Storia di Elena Givone, la fotografa dei sogni

foto di Elena Givone |


Un’idea geniale per far sognare i bambini che vivono in realtà difficili. Un’idea che porta Elena ai quattro angoli del pianeta a conoscere storie e desideri di bimbi e ragazzi. Un esempio di fotografia «umana» e umanitaria al tempo stesso.

È il 2011 quando Elena decide di andare in Sri Lanka ospite di una residenza per artisti: il suo progetto è quello di insegnare la fotografia ai bimbi di One world foundation, un’associazione senza fini di lucro che garantisce ai ragazzi delle zone rurali più povere di poter studiare. Si tratta di bambini e adolescenti che non possono permettersi nulla, spesso un solo pasto al giorno e, in ogni caso, non certo grandi sogni. Elena pensa alla fotografia come forma di emancipazione e possibilità di lavoro. Si tratta di una sfida, un’utopia, forse, che Elena, come dimostrerà più avanti, realizzerà.

Scuola di fotografia

Elena istituisce la prima scuola di fotografia in Sri Lanka. Il diploma che i ragazzi conseguono consente loro di accedere a finanziamenti per proseguire gli studi, iscriversi all’università e costruirsi un futuro.

Arrivata per stare qualche mese, la fotografa si ferma per quattro anni. Oltre a insegnare fotografia, infatti, inizia a elaborare un’idea. Vivendo a stretto contatto con i ragazzi e i bambini, comprende che la cosa più difficile per loro è qualcosa di scontato da altre parti del mondo, quasi banale: sognare, immaginare. Realizza così il progetto «Dream from my magic lamp».

Si tratta di una serie di ritratti dei bimbi, dei ragazzi e degli operatori che vivono, studiano e lavorano all’interno di One world foundation. Ognuno di loro viene fotografato sul medesimo sfondo azzurro con una lampada in mano. Un colore che richiama il volo, la fantasia, la libertà. Tutti debbono chiudere gli occhi e immaginare quale sia il proprio sogno. Il progetto è un successo: la fantasia non ha limiti, non conosce fame, né povertà, né disperazione. Ne nasce un libro e un lavoro che varca i confini dello Sri Lanka e arriva in Myanmar, dove Elena decide di portare avanti il proprio lavoro che sempre più si incanala nella direzione umanitaria: c’è un’idea di restituzione dell’infanzia, della bellezza, della leggerezza che anima questa giovane donna e che la spinge a cercare e infine a trovare la bellezza anche nei luoghi più dolorosi. In Myanmar Elena non utilizza più una lampada, ma una coppia ci civette scolpite nel legno, un oggetto simbolico per questa parte del mondo. In questi luoghi conosce l’estrema povertà e la solitudine: sono molti gli orfanotrofi popolati di bimbi che i genitori non possono permettersi di mantenere.

Dal Myanmar Elena parte per l’Ucraina. Qui collabora con La matrioska Onlus.

Il suo progetto sul tema del sogno cresce ancora e raggiunge i bimbi vittime dell’incidente nucleare di Chernobyl.

L’oggetto del sogno è proprio una matrioska: un simbolo di protezione, di maternità. Ogni matrioska infatti ne contiene un’altra fino a quella più piccola, che è il seme, il simbolo del bambino.

Per questi bambini, infatti, che una mamma non l’hanno mai avuta, poter raccontare il proprio bisogno di tenerezza e protezione assume un valore di liberazione.

Rifugiati

Il sogno di Elena non si ferma e anzi, è solo all’inizio. Dopo Sri Lanka, Myanmar e Ucraina, è la volta dei bambini siriani di Aleppo, che si trovano in un campo profughi in Grecia a Ritsona, una penisola a circa 70 km da Atene. Qui il progetto si arricchisce ancora: viene realizzato un libro «Rafi the refugee rabbit», una storia illustrata con protagonista un coniglietto che racconta il suo viaggio pericoloso e disperato, insieme alla propria famiglia, alla ricerca di una nuova casa.

È un libro che racconta il trauma della guerra e della fuga con immagini delicate, ma allo stesso tempo reali, e che cercano di mostrare anche ai bimbi nati in una parte del mondo non afflitta da guerre e povertà, cosa significa dover fuggire, perdere tutto e poi provare a ricominciare.

Sarà dunque un coniglio il simbolo di questo nuovo sogno: ogni bimbo stringe fra le mani un coniglietto in plastica trasparente che s’illumina, a rappresentare la fiamma della speranza. Con questo oggetto fra le mani, i bimbi chiudono gli occhi e raccontano i propri desideri.

Desideri semplici come avere una casa, mangiare un gelato, o un sacco pieno di caramelle.

Elena crea un laboratorio dei sogni: i bambini disegnano, raccontano la propria storia e ricevono in dono la fotografia che li ritrae proprio nel momento della loro massima felicità, mentre desiderano e ricominciano a sperare.

Uno dei sogni più belli che Elena ricorda è quello di Akhmed, un bimbo di Aleppo.

Stringendo fra le mani il coniglietto, il bimbo racconta di desiderare un elicottero così da poter salvare tutti i bimbi che hanno bisogno.

Se è pur vero che ci sono i traumi della guerra da elaborare e che il dolore, in posti come il campo profughi di Ritsona, sembra coprire ogni altro sentimento, è altrettanto vero che la bellezza sa farsi strada ovunque.

Questo è l’insegnamento più grande infine: la tenerezza resiste, nonostante tutto.

Il percorso

Bisogna però riavvolgere il nastro e tornare indietro, a quando Elena inizia a pensare un percorso nel mondo della fotografia.

Uno dei suoi primi ricordi legati a quello che diventerà dapprima passione e poi lavoro è una scena ben precisa che risale all’infanzia: il padre con una macchina fotografica in mano, a esplorare il mondo per poi riportarlo a Elena impresso su pellicola.

Elena racconta di aver «rubato» la macchina fotografica al padre per provare come fosse possibile far uscire da quella scatola magica tante immagini meravigliose. Il primo rullino è un disastro: foto mosse, sgranate, sfocate. Il padre decide così di insegnarle i rudimenti.

Mano a mano che cresce però, Elena si rende conto che di donne fotografe non ce ne sono poi così tante e così decide di essere «La fotografa». La spinta è prima di tutto quella di voler raccontare il mondo e, se possibile, fare qualcosa per darne una visione ampia, diversa e, sì, anche femminile.

Nonostante le reticenze dei genitori, che non vedono la fotografia come un lavoro, Elena non abbandona il proprio sogno, continua a studiare e sperimentare, ma intanto si iscrive all’Università, facoltà di  scienze internazionali e diplomatiche.

Qui incontra un uomo che diventerà il suo maestro e mentore: Luigi Gariglio. Assiste a una lezione di sociologia della comunicazione e comprende, senza più dubbio alcuno, di voler raccontare il mondo tramite l’immagine. Diventa l’assistente personale del professore, e vince una borsa di studio in fotografia allo Ied (Istituto europeo di design) di Torino.

Porta avanti entrambi i percorsi e decide, dopo il diploma allo Ied, di recarsi ad Amsterdam, in Olanda per studiare presso la prestigiosa Gerrit Rietveld Academie.

Il progetto di tesi che la porterà a destinare definitivamente la sua professione alla fotografia umanitaria con tema centrale l’infanzia, è un lavoro sulle mine antiuomo a Sarajevo.

È il primo progetto fotografico di Elena: con la sua fotografia racconta i bimbi nati fra il 1992 e il 1994. Non hanno quasi vissuto la guerra ma ne portano nella mente i segni devastanti. Le conseguenze meno evidenti forse, ma non meno lesive di un’infanzia che non si può definire tale.

Questi bambini e adolescenti, non hanno spazi dove giocare, e spesso i genitori sono mutilati e invalidi a causa del processo di sminamento avviato dal governo serbo che elargisce denaro in cambio di persone che si rechino a sminare i campi.

Il progetto «Pazi Mine» vince il premio Fnac e fa incontrare Elena con un’artista olandese: Hetty Van Der Linden. Hetty porta avanti da anni un laboratorio con bambini, dal nome Paint a Future. Attraverso la pittura, questa artista chiede ai bambini e agli adolescenti di dipingere il proprio futuro.

Elena comprende la forte valenza terapeutica dell’arte e decide di fare lo stesso con il proprio lavoro.

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Brasile

Elena continua il suo viaggio. Grazie al bando Movin’ Up finanziato dal Gai (Giovani artisti italiani) raggiunge Florianopolis, capitale di Santa Catarina (Brasile).

Qui conosce la povertà delle favelas ma anche il valore reale dell’arte: grazie al lavoro di Hetty e alla sua onlus «Paint a Future», infatti, sono stati raccolti fondi e sono state costruite delle case nelle quali gli abitanti delle favelas possono provare a costruire una vita migliore.

È a Florianopolis che Elena incontra per la prima volta, a tu per tu, dolore, violenza, povertà e disperazione.

Dapprima non sa come dare una mano e inizia a fare volontariato, ma presto capisce che portare cibo e abiti non basta, e che può aiutare con la sua arte corpo e mente. Decide che vuole provare a dare ai bambini che incontra la possibilità di volare via.

Elena si procura un tappeto e inventa una storia: un mago, che aveva girato il mondo con il proprio tappeto volante su cui aveva fatto salire tanti bimbi, poteva aiutare a visitare mondi meravigliosi perché i sogni sono infiniti e gratuiti.

Elena si muove nelle favelas con il suo tappeto magico e il desiderio di regalare uno scampolo di bellezza a questi ragazzi che vivono ai confini della società.

Posiziona il tappeto per terra, racconta loro la storia del mago e chiede dove vorrebbero andare. Nel mondo del racconto, Elena scatta una fotografia.

Il progetto «Flyng Away» si sposta più a Nord, nelle carceri minorili di Salvador, Bahia, dove ogni settimana vengono incarcerati circa 40 bambini e adolescenti tra i 9 e i 18 anni.

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In carcere

In carcere avviene uno di quegli incontri che Elena non dimenticherà più: è quello con Emmesson, un adolescente recluso per furto. «Quel tappeto non vola, non ha la benzina», è la prima frase di Emmesson, a cui segue la risposta di Elena: «La benzina è la tua mente, se tu vuoi, puoi».

Dapprima restio a lavorare con la fotografa, diventa uno dei suoi più fidati assistenti, e la aiuta a muoversi nel mondo della prigione minorile e a raccogliere i sogni e le speranze di altri ragazzi come lui.

Una volta uscito dal carcere, Emmesson continuerà a scrivere alla fotografa dicendo che l’incontro con lei gli ha cambiato la vita e gli ha fatto capire quanto conti la bellezza, e quanto anche per lui è possibile immaginare una vita migliore.

Ma sono tanti gli incontri meravigliosi e le testimonianze durante il lavoro nelle carceri: bambini che fermano la fotografa durante il suo lavoro per dirle «ieri ho volato di nuovo, non ho bisogno del tappeto per volare: ho chiuso gli occhi e sono andato a trovare la mia famiglia».

Mali

Un altro lavoro importante è quello realizzato con la Onlus Alì 2000 in Mali, un progetto nato per raccontare i problemi legati alla siccità.

Esistono luoghi nei quali il bene primario, l’acqua, manca e con essa manca anche tutto ciò che all’acqua è connesso. Se è pur vero che molti progetti umanitari mirano a costruire pozzi, quasi nessuno pensa a come da quei pozzi l’acqua verrà raccolta. I bimbi non chiedono alla fotografa cibo o abiti, ma un contenitore, una bottiglia. Ecco l’idea: fotografare ogni bimbo con il proprio recipiente improvvisato. Chi una zucca svuotata, chi un bidone, chi un secchio malandato, chi una vecchia e usurata bottiglia in plastica recuperata chissà dove. Qualcuno, più fortunato, una borraccia.

I primi mille giorni

Dopo aver girato il mondo è il momento di tornare a Torino.

Nel 2016 Elena inizia, con la Onlus Legal@rte, un progetto che continua tutt’ora, «Profumo di Vita #neldirittodelbambino», per accendere i riflettori su un argomento che pochi conoscono: la violenza assistita da minori.

Come è riconosciuto che musica, lettura, tranquillità fanno bene al bimbo nei primi mille giorni di vita, è altresì riconosciuto che assistere a scene di violenza in un periodo così delicato può condizionare la crescita. Per affrontare il tema, l’artista torinese ha scelto la fotografia Newborn: gli scatti sono realizzati all’interno dei reparti maternità di ospedali italiani, nei primissimi giorni di vita del bambino, cogliendo al meglio il momento magico e irripetibile del sonno profondo del neonato nella sua fragilità, protetto dall’abbraccio dei genitori.

Il progetto ha successo e, nel 2021, non potendo più lavorare all’interno degli ospedali a causa del Covid, si sposta in una cornice d’eccellenza: la Reggia di Venaria. Qui la fotografa ritrae neo e future mamme comunicando così la bellezza possibile abitandola.

Una parte delle immagini del progetto sono protagoniste di un calendario giunto alla quinta edizione, destinato a diffondere capillarmente la conoscenza del fenomeno della violenza assistita attraverso un importante contributo didascalico.

Valentina Tamborra

 




Benin: Una Striscia tra terra e mare

testo e foto di Valentina Tamborra |


Strano paese, che si allunga tra il golfo di Guinea e il Sahel. Dove la religione tradizionale ha ancora  un’influenza importante sulle persone. Non sempre positiva. Dove un popolo vendeva l’altro come schiavo,  ora si celebra la porta del non ritorno. Dove chi ha un difetto fisico è spesso emarginato.

Il Benin, paese dell’Africa occidentale francofona, confina a Ovest con il Togo, a Nord con il Burkina Faso e il Niger, a Est con la Nigeria e si affaccia a Sud sull’Oceano Atlantico.

Qui l’età media è 45 anni: fame, malattie come l’Aids, la malaria o il colera sono fra le principali cause di morte.

Il Benin, insieme alle aree limitrofe della Nigeria, è la culla della religione vudù, riconosciuta ufficialmente dallo stato (e dalla quale, in parte, deriva anche il vudù haitiano, ndr). In lingua Fon, la più parlata nel Sud del paese, la parola «vudù» significa «anima, forza». Più precisamente è la città di Ouidah che viene definita «capitale vudù». Il 90% degli abitanti, infatti, pratica questa religione.

Arrivati a Ouidah ci si imbatte in un forte contrasto: nella tranquilla cittadina costiera infatti, il «Tempio dei pitoni», sacro al dio Dangbe, sorge proprio dinnanzi a una chiesa cattolica, la basilica dell’Immacolata concezione.

All’interno del tempio sono custoditi centinaia di pitoni reali, considerati sacri.  A prendersene cura sono sacerdoti della Tribù dei serpenti, facilmente riconoscibili grazie alle scarnificazioni sul volto rappresentanti, in forma stilizzata, i denti dei pitoni.

La religione vudù è sopravvissuta alla colonizzazione europea, e gli antichi riti e cerimonie continuano a essere celebrati grazie ai dignitari del culto che sono stati in grado di trasmetterne la memoria.

Nato allo scopo di propiziarsi i favori degli dei per ottenere felicità e prosperità, il vudù mantiene ancora oggi un lato oscuro che offusca la bellezza di tradizioni, canti, e memoria.

È a Cotonou, città più popolosa del Benin, che ci imbattiamo per la prima volta nell’anima nera di questo credo.

Molte sono le donne che fuggono dai paesi che circondano la città portando con sé bimbi appena nati affetti da labbro leporino o malformazioni del volto e degli arti.

È la fame, e dunque la carenza di sostanze come l’acido folico, uno dei motivi principali per cui molti bambini nascono con gravi malformazioni.

Purtroppo però questi «segni» sul volto o sul corpo vengono visti da chi pratica il vudù come simboli del male e spesso il bimbo che li porta è allontanato dal villaggio o, nel peggiore dei casi, ucciso.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Victoria, madre coraggio

È questa la storia di Victoria. La sua Miracle, una bimba di pochi mesi, affetta da labbro leporino, è stata condannata a morte dallo stregone del villaggio.

Quando Victoria arriva in ospedale davanti all’equipe di Emergenza Sorrisi (Ong romana che opera in ambito sanitario, vedi box) appare disperata. Ha percorso decine di chilometri, scappando di notte dal proprio villaggio per non essere vista e poter così raggiungere l’ospedale.

Nonostante i chirurghi sconsiglino vivamente l’operazione, (Miracle infatti è davvero minuscola e denutrita, c’è il forte rischio che non sopporti l’anestesia), Victoria insiste perché la sua piccolina venga operata.

La scelta è tra affrontare il tavolo operatorio e mettersi nelle mani di uno stregone: se nel primo caso c’è almeno una speranza, nel secondo non c’è nemmeno quella.

La seguiamo a casa di un’amica, la sera prima dell’operazione. Operazione ancora in forse, infatti i chirurghi dovranno riunirsi da lì a poche ore per emettere il verdetto: operare o non operare.

Victoria vuole mostrarci dove si è nascosta, dopo la fuga dal proprio villaggio, per concedere almeno una possibilità alla sua piccola Miracle. La sua amica la ospita, pur sapendo il potenziale rischio delle azioni di Victoria.

Raggiungiamo così un piccolo gruppo di case in mattoni crudi e terra battuta in una zona rurale.

Ciò che ci colpisce, entrando nella modesta abitazione, è la presenza di una libreria.

Questa immagine ci seguirà spesso anche in altri casi: i bambini da queste parti, come ovunque, sognano un futuro e non è raro vedere in case modeste, poco più che baracche, libri conservati con cura e attenzione come tesori preziosi.

La mattina seguente Victoria raggiunge l’ospedale di buon’ora. I chirurghi hanno deciso: l’operazione si farà. Miracle ce la farà. Il palato verrà chiuso, consentendole di nutrirsi normalmente, e il labbro sistemato così da eliminare il «difetto».

Tensione, sollievo, il sorriso e le lacrime di una madre quasi certa di non poter più stringere la sua piccola. Una ninna nanna cantata a bassa voce e una sola frase «c’est magnifique» (è magnifico).

Un’infermiera scoppia a piangere, i chirurghi sorridono. Ma è solo una delle tante sfide da qui alla fine della missione.

In Benin è così ogni giorno. Per un bimbo che viene operato, e dunque salvato, un altro muore o viene allontanato dalla società diventando un reietto. Diffuse sono le campagne di sensibilizzazione promosse da équipe medico sanitarie con l’aiuto di Ong come Emergenza Sorrisi. Nei villaggi tentano di diffondere una conoscenza che porti a un nuovo approccio verso i problemi sanitari.

Qui bisogna agire sull’aspetto socio culturale del problema. La chirurgia infatti può annullare alcune malformazioni, diminuire difetti fisici, ma alla base c’è la necessità di spiegare alle persone la vera origine di queste problematiche.

Una storia simile per alcuni aspetti, anche se meno drammatica, è quella di Didier.

Un bimbo di appena 10 anni costretto a studiare a casa, lontano dagli altri bimbi, a causa di una malformazione al braccio.

Didier si è procurato un libro di inglese e uno di spagnolo e ora, oltre alla sua lingua madre e al francese, parla altre due lingue.

Dopo l’operazione Didier potrà tornare a scuola, non sarà più esiliato. La realtà del Benin ad oggi è impietosa con chi presenti un «difetto fisico».

Benin. Foto Valentina Tamborra

L’operazione «miracle»

Esiste ovviamente un protocollo severo da seguire quando si opera. La sala chirurgica deve essere sterile, il personale sanitario usa guanti, mascherine, camici: la preparazione a un intervento è la medesima nella prima clinica di lusso o nel paese più povero del mondo.

Vista da fuori, la preparazione è un atto preciso che non lascia spazio al sentimento, all’emozione.

Quando la piccola Miracle viene portata in sala operatoria tutto si ferma per un attimo: uno degli anestesisti si passa una mano sulla fronte, un’infermiera fa il segno della croce. E uno dei chirurghi che sta per sciogliere il nodo di un nastro che lega al pannolino una piccola conchiglia, ferma per un momento la mano: «È un portafortuna, ha un’energia importante. Lo toglierò io».

E sembra un piccolo gesto quello che compie questo chirurgo anziano, con anni di esperienza, migliaia di operazioni alle spalle, eppure con un’attenzione all’essere umano e alle sue necessità sempre viva.

Esiste un protocollo, e deve essere seguito. Ma in sala operatoria si può, anzi talvolta si deve, dar spazio all’emozione.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Le spose bambine

In questo paese è purtroppo ancora fortemente presente la realtà delle spose bambine.

Bimbe e adolescenti vengono promesse in sposa a uomini molto più anziani, dovendo così rinunciare alla propria infanzia, all’educazione scolastica e vivendo in una realtà di abuso.

La ragione è socio culturale e ancora una volta strettamente connessa alla povertà e alla conseguente mortalità.

Se è vero che l’età media è 45 anni, e che il tasso di mortalità infantile è elevatissimo, è dunque «ricercata» una ragazza giovane e fertile che possa garantire una progenie.

I bambini in Benin sono l’anello debole e più sottoposto a vessazioni.

Riti vudù, spose bambine, lavoro minorile, elevata mortalità, tutto questo contribuisce a far sì che il Benin sia un paese antico, per storia cultura e tradizione, ma giovanissimo.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Piccola Venezia d’Africa

Ganvié è la più importante città lacustre dell’Africa Occidentale. Situata sul lago Nokouè, a Nord di Cotonou, viene soprannominata «la Venezia d’Africa».

L’origine della città risale al XVIII secolo quando, a causa delle razzie schiaviste, le popolazioni si rifugiarono nelle paludi del lago al fine di sfuggire ai cacciatori di schiavi.

Qui troviamo qualche migliaio di case in legno, erette su pali infissi nel terreno paludoso. In tutto la città conta circa 30mila abitanti. Si vive principalmente di pesca e ultimamente anche di turismo.

Di Venezia però troviamo ben poco: anche a Ganvié infatti, la condizione di povertà della popolazione è evidente. Le condizioni igienico sanitarie purtroppo sono critiche.

Anche qui il vudù è molto presente nonostante ci sia anche una una parrocchia cattolica.

Per muoversi a Ganvié è necessario l’utilizzo di piccole imbarcazioni, chiamate piroghe. Ogni abitante ne possiede una con la quale si sposta da un isolotto a un altro. Non è raro vederle quasi affondare a causa del carico eccessivo di persone, merci, animali. Le piroghe hanno poi un altro ruolo essenziale: solo con esse infatti è possibile raggiungere le due fontane che garantiscono acqua potabile alla popolazione. L’acqua del lago infatti è salmastra, dunque non potabile.

Benin. Foto Valentina Tamborra

La via degli schiavi

La già citata Ouidah non è famosa solo per il vudù. Qui troviamo infatti anche «la strada degli schiavi». Il passato di questa città è tristemente legato alla tratta degli schiavi.

Sorgeva proprio a Ouidah un importante mercato di esseri umani. Il dolore per l’ingiustizia subita è oggi celebrato a imperitura memoria con questo percorso che ci guida attraverso l’intera cittadina.

A Ouidah è possibile camminare, come in una vera via crucis, lungo i quattro chilometri che migliaia di uomini e donne hanno fatto incatenati, partendo dal mercato degli schiavi, lasciandosi alle spalle le proprie famiglie a la propria libertà.

Lungo la strada si trovano cinque tappe che raccontano la storia della marcia degli schiavi. Il percorso culmina alla Porta del non ritorno. Il monumento sorge su una bellissima spiaggia, la stessa nella quale gli schiavi venivano caricati sulle scialuppe che li avrebbero portati alle navi. I più combattivi o disperati preferivano suicidarsi lasciandosi affogare piuttosto che partire verso l’ignoto.

Oggi la colossale porta affaccia su quello stesso mare blu intenso.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Quotidianità della morte

Lungo le strade che conducono a Cotonou la morte va in scena con una normalità impressionante. Minimarket, bar, benzinai e bancarelle di cibo si alternano a negozi che espongono sulla strada polverosa i feretri d’occasione.

Trasportati poi con mezzi di fortuna (legati a motorini talvolta, o su traballanti ape car) dal negozio agli ospedali o alle case, ricordano in ogni momento come il confine fra la vita e la morte in questo luogo sia estremamente labile.

Negli ospedali, spesso male attrezzati a causa delle condizioni del paese, le camere mortuarie straripano. Il rapporto con il corpo di un caro defunto pare essere assai meno «forte» di quello che abbiamo noi occidentali, e i lavoranti delle camere mortuarie trattano i corpi con meno cura di quella che noi ci aspetteremmo.

Sebbene a un primo sguardo possa essere scioccante, qui forse l’essere umano, anche se non per scelta, ha meglio compreso l’idea di caducità della vita.

I funerali vengono seguiti in  modo composto, da una folla vestita di bianco, che accompagna il proprio caro al luogo della sepoltura fra canti e silenzi. Una foto a grande formato, come un quadro, viene posta davanti al corteo, a memoria del defunto.

La vita, poco dopo, può riprendere il proprio corso.

Valentina Tamborra

Benin. Foto Valentina Tamborra


L’Ong dei miracoli

Emergenza Sorrisi è una Ong che si occupa di bambini affetti da labbro leporino, palatoschisi, malformazioni del volto, esiti di ustioni, traumi di guerra, cataratte e altre patologie invalidanti nei paesi del Sud. Unisce 375 medici e infermieri volontari, grazie ai quali vengono realizzate missioni chirurgiche in 23 paesi nel mondo, dove fino a ora 4.863 bambini sono stati operati e hanno ritrovato il sorriso. Uno dei pilastri della loro attività è la formazione e l’aggiornamento dei medici e degli infermieri locali.

Tutti i progetti di Emergenza Sorrisi nei paesi del Sud del mondo prevedono un’ampia partecipazione locale: allo stato attuale sono cinque le sedi autonome dell’associazione aperte in Benin, Congo, Iraq, Pakistan e Afghanistan.

I medici e tutto il personale sanitario che accetta di partire per le diverse missioni sono volontari. Spesso utilizzano le proprie ferie, momenti normalmente dedicati al riposo, per raggiungere luoghi remoti e sovente pericolosi.

Intervistando questi volontari durante le loro missioni in Iraq e Benin, abbiamo constatato che tutti concordano su una cosa almeno: ogni viaggio dà loro molto più di quello loro danno. Per utilizzare le parole di un’infermiera ormai alla sua decima missione, «è quasi un bisogno egoistico. Quando parto per una missione sto bene, sono felice. Mi sento utile. E quando torno, tutta quell’energia me la porto addosso per mesi. Mi fa sentire che il mio, il nostro lavoro, ha un senso profondo».

Valentina Tamborra

Benin. Foto Valentina Tamborra