Guerre con il silenziatore

Un mondo di conflitti

Sipri Yearbook 2024 (Screenshot)

Risolvere le contese a suon di armi

Sono 170 i conflitti armati sulla terra: coinvolgono Stati, gruppi non statali, civili. Hanno ucciso 170mila persone in modo diretto nel solo 2023, con un impatto economico di 19mila miliardi di dollari: il 13,5% della ricchezza mondiale. La guerra non esce (ancora) dall’orizzonte.

Le statistiche internazionali evidenziano un mondo colpito da circa 170-176 conflitti armati (a seconda delle fonti). Le stime più basse parlano di 54 conflitti che coinvolgono almeno uno Stato, 76 non statali, 40 caratterizzati dalla violenza unilaterale di un attore statale o non statale contro la popolazione civile.

Secondo l’Yearbook 2024, l’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), in Svezia, nel 2023, i conflitti nel mondo che coinvolgevano almeno uno Stato erano, invece, 52: ventotto a bassa intensità (con meno di mille morti in un anno), venti ad alta intensità (tra mille e 9.999 morti) e quattro ad altissima (più di 10mila morti). Questi ultimi erano (e sono tutt’oggi) i conflitti in Myanmar, Sudan, Israele-Hamas e Russia-Ucraina. Cinquantadue guerre che hanno provocato oltre 170mila morti dirette in un solo anno.

Secondo l’ottavo rapporto di Caritas italiana sui conflitti dimenticati, «Il ritorno delle armi», pubblicato a fine 2024, a distanza di tre anni dal precedente, il livello di gravità e diffusione delle guerre nel 2023 appare abbastanza costante rispetto a tre anni prima. Il numero di conflitti e di Paesi coinvolti, infatti, varia di poche unità.

Almeno nove guerre ad alta intensità già in atto nel 2020, lo erano ancora nel 2023: Azerbaigian, Burkina Faso, Ciad, Kenya, Mali, Nigeria, Congo Rd, Somalia e Sud Sudan.

Sono diversi i centri internazionali che si occupano di studiare i conflitti nel mondo, dal già citato Sipri, all’Università di Heidelberg, in Germania, con il suo Conflict Barometer, all’Università di Uppsala, in Svezia (Conflict data program), allo statunitense Armed conflict location and event data project (Acled), all’Institute for economics and peace di Sydney, Australia con il Global peace index .

Scorrendo i dati a disposizione, l’Africa emerge come il continente con il numero più elevato di conflitti ad alta intensità, mentre il record del conflitto più longevo appartiene a quello israelo- palestinese, che può essere fatto risalire al 1917 (firma della cosiddetta Dichiarazione Balfour).

Guerre tradizionali, nuove prospettive

Rispetto alle previsioni di scenario avanzate nel corso dell’ultimo decennio, gli studi sui conflitti evidenziano alcuni mutamenti di rotta.

Innanzi tutto, non si è avverata la prospettiva di una guerra avanzata, ipertecnologica, attuata mediante l’utilizzo di apparati dotati di capacità chirurgica di offensiva.

La guerra in Ucraina, e in altre parti del mondo, dimostra la persistenza di errori umani, il ritorno a modalità belliche tradizionali, la ricomparsa del fante, della guerra di logoramento in trincea.

Una seconda previsione che non si è avverata riguarda, invece, la teoria secondo la quale la guerra sarebbe divenuta nel prossimo futuro un fenomeno residuale, relegato alle periferie del pianeta, che avrebbe compromesso le sacche meno avanzate della civiltà umana.

Una serie di recenti conflitti nel cuore dell’Europa, che hanno coinvolto le grandi potenze occidentali, dimostrano, invece, che le guerre sono un rischio trasversale che si affaccia anche alle nostre finestre, nei nostri cortili.

Nel corso degli anni i conflitti armati si sono trasformati in alcuni dei loro aspetti rilevanti. Uno di essi riguarda le diverse forme che assumono. La tradizionale distinzione tra guerre civili e guerre tra Stati, ad esempio, è stata sostituita un po’ per volta da una prospettiva interpretativa più analitica, che vede non due, ma tre tipologie: la prima è quella denominata «State-based violence» che riguarda i conflitti in cui si fronteggiano due soggetti armati, dei quali almeno uno è uno Stato; la seconda è quella del «Non-state conflict», nel quale si fronteggiano ribelli, organizzazioni criminali, milizie armate su base etnica religiosa, ecc., cioè gruppi che le principali istituzioni internazionali non riconoscono come Stati sovrani; la terza tipologia è quella chiamata «One-side violence» (violenza unilaterale), cioè quelle situazioni nelle quali un soggetto statale, parastatale, o non statale usa violenza indiscriminata sulla popolazione civile.

Rispetto a questa classificazione, come abbiamo già osservato, nel 2023 la tipologia più frequente è stata quella dei conflitti non statali, seguita dalle guerre State-based e dalle One-side violence.

Rientrano nella tipologia delle guerre statali conflitti come quello tra l’Azerbaigian e la repubblica separatista del Nagorno-Karabakh, e quello tra l’Ucraina e i separatisti filorussi, poi sfociato nell’invasione russa del febbraio 2022.

Tra i Non-state conflict vi sono varie situazioni di violenza diffusa, come, ad esempio, gli scontri armati tra i cartelli della droga messicani, quelli tra organizzazioni criminali in Brasile e quelli tra etnie e gruppi religiosi in diversi Paesi dell’Africa.

Infine, tra le situazioni di violenza unilaterale attuata da governi e/o milizie di vario tipo nei confronti dei civili come obiettivo privilegiato, possiamo fare l’esempio delle brutalità commesse dai Talebani in Afghanistan, o delle uccisioni in Iran di centinaia di manifestanti scesi in piazza per diversi mesi per protestare in seguito alla morte di Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre 2022.

In una prospettiva storica, il confronto su una finestra temporale di venti anni (2002-2023) evidenzia la sostanziale stabilità delle guerre State-based, l’aumento delle violenze tra gruppi non statali (10 punti percentuali in più) e la diminuzione della violenza unilaterale mirata verso le popolazioni civili (13 punti percentuali in meno).

CAR refugees in Southern Chad

Sempre più armati

Secondo il Global peace index, l’impatto economico dei conflitti armati nel mondo nel 2023 è stato di 19mila miliardi di dollari, il 13,5% del Pil mondiale, circa 2.380 dollari a persona.

I dati disponibili evidenziano le contraddizioni del nostro tempo: a fronte di una conflittualità persistente, aumenta la spesa militare complessiva, in particolare in alcuni Stati che impegnano a tale scopo quote sempre più ampie della propria ricchezza disponibile.

È un fenomeno che riguarda tutti gli Stati, non solamente le superpotenze planetarie come gli Usa, la Cina e la Russia.

Ad esempio, con 83,6 miliardi di dollari, l’India si è collocata al quarto posto per livello di spese militari: nel 2023, il budget militare indiano è aumentato del 4,2% rispetto al 2022 e, addirittura, del 44% rispetto al 2014.

Secondo i dati del Sipri, i primi cinque Paesi della classifica (Usa, Cina, Russia, India, Arabia saudita) rappresentano il 61% delle spese militari globali.

Sulle teste dei bambini

Le conseguenze dei conflitti armati sono molte e sempre devastanti sulle popolazioni come sull’ambiente, sia nei Paesi direttamente coinvolti che su quelli vicini e, spesso, anche lontani.

Uno sguardo particolare va dedicato all’impatto sulle vite dei minori.

Secondo i dati diffusi dall’ultimo rapporto del Segretario generale per i bambini e i conflitti armati dell’Onu, pubblicato a giugno 2024, sono state registrate nel mondo 32.990 gravi violazioni contro i bambini in venticinque conflitti nazionali e in un conflitto regionale (quello del bacino del lago Ciad). È il numero più alto mai registrato dall’inizio delle attività di monitoraggio nel 2005.

Le violazioni includono sei categorie di fenomeni: uccisioni e menomazioni; reclutamento e utilizzo dei minori in gruppi e forze armate; violenza sessuale; rapimenti; attacchi a scuole e ospedali; negazione dell’accesso agli aiuti umanitari.

«Nel 2023 – si legge nel rapporto Onu -, 22.557 bambini (15.847 maschi; 6.252 femmine; 458 di sesso sconosciuto) sono stati vittime di almeno una delle seguenti quattro violazioni: reclutamento e sfruttamento; uccisioni e mutilazioni; stupro e altre forme di violenza sessuale; rapimento. Le situazioni con il numero più elevato di bambini colpiti si sono verificate in Israele e nei Territori palestinesi occupati, nella Repubblica democratica del Congo, in Myanmar, in Somalia, in Nigeria e in Sudan».

Per il primo dei sei punti (uccisioni e menomazioni), nel 2023 è stato registrato un aumento dei casi pari al 35%: da 8.647 bambini uccisi o mutilati nel 2022 a 11.649 nel 2023.

Per quanto riguarda i minori reclutati e impiegati in gruppi e forze armate, nel 2023 sono stati 8.655. I bambini rapiti, invece, 4.356: una cifra cresciuta per il terzo anno consecutivo.

Soltanto in Ucraina, nel febbraio 2022, sono stati riportati 1.682 attacchi alla salute dei minorenni, a danno di operatori sanitari, forniture, strutture, magazzini, e ambulanze, e oltre 3mila attacchi a strutture educative, che hanno lasciato circa 5,3 milioni di bambini ucraini senza un accesso sicuro all’educazione.

© European Union, 2021 (photographer: Olympia de Maismont) – Des élèves arrivent à l’école Gondologo B à Ouahigouya, Burkina Faso, le 20 janvier 2021.

Milioni di persone vulnerabili

L’ingente quantità di persone che si trovano in condizioni di vulnerabilità determinate dai conflitti armati, fa emergere un fabbisogno umanitario enorme, che non trova una risposta adeguata nelle attuali politiche: quasi 300 milioni di individui nel mondo sono bisognosi di aiuto e dipendenti da esso. Non hanno, infatti, alcuno strumento per soddisfare in modo autonomo i propri bisogni primari. È un numero che equivale quasi al 70% della popolazione dell’Unione europea. In Africa orientale e meridionale sono 74,1 milioni coloro che dipendono dall’assistenza umanitaria.

Da sola, la guerra in Sudan ha generato nel 2023 bisogni umanitari per 15,8 milioni di persone, stimate a 30 milioni per il 2024. Di queste, 3,5 milioni sono bambini. Un dato che fa del Sudan il Paese con il più alto numero di minori sfollati.

Povertà e conflitti

Un’altra caratteristica importante dei conflitti armati odierni è la loro correlazione con la povertà.

Se mettiamo in relazione tra loro i dati sui conflitti armati con la classifica dei Paesi in base all’Indice di sviluppo umano (Isu) stilata dall’Undp (United nations development programme), si apprende che l’incidenza di Paesi in guerra è molto più alta tra quelli a basso valore di sviluppo umano rispetto a quanto accade tra i Paesi più ricchi. In altre parole, i Paesi in maggiore difficoltà si trovano più spesso coinvolti in conflitti violenti.

Tradotto in cifre: è coinvolto in situazioni di conflitto armato il 27,3% dei Paesi con basso Isu, mentre solo il 4,3% di quelli con Isu molto elevato. Un mancato coinvolgimento diretto di questi ultimi in azioni di guerra, però, non significa che le potenze economiche non siano coinvolte nei conflitti: sono numerose, infatti, in diverse parti del mondo, le cosiddette «guerre per procura», giocate per interposta persona da eserciti, gruppi e milizie di Paesi terzi, pesantemente equipaggiati in violazione di sanzioni ed embarghi di armi. Due esempi su tutti: il sostegno del Rwanda alle milizie M-23 nella confinante regione del Kivu in Repubblica democratica del Congo; l’appoggio degli Emirati arabi uniti alla Rapid reaction force nella guerra civile sudanese.

Walter Nanni

Bairi Ram, a local resident, stands next to his house damaged by overnight Pakistani artillery shelling in Kotmaira village near the Line of Control (LoC) in India’s Jammu region on May 11, 2025. India and Pakistan traded accusations of ceasefire violations early on May 11, hours after US President Donald Trump announced that the nuclear-armed neighbours had stepped back from the brink of full-blown war. (Photo by Money SHARMA / AFP)

Conflitti in numeri

  • 300 milioni di persone al mondo dipendono da aiuti umanitari; di cui 74,1 milioni in Africa orientale e meridionale.
  • 52 Stati vivono situazioni di conflitto armato.
  • 20 guerre ad alta intensità (1.000-9.999 morti).
  • 4 guerre ad altissima intensità (più di 10mila morti nell’anno): Myanmar e Sudan, Israele-Hamas e Russia-Ucraina.
  • 170.700 morti dirette in azioni di guerra.
  • 32.990 gravi violazioni contro i bambini in 25 conflitti nazionali e un conflitto regionale in Ciad (11.649 uccisi o menomati; 8.655 reclutati in gruppi armati; 4.356 rapiti).
  • 63 operazioni multilaterali di pace. Un terzo delle operazioni è coordinato dall’Onu.
  • 100.568 operatori (civili e militari) impegnati in operazioni di pace.
  • 2.443 miliardi di dollari: spesa militare mondiale (massimo storico). Equivalente al 2,3% del Pil globale, 306 dollari a persona, di cui 820 miliardi di dollari di spesa militare USA; 296 miliardi: Cina; 109 miliardi: Russia;
  • 19mila miliardi di dollari: impatto economico dei conflitti armati nel mondo: il 13,5% del Pil mondiale, circa 2.380 dollari a persona.

W.N.

Il ritorno delle armi. Rapporto della Caritas

Il volume «Il ritorno delle armi» costituisce l’ottava tappa di un percorso di studio sui conflitti dimenticati, avviato da Caritas italiana nel 2002, e che ha dato luogo ad altrettante pubblicazioni editoriali.
Frutto di un lungo lavoro di studio portato avanti a cura di un gruppo ristretto di studiosi ed enti accreditati, il rapporto si concentra sul peso mediatico delle guerre nell’agenda informativa italiana, con particolare interesse agli aspetti umanitari e al legame tra guerra, ambiente e mercato delle armi.
Il rapporto è diviso in tre parti. La prima è di taglio descrittivo analitico, e offre uno spaccato dei fenomeni e delle tendenze di guerra in atto, con particolare riferimento allo scenario geopolitico dello scacchiere internazionale.
La seconda parte riporta una serie di ricerche sul campo condotte ad hoc per il rapporto, sulla presenza dei conflitti nell’agenda mediatica, e sulla loro percezione da parte dell’opinione pubblica.
La terza parte del volume è, invece, di taglio propositivo, e ha lo scopo di delineare alcune possibili prospettive di lavoro e di impegno, anche a partire da esperienze concrete, nell’ambito civile ed ecclesiale, con particolare riferimento al ruolo della Chiesa universale e alla specifica realtà Caritas.

W.N.

Non solo Ucraina e Israele

Il ruolo dei media nella percezione pubblica dei conflitti

Solo una persona su quattro in Italia sa elencare almeno tre guerre attuali. Il 29% non ne conosce nemmeno una. Il resto quasi solo Ucraina o Israele. L’assenza dei media su questo tema è vistosa, nonostante le persone vogliano essere informate.

Quante sono le persone che in Italia sono informate sui conflitti che ogni giorno fanno vittime in tutto il mondo e che causano spesso conseguenze concrete anche alla loro vita (dall’immigrazione, all’aumento dei prezzi di alcuni prodotti, ai cambiamenti climatici)?

Il «cuore» del rapporto di Caritas italiana sui conflitti dimenticati affronta questo interrogativo. La seconda sezione del volume, infatti, descrive i risultati di una serie di ricerche sul campo condotte ad hoc dall’Istituto Demopolis.

L’attenzione si concentra non solo sui media tradizionali (tv, radio, carta stampata), ma anche sul web e sull’ambiente dei social media, in particolare di Instagram, uno dei più diffusi, soprattutto in ambito giovanile.

La rilevazione online sulla piattaforma ha consentito di rispondere a tre interrogativi: come si parla di guerra su Instagram? Come si parla dei conflitti dimenticati? Chi parla dei conflitti dimenticati?

Un capitolo di questa sezione del rapporto è poi quella curata dall’Osservatorio di Pavia (un istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media), che ha studiato la presenza dei conflitti dimenticati nei contenuti trasmessi dai principali Tg italiani negli anni 2022 e 2023. L’Osservatorio ha inoltre approfondito i fattori che favoriscono la copertura telegiornalistica dei conflitti, e quanto le notizie hanno messo in rilievo un tema, particolarmente importante per i diritti umani e l’ambiente, come quello dell’acqua.

Un altro capitolo analizza circa 180 video, disegni, fotografie e componimenti inviati da studenti italiani, dalla scuola dell’infanzia fino alle superiori, che hanno dato una propria lettura e interpretazione al tema del conflitto nell’ambito di un concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e del merito e da Caritas italiana.

Haitian police officers deploy in Port-au-Prince as they exchange gunfire with alleged gang members on November 11, 2024. (Photo by Clarens SIFFROY / AFP)

Conoscenza molto bassa, ma in crescita

Il sondaggio demoscopico, realizzato dall’Istituto Demopolis su un campione rappresentativo di italiani, si sofferma innanzitutto sulla conoscenza delle guerre.

Rispetto alla precedente ricerca risalente al 2021, appare molto forte in quella del 2024 l’incremento tra gli italiani di conoscenze sui conflitti: il 71% degli intervistati è in grado di citare almeno una guerra degli ultimi cinque anni, conclusa o ancora in corso (nel 2021 erano il 53%).

Il conflitto più citato è stato quello russo-ucraino (47%); 3 su 10 hanno ricordato il fronte israelo-palestinese; il 16% ha citato la Siria. Il 26% giunge a individuare tre conflitti.

L’attenzione degli italiani è legata innanzitutto alla dimensione locale (il 65%). Nonostante questo, però, il livello di conoscenza circa i conflitti che avvengono nel mondo è aumentato.

La guerra si può evitare

Un aspetto importante della ricerca si riferisce all’atteggiamento valoriale e culturale delle persone intervistate riguardo alla natura della guerra: l’80% degli italiani considera le guerre come «avvenimenti evitabili» e non legati in modo indissolubile alla natura profonda dell’uomo (erano il 75% nel 2021). Così come si rileva una buona fiducia nei confronti della comunità internazionale come strumento di prevenzione delle guerre o di mediazione tra le parti. Il 74% degli italiani, di fronte allo scoppio di un conflitto, richiederebbe alla comunità internazionale di agire con la mediazione politica, senza l’uso della forza, con un incremento di 4 punti rispetto al 2021. Oggi, solo il 13% appoggerebbe un intervento immediato, anche con la forza, per fermare un conflitto.

Se dal dato teorico si sposta l’attenzione degli intervistati sul ruolo ipotizzabile per l’Italia, la tendenza al pacifismo si conferma, ma con sfumature significative. Per il 56% degli italiani, il nostro Paese non dovrebbe mai, in alcun caso, intervenire militarmente in situazioni di guerra e conflitto internazionale. Il 41% non esclude invece forme di intervento militare, ma solamente all’interno di un’azione coordinata dalle Nazioni Unite o dall’Unione europea.

Nigeria 2018. Nel nord-est della Nigeria, epicentro della crisi del Lago Ciad, infuria il conflitto tra lo Stato e il gruppo armato Boko Haram. Continuano gli attacchi e gli sfollamenti. Dall’ottobre 2017 sono state sfollate più di 140.000 persone. © Unione Europea 2018 (foto di Samuel Ochai)

I conflitti nella Tv

Sul tema della presenza dei conflitti nella comunicazione televisiva, l’Osservatorio di Pavia ha realizzato uno studio sui sette principali Tg nazionali trasmessi in fascia serale (Tg1; Tg2; Tg3; Tg4; Tg5; Studio aperto; TgLa7) dal 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2023, allo scopo di rilevare la «copertura» dei Paesi interessati da conflitti di estrema o alta gravità.

Nel 2023, i Tg italiani hanno dedicato ai conflitti nel mondo 3.808 notizie, pari all’8,9% del totale di tutte le notizie trasmesse. Dal 2022 al 2023, l’attenzione dei Tg è diminuita: le notizie sulla guerra nel 2022 erano state 4.695, con un valore di incidenza superiore, pari all’11,7%.

Il 50,1% delle notizie sulle guerre nel 2023 ha riguardato il conflitto israelo-palestinese e il 46,5% quello in Ucraina, che ha ricevuto un’attenzione media quotidiana rilevante, sebbene più che dimezzata rispetto all’anno precedente, il 2022, l’anno nel quale la Russia ha invaso il Paese confinante. Il restante 3,4% delle notizie si è distribuito su quindici Paesi: Afghanistan, Brasile, Colombia, Filippine, Haiti, India, Myanmar, Nigeria, Pakistan, Repubblica democratica del Congo, Siria, Somalia, Sudan, Venezuela, Yemen.

I conflitti in Bangladesh, Burkina Faso, Camerun, Etiopia, Giamaica, Guatemala, Honduras, Iraq, Kenya, Mali, Messico, Trinidad e Tobago non hanno ricevuto nessuna copertura.

Anche le notizie indirettamente pertinenti i conflitti analizzati risultano in diminuzione nel 2023 rispetto al 2022: da 4.636 a 2.089, in termini di incidenza dall’11% al 4,9%, di cui il 72,3% sulla guerra in Ucraina, il 26,5% sul conflitto israelo-palestinese, il restante 1,2% distribuito fra Filippine, Rd Congo, Venezuela e Yemen.

Le cornici narrative prevalenti di questo tipo di notizie sono state la diplomazia, la politica italiana, gli appelli di pace e diplomazia della Chiesa.

Sui 30 Paesi campione coinvolti in conflitti, le notizie che non trattavano la dimensione conflittuale sono state 575, pari all’1,3% del totale. Hanno riguardato prevalentemente la Siria, colpita da un grave terremoto a febbraio del 2023, ampiamente coperto dai Tg, e l’India, dove a settembre si è svolto un summit del G20, anche questo riportato da tutte le testate giornalistiche.

In sintesi, nell’arco di questi due anni, solo due conflitti hanno ricevuto un’ampia attenzione nei Tg nazionali: la guerra in Ucraina, che nel 2022 ha ottenuto una copertura media di 13 notizie al giorno, e di cinque nel 2023. Il secondo è il conflitto israelo-palestinese che, a partire dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ha ricevuto una copertura media quotidiana di 22 notizie.

Tutti gli altri Paesi interessati da conflitti di estrema o alta gravità, in proporzione hanno avuto una visibilità ridottissima, in molti casi addirittura nulla.

Guerre «notiziabili»

L’Osservatorio di Pavia ha studiato anche la correlazione fra alcuni fattori di notiziabilità dei conflitti e la loro copertura nell’informazione dei Tg italiani del 2022 e 2023. È risaputo tra chi studia l’informazione che non tutti i fatti che accadono nel mondo diventano notizia.

Tale possibilità dipende da una serie di caratteristiche, denominate «fattori di notiziabilità», tra cui il tipo di evento, qual è lo strumento di comunicazione, la competizione tra le testate giornalistiche, l’interesse del pubblico, ecc.

Basandosi sui risultati di precedenti ricerche, sono stati presi in considerazione sei fattori misurabili statisticamente: la vicinanza geografica tra l’Italia e il Paese interessato dal conflitto; la gravità del conflitto, in termini sia di eventi politici violenti, sia di eventi con danni diretti alla popolazione; la potenza economica del Paese interessato dal conflitto, e gli scambi commerciali con l’Italia, in termini sia di import che di export.

I risultati dell’analisi statistica dimostrano che, fra tutti i fattori sopra indicati, la copertura dei conflitti nei Tg italiani è correlata soprattutto alla gravità del conflitto e alla vicinanza geografica con l’Italia. Non per nulla, questi due fattori sono fortemente presenti sia nella guerra in Ucraina che nel conflitto israelo-palestinese, non ascrivibili infatti nel novero dei conflitti dimenticati.

I conflitti per i giovani

«Voci silenziose», opera dell’Itt Rondani di Parma per il concorso «Spezziamo la violenza» indetto dalla Caritas nel 2023.

Un altro capitolo del rapporto Caritas si sofferma sulle modalità con le quali i giovani vedono il tema del conflitto.

Per poter esaminare questo aspetto si è deciso di utilizzare i lavori prodotti da bambini e giovani, nell’ambito di un Concorso nazionale indetto da Caritas italiana in collaborazione con il ministero dell’Istruzione e del merito.

Gli studenti erano stati invitati a produrre dei lavori di vario tipo sul tema del conflitto (non necessariamente di tipo bellico). Da tutta Italia sono pervenuti 177 elaborati che sono stati prodotti con diverse tecniche. Attraverso 103 disegni e fotografie, 40 video e 34 testi scritti, i ragazzi e le ragazze di tutte le regioni hanno raccontato il loro personale sguardo sul tema dei conflitti, in risposta a una domanda che di tale concetto proponeva una definizione volutamente ampia, proprio per accogliere le diverse visioni dei giovani.

Analizzando i lavori, si apprende che il 76% degli elaborati visivi dei ragazzi (foto e disegni), si riferiva alla dimensione internazionale, con precisi riferimenti alla guerra in Ucraina e nel Medio oriente. Particolarmente emblematica a riguardo è la fotografia «Legami», prodotta da una classe terza dell’Istituto tecnico tecnologico Rondani di Parma, specchio di tante immagini violente che scorrono sui media e raggiungono anche i giovani.

Il 14,4% degli elaborati aveva invece come oggetto una dimensione nazionale, più vicina alla quotidianità dei ragazzi e delle ragazze. In questi casi il conflitto assumeva altre identità, tra cui la criminalità organizzata, il bullismo e la violenza sulle donne. Diversi lavori grafici e video sono testimonianza di dinamiche difficili, ma anche di soluzioni concrete per provare a contrastare questi fenomeni.

Interessante notare come in alcune immagini i ragazzi abbiano riprodotto dei fili che reggono burattini e marionette (ne è un esempio la fotografia denominata «Voci silenziose»).

L’idea è che spezzare la violenza di ogni genere significa tagliare le corde della manipolazione che impediscono un movimento libero.

Walter Nanni

«Legami», opera degli studenti dell’Itt Rondani di Parma

Le guerre di Instagram

I conflitti dimenticati negli spazi social

I social network sono ambienti di comunicazione e informazione. Le contese geopolitiche e i diritti umani non mancano, ma – anche su social come Instagram – alcuni conflitti sono più assenti di altri. E il rischio della superficialità è grande.

Dalle rivoluzioni delle Primavere arabe fino ai recenti conflitti globali, i social network hanno dimostrato la capacità di mobilitare e informare un vasto pubblico in tempo reale.

A tale riguardo una specifica indagine condotta da Federica Arenare dell’Università di Bologna ha tentato di dare una risposta ad alcuni interrogativi: quali, tra i profili social di testate giornalistiche, di giornali nati online e di giornalisti freelance, parlano maggiormente di conflitti?
Su quali guerre si pone più attenzione e, soprattutto, come se ne parla?

L’indagine, che compare all’interno del rapporto Caritas, analizza post condivisi tra giugno 2023 e maggio 2024, ed esplora le modalità di Instagram nel veicolare informazioni sui conflitti dimenticati, in riferimento alle guerre segnalate dall’Heidelberg institute for international conflict research (Hiicr), ovvero quelle di Burkina Faso, Camerun, Ciad, Repubblica centrafricana, Rd Congo, Etiopia (Tigray e Oromia), Haiti, Kenya, Mali, Myanmar, Nigeria (Boko Haram), Somalia (al-Shabaab), Sud Sudan, Sudan (Darfur), Uganda.

I risultati evidenziano un’ampia disparità di attenzione dedicata ai vari contesti di guerra: il Sudan, teatro di una guerra civile devastante dal 2023, è quello che viene maggiormente coperto; mentre Paesi come la Repubblica centrafricana e il Ciad ricevono una copertura marginale.

L’analisi ha coinvolto oltre 30mila post, rilevando che solo pochi attori, come Ong e giornalisti freelance, riescono a far emergere queste tematiche.

I profili coinvolti nell’indagine comprendono testate tradizionali come «la Repubblica» e «Corriere della sera», testate native digitali come «il Post» e «Tpi», e realtà nate sui social come «Will» e «Torcha». Secondo i risultati della ricerca, Sudan, Repubblica democratica del Congo e Nigeria sono i Paesi di cui si è più parlato su Instagram nel periodo preso in considerazione, mentre i conflitti maggiormente dimenticati sono – partendo dall’ultimo in classifica – Repubblica centrafricana, Myanmar e Ciad.

C’è anche da mettere in evidenza che lo scarto esistente tra il primo Paese in classifica e quello che si trova all’ultimo posto è molto ampio: 4.161 nomine per «Sudan» e «Darfur» (15,1% del totale), rispetto alle sole 49 citazioni di «Repubblica centrafricana» (0,2%): un disequilibrio informativo non indifferente.

L’attenzione verso il Sudan è probabilmente giustificata dallo scoppio della guerra civile nell’aprile del 2023 che sta causando una carestia di massa e, secondo Medici senza frontiere, lo sfollamento di oltre 8,4 milioni di persone.

Rispetto ad altri conflitti e nonostante gli allarmi umanitari, il Sudan rimane comunque quasi assente nelle agende internazionali e nel dibattito pubblico globale.

“Vivevamo bene, nella prosperità, finché non sono arrivati loro”, riflette Tetiana sul periodo precedente alla guerra.
Tra le mani tiene i frammenti delle granate che hanno danneggiato la sua casa un anno fa e spera che il sostegno internazionale per il popolo ucraino continui.
© Unione Europea, 2023 (fotografo: Oleksandr Ratushniak).

Nel rumore di fondo della piattaforma

Informazioni interessanti derivano anche dal confronto tra le modalità narrative che distinguono le diverse tipologie di pagine Instagram.

Nello specifico, dalle analisi di confronto tra le diverse testate (tradizionali vs digitali) emerge che quelle nate sui social riescono a sfruttare meglio le potenzialità del canale, offrendo contenuti che, sebbene poco approfonditi, riescono a coprire più tematiche. Le prime cinque testate che citano maggiormente i Paesi in cui sono in corso conflitti sono tutte native digitali.

Il fatto che queste pagine siano nate sui social, non ha dirette correlazioni con le tematiche che affrontano, ma ha senz’altro a che fare con gli algoritmi che regolano in modo incontrovertibile, e in continua evoluzione, gli spazi su cui condividono i loro contenuti.

Da un lato, bisogna tenere sempre presente che redazioni come quelle di Repubblica, Corriere e Domani creano i loro contenuti soprattutto per i quotidiani cartacei e per il loro sito web. La principale ragione per cui sono presenti sui social network è la necessità di rimanere visibili al grande pubblico e di guadagnare dalle sponsorizzazioni che ospitano sui loro siti. Dall’altro lato, i contenuti di attualità delle testate nate con il cartaceo hanno però un vantaggio: essendo distribuiti su molte piattaforme, anche se attirano meno engagement e alimentano meno dibattito pubblico, possono comunque essere trattati su altri canali web, in quanto non direttamente legati alle prigioni algoritmiche dei social.

Un ulteriore focus di attenzione è il fatto che la narrazione sui conflitti dimenticati è spesso legata a eventi specifici che riescono a emergere dal rumore di fondo della piattaforma. E tali eventi non sono sempre di natura bellica.

Ad esempio, il Sudan ha ricevuto particolare attenzione grazie alla candidatura della sua nazionale di basket alle Olimpiadi di Parigi 2024, un evento che ha stimolato emozione e interesse anche fuori dalle cerchie di esperti di geopolitica. Ma in questo modo, all’interno di video e storie che parlavano della nazionale di basket, si è colta l’occasione per parlare anche della guerra vissuta da lunghi anni dal Paese africano.

Il messaggio sulle guerre riesce, quindi, a bucare la rete in modo indiretto, in quanto il contenuto è veicolato mediante altri tipi di narrative, che fungono da polo attrattivo dello spettatore digitale.

L’uso di accattivanti formati visuali consente alle testate più innovative di raggiungere un pubblico giovane e poco incline ai canali tradizionali.

Il potenziale informativo di Instagram si è rivelato molto interessante in ambiti come il giornalismo, dove l’uso di immagini, brevi video e grafiche facilita la comunicazione di temi complessi.

Tuttavia, questa semplicità comunicativa è anche un’arma a doppio taglio: il rischio della superficialità è grande, e la riduzione di profondità delle analisi può incentivare la condivisione di contenuti sensazionalistici o poco accurati.

Nonostante i suoi limiti strutturali, Instagram rappresenta un’opportunità per sensibilizzare su tematiche complesse come i conflitti dimenticati.

Un approccio critico e consapevole a questa piattaforma può favorire una maggiore comprensione delle dinamiche globali e promuovere una «dieta informativa» più equilibrata.

È fondamentale, tuttavia, educare gli utenti ai meccanismi che governano questi spazi, per distinguere tra contenuti di valore e quelli puramente orientati al coinvolgimento emotivo.

Walter Nanni

Pelstina 9marzo2024 – Foto di Emad El Byed su Unsplash

L’arbitrato internazionale

Se la prima parte dell’ottavo rapporto sui conflitti dimenticati di Caritas italiana propone una panoramica dei conflitti armati nel mondo, e la seconda approfondisce i motivi per i quali molti di essi sono invisibili per l’opinione pubblica, dimenticati, appunto, la terza e ultima parte è, invece, di taglio propositivo. I capitoli che la compongono hanno lo scopo di descrivere alcune strade praticabili già oggi, possibili prospettive di lavoro e di impegno da parte delle istituzioni internazionali, ma anche da parte delle istituzioni ecclesiali, con particolare riferimento alla Chiesa universale e alla specifica realtà Caritas, dei gruppi e dei singoli cristiani.
Il primo capitolo approfondisce il ruolo dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) nel mantenimento della pace, analizza gli strumenti a sua disposizione, e suggerisce possibili riforme che renderebbero l’azione dell’Onu più efficace.
Uno degli strumenti di prevenzione del conflitto approfonditi nel capitolo è la Corte permanente di arbitrato internazionale. Si tratta di un meccanismo globale per risolvere le controversie internazionali in modo pacifico: un elenco di persone designate dagli Stati firmatari della Corte stessa, dal quale le parti in conflitto possono scegliere un «arbitro» che emetta una sentenza (o lodo) per risolvere il dissidio. La decisione dell’arbitro è vincolante.
Questa istituzione non è un vero e proprio tribunale, come è il caso della Corte internazionale di giustizia che è una struttura precostituita.
In caso di conflitto, le parti in causa possono scegliere l’arbitrato, costituendolo in quel momento.
Il ricorso all’arbitrato potrebbe risolvere molti conflitti prima che sfocino nella violenza, soprattutto nel caso i contendenti siano unità statali riconosciute dalle Nazioni Unite.
Ciò non può invece avvenire quando le entità contrapposte non siano di carattere statale, come è il caso di gruppi armati rivoluzionari o forze paramilitari.
Purtroppo, il ricorso all’arbitrato non è così frequente come si potrebbe sperare, e il più delle volte è stato utilizzato per risolvere questioni di carattere commerciale.
Si possono tuttavia citare vari casi nei quali il ricorso all’arbitrato ha risolto dispute interstatali che sarebbero potute sfociare in situazioni di conflitto armato.
Uno di questi è la disputa tra Eritrea e Yemen che nel 1998-’99 si contendevano la sovranità su un gruppo di isole nel Mar Rosso. L’arbitrato contribuì a risolvere una disputa che aveva causato scontri armati tra le due nazioni. La decisione definitiva stabilì un confine e prevenne l’escalation del conflitto.
Un altro caso è quello che ha coinvolto nel 2014 Bangladesh e India per la delimitazione dei confini marittimi nella Baia del Bengala. L’arbitrato pose fine a una controversia di lunga data e prevenne tensioni che avrebbero potuto portare a un confronto militare. Entrambe le parti hanno accettato la decisione, migliorando le relazioni.

W.N.

A woman herding cattle looks up as a UN Plane lands in Baga Sola in Chad on May 11, 2022.

Laudato si’, vicinanza, progetti

Data la forte connessione tra guerra e ambiente, un capitolo della terza parte del rapporto Caritas studia ciò che ha detto il magistero pontificio sul tema, cruciale per i conflitti odierni, della «casa comune», con particolare attenzione all’enciclica firmata da papa Francesco nel 2015, la «Laudato si’».

La pubblicazione dell’enciclica ha indubbiamente esercitato sulla Chiesa stessa una grande influenza a diversi livelli. Nonostante il suo recepimento non sia stato – e non sia ancora – lineare e privo di ostacoli, la «Laudato si’» ha generato entusiasmo e attivismo, e una vasta gamma di iniziative ecclesiali che proprio al titolo dell’enciclica si richiamano.

Ma il messaggio del Papa ha avuto una eco forse ancora più ampia al di fuori della Chiesa cattolica: ha favorito il dialogo con altre Chiese cristiane e altre religioni, e ha suscitato un ampio dibattito civile, politico e istituzionale.

L’idea di fondo della «Laudato si’» è che la Parola di Dio e l’antropologia cristiana propongono una concezione della persona umana che parla (e offre una prospettiva di senso) alle donne e agli uomini del nostro tempo. Un’idea di persona umana che porta in sé, come centro costitutivo, la pace, a condizione che venga elaborata alla luce di quello che il nostro tempo ci dice; attraverso i dati della scienza e un dialogo aperto alle culture contemporanee.

Hasan Maqbol Afif, Yemeni displaced trader holds h…inside his shop in Tuban IDP camp, Lahj, Yemen.1 SAMI AL-ANSI

Chiesa italiana

Un altro capitolo del rapporto, curato dal Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Cei, presenta, invece, possibili percorsi di riconciliazione, alla luce dei quattro pilastri dell’enciclica «Pacem in terris» firmata nel 1963 da papa Giovanni XXIII – verità, giustizia, carità e libertà -, e a partire da esperienze sostenute dalla Chiesa italiana.

Questa, attraverso fondi che tanti contribuenti continuano a destinare all’8xmille, dal 1991 ha accompagnato in tutto il mondo più di 18mila progetti, con oltre 2,5 miliardi di euro.

Si tratta di gocce in un mare di bisogni, piccole luci che si accendono, anche nelle situazioni più difficili e spronano tutti a non cedere.

Il servizio, il camminare insieme, sono l’anima di una fraternità che edifica riconciliazione e la pace, anche dal basso.

La Caritas nei conflitti

Dal novembre 2018 al 31 ottobre 2024, la Cei, attraverso lo stesso Servizio, ha finanziato 1.351 progetti in 28 Paesi interessati da conflitti ad alta o estrema gravità, per un finanziamento totale di 243,98 milioni di euro.

Sul totale dei 2.321 progetti complessivi finanziati in quegli anni, 2018-2024, quindi, oltre la metà (58,2%) ha riguardato Paesi in guerra (57,6% dei fondi erogati): 473 in Africa (con un finanziamento complessivo di 103,3 milioni di euro); 435 in Asia e Oceania (71,4); 417 in America (59,8); 23 in Medio Oriente (9); 3 in Europa (307mila euro).

W.N.

Hanno firmato il dossier

Walter Nanni
Sociologo, ricercatore, per anni consulente per enti locali e organizzazioni non profit in materia di ricerca, formazione e progettazione sociale, attualmente responsabile del Servizio studi e ricerche di Caritas italiana. Esperto sui temi della povertà e dell’esclusione sociale, è curatore del Rapporto annuale sulla povertà di Caritas italiana e dell’edizione italiana del Cares report di Caritas Europa. È curatore del Rapporto sui conflitti dimenticati sin dalla prima edizione del 2001.

Luca Lorusso (a cura di)
Giornalista, redattore di MC.

sitografia
Juliet ha solo 18 anni, ma si occupa già di quattro bambini, tra cui i suoi gemelli. È fuggita dalla guerra in Sud Sudan e ha trovato rifugio in Uganda, dove frequenta corsi sostenuti dai fondi umanitari dell’UE. Ha imparato a leggere e scrivere e continua a lavorare sodo per diventare infermiera in futuro. 13 marzo 2020 – EU Civil Protection and Humanitarian Aid_flickr



Vedere, discernere, comunicare

Sono le parole che papa Leone ha pronunciato all’incontro con la stampa del 12 maggio scorso, in perfetta continuità con il messaggio lasciato da papa Francesco.

Quasi in contemporanea è uscito un rapporto dell’Ong Amref, «L’Africa mediata 2025», che sottolinea la grande marginalità dell’Africa nel nostro mondo comunicativo. Una marginalità che rasenta l’indifferenza ed è anche condita di stereotipi negativi soprattutto a livello di percezione e, quindi, di azione. Un paradigma, questo, applicabile anche all’informazione che riguarda tanti altri Paesi del mondo, i quali fanno notizia solo quando coinvolgono i nostri interessi o quelli dei potenti di turno.

Tutto questo non fa che confermare il disagio crescente che sento di fronte al modo con cui giornali e televisioni ci stanno informando. Basta calcolare i minuti e le pagine divorati in questi ultimi mesi da certi avvenimenti che prendono tutto. Ci vuole poco a realizzare che il primo quarto del tempo di un noto Tg è dedicato a un’informazione politica sbilanciata in favore di chi è al potere, un altro quarto alle notizie e gossip del giorno, che siano l’elezione di Trump, la malattia di papa Francesco o il totopapa nel tempo del conclave, seguiti poi da un terzo quarto dedicato a poche notizie nazionali e internazionali con ovvia centratura su Ucraina e Palestina, e un ultimo quarto dedicato un po’ allo sport e poi tanto, tantissimo spazio allo spettacolo, dove la notizia diventa spesso pubblicità.

Per parlare del Myanmar ci vuole un terribile terremoto (che merita al massimo due giorni). Eritrea, Sudan, Paesi del Sahel, Libia e altri Paesi affacciati al Mediterraneo, appaiono solo quando l’ennesimo naufragio con decine di morti scalfisce il muro del pregiudizio che fa percepire tutti i migranti (compresi i bambini) come invasori illegali e pericolosi delinquenti dai quali bisogna «difendere la patria».

Per parlare poi della Chiesa, serve la notizia di qualche scandalo clericale, eccezione fatta per la malattia di papa Francesco e l’elezione di papa Leone.
Ma è, questa, vera informazione? Pensiamo a quella marea che sono i social media dove è spesso difficile distinguere il vero dal falso, dove ci illudiamo di poter partecipare, pur rimanendo spettatori dipendenti (dagli algoritmi), acritici e incantati, e dove, soprattutto, rimangono invischiati giovani e giovanissimi.

Non entro nel campo dell’Ia (Intelligenza artificiale), una realtà affascinante e con enormi potenzialità, ma anche con gravi rischi, spesso usata in cerca di risposte sicure che indeboliscono il libero uso del nostro senso critico e, tra l’altro, monopolizzata dai grandi gruppi di potere economico e informatico per aumentare i loro profitti.

Oggi più che mai è necessario che ciascuno usi la propria coscienza e la propria testa, magari in dialogo con lo Spirito che ci guida nel discernimento. Oggi più che mai c’è bisogno di persone che lavorino nella comunicazione ascoltando e rilanciando la voce dei deboli che non hanno voce, invece delle urla di chi ha già megafoni enormi a disposizione.

Come dice papa Leone, «Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana».

Gigi Anataloni
direttore responsabile MC




Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo

Autonomia e responsabilità

Cari amici,
leggo da quasi 50 anni Missioni Consolata e da tanto tempo cerco di dare una mano a molte vostre iniziative con il «Verbania Center». Quando vedo le foto di tanti amici (molti purtroppo non ci sono più) mi commuovo.

Non entro nel merito della linea editoriale della rivista (che, a volte, non condivido), ma l’apprezzo come fonte documentata e seria.

Mi è spiaciuto leggere che nell’articolo di Francesco Gesualdi sull’«Autonomia dell’egoismo» (MC 11/2024) l’autore non abbia citato un punto essenziale: la responsabilità.

Se è facile scrivere quello che ha scritto, forse dovremmo anche verificare come oggi vengano spesi i soldi in molte regioni soprattutto del Sud che sprecano risorse immani e che – se mai saranno «responsabilizzate» – non miglioreranno mai. È sacrosanta la solidarietà, ma «aiutati che il ciel t’aiuta». Ho fatto il parlamentare per tanti anni e il sindaco della mia città (Verbania) a cui, per abitante, vanno un quarto dei trasferimenti erariali di Catania e un ottavo di quelli di Bolzano.

È giusto continuare così? Un cordiale saluto.

Marco Zacchera
24/12/2024

Non sono in grado di esprimere opinioni circa ciò che dice rispetto alla diversità dei trasferimenti erariali fra Verbania, Catania e Bolzano perché non ho studiato i tre casi. Quanto al richiamo al dovere di responsabilità da parte degli amministratori, sono d’accordo. Va garantita in ogni caso, e il legislatore deve introdurre gli strumenti giuridici affinché chi sbaglia paghi. Ciò che mi premeva mettere a fuoco nell’articolo è il nesso che è stato creato fra autonomia e possibilità, per le regioni ricche, di trattenere il denaro sul loro territorio, a detrimento della solidarietà interregionale e quindi dell’equità. Se qualcuno pensa che ho detto delle falsità rispetto a questo aspetto sono disposto a esaminare le critiche. Altrimenti siamo sul terreno del contenuto sgradito perché non coincidente con le proprie convinzioni politiche e sociali e va annoverato come tale.

Francesco Gesualdi
30/12/2024

Alla risposta di Francesco, mi permetto di aggiungere una notizia apparsa su Avvenire del 28 gennaio, a firma di Cinzia Arena. «L’Italia a due velocità ha redditi e tenori di vita sempre più distanti. A dirlo l’Istat nel suo Report sui conti economici territoriali relativo al 2023. Nelle regioni del Sud il reddito disponibile delle famiglie per abitante è poco più della metà di quello di chi vive nelle regioni più ricche».


Una scelta controcorrente

Spett. Redazione,
colgo l’invito a scrivere alla rubrica «Noi e voi». Da anni apprezzo la rivista MC per la vastità e la profondità dei temi trattati, difficilmente rintracciabili su altri mezzi di informazione. Un aspetto sicuramente unico è la totale assenza della pubblicità e sono convinto che questa scelta stia alla base della libertà di espressione. È una scelta controcorrente. Oggi la quasi totalità delle fonti di informazione (giornali, radio, tv, social, ecc.) afferma che senza i soldi della pubblicità non è possibile sopravvivere. L’argomento è molto più complesso di quanto io possa conoscere, ma sono convinto che dall’abuso della pubblicità ci si debba difendere. È una nostra responsabilità. Gradirei un vostro commento e magari un approfondimento con un servizio dedicato.

Luigi Veronesi
Milano, 27/11/2024

Caro Luigi,
grazie per quanto scrivi, per il tuo apprezzamento e per il tuo incoraggiamento.

Abbiamo fatto la scelta di non avere pubblicità per essere coerenti con il nostro tipo di pubblicazione e per rispetto dei nostri lettori e sostenitori. Questo pur rendendoci conto che la maggior parte delle pubblicazioni possono offrirsi a un prezzo accessibile grazie alle pubblicità che vengono pagate collettivamente dai consumatori dei prodotti pubblicizzati.

La nostra rivista è inviata agli amici e sostenitori delle nostre missioni e dei nostri missionari e si sostiene grazie a voi e alle vostre offerte. Strumento per dire grazie del supporto, vuole anche essere uno spazio per condividere un cammino e un impegno, quello di costruire un mondo secondo le regole dell’amore e non quelle del consumismo, del potere o dello sfruttamento. La nostra rivista non è fine a se stessa, ma esiste per essere voce dei nostri missionari e ancor più di ogni persona con la quale essi vivono. Per esserlo, cerca di informare accuratamente per coinvolgere nella corresponsabilità, aiutando a capire la realtà, a vederla con gli occhi dei poveri, a conoscere la bellezza della vita e della cultura di altri popoli. Lo scopo è quello di partecipare insieme a un mondo interconnesso dove ognuno è soggetto attivo di cambiamento in modo libero e gratuito. Questo rapporto di fiducia, libertà e gratuità è lo stile che caratterizza la nostra rivista fin dalla sua fondazione.

In un mondo dove si va di fretta, dove le notizie si consumano e si svendono ai like o al numero delle visualizzazioni, dove sono spesso talmente mescolate alla pubblicità che fai fatica a distinguere l’una dalle altre, la nostra scelta è quella dell’approfondimento, della documentazione ragionata, della ricerca faticosa delle verità. «Slow pages», pagine lente, ci definiamo, non show pages guarda e fuggi.

Non so quanto ci riusciamo, ma la risposta di voi lettori è sempre di grande incoraggiamento. Grazie.

Non diamo neppure per scontato che le cose saranno sempre così. Ci rendiamo perfettamente conto che le nuove generazioni non sono molto interessate alla carta stampata.

Per noi la solidarietà con i poveri e il sostegno alla missione non sono un’operazione commerciale, ma un gesto bello che nasce da un cuore libero.


Lettere e informazione

Buona giornata a voi.
Mi ricollego alla nota apparsa in queste pagine sul numero di Novembre 2024 inerente alla contrazione significativa di lettere da parte dei lettori di MC per condividervi un pensiero più generale: questa vostra osservazione, a mio modesto avviso, è sintomo di un problema di carattere più ampio, che sintetizzo di seguito.

Da un mondo, di pochi decenni fa, nel quale l’informazione era da scoprire e da ricercare, talvolta anche con fatica, si è passati a uno attuale nel quale l’informazione abbonda, a prescindere dalla affidabilità, qualità e, soprattutto, utilità effettiva della medesima.

Il tempo di ciascuno di noi, da impiegare a discrezione personale e connessa responsabilità, dovrebbe cominciare dalle cose importanti, nell’interesse dell’evoluzione della nostra società, del rispetto della nostra coscienza, dei nostri affetti nonché dei nostri impegni lavorativi o di altre attività socialmente utili: la famiglia, i nostri cari, le necessità primarie nostre e degli altri, nonché tutto ciò che serve per costruire un’attività quotidiana seria, che valorizzi l’umanità.

Dalla concretezza di tali contenuti si passa oggi sovente alla superficialità, in quanto la finezza della tentazione alla comunicazione «spiccia» è sempre più diffusamente legata ai tempi stretti e si manifesta in una pletora di dispositivi e app che l’assecondano: vale a dire che si passa dalla sostanza all’apparenza
(valutata in like e numero di
followers, ndr).

Cosa fare? Ricordare e ricordarci che esiste la sostanza, che passa attraverso il documentarsi, capire a fondo i problemi, sapere e saper fare.

Un contadino dei miei luoghi, comunque a ridosso di una grande città, non molto tempo fa notava in un breve dialogo: «Molti ragazzi (ma anche adulti, dico io) passano oggi il tempo a scriversi cosa fanno e cosa hanno fatto: ma, alla fine, cosa hanno fatto?».

È, dunque, importantissimo il ruolo di MC, giacché scarseggiano anche le guide etiche della società, con l’effimero così saturante la nostra quotidianità, con tanti granelli che lasciano il tempo che trovano: le guide sono le persone devote alla fede – a partire dai religiosi nelle loro varie declinazioni (sacerdoti, frati, diaconi, filosofi etici), ma anche laici – con le loro parole e i loro scritti; ci riportano con i piedi per terra, nei fatti, pur con gli occhi al cielo, negli obiettivi, così da non appiattirci su una moltitudine di messaggi che, come la sabbia, fanno scivolare il nostro tempo tra le dita.

In sintesi: nulla di nuovo sotto il sole se leggiamo i tempi correnti con le virtù cardinali; si tratta semplicemente di usare la prudenza nella tentazione moderna di leggere e trasmettere l’effimero (spesso via chat) e tenere il timone dritto sugli obiettivi importanti della vita, per i quali naturalmente MC fornisce un ottimo viatico.

Complimenti ed auguri.

Bruno Dalla Chiara
15/01/2025

Grazie Bruno per la tua riflessione che offre un contributo davvero interessante.

P.Giovanni Saffirio illustra le figure di alcuni quaderni ad alcuni indios del Catrimani.


Padre Giovanni Saffirio

Quando arrivò, all’inizio del 1968, ricordo che stava facendo il primo tirocinio a Boa Vista nella sede della Prelazia di Roraima, e poiché ero là, lo invitai a venire con me alla fazenda Santa Adelaide, a sud della città, sulla riva del Rio Branco, per svagarsi un po’ dal lavoro che consisteva specialmente nel produrre certificati di battesimo, di matrimonio, e simili. Per questo consultava libroni usati per questo fine, anche quelli compilati dai Benedettini prima dell’arrivo dei Missionari della Consolata nel 1948. Un tirocinio che anch’io avevo fatto.

Quando arrivammo alla fazenda, ci vennero incontro i familiari del vaqueiro, e padre Giovanni si affrettò a presentarsi dicendo: «Sou o Padre mais noivo da Prelazia». Naturalmente vi fu una risata generale. Confondere noivo (fidanzato) con novo era realmente facile.

Non saprei proprio come parlare di padre Saffirio. Potrei dire che aveva un’innata capacità di fare disegni e scritte che aveva maturato anni prima già nel seminario. La mise in pratica anche nella elaborazione di alcune pubblicazioni ciclostilate della Prelazia di quell’epoca.

Quando mi avvisarono che era stato destinato all’attività con gli Yanomami, suggerii che invece di mandarlo per la prima esperienza al Rio Ajarani, una presenza tra gli indios iniziata da padre Bindo Meldolesi, come avevano pensato, lo mandassero a passare un po’ di giorni al Catrimani, con me, perché avrebbe sofferto di meno, dato che lì avevamo almeno una baracca.

E così fu fatto. Si trattava di inserirvi un nuovo missionario, e con una certa urgenza, perché io ero da solo, padre Bindo non se la sentiva più e padre Giovanni Calleri era assente per via della spedizione di soccorso agli indios minacciati dalla strada Perimetrale Nord che era in costruzione.

Al Rio Ajarani ci andai io, e fu l’ultima volta prima che ci arrivasse la Perimetrale Nord. Mentre ero là, e ci rimasi due mesi, seppi dalla Voz da América che padre Calleri e la sua spedizione tra i Waimiri-Atroari era stata massacrata. Era il primo novembre 1968.

Al Catrimani, tra gli Yanomami, padre Giovanni finì per restarci vari anni, anche se quasi mai eravamo insieme. Ci alternavamo. Naturalmente aveva imparato la lingua yanomae. Era una persona generosa, schietta e amante dell’allegria. Dopo vari anni di dedizione, si gettò nello studio dell’antropologia, nella quale forse sperava di trovare nuove idee e lumi che potessero aiutarlo a risolvere i dubbi che si erano accumulati sulle finalità del suo darsi da fare, apparentemente con pochi risultati pratici. Per questo nel 1977 andò negli Stati Uniti per fare un master e un dottorato in antropologia a Pittsburgh con il famoso professor Napoleon Chagnon (1938-2019).

Ritornò a Roraima nel 1985 e vi rimase fino al 1995, alternando la permanenza al Catrimani con responsabilità di superiore e amministratore dei missionari a Boa Vista. Chiamato in Canada nel 1996, rimase in Nord America fino al 2012, quando tornò a São Manoel nello stato di São Paolo in Brasile, dove rimase fino a che ha ricevuto la sua ultima chiamata l’11 ottobre 2024.

 fratel Carlo Zacquini,
Boa Vista, 14/01/2025

Contiamo di tornare presto a raccontarvi di padre Giovanni Saffirio, che ora riposa in pace a São Paolo, in Brasile.

P.Giovanni Saffirio illustra le figure di un quaderno ad un indio del Catrimani .




Terzo settore e media, un rapporto in costruzione


La relazione fra mezzi di comunicazione e non profit è stata un argomento della presentazione del rapporto dell’«OsservatorioTerzjus», avvenuta lo scorso 21 settembre a Roma. Ne è emersa l’immagine di un notevole potenziale che, per il momento, appare sfruttato solo in parte.

Il Terzo settore fa audience o no? È questa la domanda che Sara Vinciguerra, responsabile comunicazione dell’Osservatorio giuridico del Terzo settore «Terzjus», ha rivolto ai partecipanti della tavola rotonda di cui era moderatrice, durante l’evento di presentazione del secondo rapporto sul tema che l’Osservatorio ha organizzato a Roma lo scorso 21 settembre@.

Indifferenza?

Stefano Arduini, direttore di Vita, mensile dedicato al mondo no profit, ha risposto sì con convinzione@: facciamo questo da trent’anni, ha spiegato, e ora Vita è anche un’impresa sociale che non starebbe sul mercato se non avesse pubblico. Tuttavia, ha detto Arduini, l’audience da sola non basta, almeno non per provocare effetti concreti nella realtà. La pandemia ha generato picchi inediti di attenzione per il Terzo settore e per il suo operato nell’assistere le persone più in difficoltà a causa delle restrizioni; ora quell’attenzione è diminuita, ma è tutto sommato rimasta alta, eppure i media generalisti non sembrano aver raccolto questo spunto per tradurlo in una maggiore e più stabile copertura delle notizie nell’ambito sociale.

Il Terzo settore, ha commentato Arduini, «ha il vento in poppa, ma naviga contro corrente»: vale il 5% del Pil, ha 900mila occupati diretti e altri 400mila indiretti, eppure sia la politica che l’opinione pubblica sembrano rimanere nel complesso indifferenti rispetto a eventi e pratiche che rischiano di danneggiare le organizzazioni attive nel sociale.

Fra questi eventi e pratiche, Arduino ne cita tre:

  • la tentata riforma del servizio civile proposta lo scorso marzo dalla allora ministra per le politiche giovanili del governo Draghi, Fabiana Dadone, in un disegno di legge poi accantonato, ma inizialmente elaborato senza coinvolgere i diretti interessati, cioè gli enti e i giovani@;
  • il persistere dei bandi al massimo ribasso per la fornitura di servizi socia-assistenziali@ ai quali il mondo della cooperazione sociale si oppone con decisione;
  • il rientro di alcuni enti del Terzo settore (Ets) nel campo di applicazione dell’Iva in seguito alla procedura di infrazione n. 2008/2010, avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per garantire il rispetto delle normative sulla concorrenza e che prevede per gli Ets non più l’esclusione dall’imposta sul valore aggiunto ma solo l’esenzione@.

Effetti concreti e produzione di senso

In parziale dissenso da Arduini si è espressa Maria Carla De Cesari, caporedattrice del Sole 24ore per la sezione «Norme e tributi»@. Proprio sulla questione Iva, ha detto De Cesari, i media sono stati capaci di rappresentare le esigenze e le posizioni del Terzo settore e, anche grazie a questa visibilità, «nel giro di poco tempo il legislatore ha preso una pausa», cioè ha inserito nella legge di bilancio 2021 un emendamento che rinvia al 2024 l’entrata in vigore della norma che riporta gli Ets nell’alveo Iva.

Il Sole24 Ore, ha concluso De Cesari, ha creduto nel racconto delle norme perché è il racconto di un mondo che cambia, ma anche nel valore economico di questo racconti. Il Terzo settore «movimenta professionisti che nel cambiamento devono accompagnare gli enti: creare conoscenza e competenza fa parte della mission del Sole, e di Norme e Tributi in particolare».

Di opinione molto diversa è invece Marco Girardo, responsabile dell’inserto di Avvenire «Economia Civile»@, che alla domanda della moderatrice ha risposto con un secco no: «Il Terzo settore non fa audience nell’attuale panorama dell’informazione, perché il “software” di questo panorama è la polarizzazione, che da un lato cerca di assecondare i consumatori per renderli sempre più soddisfatti e dall’altro sobilla cittadini sempre più arrabbiati».

Il Terzo settore sta in mezzo fra questi due poli e i suoi punti di forza sono l’autenticità e la capacità di creare relazioni. Su cento lettori generici di Avvenire, riferisce Girardo, quelli attivi – cioè i lettori che cercano un’interazione, fanno domande e creano una comunità di lettura – sono fra i venti e i trenta. Per il Terzo settore questo numero sale a sessantacinque o settanta su cento, segnando una richiesta di interazione molto più alta, da soddisfare poi attraverso i media più adatti: nel caso di Avvenire, la radio InBlu e i social network.

Nella sua rappresentazione da parte di un media, il Terzo settore in questo momento chiede «un orizzonte di approfondimento culturale forte»: un tempo di cambiamento e di difficoltà come quello attuale genera una forte domanda di senso e, conclude Girardo, «dove c’è una produzione forte di contenuti di senso c’è una riposta» in termini di audience.

Il rapporto con il servizio pubblico

Roberto Natale è intervenuto alla tavola rotonda@ a nome della neonata direzione Rai per la sostenibilità – Esg (= Environment, Social, Governance, ndr), che ha raccolto l’eredità di Rai per il sociale. Il Terzo settore, ha spiegato Natale, fa coesione sociale e questo già sarebbe sufficiente per giustificare l’attenzione da parte del servizio pubblico. A seconda di come viene trattato, poi, può anche fare audience, ma il racconto del Terzo settore è, a prescindere, un tratto costituivo dell’impegno di Rai per la sostenibilità. Quello che manca, constata Natale, è piuttosto il riconoscimento del ruolo politico del soggetto sociale.

Un esempio di questa mancanza è stato la copertura Rai delle consultazioni per la formazione del governo di Mario Draghi nel febbraio 2021, quando per la prima volta un presidente incaricato ha incontrato non solo le forze politiche ma anche i soggetti sociali. La Rai, ricorda Natale, ha seguito con varie dirette le consultazioni con i partiti, ma non quelle con sindacati, rappresentanze ambientaliste e forze sociali. Quella decisione su chi includere e chi escludere dalle dirette è stata indicativa di una sensibilità e la Rai ha bisogno che il Terzo settore la «aiuti a maturare questa sensibilità».

A questo proposito, il Forum del Terzo settore e il ministero del Lavoro, d’intesa con la direzione Rai, stanno cercando di costituire un tavolo di confronto proprio su servizio pubblico e Terzo settore. «Nell’attuale contratto di servizio – il testo che regola gli impegni Rai nei confronti dello Stato e in base al quale la Rai percepisce il canone – è rimasto solo il tema della disabilità e dell’accessibilità, un tema certamente importante ma che non può esaurire il significato del termine “sociale”».

Andare oltre l’immagine di «buoni»

Elisabetta Soglio, responsabile dell’inserto Buone Notizie in edicola il martedì con il Corriere della Sera, è più in linea con Stefano Arduini: se il Terzo settore non facesse audience, se al martedì non avessimo un aumento di copie vendute, ha detto la giornalista, Corriere Buone Notizie non esisterebbe. Si tratta anche di un’audience significativa, come ha dimostrato la presentazione, lo scorso 12 settembre, del libro di Claudia Fiaschi a conclusione del suo mandato come portavoce del Forum Terzo Settore@: nello stesso giorno del dibattito su Corriere TV fra la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il segretario del Pd Enrico Letta, nei giorni della grande attenzione verso il Regno Unito per la morte di Elisabetta II, a seguire lo streaming sul libro di Fiaschi sono state 398mila persone. «Questo vuol dire che se proponi bene il prodotto, se lo spieghi e lo motivi, le persone ti seguono».

Corriere Buone Notizie, ha ricordato Soglio, è nato nel 2017 anche per andare oltre l’idea che il Terzo settore è quello dei «buoni a cui tirare la giacchetta quando c’è bisogno. Non parliamo solo di buone pratiche, ma proponiamo anche temi: questi temi arrivano poi anche sul quotidiano e prima non c’erano».

Cosa fa notizia e come comunicare

Sara Vinciguerra ha poi chiesto ai partecipanti quali aspetti del rapporto Terzjus si prestano a diventare notizie da pubblicare sulle varie testate.

De Cesari e Arduino hanno citato la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 26 giugno 2020, che rappresenta una rivoluzione nel rapporto fra Ets e amministrazioni pubbliche. In quella sentenza, infatti, la Corte dà piena applicazione al principio di sussidiarietà contenuto nell’articolo 118 della Costituzione, affermando che gli enti riconosciuti come Ets hanno titolo a coprogrammare e coprogettare insieme alle amministrazioni pubbliche, cioè a partecipare alla definizione e realizzazione delle politiche pubbliche e non solo a fornire servizi in cambio di un corrispettivo, come era previsto dal Codice degli appalti@.

Girardo di Avvenire ha invece sottolineato che una notizia rilevante è emersa proprio durante la presentazione del rapporto, quando il presidente di Terzjus, Luigi Bobba, ha letto il messaggio del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando, che annunciava l’avvio «dell’interlocuzione con la Commissione europea finalizzata all’invio della notifica delle norme fiscali soggette ad autorizzazione» da parte dell’Ue, autorizzazione necessaria per completare la disciplina fiscale introdotta dalla riforma@.

Roberto Natale della Rai ha individuato come elemento più interessante il valore economico del Terzo settore e il suo ruolo di pilastro dell’economia italiana. Ha poi sottolineato il bisogno di formazione dei giornalisti su temi del sociale: «Vi sento parlare con grande sicurezza, che ammiro, della coppia concettuale coprogrammazione e coprogettazione», ha scherzato: «Ma fermate due giornalisti, uno sono io, e chiedete loro che vi spieghino la differenza». Natale ha fatto presente che da alcuni anni i giornalisti hanno l’obbligo di seguire dei corsi che permettano loro di ottenere crediti formativi: anche per questo, ha sostenuto Natale, se il Terzo settore propone occasioni di formazione i giornalisti le coglieranno.

Elisabetta Soglio di Corriere Buone Notizie ha invece indicato l’impresa sociale come tema «più notiziabile», ma ha anche ricordato il commento, nella tavola rotonda precedente, di Chiara Tommasini della rete CsvNet, che unisce i centri di servizio per il volontariato in Italia. Tommasini ha insistito sull’importanza di dare attenzione agli enti più piccoli e alle difficoltà che si trovano ad affrontare a causa della riforma e anche alla necessità di chiedersi che cosa significhi davvero «piccolo», dal momento che ci sono organizzazioni di dimensioni molto ridotte che hanno però un ruolo fondamentale nel loro territorio.

Comunicare meglio

In chiusura, la moderatrice ha riferito che molti enti si chiedono come fare per comunicare meglio e ha girato la domanda ai partecipanti al dibattito. Fra le risposte, quella di Natale ha sottolineato l’importanza di una comunicazione unitaria da parte degli Ets e ha aggiunto che in questi mesi si definisce il nuovo contratto di servizio Rai, perciò è opportuno che gli «enti si facciano sentire in modo da poter contare negli assetti del servizio pubblico».

Arduini di Vita ha invece ricordato che le oltre 360mila organizzazione del Terzo settore possono aprire profili social a costo zero e ha esortato tutti a immaginare che potenza comunicativa emergerebbe se anche solo un decimo di queste organizzazioni agisse in modo coordinato su un tema al mese.

Chiara Giovetti

 




Vieni e vedi

La comunicazione è un’esperienza d’incontro che coinvolge chi la vive, crea relazioni, cambia la vita. «Per poter raccontare la verità della vita è necessario uscire dalla comoda presunzione del “già saputo” e mettersi in movimento, andare a vedere, stare con le persone, ascoltarle, raccogliere le suggestioni della realtà, che sempre ci sorprenderà in qualche suo aspetto». Queste parole di papa Francesco, all’inizio del suo messaggio «Vieni e vedi» per la 55ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che celebriamo il 16 maggio, domenica dell’Ascensione, ci provocano. Il papa invita noi comunicatori a «consumare le suole delle scarpe» per non «fare dei giornali fotocopia» e a «incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni».

Mi ha intrigato il fatto che per parlare del complesso mondo della comunicazione il papa abbia usato le parole che Filippo ha rivolto a Natanaele per portarlo a incontrare Gesù (Gv 1,46). «Vieni e vedi» è «l’invito che accompagna i primi emozionanti incontri di Gesù con i discepoli, è anche il metodo di ogni autentica comunicazione umana». L’invito a «vedere» non è casuale, dato che nel linguaggio biblico ci sono molti modi di vedere: da quello fisico e basilare con gli occhi, al vedere con la mente, quindi approfondire e teorizzare, al vedere intenso che diventa contemplazione e adesione di fede e quindi relazione viva, per arrivare, infine, alla visione mistica.

Oggi la comunicazione è molto centrata sul vedere: grazie a un complesso e diffuso sistema multimediale, possiamo vedere gioie e dolori, bellezze e orrori di ogni angolo del mondo, uno spettacolo senza fine che accompagna i nostri pasti, riempie la nostra noia, rende lieve la nostra solitudine, allarga illusoriamente gli orizzonti della nostra stanza. Vediamo fisicamente, spesso senza coinvolgimento, se non superficiale. Inoltre, sovente, vediamo solo quelle cose che ci confermano nelle nostre idee, senza metterci in discussione. I mezzi che usiamo, poi, ci travolgono come un fiume in piena: da un’immagine a un video a un post a una pubblicità, in modo martellante. Così che non pensiamo, ma, appena ne abbiamo la possibilità, compriamo anche se non abbiamo davvero bisogno. Vedere sì, tanto e in fretta, come dai finestrini di un treno.

Certo, non mancano i contenuti eccellenti che permettono di passare dal vedere al pensare e dal pensare all’agire, ma quanta fatica e determinazione richiedono.

Il «vedere» di cui parla papa Francesco ha un altro spessore. È il vedere che diventa coinvolgimento, immedesimazione, incontro. È un vedere che ti fa uscire verso una realtà che ti interpella. Che domanda il tuo tempo, la tua mente, il tuo cuore. Un vedere che stimola ad approfondire per capire. Se poi capisci, non puoi restare neutrale e indifferente. Il vedere diventa allora «conversione» e azione, il «consumare le scarpe». «Vedere, giudicare e agire», un trinomio inseparabile.

A servizio di questo modo di «vedere» si pone MC, insieme a tutte le altre riviste missionarie che, ostinatamente, continuano a presentare una visione del mondo non conforme alle logiche della comunicazione dominante. Nella povertà dei nostri mezzi, abbiamo un vantaggio: quello di avere tanti «giornalisti» su terreno, persone che si «consumano le scarpe e sporcano le mani» e condividono «l’odore delle pecore». Corrispondenti sui generis, naturalmente, perché non sono iscritti all’ordine dei giornalisti, ma che vivono di comunicazione e che spingono noi, che invece cerchiamo di metterci la nostra professionalità, a scrivere con amore e verità dei popoli del mondo, con rispetto e partecipazione, soprattutto verso i poveri, i perseguitati, gli emarginati, esiliati e profughi. Per dare voce a chi non ha voce.

Ringraziamo tutti coloro che con noi condividono queste scelte sia continuando a sostenerci e a leggere queste nostre pagine fitte fitte che vanno digerite pian piano, sia continuando ad aiutare, spiritualmente e materialmente, i nostri missionari sul campo.

«Venite e vedete», vogliamo portarvi a incontrare i volti dei grandi e dei piccoli del mondo, nella realtà bella e dura della vita. La nostra, è una scelta di parte. Lo ammettiamo, abbiamo una preferenza: i poveri e gli ultimi.

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P.S.: se ti piace il servizio che facciamo, per favore, fai conoscere MC ai tuoi amici.




GHOUTA, SIRIA: CHIAMIAMO LE COSE CON IL LORO NOME. QUESTO E’ L’INIZIO DELLA PACE.

Lettera delle Sorelle Trappiste in Siria |


Quando taceranno le armi? E quando tacerà tanto giornalismo di parte ?

Lettera pubblicata su Avvenire
su CIVG (Centro di Iniziative per la Verità e la Giustizia)
e su Ora Pro Siria

Noi che in Siria ci viviamo, siamo davvero stanchi, nauseati da questa indignazione generale che si leva a bacchetta per condannare chi difende la propria vita e la propria terra.

Più volte in questi mesi siamo andati a Damasco; siamo andati dopo che le bombe dei ribelli avevano fatto strage in una scuola, eravamo lì anche pochi giorni fa, il giorno dopo che erano caduti, lanciati dal Ghouta, 90 missili sulla parte governativa della città. Abbiamo ascoltato i racconti dei bambini , la paura di uscire di casa e andare a scuola, il terrore di dover vedere ancora i loro compagni di classe saltare per aria, o saltare loro stessi, bambini che non riescono a dormire la notte, per la paura che un missile arrivi sul loro tetto. Paura, lacrime, sangue, morte. Non sono anche questi bambini degni della nostra attenzione?

Perché l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo e soltanto quando il Governo siriano interviene, suscitando gratitudine nei cittadini siriani che si sentono difesi da tanto orrore (come abbiamo constatato e ci raccontano), ci si indigna per la ferocia della guerra?

Certo, anche quando l’esercito siriano bombarda ci sono donne, bambini, civili, feriti o morti. E anche per loro preghiamo. Non solo i civili: preghiamo anche per i jihadisti, perché ogni uomo che sceglie il male è un figlio perduto, è un mistero nascosto nel cuore di Dio. Ed è a Dio che si deve lasciare il giudizio, Lui che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Ma questo non significa che non si debbano chiamare le cose con il loro nome. E non si può confondere chi attacca con chi si difende.

A Damasco, è dalla zona del Ghouta che sono cominciati gli attacchi verso i civili che abitano nella parte controllata dal governo, e non viceversa. Lo stesso Ghouta dove – occorre ricordarlo ? – i civili che non appoggiavano i jihadisti sono stati messi in gabbie di ferro: uomini, donne, esposti all’aperto e usati come scudi umani. Ghouta: il quartiere dove oggi i civili che vogliono scappare, e rifugiarsi nella parte governativa, approfittando dalla tregua concessa, sono presi di mira dai cecchini dei ribelli…

Perché questa cecità dell’Occidente? Come è possibile che chi informa, anche in ambito ecclesiale, sia così unilaterale?

La guerra è brutta, oh sì, sì se è brutta! Non venitelo a raccontare ai siriani, che da sette anni se la sono vista portare in casa… Ma non si può scandalizzarsi per la brutalità della guerra e tacere su chi la guerra l’ha voluta e la vuole ancora oggi, sui Governi che hanno riversato in Siria in questi anni le loro armi sempre più potenti, le loro intelligence… per non parlare dei mercenari lasciati deliberatamente entrare in Siria facendoli passare dai Paesi confinanti (tanti che poi sono diventati Isis, va ricordato all’Occidente, che almeno questa sigla sa cosa significa). Tacere sui Governi che da questa guerra hanno guadagnato e guadagnano. Basta vedere che fine hanno fatto i più importanti pozzi petroliferi siriani. Ma questo è solo un dettaglio, c’è molto più importante in gioco.

La guerra è brutta. Ma non siamo ancora arrivati alla meta, là dove il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, e per chi è credente bisogna ricordare che la Chiesa non condanna la legittima difesa; e se anche non si augura certamente il ricorso alle armi e alla guerra, la fede non condanna chi difende la propria patria, la propria famiglia, neppure la propria vita. Si può scegliere la non-violenza, fino a morirne. Ma è una scelta personale, che può mettere in gioco solo la vita di chi lo sceglie, non si può certo chiederlo ad una nazione intera, a un intero popolo.

Nessun uomo che abbia un minimo di umanità vera, può augurarsi la guerra. Ma oggi dire alla Siria, al governo siriano, di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia : troppo spesso è solo un modo per facilitare il compito di quanti vogliono depredare il Paese, fare strage del suo popolo, come accaduto in questi lunghi anni nei quali le tregue sono servite soprattutto per riarmare i ribelli, e i corridoi umanitari per far entrare nuove armi e nuovi mercenari.. e come non ricordare quali atrocità sono accadute in questi anni nelle zone controllate dai jihadisti? Violenze, esecuzioni sommarie, stupri… i racconti rilasciati da chi alla fine è riuscito a scappare ?

In queste settimane ci hanno fatto leggere un articolo veramente incredibile: tante parole per far passare in fondo una sola tesi, e cioè che tutte le Chiese di Oriente sono solo serve del potere…per convenienza… Qualche bella frase ad effetto, tipo la riverenza di Vescovi e Cristiani verso il Satrapo Siriano…un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravedere l’altro lato della medaglia, quella di cui non si parla.

Aldilà di ogni inutile difesa e polemica, facciamo un ragionamento semplice, a partire da una considerazione. E cioè che Cristo – che conosce bene il cuore dell’uomo, e cioè sa che il bene e il male coabitano in ciascuno di noi, vuole che i suoi siano lievito nella pasta, cioè quella presenza che a poco a poco, dall’interno, fa crescere una situazione e la orienta verso la verità e il bene. La sostiene dove è da sostenere, la cambia dove è da cambiare. Con coraggio, senza doppiezze, ma dall’interno. Gesù non ha assecondato i figli del tuono, che invocavano un fuoco di punizione .

Certo che la corruzione c’è nella politica siriana (come in tutti i Paesi del mondo) e c’è il peccato nella Chiesa (come in tutte le Chiese, come tante volte il Papa ha lamentato)

Ma, appellandoci al buon senso di tutti, anche non credenti : qual è l’alternativa reale che l’Occidente invoca per la Siria? Lo Stato islamico, la sharia? Questo in nome della libertà e la democrazia del popolo siriano? Ma non fateci ridere, anzi, non fateci piangere…

Ma se pensate che in ogni caso non sia mai lecito scendere a compromessi, allora per coerenza vi ricordiamo, solo per fare un piccolo esempio, che non potreste fare benzina ‘senza compromessi coi poteri forti’, dato che la maggior parte delle compagnie ha comprato petrolio a basso costo dall’Isis, attraverso il ponte della Turchia: così quando percorrete qualche chilometro in auto, lo fate anche grazie alla morte di qualcuno a cui questo petrolio è stato rubato, consumando il gasolio che doveva scaldare la casa di qualche bambino in Siria..

Se proprio volete portare la democrazia nel mondo, assicuratevi della vostra libertà dalle satrapie dell’Occidente, e preoccupatevi della vostra coerenza, prima di intervenire su quella degli altri..

Non ultimo, non si può non dire che dovrebbe suscitare almeno qualche sospetto il fatto che se un cristiano o un musulmano denuncia le atrocità dei gruppi jihadisti è fatto passare sotto silenzio, non trova che una rara eco mediatica, per rivoli marginali, mentre chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media.. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un Vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente? Si può non essere d’accordo, evidentemente, ma una vera informazione suppone differenti punti di vista.

Del resto, chi parla di una interessata riverenza della Chiesa siriana verso il presidente Assad come di una difesa degli interessi miopi dei cristiani, dimostra di non conoscere la Siria, perché in questa terra cristiani e musulmani vivono insieme. E’ stata solo questa guerra a ferire in molte parti la convivenza, ma nelle zone messe in sicurezza dall’esercito ( a differenza di quelle controllate dagli ‘altri’) si vive ancora insieme. Con profonde ferite da ricucire, oggi purtroppo anche con molta fatica a perdonare, ma comunque insieme. E il bene è il bene per tutti: ne sono testimonianza le tante opere di carità, soccorso, sviluppo gestite da cristiani e musulmani insieme.

Certo, questo lo sa chi qui ci vive, pur in mezzo a tante contraddizioni, non chi scrive da dietro una scrivania, con tanti stereotipi di opposizione tra cristiani e musulmani.

“Liberaci Signore dalla guerra…e liberaci dalla mala stampa…”.

Con tutto il rispetto per i giornalisti che cercano davvero di comprendere le situazioni, ed informarci veramente. Ma non saranno certo loro ad aversene a male per quanto scriviamo…

Le sorelle Trappiste in Siria  – marzo 2018

Chi sono Le Monache Trappiste in Siria?

Da “Più forti dell’odio Visita alle monache trappiste in Siria”

“Da Tibhirine ad ‘Azeir. Dall’Algeria, passando per la Toscana alla Siria. Questo è l’itinerario che ha portato nel 2005 alcune trappiste dal Monastero di Valserena vicino Cecina a scegliere la Siria, una delle culle del monachesimo antico, per fondarvi un monastero di vita contemplativa. Nel 1996 c’era stato l’eccidio dei sette monaci trappisti a Tibhirine in Algeria, un fatto tragico verso religiosi innocenti che aveva colpito l’opinione pubblica mondiale. L’ordine cistercense nonostante l’efferatezza del delitto volle continuare l’esperienza in terra islamica e custodire l’eredità spirituale dei sette monaci. L’appello fu accolto dalle trappiste di Valserena, una comunità che avevo conosciuto e frequentato durante gli anni del Seminario e dove feci gli Esercizi spirituali prima della mia ordinazione sacerdotale nel giugno del 1984. Le monache, dopo una prima esperienza ad Aleppo scelsero di installarsi nel villaggio maronita di ‘Azeir fra Homs e Tartous al confine settentrionale tra Siria e Libano. Fino al marzo 2009, la Siria era stata una nazione fiorente e pacifica dove anche le varie componenti religiose convivevano tranquillamente. Anzi, negli anni terribili della guerra e dei massacri le differenze religiose non sono state mai un problema. In questa regione ci sono, uno accanto all’altro, villaggi cattolici maroniti, armeni, greco ortodossi, greco cattolici e villaggi mussulmani, sunniti e alawiti: la convivenza tra islamici e cristiani delle varie confessioni era normale, fatta di rispetto e dialogo sincero. Il regime di Assad aveva le sue rigidità e i suoi limiti, racconta madre Marta la priora, ma grazie ad esso era possibile tale convivenza e si viveva tranquillamente.”

don Sandro Lusini

Per saperne di più sulle suore leggi anche l’articolo di Rodolfo Casadei, Un giorno nel monastero delle suore trappiste italiane in Siria.