, con prezzi nettamente migliori, il Niger non poteva chiedere un adeguamento.

Inoltre lo stato non aveva alcuna possibilità di controllare i prezzi e neppure il tonnellaggio definitivo estratto, che era controllato da Areva (la multinazionale francese che opera nel campo dell’energia in particolare nucleare. Dal 2017, in seguito a ristrutturazioni, prende il nome di Orano, ndr)».

Fino a quando il presidente Mamadou Tanja ha cercato di aprire il mercato…

«Questo fino a quando negli anni 2005-2006 con un aumento generale del costo delle materie prime, i dirigenti dell’epoca hanno voluto rivalorizzare l’uranio ed è stata promulgata una nuova legge mineraria che aumentava un po’ il livello delle royalties.

Ci sono stati tentativi di diversificazione dei partner di sfruttamento a partire dal 2006. Tutto questo spiega la fine del regime della VI repubblica con il colpo di stato di febbraio 2010. Ufficialmente il motivo è che il presidente Mamadou Tanja aveva forzato la Costituzione per ricandidarsi dopo due mandati, ma di fatto le ragioni del rovesciamento sono da cercare nel dossier uranio.

Dopo la caduta del regime e le nuove elezioni la legge mineraria non era ancora applicata. Possiamo parlare di sotterfugio, riferendoci all’accordo di partenariato strategico che rimpiazza la legge. Nell’accordo Areva propone qualche sussidio e realizza qualche opera intorno ad Arlit. Inoltre il mega giacimento di Imourarene, che avrebbe dovuto produrre 5mila tonnellate all’anno, la più grande miniera di uranio del continente, e doveva partire nel 2011-12 non è ancora in sfruttamento. Curiosamente il governo non cerca di riprendere il titolo di sfruttamento ad Areva per affidarlo a un altro potenziale concorrente».

Quindi nessun beneficio per la popolazione?

«Lo sfruttamento dell’uranio in Niger non ha permesso di creare sviluppo nel paese, al contrario, produciamo circa 3.500 tonnellate/anno di uranio, ma sono i dati di Areva, non possiamo fare una contro verifica nazionale. Possiamo dire che questa risorsa non ha permesso di avere un beneficio per la popolazione, ma al contrario ha aggravato alcuni problemi, come quello ambientale. Inoltre, il fatto che il mega giacimento di Imourarene non sia stato sfruttato ha causato delle perdite per i contratti delle società dell’indotto già firmati. Areva ha l’abitudine di dare in subappalto un certo numero di prestazioni perché le conviene economicamente non pagare direttamente i lavoratori.

Ad Arlit c’è del radon, rilevato da una Ong francese che ha fatto queste misure e ha trovato un tasso di radiazione anormalmente elevato. L’acqua è contaminata, la popolazione è malata, ma il Niger non si è creato nessuna competenza sull’energia nucleare. Siamo rimasti in una divisione del lavoro di tipo coloniale. Produciamo ma non trasformiamo, e consumiamo quello che non produciamo.

Lo sfruttamento dell’industria dell’uranio si è rivelato qualcosa di nocivo per il Niger, quando invece per la Francia che alimenta in elettricità nucleare la maggior parte del suo territorio è fondamentale.

(La Francia produce oltre il 70% del suo fabbisogno di energia elettrica con il nucleare, e detiene il primato al mondo con questa percentuale, ndr)».

Cosa ci dice del petrolio, scoperto dai francesi e ora sfruttato dai cinesi?

«Sono i cinesi che lo sfruttano sotto la forma di un “contratto di condivisione di produzione”, ma sfortunatamente anche in questo caso il Niger non è stato in grado di trarne il vantaggio che gli spettava. Il governo non ha saputo leggere tutto l’interesse geopolitico che il continente iniziava ad avere nel settore in quel momento e mettere in competizione i diversi attori. È la Cina che fa l’esplorazione, valuta le riserve e fa lo sfruttamento. Anche in questo caso il Niger non ha sviluppato alcuna competenza in materia e il peggio è che non siamo neppure stati capaci di onorare i nostri impegni. Ad esempio la Soras (società di raffinazione costruita dai cinesi a Nord di Zinder, vedi foto a pag. 17, ndr) è detenuta per il 40% dal Niger e il 60% dalla Cina, ma è stata costituta praticamente con fondi cinesi. La Cina ha pagato anche la parte nigerina. Non c’è alcuno sforzo per fare della nostra industria il punto di partenza di un decollo economico.

Il petrolio raffinato in Niger dà qualche beneficio allo stato, ma la popolazione che ha chiesto un abbassamento dei prezzi del carburante e del gas da cucina non ha avuto benefici.

Quando comprate benzina che arriva di contrabbando dalla Nigeria, spesso è benzina della Soras venduta in quel paese a un costo inferiore, che ritorna da noi e costa molto meno di quella alla pompa. Possiamo vendere all’estero a un prezzo basso, ma non all’interno.

Inoltre il petrolio ha creato degli appetiti e il Niger si è indebitato, perché si è lanciato in lavori di infrastrutture la cui scelta è dubbia e oggi ci troviamo richiamati da Fondo monetario e Banca mondiale che ci dicono che siamo molto indebitati.

I cantieri che vediamo a Niamey non hanno carattere strutturante perché quello che si sta costruendo non risolve i problemi della popolazione. Ad esempio nel campo dell’educazione abbiamo molte classi nella scuola secondaria con più di 100 studenti, seduti in terra, e ci sono ancora aule con il tetto di paglia. Qual è lo sviluppo in questo caso? Fare un’infrastruttura per dire che è molto bella, oppure risolvere dei problemi come l’accesso all’educazione e alla salute?».

Le risorse minerarie del Niger, sfruttate ormai da 50 anni, non hanno quindi prodotto sviluppo?

«L’industria estrattiva non è servita come leva per far partire un processo di sviluppo, ma è piuttosto il contrario, il paese continua a sprofondare nella povertà. Uno studio recente fatto per Afro barometre indica che c’è un peggioramento della situazione economica, un’esplosione della corruzione, e un continuo aumento delle disuguaglianze. Osserviamo inoltre una sorta di disaffezione della popolazione verso la politica, preparando così il terreno per altri tipi di problemi, come quello del jihadismo».

Marco Bello

SAHEL – JIHAD – MIGRAZIONE su MC

Marco Bello, Africa «coast to coast», aprile 2019.
Marco Bello, La faticosa via del cambiamento, gen-feb 2019.
•Marco Bello, Tra jihad e fibra ottica, dicembre 2018.
Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa,marzo 2018.
Marco Bello, Di male in peggio, giugno 2017.
Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.
Marco Bello, Transizione: missione compiuta, giugno 2011.




Burkina Faso:

La faticosa via del cambiamento

In Burkina Faso si moltiplicano gli attacchi terroristici agli obiettivi
più diversi. L’opposizione politica accusa il governo d’inefficienza sul fronte
della sicurezza nazionale. Intanto l’attuale esecutivo ha messo in pista
diverse riforme in settori importanti della società burkinabè, e ha fatto anche
qualche passo per migliorare sanità ed educazione. Ne abbiamo parlato con un
personaggio di peso nella storia di questo paese, Antornine Raogo Sawadogo.

(ISSOUF SANOGO / AFP)

La società civile burkinabè, nelle sue varie sfaccettature,
ha giocato un ruolo determinante nell’insurrezione popolare dell’ottobre 2014
che ha rovesciato il presidente Blaise Compaoré. Questi era al potere da 27
anni, a seguito del colpo di stato e  con
l’uccisione del presidente Thomas Sankara, e di quattro elezioni dubbie.

Lo
stesso popolo burkinabè si è, poi, mobilitato per sventare un tentativo di
golpe dei fedelissimi di Compaoré un anno più tardi, il 16 settembre 2015.

Dal
gennaio del 2016 il Burkina Faso ha un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré
e relativo governo. Un nuovo regime, anche se molti personaggi politici – tra
cui lo stesso presidente – facevano già parte di quello precedente.

A
tre anni di distanza, ci domandiamo che ne è di quella società civile che è
stata così importante per la svolta e che aveva giurato che in Burkina Faso
«Niente sarà più come prima».

Ne
abbiamo parlato con uno che di queste cose se ne intende: Antornine Raogo
Sawadogo.

Sawadogo
è sociologo ed esperto di società civile, ed è stato anche uomo politico. È
stato ministro dell’Amministrazione territoriale e Sicurezza (equivalente al
ministero dell’Interno) e, come tale, padre della legge sul decentramento
amministrativo in Burkina Faso. È stato il primo presidente della Commissione
per il decentramento amministrativo. Ha poi fondato il Laboratornire Citoyenneté,
un centro studi sulla cittadinanza attiva, molto rinomato e attendibile.

Lo
incontriamo una sera a Ouagadougou, di ritorno da un viaggio nel vicino Niger.

Dottor Sawadogo, secondo lei, le organizzazioni della società civile stanno
giocando il ruolo di controllori democratici del potere?

«Rispetto al 2014-15 abbiamo oggi una
società civile più divisa sull’oggetto della lotta. Non è più consensuale,
avanguardista. Non può più monitorare il potere politico per dire se non lavora
secondo la buona governance. Si diceva dopo l’insurrezione e il fallito colpo
di stato: “Tutti ci alziamo come un solo uomo e rimettiamo al loro posto i
nostri dirigenti”. Non è più così.

La società civile burkinabè si è divisa in
diverse sensibilità (o categorie), che io classifico in almeno tre gruppi.

Il primo è di quelli che chiamiamo “i
rassegnati”: essi dicono che dopo aver cacciato Blaise Compaoré, dopo aver
respinto i golpisti, due, tre anni dopo, non ci sono cambiamenti, “troviamo le
stesse persone al potere”, ovvero, “ci siamo stancati per nulla”. Si siedono e
guardano. Non sentiamo più parlare di loro. Appare qualche articolo per dire:
“la nostra lotta è fallita, la nostra dinamica di cambiamento è stata
recuperata e ricondotta alle dinamiche precedenti”.

Io penso che si tratti di un gruppo composto
dalla gente più a sinistra, che sperava che fosse arrivata l’ora per il
cambiamento. I delusi del sistema, ovvero la punta della lotta sankarista,
quelli che erano stati bastonati dall’apparato di Blaise Compaoré. Avevano
fatto un cammino sviluppando una militanza clandestina e, quando gli
avvenimenti dell’insurrezione sono arrivati, il loro impegno si è amplificato.
Come ad esempio il Partito comunista rivoluzionario voltaico (Pcrv)1. Vedo i leader di
questi movimenti rassegnati e rientrati nella loro clandestinità.

La seconda sensibilità è quella che chiamo
“di rigetto”. Appartiene a quelle organizzazioni che sono arrivate a
un’attitudine di rifiuto sistematico della dinamica attuale dopo le elezioni
(del novembre 2015 che hanno portato all’insediamento, nel gennaio 2016, del
governo attuale, ndr). Queste si dicono: “Abbiamo sviluppato una società civile
d’interpellanza2, che aveva
un discorso, ma alla fine non abbiamo visto cambiamenti, dunque rigettiamo
questo sistema di potere”. Aspettano che si lavori sull’impunità, che si
risolvano i conti sospesi del paese: si trovino i colpevoli dei crimini
economici e dei crimini di sangue. Tra queste ci sono ad esempio le Balai
Citoyen. Sono in una dinamica di rigetto dell’ordine ristabilito, non hanno
ottenuto quello che volevano.

Poi c’è la società civile politicizzata, opportunista. È composta
da organizzazioni e associazioni legate ai partiti politici, o fondate da
uomini politici stessi. Si divide in due categorie: quelle che sono per i
partiti di opposizione, Cfop3, e
quelle per i partiti della maggioranza. Rappresentano le voci dei loro capi di
partito».

(ISSOUF SANOGO / AFP)
Chi avrebbe dovuto esercitare un controllo sul nuovo regime, dando
concretezza allo slogan «Niente sarà più come prima»?

«I
rassegnati preferiscono non parlare. Coloro che rigettano invece parlano, ma
senza avere i mezzi per attuare un contropotere, come invece avrebbero voluto.
La verità è che chi ha vinto le elezioni e ha preso il potere, ha nominato
alcuni leader di queste associazioni a posti elevati e rappresentativi. Diversi
di loro sono stati nominati ministri, altri hanno avuto un posto nell’alta
gerarchia della presidenza della Repubblica. Li hanno fatti entrare nel potere
per zittirli.

Quelli
del terzo gruppo, gli opportunisti dei partiti politici, danno voce alle
rivendicazioni dei loro partiti, senza esercitare un vero controllo».

Non c’era solo la società civile organizzata all’origine dell’insurrezione
del 30 ottobre 2014. C’era il popolo stesso che portava avanti una serie di
rivendicazioni. Senza un movimento massiccio di popolazione, l’insurrezione non
si sarebbe fatta o comunque non avrebbe avuto successo.
La popolazione, tra le altre richieste, aveva una forte domanda di stato di
diritto, di democrazia e di ridistribuzione di ricchezza. Quali di queste
attese sono state soddisfatte?

«Lo stato di diritto
è una richiesta permanente. Di tutte le sensibilità della società civile e
della politica, nessuna rigetta lo stato di diritto. È una rivendicazione
massiccia e permanente. È piuttosto il modo di gestire e di governare che pone
problema agli uni oppure agli altri.

Al tempo di Blaise
Compaoré lo stato di diritto non era garantito. S’imbrogliava durante le
elezioni, usando gli artifici formali della democrazia, per poter dire “abbiamo
vinto le elezioni”. Compaoré non si faceca scrupoli, era il suo sistema. Con la
sua guardia pretoriana (il Reggimento di sicurezza presidenziale, Rsp), il suo
gruppo di operatori economici, il suo partito politico, non si poneva problemi.
Gli bastava far credere all’esterno di aver rispettato le regole».

E cosa fa il governo attuale?

«Quelli
che sono al potere oggi sono coscienti che devono funzionare con un minimo di
regole in materia di stato di diritto. Sia formalmente, sia nella realtà. È per
questo che negli ultimi tre anni non ci sono più state persone liquidate,
assassini politici, e ci sono molti dossier che stanno procedendo (seppur
lentamente, ndr) in giustizia. Si è cercato di giudicare il passato regime, ed
è in corso un processo anche sul colpo di stato (del 15 settembre 2015, ndr).
Quando vogliono arrestare qualcuno lo fanno. C’è uno sforzo di fare le cose
nelle norme. Questo è qualcosa che è cambiato.

Per
contro osserviamo ancora velleità di imporsi, di prendere (da parte
dell’opposizione) e tenere il potere».

E quali sono, secondo lei, le altre novità del «nuovo corso»?

«È
stato messo in piedi un sistema di riforme politiche. Penso sia stato imposto
dai diversi scioperi. Sono infatti nati molti sindacati in questo periodo. Lo
stato sta cercando di andare più velocemente nelle riforme politiche in tutti i
settori. Ci sono molte riforme pronte: dell’esercito, della funzione pubblica,
per esempio si vuole rivedere lo statuto delle categorie di funzionari, i
progetti e i programmi statali, si rimettono in causa i vantaggi dei funzionari
del ministero Economia e finanza. Un’altra riforma è nella Magistratura: non è
più il presidente della Repubblica che nomina gli alti magistrati, ma è la
Magistratura stessa.

Sono
riforme a 360 gradi, ma non c’è una visione, con un fil rouge da seguire. Forse
è una risposta alle diverse rivendicazioni delle corporazioni. Sapendo però che
il governo non ha abbastanza mezzi per queste riforme, e non ha la forza per
imporle, perché non ha maggioranza confortevole in parlamento, con 55 deputati
all’Assemblea Nazionale, ha dovuto fare alleanze».

E sul piano sociale, nell’ambito di lavoro, educazione, salute, il governo
è riuscito a migliorare la situazione?

«Il
governo ha reso gratuite le cure per i bambini sotto i cinque anni e per le
donne gravide tramite un decreto che è stato molto apprezzato dalla
popolazione. Ha fatto costruire centri di salute (dispensari, ndr) in tutti i
dipartimenti, anche se poi non ci sono i soldi per equipaggiarli con mezzi e
personale.

Anche
nel settore dell’educazione sono state fatte delle infrastrutture, sia per le
scuole primarie che secondarie: si normalizzano le scuole sotto i tetti di
paglia. Ma l’attrezzatura e il personale non seguono.

Hanno
anche assunto migliaia di funzionari, 1.500 insegnati per anno, tra due e
tremila poliziotti.

Tutto
questo si è realizzato grazie a finanziamenti diretti ai budget dei diversi
ministeri da parte di finanziatori internazionali».

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. © Marco Bello 2018
Un tema fondamentale all’ordine del giorno in Burkina Faso è quello
dell’insicurezza, a causa del moltiplicarsi degli attacchi di sedicenti jihadisti
o integralisti islamisti, a posizioni della polizia e altri obiettivi. I
partiti di opposizione accusano il governo di non fare abbastanza. Ma questa
critica fa parte anche del gioco politico. Secondo lei come si muove il governo
su questo fronte?

«Io
constato che questi attacchi sono cominciati al Nord, sono continuati all’Est,
vanno verso il Sud e arrivano verso l’Ovest. È un’insicurezza che ci sta
circondando, alla quale si sommano, ogni tanto, azioni di grande effetto al
centro, a Ouagadougou4. È un fenomeno che
prende ampiezza e non è neppure ciclico, ma lo stiamo vivendo quasi
quotidianamente.

Se
osserviamo i simboli attaccati, sono di diverse tipologie:

  • lo stato, ovvero le forze di sicurezza e di difesa, come strutture di polizia, gendarmeria, dogane, guardia forestale;
  • e scuole, gli insegnanti;
  • qualche simbolo religioso, alcuni imam sono stati sgozzati, catechisti, parroci, chiese devastate (es. chiesa di Dissin nel Sud Ovest);
  • simboli degli stranieri, come hotel e ristoranti frequentati da loro;
  • le miniere, l’industria, come interessi occidentali.

Se
normalmente, a seconda degli obiettivi attaccati, si può cercare di capire
quali interessi ci sono in gioco, nel nostro caso, vista la varietà di target,
diventa difficile. Voglio dire, è quasi impossibile sapere se siano solo
jihadisti che attuano una guerra di religione, o personaggi del vecchio regime
che vogliono destabilizzare lo stato, o ancora banditi comuni che cercano di
arricchirsi. Fino ad oggi nessuno può dire chi siano veramente.

La
verità è che gli obiettivi che vengono attaccati sono stati creati e gestiti
dalla gente del vecchio regime. Durante 27 anni di Compaoré sono stati nominati
i funzionari, il Burkina è stato trasformato in paese minerario, è stata messa
in piedi l’economia. Le persone di quel regime possono oggi essere contro a
questi interessi?».

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. © Marco Bello 2018
Forse allo scopo di destabilizzare il paese?

«Non
penso. La maggioranza degli ex del regime non è in esilio, sono qui con noi. È
contro il loro interesse distruggere il paese.

Non penso ci sia una
regia all’esterno o all’interno che dice: attacchiamo tutto questo allo stesso
tempo. È un fenomeno che non si può analizzare intra muros burkinabè. Lo stesso
sta succedendo in Mali, Niger, Camerun, Ciad, Nigeria. Bisogna cercare le
ragioni altrove perché i veri giochi sono esterni al Burkina. In passato il
nostro territorio è stato risparmiato perché non c’erano le condizioni per
entrare qui. Non penso che sia la partenza di Blaise Compaoré che ha portato
questa situazione. È un movimento, una dinamica che è cominciata altrove, fa il
suo percorso e coincide con la partenza di Compaoré, che forse è stata il
detonatore, ma non la ragione principale.

Per
fare un esempio, quando ero ministro dell’Interno, all’inizio degli anni ’90,
ricevevo già delle informazioni dai servizi che menzionavano di velleità [di
potenze straniere] di cambiare i confini del nostro paese».

Ma il governo di Roch Marc Christian Kaboré come gestisce la sicurezza del
paese, secondo lei?

«Non lo so. Non ho abbastanza elementi per dirlo. Noi non
siamo più forti dei maliani e dei nigerini. Loro si sono abituati agli
attacchi, mentre noi non lo siamo ancora, ma a poco a poco stiamo imparando a
gestire questa situazione.

Non sono convinto che lo stato burkinabè avrebbe i mezzi per
reagire meglio. In Nigeria, nonostante i mezzi di quel grande stato, i
terroristi arrivano a destabilizzare intere aree del paese. Il piccolo Burkina
come potrebbe fare meglio? Lo stesso vale per il Ciad che ha il migliore
esercito della regione. Anche se Blaise Compaoré fosse stato ancora presidente
io non sono convinto che avrebbe potuto fare meglio dell’attuale governo. Sono
stato recentemente in Niger: a 70 km da Niamey, la capitale, hanno rapito un
missionario italiano5. Non si sa dove siano fuggiti: in Niger, in Mali, in
Burkina verso Sud?

Qui da noi hanno rapito anni fa il dottor Helliot e un
lavoratore rumeno alla miniera di Tambao, e sono ancora prigionieri. Poi hanno
rapito catechisti, consiglieri municipali, funzionari, che in seguito sono
stati liberati. Hanno attaccato addirittura l’ambasciata di Francia, come è
possibile che la Francia non lo abbia previsto? Per questo dico che non posso
affermare se gestiscono bene o male la questione sicurezza».

Marco Bello
(seconda puntata – fine)

Cronologia essenziale

Il Burkina sotto attacco

  • 1960, 5 AGOSTO – L’Alto Volta diventa indipendente, Maurice Yameogoè il primo presidente.
  • 1983, 4 AGOSTO – Inizia la rivoluzione burkinabè, guidata da Thomas Sankara e altri quattro compagni, tra i quali Blaise Compaoré. Un anno dopo l’Alto Volta diventa Burkina Faso, il paese degli uomini integri.
  • 1987, 15 OTTOBRE – Thomas Sankara e i 12 collaboratori più stretti vengono ammazzati. Blaise Compaoré diventa capo di stato.
  • 1998, 13 DICEMBRE – Assassinio del noto giornalista investigativo Norbert Zongo. I sospetti portano al fratello di Blaise, François Compaoré, ma l’inchiesta è bloccata.
  • 2011 – Diverse rivolte di piazza scuotono il potere di Compaoré: studenti, parte dell’esercito, magistrati, commercianti. A giugno repressione della rivolta dell’esercito a Bobo-Dioulasso.
  • 2013, MAGGIO – Legge per l’istituzione del Senato, per modificare la Costituzione affinché Compaoré si possa candidare nel 2015.
  • 2014, DA GENNAIO – Diverse manifestazioni pacifiche contro la modifica costituzionale raccolgono milioni di persone in piazza.
  • 2014, 30 OTTOBRE – Insurrezione popolare contro il voto per modificare la Costituzione. Il 31 ottobre Compaoré fugge in Costa d’Avorio. Messi in piedi organi di transizione (presidente, governo, consiglio nazionale) per una durata di 12 mesi. Le vittime degli scontri sono 24 e i feriti oltre 600.
  • 2015, 16 SETTEMBRE – Il generale Gilbert Diéndéré utilizza la guardia presidenziale per tentare un colpo di stato e bloccare la transizione. La popolazione reagisce, i sindacati dichiarano lo sciopero generale, l’esercito repubblicano si schiera contro il putsch.
  • 2015, 30 SETTEMBRE – La transizione è ripristinata, i golpisti arrestati. I morti sono almeno 17 e i feriti 108.
  • 2015, 29 NOVEMBRE – Elezioni presidenziali e legislative. Roch Marc Christian Kaboré è il nuovo presidente. Da sempre pezzo grosso del regime Compaoré, aveva rotto nel gennaio 2014. Il suo governo si insedia il 12 gennaio 2016.
  • 2016, 15 GENNAIO – Attentato jihadista nel cuore della capitale Ouagadougou. Colpiti gli hotel Splendid e Ybi e il ristorante Cappuccino. Le vittime sono 30 di 18 nazionalità.
  • 2016, 16 DICEMBRE – In un attacco nella regione Sahel (Nord) periscono 12 militari. La rivendicazione sancisce la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, a base etnica Peulh. Diventano frequenti gli attacchi a positazioni militari e di polizia, oltre che a scuole e dispensari nel Nord del paese.
  • 2017, 13 AGOSTO – Attacco jihadista al ristorante Aziz Istambul, in centro a Ouagadougou, 19 morti.
  • 2018, 2 MARZO – Doppio attacco quasi contemporaneo: all’ambasciata di Francia e allo stato maggiore dell’esercito burkinabè, in centro a Ouagadougou. Almeno 8 le vittime.
  • 2018, AGOSTO – Inizia una serie di attacchi a posizioni militari e di polizia nell’Est del paese. Oltre al Nord, dove continuano, l’Est diventa la seconda zona interessata.
  • 2018, 17 SETTEMBRE – In Niger, al confine con il Burkina Faso, viene rapito padre Pierluigi Maccalli, missionario Sma (Società missioni africane), da un gruppo proveniente dal Burkina.

Ma.Bel.




Mali: il conflitto nel paese saheliano cambia velocità


In Mali si vive una guerra a «bassa intensità» dal 2012. L’avanzata dei gruppi fondamentalisti islamici è bloccata dall’intervento militare francese. L’Onu registra una delle missioni con maggiori perdite umane della sua storia. Gli accordi di pace firmati nel 2015 sono «parziali» e la loro applicazione è complessa. E da alcuni mesi il conflitto sta assumendo pericolose connotazioni etniche. Mentre il Daesh «apre» ufficialmente nel Sahara.

Bamako. Il traffico della capitale del Mali è simile a quello di molte grandi città saheliane. Le auto
si bloccano in lunghe file ai semafori, mentre le moto passano in ogni possibile breccia. Qui il grande fiume Niger da un lato e la collina di Kouluba dall’altro strozzano il centro città, costringendolo a svilupparsi nel senso della lunghezza. Dall’altra parte del fiume, i quartieri dormitorio. Si passa tramite tre ponti, chiamati comunemente primo, secondo e terzo ponte: i colli di bottiglia naturali di questa città che vede la sua popolazione riversarsi sul lato sinistro al mattino e tornare sul lato destro alla sera. Anche i frequenti controlli della polizia creano rallentamenti. Verificano la circolazione di armi, ma normalmente è sufficiente aprire il vano del cruscotto per soddisfare il frettoloso poliziotto.

Tutto tranquillo, dunque, in una grande città che pulsa con i suoi oltre due milioni di abitanti e temperature che ad aprile raggiungono i 47 gradi.

Ma non c’è più la serenità di un tempo. Gli abitanti di Bamako si ricordano quel 20 novembre 2015 in cui un commando di jihadisti si è materializzato dal nulla e ha preso in ostaggio clienti e lavoratori dell’Hotel Radisson Blu. L’attacco ha lasciato sul terreno 22 vittime innocenti. Quel giorno la città si è ricordata di essere la capitale di un paese in guerra, peggio, un paese diviso.

AFP PHOTO / SOULEIMAN AG ANARA

Intesa nazionale?

Il 2 aprile scorso si è conclusa, proprio a Bamako, la Conferenza d’intesa nazionale, nome pomposo per un incontro di cinque giorni di alcuni tra i protagonisti del conflitto maliano. «Non è servita a nulla», ci dice un osservatore straniero. In effetti mancavano due leader jihadisti fondamentali: Iyad Ag Ghali, storico capo tuareg fondamentalista del Nord e Amadou Koufa, peulh, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, nel centro del paese. Neppure l’opposizione politica era presente, in quanto ha boicottato la conferenza, mentre molti altri gruppi non sono stati soddisfatti del risultato. La Conferenza fa parte della difficile applicazione degli accordi di pace di Algeri firmati tra maggio e giugno 2015. Intanto nel paese si è registrato un preoccupante salto di qualità del conflitto, già a partire dalla metà dell’anno scorso.

Ma per capire cosa succede in Mali occorre fare un passo indietro.

Da democrazia a caos

Negli anni 2000, il Mali era un esempio di democrazia e alternanza al governo per tutta l’Africa dell’Ovest. Il presidente Amadou Toumani Touré (Att) aveva tuttavia trascurato il Nord, una regione di oltre 800.000 km quadrati (quasi tre volte l’Italia), in gran parte desertica, che si incunea tra Mauritania, Algeria e Niger. Regione tradizionalmente tuareg e araba, chiamata da questi popoli Azawad. Qui i movimenti indipendentisti tuareg esistono da tempo, e storicamente sono sfociati in periodiche ribellioni, l’ultima delle quali si era conclusa nel 2006.

Ma in quegli anni si è assistito ad altri fenomeni, come l’arrivo di predicatori mediorientali, che hanno iniziato a diffondere il wahabismo, l’ideologia islamista promossa dall’Arabia Saudita. Al tempo stesso i gruppi integralisti salafiti algerini, gli ex Gia (Gruppi islamici armati) che avevano insanguinato l’Algeria negli anni ’90, hanno iniziato a stabilirsi sul suolo maliano. Nel deserto le frontiere non esistono e i due paesi confinano per oltre 1.000 km. Il potere centrale di Bamako è lontanissimo da queste terre, sia fisicamente che culturalmente. Così sono cresciuti i movimenti radicali islamisti che a inizio 2012 hanno dichiarato guerra allo stato centrale. Sono molti e diversificati. Ci sono i tuareg laici, i tuareg fondamentalisti, i gruppi jihadisti salafiti di origine algerina (si veda MC settembre 2006, MC dicembre 2010). Nel 2007 i salafiti hano aderito ad Al Qaeda internazionale fondando Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Nel marzo 2012 Att ha subito anche un goffo colpo di stato da parte di una frangia dell’esercito, fatto che ha indebolito ulteriormente lo stato centrale maliano. Dopo un periodo di transizione si sono svolte le elezioni in cui è stato eletto Ibrahim Boubakar Keita (Ibk) nell’agosto del 2013.

AFP PHOTO / PASCAL GUYOT

La guerra si estende

La galassia di gruppi armati nel Nord del Mali è in rapido cambiamento. Si alternano coalizioni e scontri tra gli stessi, piattaforme, coordinamenti, in una geometria di alleanze estremamente variabile. Ma quando nel gennaio 2013 l’esercito regolare maliano era allo sbando e il fronte ribelle, islamisti di Aqmi compresi, puntava su Bamako, è intervenuta la Francia, ex potenza coloniale, inviando le sue forze militari d’élite, con l’operazione denominata Serval, respingendo i combattenti. Questi sono tornati nelle loro roccaforti nel deserto del Nord. Una missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali, Minusma, ha preso il via nell’aprile dello stesso anno. Ne fanno parte 13.000 uomini di 26 nazionalità, tra cui quelle dei confinanti Burkina Faso e Niger. È diventata una delle missioni dell’Onu con più morti tra i caschi blu di tutti i tempi. Importante è la partecipazione del contingente tedesco, forte di un migliaio di militari, oltre a otto elicotteri, blindati e droni e due arei per trasporto truppe basati a Niamey, Niger. Anche l’Europa ha in Mali un suo contingente, l’Europen Union trainig force (Eutf), con l’obiettivo di formare e riorganizzare le Forze armate maliane. Ha un effettivo di circa 600 uomini di 20 paesi.

Il primo agosto 2014 l’operazione Barkhane ha sostituito Serval. Barkhane, sempre francese, copre cinque stati (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad), e ha comando a Ndjamena capitale del Ciad.

La pace finta che scontenta

In questo contesto estremamente complesso e frammentato si è arrivati alla firma della pace tra maggio e giugno 2015. Accordo quanto mai parziale, perché coinvolge solo alcune sigle. In particolare la Cma (Coalizione dei movimenti dell’Azawad), di cui fa la parte del leone il Movimento per la liberazione dell’Azawad (Mnla). Ha firmato anche la Plateforme, ribelli detti «filo governativi» attive a Menaka, ad Est . L’accordo prevede la smobilitazione dei combattenti; la creazione del Moc (Meccanismo operativo di coordinamento), ovvero pattuglie miste governo – ex ribelli firmatari conto i jihadisti; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord (gli amministratori sono tutti fuggiti a causa della guerra) con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, con l’obiettivo di una definizione politica dell’Azawad. Ridefinizione che però non è arrivata, scontentando le parti tuareg.

Il conflitto cambia livello

«A partire da metà 2016 abbiamo visto un cambio di velocità nel conflitto», ci dice la nostra fonte che chiede l’anonimato, «undici gruppi sono usciti dalle coalizioni firmatarie, in dissenso con l’accordo, ritornando nella lotta armata». «Un altro elemento fondamentale è l’estensione del conflitto nel centro del paese, la regione di Mopti. Questa zona è sempre stata legata al governo, molto più del Nord, ma adesso lo stato sembra averne perso il controllo». In effetti «si è partiti con la guerra a Nord, ma andando di questo passo non si può escludere che tra qualche tempo il conflitto interesserà anche il Sud, quindi tutto il paese», rivela un’altra fonte locale.

Un osservatore maliano basato a Gao ci conferma: «La crisi sta prendendo un’altra dimensione, molto più preoccupante. Prima si trattava di gruppi armati ribelli che combattevano contro lo stato centrale, adesso sta diventando un conflitto con caratteristiche comunitarie, ovvero comunità etniche diverse che si affrontano».

La nostra fonte si riferisce agli scontri tra diverse comunità che avvengono nel Nord, ad esempio a Gao, tra Tuareg, Arabi e Songo. «A causa dell’applicazione dell’accordo di pace, è frequente che un gruppo si senta leso o emarginato e quindi entri in conflitto con gli altri per far valere i suoi diritti». È il caso di gruppi Songo di Gao, che si sentono discriminati dai gruppi Tuareg che hanno partecipato al negoziato. O ancora, l’applicazione delle pattuglie miste ha visto l’entrata in città di combattenti armati che prima erano considerati nemici e tenuti alla larga, e questo «ha suscitato percezioni diverse nella popolazione e creato tensioni». «Bisogna anche dire che tutti questi gruppi etnici hanno dei movimenti di supporto all’estero che li sobillano soprattutto grazie all’uso dei social network».

AFP PHOTO / SOULEIMAN AG ANARA

Il contagio si diffonde

Altra questione importante dell’ultimo anno è l’estensione del conflitto alla regione centrale del paese. Qui i gruppi ribelli sono a base etnica peulh, popolazioni di allevatori nomadi che vivono in tutto il Sahel. In questa zona il predicatore radicalizzato Amadou Koufa (o Hamadou Kouffa) ha costituito il gruppo armato jihadista Fronte di Liberazione di Macina (Flm, dal nome di un antico regno di questa zona), ora noto come Ansar Dine in Macina. Koufa è stato a lungo legato al tuareg fondamentalista Iyad Ag Ghali, fondatore di Ansar Dine e di Aqmi e ora basato nell’area di Kidal, nel Nord. Dal Flm si è generato anche il primo gruppo fondamentalista tutto burkinabè, sempre a base etnica peulh, del leader e predicatore Ibrahim Mallam Dicko, che opera nel Nord del Burkina e a cavallo tra i due paesi (provincia del Lorum in Burkina e quella di Douentza in Mali).

Anche nel centro si assiste a un’aggravante a sfondo etnico. I militari dell’esercito regolare, le Fama (Forze armate maliane), mandano a fare i lavori sporchi i Dozo, cacciatori di etnia bambara (maggioritaria nel Sud del paese). Questi, sono tradizionalmente nemici degli allevatori peulh e, coperti dal clima di impunità, hanno cominciato ad ammazzare civili di quell’etnia senza farsi troppe domande. Inoltre è stato osservato che la Fama e la polizia arrestano quasi esclusivamente Peulh e mai Bambara. Il conflitto comunitario sta quindi andando verso uno scontro tra milizie organizzate a base etnica.

«La gente nel centro non è coinvolta nell’accordo di pace, che interessava solo i gruppi del Nord, per cui non beneficia dei dividendi della pace (come le indennità pagate alla smobilitazione, ndr). E si sentono ora abbandonati dal governo di Bamako». Tutti questi elementi stanno dando una deriva etnica al conflitto.

«Assistiamo a un cambiamento nella società maliana. Il tessuto sociale si sta strappando. Si è passati dal multiculturalismo alla contrapposizione etnico-culturale. Ad esempio sono saltati i meccanismi sociali di risoluzione dei conflitti. E questo è gravissimo», commenta la nostra fonte.

«Inoltre l’occupazione di queste zone da parte dei jihadisti è inquietante, ed è aggravata dal fatto che il governo non la riconosce per non dover ammettere un suo fallimento».

Anche l’Isis nel Sahel

Un ulteriore elemento di preoccupazione è la comparsa ufficiale, sempre nell’estate 2016, del Daesh nel Sahel. Si tratta del Mujao che proclama la propria affiliazione e si fa chiamare Stato Islamico nel Grande Sahara. Con a capo Adnane Abou Walid Al-Saharwi, sarebbe per ora ad Est, nella zona di Menaka. «Il Daesh si sta ormai installando nella regione, e questo vuol dire che vedremo dei grossi cambiamenti nei prossimi 12-18 mesi».

Intanto nel Sud e a Bamako si acuisce la crisi sociale, oltre al crescente malcontento verso il governo e la presenza dei militari stranieri della Minusma. Dal 9 marzo scorso tutto il settore sanitario è in sciopero, e questo – per un paese come il Mali – vuole dire un aumento dei decessi tra i pazienti. Ultimamente anche gli operatori del settore educazione hanno iniziato a scioperare. Le rivendicazioni sono di tipo salariale, ma le manifestazioni e l’astensione dal lavoro paralizzano questi settori. Il presidente Ibk si è affrettato a modificare il governo, nominando il quarto primo ministro dall’inizio del suo mandato. Aboulaye Idrissa Maiga ha costituito il suo governo l’11 aprile. Simile al precedente: ha cambiato i ministri di Salute ed Educazione nel tentativo di calmare le piazze. Anche il dicastero della Difesa, occupato proprio da Maiga nel precedente governo è stato cambiato.

Nel 2018 ci saranno le elezioni ed è facile che Ibk siariconfermato. Non ci sono infatti oppositori in grado di vincere e anche il rischio di colpo di stato pare limitato, vista la militarizzazione del paese.

Un tuareg che occupa una posizione importante in una Ong condivide la sua preoccupazione: «I problemi del Mali stanno prendendo dimensioni sempre più serie. L’aggravarsi dei conflitti etnici, i gruppi islamisti che hanno più terreno. La situazione è fuori da ogni controllo ed è difficile essere ottimisti per il futuro del Mali».

Marco Bello


Incontro con l’abbé Timothée Diallo,
responsabile dei media cattolici

Occorre un cambiamento di mentalità

I cattolici in Mali sono una minoranza. Ma sono ben integrati e la collaborazione con gli islamici è grande. A tutti i livelli, a partire dalle scuole. Solo così si può creare una cultura di dialogo e porre un freno all’avanzata del radicalismo.

BAMAKO. L’abbé Timothée Diallo è parroco della Cattedrale di Bamako da 15 anni. Giornalista, ha studiato alla scuola di comunicazione sociale dei salesiani a Roma. È attualmente il responsabile dei media cattolici della Conferenza episcopale del Mali. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio, nel centro di Bamako.

Abbé Timothée, chi sono oggi i cattolici in Mali?

«Come cristiani stimiamo di essere il 5% e noi cattolici siamo distribuiti in sei diocesi. Negli ultimi tempi i battesimi sono aumentati. Le etnie che hanno maggiormente abbracciato il cattolicesimo sono i Bobo, nella diocesi di San. Però quasi tutte le etnie vedono la presenza di cristiani: Bambara, Peulh, Soninka, Sonrai, ecc.

I missionari sono arrivati in Mali nel 1888 dal Senegal, la prima missione è stata Tuba, nella diocesi di Kayes. Erano degli spiritani (i padri dello Spirito Santo, ndr), perché i missionari d’Africa hanno tentato per ben due volte di arrivare in Mali dall’Algeria, ma in entrambi i casi i convogli furono massacrati prima di arrivare a Timbuctu. Gli spiritani lasciarono la missione ai padri Bianchi che portarono avanti l’evangelizzazione in Mali».

Quali sono le maggiori difficoltà che state vivendo come minoranza?

«Siamo una minoranza, ma abbiamo la fortuna di avere molti matrimoni misti, tra cristiani e musulmani. Negli ultimi anni in certi ambienti è diventato difficile esprimere la propria fede cristiana. Conosco delle famiglie che non accettano più di accogliere un cristiano e dargli da bere o da mangiare (accoglienza che nel Sahel e nel deserto è sempre stata sacra verso chiunque, ndr). Ma nella maggioranza dei casi c’è buona coabitazione, si celebrano insieme le feste, musulmane come quelle cristiane. Per esempio io sono sempre invitato da famiglie musulmane per la Tabaski o la fine del Ramadam.

Nel campo dell’educazione abbiamo scuole cristiane dappertutto nel paese. Qu i in cattedrale la nostra scuola ha 800 allievi e solo il 5% sono cattolici, gli altri sono mu sul mani . Ci sono i movimenti di azione cattolica in Mali, come la Gioc, gioventù operaia cattolica, qui la chiamiamo “credente”, Comunità di studenti credenti e poi Gli amici di Kizito, per i bambini fino a 12 anni. In questi movimenti ci sono anche molti musulmani. Questo ci permette di dialogare e comprenderci tra di noi. Preghiamo insieme, ognuno si esprime secondo la sua religione. I genitori musulmani fanno frequentare ai figli la scuola cattolica perché pensano che dia una buona educazione. E poi li mandano anche a i movimenti cattolici.

Non abbiamo per nulla un approccio volto alla conversione, ma piuttosto a dialogo e coabitazione per la pace e il benessere della persona umana. È qu e sto c he fa l a nostra fortuna in Mali . Qu an do certi leader religiosi hanno reclamato che il Mali diventasse uno stato islamico, sono proprio i musulmani che si sono opposti, preservando la laicità».

Ma ci sono dei segni di radicalizzazione nella società?

«Ci sono molte più donne con il velo e sono state costruite molte moschee, tutte uguali, sorte come funghi e finanziate da paesi arabi. Questo per mostrare che il paese è islamico. Ma è un a questi one di facciata perché non sono frequentate. In una zona che conosco, la maggioranza delle persone segue culti tradizionali e ci sono anche molti più cristiani. Soprattutto nelle grandi città sentiamo la presenza dell’islam con molte moschee, m a non è così nelle campagne».

C’è ancora una chi es a missionaria in Mali?

«Ci sono ancor a dei padri bianchi, nella arcidiocesi di Bamako, abbiamo 11 parrocchie di c ui 2 son o tenute dai padri Bianchi, una dai A Salesiani. Ci sono i fratelli del Sacro Cuore, in tre diocesi. Anche i Salesiani. C’è ancora molto lavoro di evangelizzazione da fare in Mali, ci sono molte zone che non sono state toccate, dove i missionari non sono mai andati. Io penso che se si creassero altre parrocchie ci sarebbero molte più conversioni. È il personale che manca, abbiamo ancora bisogno di missionari».

A livello istituzionale come collaborate con le altre confessioni?

«Le chiese protestanti ed evangeliche sono riunite in gruppo che ha un proprio presidente. Quelle che non fanno parte di questo gruppo sono considerate sette. I musulmani hanno l’Alto consiglio islamico, con un suo presidente. Poi ci siamo noi cattolici con l’arcivescovo. Di fronte ai problemi del paese – come ad esempio gli attuali scioperi degli insegnanti e dei lavoratori sanitari – ci riuniamo e riflettiamo, per proporre una via d’uscita alla crisi. Stessa cosa quando ci sono delle elezioni, cerchiamo di promuovere la pace, per esempio incontrando i candidati. Cerchiamo di lavorare anche sulla riconciliazione nazionale. A livello ufficiale la Chiesa cattolica lavora molto per la pace. Quando ci sono le elezioni, vengono diffuse lettere pastorali indirizzate ai cristiani e a tutti i maliani di buona volontà. C’è anche la Caritas che talvolta fa l’osservazione delle elezioni».

Quali sono i problemi attuali del Mali?

«Attualmente ci sono molti problemi nel paese. In particolare lo stato non ha autorità, questo è il problema principale, non arriva a imporsi ormai dal 2012. Come arrivare a uno stato più forte? E a una riconciliazione? Ci sono gli attentati, la guerra e i massacri intercomunitari, sempre di più. Occorre finire con tutto questo. Il tessuto sociale sta andando in rovina. Penso che l’occupazione del Nord abbia giocato molto, poi ogni etnia o comunità vuole imporsi. Assistiamo alla continua formazione di nuovi gruppi ribelli. Anche su base etnica. Tutto questo è causato dalla mancanza di autorità dello stato.

Il Nord è stato abbandonato, ma anche a Bamako si sente la mancanza dello stato, e i politici non riescono a migliorare la situazione. Invece di vedere il bene del paese, ognuno vede i suoi interessi personali. Occorre che i maliani prendano coscienza di questo, altrimenti la situazione non cambierà. I problemi tra Bambara e Peulh, nel centro del paese sono tradizionali, tra allevatori e agricoltori, ma adesso hanno assunto un’altra dimensione, una vera guerra».

Il 7 marzo è stata rapita suor Gloria Cecilia Narvaez Argoti, missionaria colombiana.

«Il rapimento di suor Gloria, a Karangasso nei pressi di Sikasso, nel Sud del paese preoccupa tutte le comunità religiose. Ci chiediamo perché è stata rapita. È perché è una religiosa cattolica o perché chi l’ha rapita cerca soldi? Non ci sono state richieste di riscatto, rivendicazioni. Suor Gloria, delle francescane di Maria Immacolata, era in Mali già da una decina di anni».

Abbé Timothée, come vede la soluzione della crisi in Mali?

«Occorre cambiare mentalità. Prendere coscienza. È la menzogna che ci ha messi in questi problemi, il fatto che la gente non dica la verità. Non c’è la coscienza che occorre proteggere il bene comune. Solo con questo il Mali potrà cambiare. La chiesa lavora per questo ma c’è molto da fare e occorre molto tempo. I politici, i lavoratori, a tutti i livelli, tutti gli strati sociali, dalla testa ai piedi».

Marco Bello




Siria 2017. Sulla pelle dei siriani / 2


La guerra siriana è entrata nel suo settimo anno. Una guerra che ha devastato e smembrato un paese laico dove la convivenza era la norma. Terroristi, mercenari e paesi stranieri hanno cacciato i siriani che si sono riversati nei paesi confinanti e in Europa. In questa intervista, molto diversa dalle verità propagandate, mons. Haddad, siriano della Chiesa melchita, difende il presidente Assad e accusa la Turchia e l’Arabia Saudita. Intanto Trump…

«Come a Damasco, anche fuori della capitale le strade sono belle, asfaltate e poco trafficate. Viaggiando verso Aleppo si vedono campi coltivati a ortaggi, verdura e frutta di vari tipi. […] Maaloula, villaggio cristiano di antichissime origini, è uno splendore con le case abbarbicate alla roccia e il monastero di Santa Tecla conservato come un gioiello. […] Aleppo è una bella, ricca e intraprendente città commerciale. Lo si vede e lo si annusa. Ad esempio, nel suo suq, uno dei più grandi mercati coperti dell’intero Medio Oriente. Ad Aleppo chiese e moschee sono vicine e nulla contraddice quella tolleranza religiosa che pare essere un connotato acquisito di questo paese. […]».

Queste righe risalgono al lontano giugno 1993, scritte durante il mio primo e unico viaggio in Siria. Tanti anni sono trascorsi e il paese di allora è scomparso sotto i colpi di quasi sette anni di una guerra – forse civile o forse soltanto importata -, fatta sulla pelle dei siriani tra cui si contano 320 mila morti, 6 milioni di sfollati interni e 5 milioni di profughi (dati delle Nazioni Unite). Una guerra che nessuno sembra in grado di fermare.

Per parlare di questo abbiamo incontrato mons. Mtanious Haddad, archimandrita della Chiesa melchita (chiesa cattolica di rito bizantino e lingua araba), a tre anni di distanza dalla prima intervista (MC, 12/2013). Nel frattempo la guerra siriana si è incancrenita e la speranza di tornare alla Siria di un tempo si è assottigliata, anche se mons. Haddad – nativo di Yabroud (Damasco), per anni in Libano e Terrasanta – rimane fiducioso, forse in virtù del suo ruolo più che per reale convinzione. Quando lui parla della sua «amata Siria» lo fa con grande partecipazione, quasi senza prendere il respiro e agitando le mani. Non ha vie di mezzo, mons. Haddad: parla chiaro e senza giri di parole, pur scusandosi – di tanto in tanto – per il fatto di dire una verità scomoda. Fastidiosa perché diversa e spesso opposta da quanto viene normalmente raccontato.

«Siriani, non lasciate la vostra terra»

Mons. Haddad, sono trascorsi tre anni dal nostro primo incontro. Da allora com’è cambiata la situazione nella sua Siria, entrata ormai nel settimo anno di guerra?

«È sempre la mia amata Siria. Mi auguro che il settimo anno non arrivi. Vorrei dare un messaggio di speranza: torneremo a vivere in Siria. Purtroppo, questi ultimi anni sono stati duri e difficili. La povertà è cresciuta. L’emigrazione dei siriani, sia musulmani che cristiani, è aumentata. Sia verso la Turchia che il Libano e l’Europa e l’America. I nostri 5 patriarchi d’Antiochia (Chiesa ortodossa siriaca, Chiesa greco-ortodossa, Chiesa cattolica sira, Chiesa cattolica maronita, Chiesa cattolica greco-melchita, ndr) hanno detto (8 giugno 2015, ndr): “Non lasciate la vostra terra”. Ma non è facile».

In queste condizioni, in cosa lei riesce a intravvedere una speranza?

«Nell’arrivo della Russia. Non solo per l’esercito, ma anche per il suo ruolo di pacificazione. La base militare russa di Hmeimim (nel nord est della Siria vicino a Ltakya, ndr) è diventata un centro di riconciliazione tra siriani».

Il presidente Assad e i media

Qual è il suo pensiero rispetto al presidente Assad? 

«Vorrei dare un saluto a questo signore che rimane sempre il presidente legittimamente eletto. E finora ha lottato per conservare e difendere l’unità del suo paese e dei siriani. Dobbiamo rispettare questo presidente che non agisce per sé, né per la sua appartenenza religiosa. Non lo abbiamo mai sentito parlare a nome dell’islam. Lui parla a nome della Siria. E questo gli fa onore».

Eppure non passa giorno senza che i media non accusino Assad di ogni nefandezza, compreso l’uso di armi chimiche. Come lo spiega?

«Mi spiace vedere il comportamento dei mass media europei. La sera io ascolto Al Arabiya (emittente degli Emirati Arabi con sede a Dubai, ndr) e Al Jazeera (emittente del Qatar con sede a Doha, ndr). Poi, al mattino seguente, mi accorgo che i mass media traducono quello che hanno detto le due emittenti arabe. Da sei anni viene ripetuto lo stesso concetto: che Assad è un dittatore, definizione ripresa da Obama e dalla Clinton. E l’Europa di seguito: “Assad ha perso la sua legittimità”, “Assad deve andarsene”. Assad invece deve finire il suo legittimo mandato. L’Europa non vuole ammettere che un presidente è garantito dal suo popolo e lui è il garante del popolo».

Putin ed Erdogan

Lei ritiene positivo l’intervento della Russia di Putin in Siria?

«Sì, lo vedo come portatore di pace. Abbiamo visto che la loro presenza è importante. Prima a livello militare: hanno distrutto migliaia di obiettivi di Isis-Daesh e migliaia e migliaia di cisterne che portavano fuori dai confini il petrolio siriano. In tanti traevano profitti dalla guerra in Siria. L’arrivo di Putin ha dato fastidio all’Europa e all’America (che già da tempo hanno decretato l’embargo contro la Russia).

Questo paese è arrivato con la sua forza militare per dire “basta”: basta al furto del petrolio siriano, basta all’arrivo nel paese di migliaia di terroristi attraverso la Turchia.

Allo stesso tempo i russi hanno portato tonnellate di cibo e medicine. E hanno perso due medici in un ospedale da campo messo su per dare cure mediche al popolo siriano, senza differenze tra musulmani o cristiani (fatto accaduto il 5 dicembre 2016 a causa di un bombardamento sull’ospedale mobile civile appena montato, ndr).

In tante zone dove lo stato siriano e l’esercito sono tornati, i cittadini sono tornati a vivere insieme».

Passiamo a Erdogan, il presidente-dittatore della Turchia. Qual è il suo ruolo nel conflitto siriano?

«Mi spiace dire la verità. Dall’inizio Erdogan ha tradito la causa siriana. Ci sono 910 chilometri di frontiera in comune tra la Siria e la Turchia e lui le ha aperte per far entrare migliaia di uomini per combattere, perché “Assad deve partire, Assad non rappresenta il suo popolo”. Ma chi lo rappresenta? Lui incolpa Assad di essere un dittatore. In arabo si dice “Medico abbi cura di te stesso” (proverbio, molto famoso nell’antichità, in ambiente greco, giudaico e arabo, è usato di solito in riferimento a chi dà consigli agli altri e poi non corregge i propri errori, ndr). Erdogan non ha mai voluto il bene della Siria e soprattutto oggi è tornato al suo sogno preferito: quell’impero ottomano che portò al paese guerra, fame e vittime. Non crediate voi europei che aver dato 6 miliardi delle vostre tasse (e dalle vostre tasche) per far parcheggiare i siriani nei campi della Turchia (accordo del marzo 2016, vedere scheda cronologica) sia stato un buon affare».

È stato un accordo sbagliato?

«Avete sbagliato. Avete aiutato un dittatore, che mira ad avere benefici personali e a far parte della Comunità europea. Come vivono i siriani nei campi della Turchia? Vivono nella miseria. I nostri bimbi sono o sfruttati nel lavoro nero o uccisi per il traffico d’organi umani tra la Turchia e Israele e da qui per il resto del mondo. Sono i fatti che lo raccontano. Mi spiace dire queste cose, ma in Turchia non si può parlare di ospitalità».

E quella della Germania è ospitalità? 

«La Germania aveva bisogno di manodopera tecnica e i siriani sono veramente intelligenti e hanno voglia di lavorare. Certo, con questi 700-800 mila profughi in Europa sono arrivati anche i terroristi, che però non sono siriani».

Erdogan parla molto di terrorismo.

«Ma la Turchia non può certamente essere un garante della pace. Non può esserlo, perché è stata garante dei terroristi, perché ha fatto nascere la gran parte dei terroristi».

L’ex presidente Usa Barack Obama era molto critico verso Assad.

«Obama diceva che Assad aveva perso la sua legittimità. Oggi Obama è andato per la sua strada e il nostro presidente continua a essere il legittimo presidente.

Non dovevano immischiarsi negli affari dei paesi altrui. Chi ha dato ad Obama la procura divina per dire Assad può rimanere o Assad deve andare? Doveva guardare al suo paese e lasciare gli altri fare la propria storia. Non è che l’America o l’Arabia Saudita possano darci la democrazia secondo il modello americano o saudita».

Raqqa, eletta a capitale dello?Stato islamico, è in Siria. L’Isis è ancora forte o sta perdendo terreno come si dice?

«Secondo la mia visione sta perdendo terreno. Però va a fasi. Quando la Turchia è un po’ coerente o sotto pressione dell’America e chiude le frontiere e non arrivano più terroristi, allora l’Isis perde.

Finora non ho visto l’Europa fare molto contro l’Isis, che riceve armi e terroristi tramite la Turchia. Finché questo accade, esso può rinascere o crescere. Tutti i terroristi che hanno rifiutato di fare la pace con lo stato siriano, dovrebbero tornare al loro paese».

Papa Benedetto e le armi

Si arriva sempre alle armi: a chi le fa, a chi le vende, a chi le compra…

«Papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Libano (14-16 settembre 2012, ndr), aveva detto: “Io vorrei mandare un messaggio di pace per la Siria con tre parole: chiudere le tasche che pagano il prezzo delle armi, chiudere le fabbriche che fanno le armi e chiudere le frontiere da dove passano le armi”.

Se tutto questo avvenisse, i siriani non avrebbero bisogno di più di sei mesi per riunirsi tra loro e terminare con il conflitto».

Un conflitto nel quale i gruppi combattenti sembrano moltiplicarsi.

«Questi gruppi sono fluidi e anche in concorrenza tra loro. Dipende della zona dove operano. Dove sono un po’ indeboliti, si raggruppano di nuovo. Dove sono in concorrenza per il territorio, allora si fanno la guerra tra loro. Abbiamo visto anche molti cambiamenti dei loro nomi. Ad es al-Nusra oggi Hayat Tahrir al-Sham. È vero: sono tantissimi gruppi che non si arriva neppure a nominarli perché, da un giorno all’altro, cambiano nome e terreno d’azione. Vorrei non sentire più né nomi né gruppi perché la Siria ha bisogno della pace».

Arabia Saudita: soldi e sharia

Tutti questi gruppi di miliziani che combattono in Siria perché lo fanno?

«Ah, è una bella domanda questa! La gran parte sono stranieri. Combattono per avere soldi e basta. Alcuni sono arrivati in nome dell’islam per uccidere e portare la democrazia musulmana, cioè la sharia, alla Siria. La loro vocazione musulmana li spinge a porre fine alla convivenza siriana, alla democrazia siriana.

Un saudita viene a combattere perché non può sopportare i siriani, il loro modo di vivere, il loro modo di stare insieme. Non può vedere la chiesa vicina alla moschea, o il prete camminare in strada con suo fratello imam o sheik. Costoro vogliono distruggere il modello siriano in nome dell’islam, in nome del Corano. Per loro ogni cristiano è un eretico da combattere e da uccidere. Alcuni sono venuti con questa missione. E poi avranno 72 vergini in cielo, no? Detto questo, la gran parte dei combattenti sono venuti per soldi. Vanno con chi li paga di più».

A proposito di combattenti e di dollari, che ruolo hanno l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar, paesi sunniti?

«Questo è un punto importante, perché lì ci sono le tasche. Arabia Saudita, Qatar, Kuwait hanno tantissimi soldi e non sanno che farne. Non hanno pensato che potevano costruire un ospedale in ogni villaggio della Siria, della Turchia o del loro stesso paese. Se un giorno finirà il loro petrolio, che faranno questi paesi? Da sempre non vogliono né la convivenza né la presenza dei cristiani. Dicono che a Vienna c’è il più grande centro di dialogo interreligioso d’Europa (il Kaiciid, inaugurato nel novembre 2012 e finanziato dall’Arabia Saudita, www.kaiciid.org, ndr). Ma in Arabia Saudita c’è una chiesa?».

Mi pare che non sia consentito.

«L’anno scorso, il 15 agosto, hanno preso una ventina di cristiani che pregavano la Madonna, peraltro citata e rispettata nel Corano. Erano andati per pregare in una stanza senza croce e senza canti, ma forse un vicino li ha traditi. Sono arrivati gli uomini dello stato saudita e le persone sono state espulse. Allora mi chiedo: è questo il modello di convivenza che loro vorrebbero esportare in Siria?

In Siria cristiani e musulmani frequentano la stessa università, cosa che i sauditi non possono accettare. Come non possono accettare questo presidente che viene da una piccola famiglia musulmana alawita (Assad, ndr) e che loro vogliono mandare a casa per porre fine alla convivenza e instaurare la sharia anche in Siria.

In Arabia Saudita non c’è neppure una chiesa, mentre in America, ad esempio, ci sono 3.500 moschee. In Europa si accolgono molti musulmani in nome dei diritti dell’uomo. Sono d’accordo, ma dov’è la reciprocità? Io dico: chiedete per noi almeno una chiesa in Arabia Saudita, chiedete per noi i diritti come cittadini in paesi che non accettano neppure un cristiano.

A La Mecca, il loro luogo sacro, c’è una strada per i credenti e una strada per gli eretici. Se facciamo un paragone, a San Pietro, a Roma, non c’è nulla di simile. Il dialogo interreligioso deve essere fatto sulla base dell’eguaglianza: stessi diritti e stessi doveri. Nei paesi dove vige la sharia non è così».

Lei sembra molto critico verso l’Arabia Saudita.

«Finora l’Arabia Saudita da sola ha pagato 200 miliardi per distruggere le infrastrutture in Siria. Dove sono andati questi soldi? A chi fa la guerra in Siria e una gran parte in America per pagare le armi. Gli Stati Uniti hanno incassato miliardi e miliardi dall’Arabia Saudita. A prezzo del sangue siriano innocente, sia cristiano che musulmano».

I cristiani travolti dalla guerra

A proposito di cristiani, qual è la condizione di coloro che sono rimasti nella Siria in guerra?

«Nella mia amata Siria la comunità cristiana fa parte della comunità siriana. Come altri siriani anche i cristiani, avendo avuto le proprie case distrutte, hanno dovuto sfollare andando in altre zone del paese. Invece di lasciare la Siria per rifugiarsi in Libano, in Giordania o, in maniera inferiore, in Turchia hanno preferito una migrazione interna. I terroristi mettono al primo posto i cristiani, a meno che essi non accettino di convertirsi all’islam. Questo è il prezzo pagato da chi è rimasto.

Se voi europei volete aiutare i cristiani della Siria, dovreste aiutare i siriani a vivere con dignità a casa loro, ricostruendo gli ospedali, le scuole, le infrastrutture. Ma soprattutto dovreste aiutare a ricostruire la convivenza nel paese».

Aleppo caduta, Aleppo liberata

Quando la visitai Aleppo era una ricca città commerciale. Oggi è assurta a simbolo della devastazione della guerra.

«La tragedia della Siria è Aleppo. Aleppo che era nel mirino della Turchia. Dall’inizio della guerra i turchi sono venuti a smontare le fabbriche tessili della città. Quello che non hanno potuto smontare e portare in Turchia lo hanno distrutto.

Quando è stato detto “Aleppo è caduta”, noi siriani abbiamo detto con gioia “Aleppo è stata liberata”. Questa è la differenza tra chi vuole bene e chi vuole male alla Siria.

Aleppo era una città viva, commerciale, tanto da essere la capitale economica del paese. Hanno voluto ucciderla, distruggerla. Alla fine l’esercito siriano – anche con l’aiuto, come abbiamo detto, dei nostri amici russi e libanesi – ha riconquistato Aleppo. Mi auguro che anche le altre città saranno liberate e torneranno in seno allo stato siriano».

I kurdi e la Siria

I kurdi sono in prima linea nella guerra contro l’Isis.  

«Da sempre i kurdi fanno parte della Siria e si sentono cittadini siriani. Nel parlamento ci sono rappresentanti kurdi, nell’esercito ci sono kurdi che fanno il servizio di leva e anche la guerra. Alcuni giocano la carta dell’indipendenza, ma la gran parte dei kurdi si sente siriana».

Tornare a una Siria unita

Mons. Haddad, se dovesse fare un appello per il suo paese, cosa direbbe?

«Di aiutare i siriani a tornare nel loro paese. Tornare a stare insieme e a ricostruire la Siria come era: un punto d’incontro tra religioni, culture ed etnie e un ponte tra Occidente e Oriente. Questa è la Siria. Noi siriani vogliamo tornare ad essere un popolo unito in una Siria unita».


Così parlava mons. Haddad prima che la devastante guerra siriana conoscesse i drammatici eventi di aprile. Se sull’attacco alla Siria è comprensibile (ma non giustificabile) il plauso di Israele, Turchia e Arabia Saudita, paesi nemici, ridicoli e imbarazzanti sono stati gli elogi al decisionismo di Trump fatti dalla gran parte dei media e dei politici occidentali.

Indirettamente lo ha fatto capire anche il vescovo siriano Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, che all’agenzia Fides ha dichiarato: «Una cosa che sconcerta, davanti all’attacco militare Usa in territorio siriano, è la rapidità con cui è stato deciso e realizzato, senza che prima fossero state condotte indagini adeguate sulla tragica vicenda della strage con le armi chimiche avvenuta nella provincia di Idlib».

Sul presunto attacco chimico il vescovo siriano Antornine Audo, presidente di Caritas Siria, ha aggiunto: «Non riesco proprio a immaginare che il governo siriano sia così sprovveduto e ignorante da poter fare degli ‘errori’ così madornali».

Sulla stessa linea critica è stato l’arcivescovo siriano Jacques Behnan Hindo: «(L’attacco Usa) era già predisposto, per questo non hanno voluto prendere in nessuna considerazione le richieste di indagini più approfondite sulle responsabilità (del fatto) avvenuto nella provincia di Idlib». Che Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, sia il vendicatore dei siriani oppressi da Assad è un’affermazione che forse neppure i suoi più accesi sostenitori potrebbero portare avanti. Il presidente dal tweet compulsivo aveva molti motivi (in primis interni) per l’attacco missilistico del 7 aprile, ma certamente non quelli umanitari. L’uomo lo ha anche pubblicamente ammesso durante l’annuncio televisivo: l’intervento era necessario per la sicurezza degli Stati Uniti («vital national security interest»). È altrettanto certo che l’intervento Usa non ha salvato un solo bambino siriano dalla guerra. Anzi, rafforzando il terrorismo jihadista (che stava perdendo davanti all’offensiva di Assad e alleati), ha giocato sulla pelle di tutti i siriani che ancora vivono e resistono nel loro paese. Costoro ancora una volta pagheranno il prezzo di decisioni e interessi estranei alla Siria. E anche a noi occidentali verrà presentato il conto.

Paolo Moiola

La videointervista è qui: https://youtu.be/spzNh_W_Cn8

Scheda 1
Cronologia: dagli ottomani ai missili di Trump

Siria, un paese in frantumi. Damasco, Aleppo, Kobane, Palmira, Homs, Raqqa, Idlib da città a fronti di battaglia. Eppure la pace – sostengono politici e media – sarebbe a portata di mano senza Assad al potere. Peccato che, nel recente passato, operazioni simili abbiano prodotto disastri.

  • 1516 – 1918 – L’Impero ottomano domina su Siria e Libano, parti della regione denominata «Grande Siria».
  • 1916, 16 maggio – Trattato (segreto) di Sykes-Picot: Gran Bretagna e Francia si spartiscono il Medio Oriente.
  • 1919 – 1946 – Dopo la fine della prima guerra mondiale e il trattato di Versailles, la Francia ottiene il protettorato su Siria e Libano.
  • 1940 – 1947 – Nasce e si sviluppa il partito Ba’th (Baath). Uno dei fondatori è il cristiano Michel Aflaq.
  • 1946 – Indipendenza della Siria.
  • 1963 – Il partito Ba’th va al potere.
  • 1967 – Dopo la «guerra dei sei giorni», Israele si annette unilateralmente il territorio siriano delle Alture del Golan, da cui non si è mai ritirato.
  • 1971 (febbraio) – 2000 (giugno) – Diventa presidente della Siria Hafiz al-Assad, alawita del partito Ba’th.
  • 1973, marzo – Viene varata la prima Costituzione siriana.
  • 2000, luglio – Diventa presidente Bashar al-Assad, di professione medico, figlio di Hafiz.
  • 2011, marzo – Manifestazioni di protesta sulla scia delle cosiddette «primavere arabe». Inizia il conflitto.
  • 2012, 27 febbraio – Il referendum popolare approva la nuova Costituzione siriana: non c’è più il partito unico (art. 8) e sono posti limiti alla carica presidenziale (art. 88).
  • 2012, luglio – Iniziano i combattimenti a Damasco e soprattutto ad Aleppo.
  • 2013, agosto – Si diffonde la notizia dell’uso di gas nervino a Damasco. Le forze ribelli accusano il governo, che nega qualsiasi coinvolgimento. Nessuna notizia certa, neppure sul numero delle vittime.
  • 2014, gennaio – Lo Stato islamico (Daesh) conquista Raqqa, nel Nord del paese, e ne fa la propria capitale.
  • 2014, maggio – Le forze di Assad riconquistano Homs, terza città del paese.
  • 2014, 3 giugno – Assad e il partito Ba’th vincono nettamente le elezioni presidenziali. Dall’estero si contesta duramente il risultato.
  • 2015, giugno – Lo Stato islamico perde Kobane, città a maggioranza kurda alla frontiera con la Turchia. La liberazione è opera delle forze kurde riunite nel Ypg, l’esercito della regione (autonoma de facto) di Rojava, il Kurdistan siriano.
  • 2015, settembre – La Russia di Putin inizia raid aerei a sostegno del governo di Damasco.
  • 2016, 17 marzo – Viene firmato un accordo tra Unione europea e Turchia sulla questione dei migranti. Erdogan avrà fino a 6 miliardi di euro entro il 2018 per la gestione dei campi profughi.
  • 2016, settembre – novembre – La Germania di Angela Merkel apre le porte ai profughi siriani, salvo poi richiuderle visto l’altissimo numero di richieste di asilo e le proteste delle organizzazioni di estrema destra.
  • 2016, dicembre – Le truppe di Damasco riconquistano Aleppo Est, da anni in mano ai ribelli. La città, patrimonio dell’Unesco, è un cumulo di macerie.
  • 2017, marzo – L’esercito siriano riconquista Palmira, sito archeologico di fama mondiale messo a ferro e fuoco dai miliziani dello Stato islamico. La città è passata più volte da uno all’altro dei contendenti.
  • 2017, 4 aprile – Viene diffusa la notizia di un attacco chimico a Khan Sahykhun (provincia di Idlib). Si contano oltre 70 morti. Immediatamente la responsabilità è attribuita all’aviazione di Assad (un’azione illogica vista la sua posizione di forza). Damasco e Mosca danno una versione opposta: è stato colpito un deposito in cui i ribelli avevano stivato delle bombe chimiche.
  • 2017, 6 aprile – Due navi da guerra statunitensi di stanza nel Mediterraneo lanciano 59 missili Tomahawk contro la base siriana di Shayrat, nei pressi di Homs. Vengono distrutti aerei, piste e postazioni di rifornimento. Ci sono 15 morti. Applausi da Israele e Arabia Saudita e dai «ribelli» (terroristi, compresi). Consensi da Hollande, Merkel e Gentiloni. Dure critiche da parte di Russia e Iran.
  • 2017, 15 aprile – Un pick up imbottito di esplosivo viene fatto saltare in aria accanto a un convoglio di autobus e ambulanze adibiti al trasferimento verso Aleppo della popolazione sciita, soprattutto donne, anziani e bambini. Rimangono uccise 126 persone, tra cui oltre 60 bambini. L’attentato è opera di una delle milizie sunnite anti-Assad. Al contrario dei fatti di Idlil, nessuno sdegno internazionale, nessuna protesta ufficiale alle Nazioni Unite, nessuna prima pagina.
  • 2017, 16 aprile – In Turchia, dopo un referendum costituzionale falsato dai brogli, il presidente Erdogan amplifica il proprio potere. Applausi di Trump e (timide) proteste internazionali. Lui risponde parlando di «crociati», la stessa terminologia usata dai terroristi dell’Isis.
  • 2017, 25 aprile – Aerei turchi colpiscono avamposti kurdi nell’Iraq settentrionale e in Siria, vicino alla città di al-Malikiya. Erdogan è disposto a tutto pur di impedire la nascita di uno stato kurdo indipendente.
  • 2017, 3-5 maggio – Ad Astana in Kazakhstan riprendono i colloqui di pace tra governo siriano e gruppi ribelli con la mediazione di Russia, Iran e Turchia. Si stabilisce la costituzione di 4 zone cuscinetto.
  • 2017, 16 maggio – A Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite, riprendono i colloqui di pace (V sessione), ma l’attenzione e le speranze sono riposte in Astana.

Pa.Mo.

L’arcivescovo maronite Joseph Tobji di Aleppo nelal cattedrale maronita bombardata nella Citta Vecchia.

 

Scheda 2
Dietro la guerra. Chi arma diavoli e terroristi

Come in tutte le guerre anche in quella siriana c’è chi fa enormi affari con le armi. Ma va detto sottovoce.

«Non vedo Assad come il diavolo – ha detto mons. Joseph Tobji, arcivescovo cattolico maronita di Aleppo in un’audizione alla Commissione esteri del Senato (4 ottobre 2016) -. In Siria prima stavamo bene, era un mosaico vivibile, con un Islam moderato e aperto. Adesso viviamo in compagnia della morte. […] Qualcuno ci accusa di essere venduti al governo, ma perché mi devono imporre l’idea che Assad sia il diavolo? I ribelli sono seguiti convintamente da pochissime persone. I terroristi hanno buoni rapporti con i turchi. Ho visto terroristi dell’Isis parlare amichevolmente con militari turchi. In più ci sono gli stranieri wahabiti sauditi che strumentalizzano l’Islam per scatenare la guerra».

Dopo gli eventi di aprile, la sporchissima guerra siriana è tornata ancora una volta in prima pagina. Peccato che poche volte si ricordi che questa è una guerra alimentata dal gigantesco e profittevole mercato delle armi sul quale tutte le potenze mondiali sono attori protagonisti nelle vesti di produttori e venditori.

Stando ai dati dell’istituto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute – www.sipri.org), gli Stati Uniti continuano a guidare – con ampio margine – la classifica mondiale dei paesi esportatori di sistemi d’arma. Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania rappresentano il 74 per cento del volume delle esportazioni. Tra i maggiori compratori va segnalato il quarto posto dell’Arabia Saudita (con il 10% del Pil speso in armi nel 2016), attore occulto nella guerra in Siria e palese in quella (peraltro da tutti ignorata) in Yemen.

In tempi di fortissima competizione internazionale, crisi economica e occupazionale e ora anche di dilagante terrorismo è chiaro (ma non giustificato) che la produzione e la vendita di armi non vengano messe in discussione, pur se eticamente immorali. Quello che è insopportabile è l’ipocrisia e la retorica messe in campo dalle élite politiche e da molti media.

Tra i produttori ed esportatori di armi c’è anche l’Italia, ben piazzata. Stando ai dati di Sipri, l’italiana Finmeccanica-Leonardo (il cui azionista principale è lo stato) è il nono produttore mondiale. A livello di paese, l’Italia è l’ottavo maggiore esportatore.

Il problema sta proprio in questo: che una buona parte delle armi vengono vendute a paesi in guerra, palese o a bassa intensità che sia. Gli stessi paesi che poi producono milioni di profughi che andranno a spingere sulle frontiere europee e occidentali in generale.

In un mercato così florido e poco trasparente per i gruppi terroristici è quasi uno scherzo procurarsi armi (Si vedano le ricerche di Conflict Armament Research, associazione finanziata dall’Unione europea). Soltanto un esempio per intenderci. Nel sito archeologico di Palmira, i miliziani islamici del Daesh hanno seminato migliaia di mine antiuomo (di cui un tempo anche l’Italia era grande e rispettata produttrice).

La giustificazione più immediata per il businness delle armi non è cambiata nel tempo perché regge sempre: «Se non le vendiamo noi, le venderà qualcun altro». Giusto, no?

Paolo Moiola