Mondo. Dodici chili di vestiti
Nell’Old Fadama – che con i suoi 80mila abitanti è il più grande insediamento informale di Accra, la capitale del Ghana – l’aria è impregnata di fumo grigio e l’odore è pungente. La causa è la combustione di rifiuti tessili, usata per riscaldare i barili d’acqua nei lavatoi pubblici della baraccopoli.
In realtà, il problema è molto più profondo, avendo radici neocoloniali. Molti dei vestiti bruciati arrivano dal Nord globale. Sono gli scarti del fast fashion, un sistema industriale che si basa sulla produzione di quantità eccessive di abiti, venduti a prezzi economici. In vent’anni – infatti – la vendita globale di vestiti è raddoppiata da un trilione di dollari (2002) a due trilioni (2023). Dietro ci sono sovrapproduzione, rifiuti continui e danni ambientali e sociali.
Sommersi dai vestiti
A subire le maggiori conseguenze del fast fashion è il Sud del mondo, dove finisce gran parte dei rifiuti.
Alcuni sono causati della sovrapproduzione: mediamente, il 25% dei nuovi capi resta invenduto. Altri derivano da abiti usati, buttati e molto raramente riciclati (avviene in meno dell’1% dei casi). Nel report Oltre il fast fashion. Come vestirsi rispettando il pianeta, Greenpeace (organizzazione non governativa per la difesa pacifica dell’ambiente), ha denunciato che, ogni anno, nell’Ue vengono buttati oltre 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature (12 chili a persona).

Molti rifiuti arrivano in discariche abusive nel Sud globale. La prima destinazione è il Pakistan. La seconda il Ghana, dove nel 2022 sono giunte almeno 122mila tonnellate di abiti di seconda mano (localmente chiamati «obroni wawu», i «vestiti degli uomini bianchi morti»).
Inquinamento da fibre sintetiche
Con il report Fast fashion slow poison. The toxic textile crisis in Ghana, Greenpeace si è soffermata proprio sulle conseguenze ambientali e sanitarie causate dai rifiuti tessili in Ghana.
Mediamente, ogni settimana, a Kantamanto (il più grande mercato di abiti di seconda mano del Paese), arrivano 15 milioni di vestiti dal Nord globale. Ma il 60% non è riutilizzabile e perciò viene buttato. Gran parte è bruciata nei lavatoi dell’Old Fadama, dove – dato che molti abiti sono composti da fibre sintetiche non biodegradabili che, bruciando, disperdono microplastiche – i ricercatori hanno rilevato livelli di sostanze chimiche ben superiori agli standard europei.
Altri rifiuti si disperdono nell’ambiente, inquinando il fiume Odaw, la laguna di Korle e le paludi del Densu Delta Ramsar (un ecosistema unico) con un impatto negativo sulle fonti di sussistenza dei pescatori locali.
Dalle fabbriche tessili del Sud al web
Agli impatti legati allo smaltimento, si aggiungono quelli causati dalla produzione e dal commercio di abiti. Ad esempio, la coltivazione di cotone convenzionale richiede grandi quantità di energia, acqua e pesticidi. Per produrre un paio di jeans servono 7mila litri d’acqua, mentre per una maglietta 2.700. La tintura, ogni anno, provoca la dispersione di almeno 1,7 milioni di tonnellate di prodotti inquinanti nei corsi d’acqua.

Molti marchi si affidano a manodopera a basso costo nei paesi del Sud (come Bangladesh e Vietnam), dove però mancano tutele ambientali e lavorative. Tuttavia, le aziende non fanno nulla per migliorare la situazione. Anzi, secondo il Fashion transparency index 2023 (indice che analizza la trasparenza del settore), quasi la metà dei 250 principali brand non rivela le fabbriche di produzione.
E poi c’è lo shop digitale. Come evidenziato da Moda in viaggio (indagine di Greenpeace e del programma televisivo Report), l’impatto ambientale dei vestiti acquistati su siti di e-commerce e poi resi (spesso gratuitamente) è enorme, soprattutto per imballaggi e trasporti su lunghe distanze (fino a 10mila chilometri). Oltre al fatto che, in moltissimi casi, i resi non sono rivenduti.
L’imbroglio del «sostenibile» e dell’«eco»
Nonostante tutto questo, il fast fashion continua a prosperare. Molti marchi nascondono il loro reale impatto, annunciando collezioni «sostenibili» o linee «eco». Ma spesso sono programmi aziendali dalla dubbia efficacia e non verificati da terzi: di fatto, il modello produttivo resta sempre lo stesso.

Tuttavia, contrastare il fast fashion a favore di un sistema più equo e sostenibile è possibile. Alcune certificazioni permettono di individuare capi prodotti in modo etico e sostenibile, come il Global organic textile standard (con criteri ambientali e sociali), l’Ivn best (la più rigorosa per le fibre naturali biologiche) e l’Oeko-Tex made in green (stringente sulla gestione delle sostanze chimiche).
A ciò, poi, i decisori politici dovrebbero aggiungere normative più vincolanti. Ad esempio, per bandire l’esportazione di abiti non riutilizzabili e rifiuti tessili nei paesi del Sud globale, imporre limiti di produzione e incentivare riutilizzo, riparazione e riciclo. E ancora per eliminare l’utilizzo delle fibre sintetiche derivanti da combustibili fossili, per tracciare il percorso dei vestiti e per assicurare condizioni di lavoro degne in tutta la filiera produttiva.
Aurora Guainazzi
