Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




Corridoi umani

testi di  Mario Marazziti, Marco Gnavi e Luca Lorusso |


Rifugiati siriani raccontano l’accoglienza ricevuta in Italia

«Grazie, fratelli italiani»

Giovani sposi di Houla, in Siria, nel 2012 fuggono in Libano dai massacri e dalla minaccia del carcere. Negli occhi, l’immagine di un’amica sgozzata insieme ai suoi quattro bambini. Per cinque anni vivono in un garage ai margini del campo profughi di Tel Abbas. Nel 2018 giungono in Italia grazie ai Corridoi umanitari. Oggi si dicono felici e grati per i loro «fratelli» italiani.

Arriviamo a Mondovì (Cn) alle 17. È fine ottobre e il sole è già basso. Amira e Farid (nomi di fantasia), sposi siriani con lo status di rifugiati, vivono qui da poche settimane con i loro gemelli di 5 mesi, Iman e Mahdi, al primo piano di una modesta palazzina. Prima sono stati un anno e mezzo a Cuneo e, prima ancora, nove mesi a Rosbella, frazione di Boves (Cn).

Ad aspettarci c’è Farid, uomo sui quarant’anni, grande e grosso, viso tranquillo e bonario, barba incolta, vestito con una tuta grigia. Tra le braccia tiene Iman: tutina rosa, orecchini ai lobi, occhi che sembrano chiari e molto vivaci.

Farid ci invita a entrare con modi molto cordiali. L’ingresso dà su un piccolo soggiorno occupato da una credenza e tre sofà disposti uno accanto all’altro. Al centro, un tavolino con un piatto di biscotti, uno di arachidi, e un cesto di frutta.

I tre vani che dal soggiorno portano agli altri ambienti, sono chiusi da tende di velluto verdi. Sentiamo dietro una di esse la voce di Amira che dà la pappa a Mahdi.

Farid ci fa accomodare e ci chiede se prendiamo un caffè o un tè, e va in cucina. Quando ricompare, porta un vassoio con due bicchieri di tè caldo, zucchero e cucchiaini. Intanto arriva Amira: occhi nerissimi in un viso giovane, sulla trentina, incorniciato da un velo nero. Tiene in braccio Mahdi, che ci guarda. Il Covid non ci permette contatti fisici, non ci stringiamo la mano, ma sorridiamo molto.

foto Luca Lorusso

Cinque anni in un garage in Libano

foto Luca Lorusso

Amira e Farid sono scappati otto anni fa dalla loro terra con le immagini negli occhi (e negli incubi) di un’amica e dei suoi quattro bambini sgozzati durante un’incursione di forze filogovernative nella loro città di Houla, vicino Homs.

L’uomo tranquillo che abbiamo di fronte, in Siria è considerato disertore, e per questo ricercato dalla polizia. Lui e sua moglie sono arrivati in Italia nel 2018, dopo cinque anni di apolidia in Libano, tramite i «Corridoi umanitari» organizzati dalla comunità di Sant’Egidio e dalla Papa Giovanni XXIII in accordo con lo stato italiano.

«In Siria ci sono problemi grandi», racconta Farid nel suo italiano semplice ma comprensibile. «Anche in Libano è molto pericoloso: i siriani non hanno documenti e sono sempre cercati dalla polizia. In Italia, invece, stiamo bene».

I due sposi, in Libano hanno vissuto in un garage appena fuori dal campo profughi di Tel Abbas. La loro condizione di rifugiati non è mai stata riconosciuta, e, con il tempo, è cresciuto il rischio di essere arrestati e rimandati in Siria.

Per un po’ di tempo hanno potuto vivere grazie ai soldi che Farid aveva messo da parte in Siria con la sua ditta, ma quando quelli sono finiti, ha dovuto cercare lavori in nero, mal retribuiti e pericolosi, per pagare l’affitto del garage, la luce, il cibo. Poi ha conosciuto i volontari dell’Operazione Colomba: «Ho incontrato tanti amici italiani in Tel Abbas. Loro sono molto forti e anche molto gentili». Farid sorride. «Loro venivano da noi, mangiavamo assieme. Anche quando c’era il ramadan. Conosci il ramadan?», ci chiede. Poi prosegue: «Per loro era difficile fare il digiuno», e sorride. «Lo facevano due giorni. Poi basta».

Una vita nuova in Italia

Chiediamo ad Amira e Farid come si trovano in Italia. «Per me, sono felice», risponde Farid, «perché non c’è il rischio che c’era in Libano. Poi in Italia ci sono tante persone amiche che sempre ci aiutano e sono molto gentili».

«Per me, quando sono arrivata in Italia, avevo paura», dice invece Amira, «perché pensavo che la gente era come in Libano. Ma poi, piano piano, ho visto che andava tutto bene». Amira ride e incrocia timidamente il nostro sguardo. «È cambiata la nostra vita. Ora non voglio più tornare in Libano e neanche in Siria».

Farid riprende il discorso degli amici, ed elenca alcuni nomi dei molti italiani che li hanno aiutati: «Giorgio e sua moglie Elisa sono molto bravi. Anche Alessandro, anche Abu Tony e tanti altri. Loro si preoccupano sempre per noi. Adesso in Italia la mia vita è nuova. Ci sono due gemelli: è una famiglia nuova, una vita nuova. Siamo felici!». Farid ci invita a guardare i suoi bimbi, pieno di orgoglio. «Dieci anni fa, eravamo già sposati, ma non c’erano figli. Era un problema», dice grave, poi sorride ironico: «Anche adesso è un problema: loro non dormono tutta la notte».

AFP PHOTO/HO/SHAAM NEWS NETWORK

«Tutti in Siria a fare guerra»

Quando chiediamo loro di raccontarci della Siria, si fanno entrambi seri: «Veniamo da Houla, Homs», la cittadina nella quale furono uccise 108 persone nel maggio 2012, tra cui molte donne e bambini inermi.

Farid si consulta in arabo con Amira: «Il presidente è un criminale di guerra», dice abbassando la voce, «un criminale di guerra. In Siria molte persone sono morte per le bombe. In strada ho visto un braccio così, un piede là». Farid ci mostra a gesti quello che ha visto dopo i bombardamenti e l’incursione delle forze sciite nella sua città. «Un uomo con la testa così», fa un segno all’altezza della tempia, «oh… mamma!».

«Anche l’Italia ha avuto la guerra tanti anni fa», prosegue, «ci sono stati tanti morti. Quanti anni è durata la guerra in Italia? Adesso, in Siria, da 10 anni. E poi sono arrivati Turchia, Russia, Iran, Hezbollah, Iraq: tutti in Siria a fare guerra», ride amaramente, «Morti, morti, morti».

«Io ho visto la guerra in Siria per due anni», aggiunge Amira. «Poi è arrivato l’aereo, sono arrivate le bombe, e io sono scappata in Libano. Poi è venuto anche Farid, perché era pericoloso. Io pensavo: questo mese finirà, poi un altro mese… però no! Anche la nostra casa è stata distrutta».

Si zittiscono entrambi. Amira e Farid sembrano a disagio, fanno fatica a raccontare della guerra.

Dopo un anno dal loro arrivo in Italia, Amira è andata in una scuola a parlare agli studenti: «Due volte. È stato difficile. I ragazzi hanno fatto tante domande. Mi hanno chiesto della guerra, cosa ho visto in Siria. Quello è difficile per me: raccontare cosa ho vissuto. Sono andata due volte, però la terza no. No. Basta». E conclude: «I ragazzi erano tristi per noi in Siria, per i bimbi, per tutti».

AFP PHOTO / HO / SHAAM NEWS NETWORK

L’accoglienza italiana

Lasciamo cadere il discorso della guerra. Amira e Farid preferiscono parlare della loro nuova vita. Soprattutto degli amici italiani, alcuni dei quali sono diventati come fratelli per loro. «Tutte persone italiane: cento per cento», dice Farid. «Giorgio è bravissimo», aggiunge Amira riferendosi a Giorgio di Rosbella che li ha accolti, grazie all’aiuto di altre cento persone, quasi in casa sua. «Quando siamo arrivati qua, piano piano, parlando con lui, l’ho sentito come mio fratello. Poi abitavamo uno sopra l’altro. Quando c’era qualche problema lo chiamavo, e lui ci aiutava».

«Per favore, scrivi grazie, grazie molte, grazie agli amici italiani che ci hanno aiutati. Molto molto gentili», aggiunge ancora Farid.

I due sposi parlano dell’Italia solo in termini positivi. Domandiamo loro se è proprio tutto bello, se non ci sono difficoltà: ad esempio con la lingua, con lo stile di vita, la cultura.

«Per la lingua», racconta Amira, «prima pensavo che è difficile, però ho studiato tantissimo grazie a un gruppo bellissimo di maestre: una veniva al mattino e poi l’altra al pomeriggio». «Tredici maestre», precisa Farid: «Io ho studiato tre mesi, poi ho iniziato a lavorare. Il problema è stato che nel primo lavoro come muratore non c’erano italiani: erano rumeni, albanesi. Anche per loro era difficile l’italiano. Ci dicevamo: “Va bene”, “ciao”, “grazie”, “vuoi caffè?”», Farid ride ricordando quel periodo. «Adesso, grazie a Dio, lavoro in un’azienda che fa porte qui vicino. Ho un contratto di tre mesi. Purtroppo in Italia non c’è tanto lavoro, e ho paura di rimanere senza».

Chiediamo se, oltre alla lingua, hanno avuto altre difficoltà: «Per me tutto bello», risponde Amira.

Photo by Haitham Mussawi / AFP

Il futuro da costruire

«Io spero in un contratto lungo di lavoro», dice Farid quando chiediamo come vedono il loro futuro, «e spero di comprarmi una casa».

«Io spero di aprire un negozio per fare la sarta», aggiunge Amira, «mi piace molto cucire. Io per il futuro penso anche ai miei bimbi che conosceranno due lingue: arabo e italiano».

La piccola Iman si sta addormentando in braccio alla mamma. «Se in Siria finisse la guerra, tornereste?», chiediamo. «Io no, mai!», risponde decisa Amira: «No no no! Io ho visto il massacro: in cinque minuti sono morte cento persone. Bimbi e donne. Solo bambini e donne».

«Loro non sono morti per una bomba», aggiunge Farid, riprendendo il discorso della guerra che avrebbero voluto entrambi lasciare da parte, ma che forse è ancora troppo vivo, anche dopo otto anni. «Loro non sono morti per una bomba, ma con il coltello. Coltello! Tutti! L’ho visto: due bambini di due mesi. Perché con il coltello? Perché i bimbi?», Farid si commuove e ha la voce rotta. Anche per la rabbia.

«E così non voglio tornare in Siria», conclude Amira, ma Farid riprende: «La mia famiglia è quasi tutta in Siria. È difficile adesso per loro. Ho tre fratelli avvocati, ma non c’è lavoro per loro: solo guerra. È difficile. Difficile tanto: non c’è cibo, non c’è acqua, non c’è luce. Da nove anni è così. Non ci sono soldi, non c’è lavoro. Il lavoro è la guerra. Così lavorano».

«La gente qua in Italia è gentilissima», torna a dire Amira. «Per me, io voglio rimanere sempre qua. Abbiamo trovato una famiglia grande. Gli italiani sono grandi».

Un bicchiere di mate

foto Luca Lorusso

Ci rendiamo conto che fuori è oramai buio. La piccola Iman dorme, Mahdi invece è sveglio, ma irrequieto. È tempo di togliere il disturbo.

Mentre però iniziamo a salutare, Farid ci chiede se ci piace il mate. Rispondiamo di sì, l’abbiamo bevuto in Argentina diversi anni fa.

«Bravo», ci incalza lui, «io bevo il mate sempre», e aggiunge che poco fa ha bevuto il tè solo per cortesia nei nostri confronti. «In Siria, se vieni a trovarmi e non bevi il mate, per me è un problema. Come il caffè per gli italiani», si alza sorridente e va in cucina. Dopo poco, torna con un vassoio sul quale ci sono due bicchieri pieni di yerba mate, una teiera e due bombillas, le cannucce tradizionali.

Farid versa l’acqua bollente nel bicchiere. È molto contento che beviamo il mate insieme. «Tutti i siriani bevono il mate. Se io non bevo il mate, non vado al lavoro. È la mia colazione. Lo bevo sempre. Mattina, notte, pranzo».

Farid parla ad Amira in arabo per chiederle qualcosa, poi va di nuovo in cucina. Quando torna, ha un pacchetto di yerba mate tra le mani, e una bombilla. «È difficile trovare italiani a cui piace il mate», ci dice, e ce li regala.

Beviamo parlando del più e del meno: dove comprano la yerba mate, quanto costa, quanto è bella l’Italia, quanto era bella la Siria prima della guerra, con i monti, il mare, la gentilezza delle persone, luoghi pieni di storia come Palmira.

Quando salutiamo per andare, Farid ci ripete per la terza volta: «Per favore tu scrivi sul giornale: grazie ai miei fratelli. Grazie, grazie!».

Luca Lorusso


 

foto Luca Lorusso

Una famiglia e cento volontari per Amira e Farid

Accogliere come stile di vita

Rosbella è una bellissima frazione di Boves (Cn) a mille metri d’altitudine, abitata da 15 persone. Giorgio, Elisa e loro figlio Davide, vivono in comodato al primo piano della vecchia scuola addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Al piano terra, per nove mesi, hanno ospitato Amira e Farid, siriani fuggiti dalla guerra. Un’accoglienza corale, fatta assieme ad altre cento persone, che prosegue ancora oggi e fa parte di un percorso di vita tra parrocchia, nonviolenza, commercio equo, fraternità.

Ci troviamo a Rosbella con qualche minuto di anticipo. È un mattino di inizio autunno. Siamo a quasi mille metri e fa freddo. Il posto è splendido: un piccolo borgo di poche case molto ben tenute che sorgono ai due lati della strada.
La prima costruzione che incontriamo è la vecchia scuola parrocchiale addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Qui, al primo piano, vivono Giorgio ed Elisa con il loro bimbo Davide di 8 anni. Al piano terra hanno vissuto Amira e suo marito Farid per nove mesi.

Oltre la chiesa c’è un piccolo locale dal nome ironico, «RosBettola, osteria di infimo ordine». Pare che qui si beva una birra artigianale molto buona. Vediamo un Bed & Breakfast, abitazioni e, in fondo, un recinto con due cavalli.

Per arrivare a Rosbella bisogna fare qualche chilometro nel bosco, su per la montagna a Sud di Boves (Cn). L’isolamento del borgo, che d’inverno si accentua notevolmente, non ha spaventato le decine di volontari che si sono presi cura di Amira e Farid nei mesi della loro vita qua.

foto Luca Lorusso

Accogliere come stile

«Noi siamo arrivati a Rosbella nel 2005». Giorgio, infreddolito come noi, sta dentro un grosso maglione grigio, ha capelli ricci, lievemente brizzolati, mani sottili e calme, come il viso, sguardo profondo e accogliente. È appena tornato da Castellar dove suo figlio frequenta la scuola primaria. Lui è infermiere domiciliare: uno di quelli in prima linea contro il Covid. Sua moglie è educatrice e fa teatro: ora è in casa che lavora.

Ci accomodiamo nella cucina del piano terra, dove hanno vissuto Amira e Farid e dove si sono consumati pasti, svolte riunioni, a volte discussioni accese, sia prima dell’arrivo della coppia, sia insieme a loro.

«Questa casa è del 1910, era la scuola del paese. Qui sotto c’erano le aule. Sopra abitava la maestra. Quando don Gianni Riberi, allora parroco di Boves, ci ha chiesto di venire qua, era abbandonata da tempo. Inizialmente eravamo un gruppo di tre famiglie con il desiderio di fare fraternità. Quando gli altri ci hanno detto che non se la sarebbero sentita di venire a vivere qui, il parroco ci ha incoraggiati: “Va bene lo stesso. Una parte l’abitate voi, l’altra la usiamo per fare ospitalità”.

Don Gianni ha provato a dare nuova vita alle strutture abbandonate della parrocchia: qui a Rosbella, ad esempio, ma anche al santuario di Sant’Antonio (dove la famiglia Bovani offre da 20 anni percorsi di spiritualità domestica per famiglie, ndr), e a San Mauro, in una struttura che ora è gestita dalla comunità Papa Giovanni XXIII».

Fino al 2016, Elisa e Giorgio, attraverso la loro associazione «Sentieri di pace», hanno accolto in questi spazi gruppi parrocchiali, scout, campi del Mir (Movimento internazionale della riconciliazione). «Eravamo legati alla bottega del commercio equo di Cuneo, e facevamo anche iniziative di educazione alla mondialità. Abbiamo cercato di declinare la vita in questo luogo come occasione per costruire pace e nonviolenza». E l’accoglienza del Corridoio umanitario si è inserita in questo percorso: dal 2017, infatti, Elisa e Giorgio, insieme al parroco attuale don Bruno Mondino, hanno deciso di accogliere a Rosbella famiglie in difficoltà.

«La prima “ospite” nel 2017 è stata Carla, una donna senza tetto di Torino. È stata qui tre mesi. Poi ci è arrivata la richiesta dall’Operazione Colomba per una famiglia siriana. Io ero già legato a Operazione Colomba perché 20 anni fa ho fatto esperienze in Bosnia, Kosovo e Chapas con loro».

foto Luca Lorusso

Cento persone per un corridoio

Dopo aver accettato di buttarsi nell’avventura, Giorgio è andato in Libano con Matteo, un amico muratore che ha messo a posto gratuitamente l’alloggio per l’ospitalità. Era giugno 2017. Sono stati 10 giorni nel campo profughi di Tel Abbas, vivendo con i volontari di Operazione Colomba. In quei giorni hanno conosciuto Amira e Farid che sarebbero arrivati a Rosbella quasi un anno più tardi. «La mamma di Amira era malata di tumore, non aveva potuto curarsi, e stava morendo. Lei voleva aspettare».

Giorgio ci spiega come si organizza chi vuole accogliere una famiglia tramite i corridoi umanitari. «Funziona così: tu individui una casa; poi costruisci un gruppo per raccogliere i soldi per garantire alla famiglia un anno e mezzo di vitto, alloggio, scuola di italiano, cure, documenti, e così via. L’indicazione generale è di aiutare la famiglia a diventare autonoma nel giro di un anno e mezzo, però poi dipende dai percorsi: qualche famiglia arriva all’autonomia prima, altre non ci sono ancora dopo tre anni. I soldi, in ogni caso, si raccolgono in maniera privata, senza pesare sullo stato o gli enti pubblici».

Quando la mamma di Amira è mancata a fine 2017, Giorgio, Elisa e altri sei amici, hanno organizzato incontri e cene per raccogliere fondi e, soprattutto, aggregare volontari. «Le persone le abbiamo contattate tramite Facebook, altre associazioni, amicizie, e abbiamo raccolto tutti i soldi necessari per partire: 10mila euro».

Più avanti, quando l’esperienza di Rosbella era già in corso, Giorgio avrebbe partecipato all’avvio di altri due corridoi: uno a Cervasca, vicino Cuneo, nato da don Mariano Bernardi e dal gruppo giovani della parrocchia, e uno a Trinità, a Sud di Fossano, nato da Marina, membro del gruppo di Rosbella che voleva far partire un corridoio anche dalle sue parti. «Abbiamo costituito tre gruppi, ciascuno di circa cento persone. La ricchezza del gruppo è che ogni volta che c’è bisogno di qualcosa, un vestito, un mobile, un passaggio in auto, per fare scuola di italiano… arriva sempre una persona. Noi siamo partiti in otto, ma da soli non ce l’avremmo fatta. Quando ti manderò qualche foto, te ne manderò di collettive, dove si vede il gruppo. Infatti, quando si parla di questa esperienza, molte volte si dice che la famiglia di Elisa e Giorgio, insieme ad altri volontari, hanno accolto Amira e Farid, mi piacerebbe, invece, far capire che è stata un’esperienza e un’accoglienza corale. Se non fosse stata corale, non sarebbe esistita. È stato grazie al lavoro di tutti che l’esperienza è andata bene».

Chiediamo a Giorgio come hanno fatto con la lingua, soprattutto i primi tempi dell’accoglienza. «Nel gruppo ci sono una famiglia marocchina e una tunisina, migranti di lunghissimo corso. Sono parte del gruppo fin dall’inizio, e, parlando arabo, sono tra i protagonisti, perché sono quelli che fanno più lavoro di socialità, accompagnamenti, ecc. La sera in cui Amira e Farid sono arrivati, erano qua con del cibo arabo».

foto Luca Lorusso

La storia di Amira e Farid

Giorgio parla con grande affetto di Amira e Farid, con cui la sua famiglia ha vissuto a stretto contatto dal maggio al dicembre del 2018. «Loro sono di Houla, nel governatorato di Homs. Sono una bella coppia. Contenti. Lui aveva una ditta di piastrellisti. Dal punto di vista economico stavano bene. Lei racconta che si occupava dei nipoti: era la zia preferita, e preparava cibo per frotte di bambini. Vivevano in un nucleo di case che ospitava la famiglia allargata di lei.

Non hanno conservato nulla della loro casa: è finito tutto sotto le macerie».

Giorgio mette insieme i tanti pezzi del puzzle della storia di Amira e Farid raccolti qua e là negli ultimi due anni e mezzo. «Nel 2011 è arrivata la primavera araba e la crisi economica. La crisi ha portato le manifestazioni, le manifestazioni il disastro. Tutto questo, loro lo raccontano come qualcosa che è successo senza che se ne rendessero conto. Amira è venuta una volta a parlare a scuola: ha raccontato di questa loro vita molto bella e serena che a un certo punto è stata stravolta, perché, in quanto sunniti, hanno iniziato a essere perseguitati da governo e filogovernativi.

foto Luca Lorusso

Un giorno Houla è stata circondata dagli alawiti che hanno cominciato a bombardare per cercare i terroristi. Era il 2012, maggio.

 

Racconta Amira che a un certo punto si sono rifugiati nelle cantine, ma suo marito era rimasto fuori. Allora è uscita in mezzo al fumo e alle macerie per cercarlo, gridando a gran voce, finché non l’ha trovato. Poi si è resa conto che la casa della sua migliore amica era stata bombardata, però non era distrutta. Allora è corsa a cercarla. Quando è entrata in casa, l’ha trovata sgozzata con i suoi quattro bimbi.

Questo è il massacro di Houla: centootto persone, soprattutto bambini e donne, massacrate con la scusa di cercare i terroristi. A quel punto, Amira, davanti ai ragazzi a scuola, ha detto: “Io non capisco perché cercavano terroristi e hanno ammazzato una donna con quattro figli”.

Quell’immagine terribile, la sogna ancora adesso.

Farid ci manda ogni anno su WhatsApp il video di loro che portano i corpi dei bambini in braccio durante il funerale. Ce lo manda per condividere il ricordo, per non scordare da dove arrivano».

Dopo il massacro, Amira è partita per il Libano con la madre, attraversando di notte il confine a piedi, mentre Farid sperava che la guerra finisse presto, ed è rimasto a Houla. «Dopo sei mesi, è andato in Libano anche lui. Pare che in quel tempo lui sia stato arrestato, e che per tre mesi si siano perse le sue tracce. Di questa cosa, però, lui non vuole raccontare. Dice solo che tutti i sunniti dovevano arruolarsi per combattere i ribelli e i terroristi, ma che in realtà venivano mandati a massacrare i loro fratelli, come avevano fatto a Houla, e allora è scappato».

Amira e Farid sono arrivati in Libano nel 2012: un paese di quattro milioni di abitanti che ha accolto nell’arco di pochi mesi un milione e mezzo di profughi, ma non ha mai riconosciuto il loro status di rifugiati. «Essendo una famiglia benestante, per un po’ hanno ricevuto soldi dalla Siria. Poi però i soldi sono finiti, e allora Farid è andato a fare il muratore con degli amici libanesi: era una vita molto povera».

Vivendo in un garage non lontano dal campo di Tel Abbas, la coppia ha conosciuto i volontari di Operazione Colomba, il cui lavoro era quello di difenderli dagli arresti arbitrari, e di aiutarli dal punto di vista sanitario. «Stando fuori dal campo, il rischio di essere arrestati ed espulsi cresceva, quindi sono entrati nell’elenco dei corridoi, e sono stati fatti conoscere a Sant’Egidio. Il criterio principale con cui Sant’Egidio decide quali persone far venire in Italia, è quello della fragilità: problemi di salute, famiglie numerose e con figli piccoli, e poi persone che rischiano la vita. Amira e Farid erano tra questi ultimi».

foto Luca Lorusso

Dialogo interculturale

Giorgio ripercorre le tappe della vita di Amira e Farid come se stesse raccontando le vicende della propria famiglia, e ci racconta com’è stata la «convivenza» con loro: «Abbiamo potuto parlare molto, anche di religione. Noi siamo cattolici e lui ha sempre chiesto che gli spiegassimo le nostre usanze. La prima Pasqua, lui ha voluto sapere tutto sul triduo: cosa si faceva, perché si ricordava la morte di Gesù, perché poi risorgeva, cos’è la comunione. Ha sempre chiesto tanto senza mai giudicare, ad esempio il modo in cui stanno assieme uomini e donne. Diceva il suo pensiero: “Da noi funziona così, e penso che sia giusto così”. Ma non mi ha mai detto: “Tu con tua moglie fai delle cose che non sono giuste”.

Un po’ per volta abbiamo capito che rapportarsi con un’altra cultura è diverso dal dire: “Qui funziona così e, dato che ti accolgo, ho diritto di dirti che devi fare come me”. Quando accogliamo qualcuno, rischiamo di credere di poter pensare e decidere per lui, e di dire questo va bene, questo non va bene. Ma questa non è accoglienza».

Come fratelli

A gennaio 2019, Farid ha trovato un lavoro in un’azienda agricola difficile da raggiungere da Rosbella. La coppia ha quindi cercato, con l’aiuto del gruppo, una casa a Cuneo. «Lì era tutto più facile: fare la spesa, muoversi… e sono diventati autonomi su molte cose».

Finito il contratto di lavoro di un anno, Farid ha fatto poi diversi altri lavoretti. Ora è in prova per un’azienda di serramenti dalle parti di Mondovì, dove il gruppo li ha aiutati a trovare un’altra casa in affitto. «Adesso sono completamente autonomi, e pagano tutto loro. Poi Amira è rimasta incinta di due gemelli che sono nati a maggio, e questa è stata un’altra tappa importante del loro percorso per ritrovare la serenità».

Nonostante le difficoltà della lingua, spesso affrontate attraverso Google translate, Giorgio racconta del bel clima che si era creato con Amira e Farid quando vivevano a Rosbella. Una bella relazione che tutt’ora continua.

«Alla fine, il gruppo è diventato una famiglia. Lei, per esempio, si confida molto con una delle maestre d’italiano. E lui si confida con Guardini, l’amico originario del Marocco. Per Amira e Farid, noi siamo la loro famiglia: ci chiamano fratelli e sorelle. Ed è proprio così, nel senso che ci trattano così. Per noi è stata un po’ la realizzazione della convivenza che avevamo cercato quando siamo venuti qui nel 2005. È stato un bel trauma quando se ne sono andati. Poi loro sono proprio amabili, molto delicati, molto rispettosi dei rispettivi spazi, ma anche molto coinvolgenti. Loro erano contenti che ci fossimo noi qui sopra, si sentivano protetti, non si sentivano soli. La convivenza è stata proprio bella, una ricchezza enorme.

Penso che una delle persone che ha beneficiato di più di questa esperienza sia stata nostro figlio Davide, che non ha mai vissuto l’accoglienza come una cosa strana. Due persone diverse, con un modo di fare diverso, con una lingua diversa sono entrate dentro la sua famiglia in modo naturale: sono semplicemente arrivate, e basta.

Secondo me, la rivoluzione che possiamo fare attraverso l’accoglienza, è far vivere ai nostri bimbi, giovani, ragazzi, questa cosa come normale: non un’emergenza, un’esperienza eccezionale, un far fronte all’ondata che arriva; non una cosa eccezionale, super, per persone in gamba, ma una cosa normale.

Per la nostra famiglia è stato bello, e continuo a dire: vale la pena farlo».

Luca Lorusso


foto Marco Pavani

Storia e numeri dei corridoi umanitari

Un varco possibile

Una via legale e sicura per mettere in salvo i profughi in cerca di protezione umanitaria c’è. Una via che sottrae denaro ai trafficanti ed evita le morti in mare. Sono i Corridoi umanitari, immaginati dalla Comunità di Sant’Egidio e realizzati da migliaia di volontari, grazie anche alla collaborazione tra chiese, in dialogo tra loro e con le istituzioni.

Lampedusa, 5 ottobre 2013. Nell’hangar azzurro, all’aeroporto, c’era odore di disinfettante. C’erano la polizia scientifica e i corpi delle persone recuperate in mare nei sacchi neri, pronti per la sepoltura. Ricordo anche quelli di quattro bambini.

Un anno dopo, la Comunità di Sant’Egidio, sarebbe riuscita a dare almeno un nome a tutte le vittime, compresi i 350 e più che sono stati poi recuperati dal fondo del mare.

Erano partiti tutti dall’Eritrea e dal Corno d’Africa due anni prima. Duemila dollari e molti mesi di quasi schiavitù per raccogliere gli altri soldi necessari per il viaggio della morte o della vita.

Non era possibile che per vivere, non essere perseguitati, ricattati, minacciati, si dovesse morire così. Era inaccettabile che quello fosse, per i profughi, l’unico modo per raggiungere l’Europa, per ritrovare dignità e sicurezza. E non andava accettato. Ma dalla commozione collettiva italiana ed europea si sarebbe passati presto alla «globalizzazione dell’indifferenza», e all’impotenza.

È stato allora, lì a Lampedusa, che ho letto per la prima volta su un lenzuolo la scritta, metà grido e metà preghiera, «Corridoi umanitari».

foto Marco Pavani

Un modello che apre strade nuove

Il merito straordinario dei Corridoi umanitari creati nel 2015 da Comunità di Sant’Egidio, Tavola valdese e Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), è quello di avere aperto un varco nelle politiche migratorie europee, e di indicare un modello praticabile per un’immigrazione verificata, sicura, fuori dall’illegalità a dalle maglie dei trafficanti.

Essi offrono un modello anche per il «dopo approdo», cioè per l’accoglienza e l’integrazione delle persone dopo il loro arrivo. E forniscono una risposta al grande rischio che, per veti incrociati della politica, l’Ue rinunci al suo cuore, alla «democrazia inclusiva» e «umanitaria» che è alla base stessa della genesi e della necessità storica ed economica dell’Europa unita.

Il paradosso europeo

Se si guardano le nazionalità delle persone i cui corpi vengono recuperati nel Mediterraneo, risulta una verità asciutta e terribile: molti erano profughi, meritevoli di protezione internazionale.

Il sistema europeo per i rifugiati è paradossale: per accedervi è necessario presentarsi alla frontiera dell’Ue, ma alla frontiera si può arrivare solo come turisti – dissimulando quindi il proprio bisogno di protezione – oppure come irregolari.

Zygmunt Bauman scriveva: «Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di “immigrati illegali”, e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di “emigranti economici” [morti] nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli».

Il primo protocollo di apertura di «Corridoi umanitari» promossi dalla Comunità di Sant’Egidio sulla base di norme vigenti (l’art. 25 del Regolamento europeo n.810/2009 che prevede la possibilità per gli stati della Ue di emettere visti umanitari a territorialità limitata, cioè validi per un singolo paese), è stato firmato con i ministeri degli Esteri e dell’Interno, assieme alla Federazione delle chiese evangeliche italiane (Fcei) il 15 dicembre 2015. Successivamente, altri protocolli sono stati firmati anche con la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas.

Oggi, dopo cinque anni, ci sono corridoi attivi anche in Francia, Belgio, Andorra e San Marino, nella speranza di creare un «Corridoio europeo».

foto Marco Pavani

Il «dopo approdo»

I Corridoi umanitari, che sarebbe meglio definire semplicemente «umani», rappresentano una buona pratica non solo per l’arrivo, ma anche per l’inclusione dei rifugiati. Quella dei percorsi di accoglienza e integrazione dopo l’arrivo è, infatti, la parte forse meno conosciuta del progetto, ma non per questo meno significativa.

Nel «modello italiano» dell’accoglienza, il «dopo approdo» è il punto più dolente: straordinari nella prima accoglienza, siamo deficitari nella seconda, mostrando scarsa capacità di promuovere autonomia e integrazione delle persone accolte. I Corridoi umanitari, invece, per loro natura, promuovono una rete di persone che accompagna i rifugiati passo dopo passo, senza lasciarli soli e smarriti in un mondo per loro sconosciuto e a volte ostile.

La grande avventura dei Corridoi inizia come una favola, anche se non la è: si sale su un aereo di linea, invece che su un barcone; si vede dall’alto il mare bello e amico; si scende a Fiumicino stralunati e col cuore che batte, e si è accolti come in una festa da volti che poi diventeranno amici. Due giorni dopo si viene già accompagnati da qualcuno che mostra come si raggiunge la scuola dove i bambini sono già iscritti, come si prende l’autobus, dove sono i negozi. Qualcuno che aiuta a fare la spesa e a essere conosciuti in paese, nel quartiere.

Lo stupore del «modello adottivo»

Di solito con i Corridoi, non arrivano singoli, ma gruppi, famiglie più vulnerabili di altre. Nonne con ragazzi che hanno perso i genitori in guerra, donne e adolescenti, chi ha bisogno di cure urgenti. Ciascuno con la sua storia già «verificata» prima di partire.

Il viaggio, l’accoglienza, l’accompagnamento all’autonomia, tutto è a carico della società civile. Su base volontaria. Viene così svuotato in radice l’argomento, miope ma popolare, che dice: «Basta spendere soldi pubblici per gli stranieri!». In più, si mettono insieme risorse umane, professionali, spirituali, civili altrimenti inutilizzate.

Invece di dare per scontata la frammentazione sociale, ci si mette insieme, si riduce la solitudine: giovani, adulti, pensionati, anziani, diventano il nerbo di un’esperienza che trasforma i problemi – di lingua, inserimento, diffidenza, paura – in una rinascita, spesso allegra, appassionante, di pezzi di società civile.

I gruppi che accolgono, si assumono gli oneri materiali e relazionali necessari per favorire l’inserimento sociale «simpatetico» dei rifugiati. Questo «modello adottivo» suscita spesso nelle persone accolte una risposta che va oltre le speranze di chi accoglie: è normale infatti che chi arriva da anni di inganni e di offerte di aiuto interessate, resti stupito del fatto che non c’è nessuna trappola nei Corridoi.

foto Marco Pavani

Burocrazia senza paura

Il parlamento italiano ha definito la «sponsorship» privata di questa esperienza «un modello esemplare di accoglienza diffusa». Papa Francesco l’incoraggia sottolineando l’«immaginazione» che ha aperto questo varco di umanità.

A differenza dei programmi di «resettlement» (reinsediamento), che si rivolgono a persone già riconosciute dall’Unhcr come rifugiate, i Corridoi umanitari prevedono che, al loro arrivo sul territorio italiano, i beneficiari presentino la domanda di asilo e seguano l’iter comune a qualsiasi richiedente. Le loro storie sono state già in larga parte verificate prima della partenza, e le domande superano presto l’esame delle Commissioni territoriali. Le persone vengono accompagnate dal gruppo anche in questo percorso, perché non si trovino sole davanti alla burocrazia, agli avvocati, e al tam tam dei passaparola.

I punti di forza dei Corridoi

I punti di forza di questo modello sono, quindi, diversi: innanzitutto la verifica delle storie personali prima della partenza; poi la creazione di un canale di fiducia nei rifugiati che viene confermato al loro arrivo in Italia (quello che è stato promesso prima del viaggio, si realizza davvero); la creazione di una rete di persone che accoglie e attiva un processo di integrazione che riduce il rischio di isolamento sociale; l’assenza di costi a carico dello stato e del bilancio pubblico; infine la sicurezza di tutto il processo, e lo svuotamento del potere dei trafficanti umani.

A ben pensarci, questo modello potrebbe essere utilizzato per riqualificare il sistema pubblico di assistenza, migliorandone l’efficienza e la capacità di integrazione con investimenti modesti.

Tremilacinquecento

Ad oggi quasi 3.500 persone sono arrivate in Europa in questo modo, più di quante ne abbiano accolte 21 stati europei con le ricollocazioni: 2.700 in Italia, di cui quasi 2.000 dai campi in Libano, 623 via Etiopia e Giordania e 67 dalla Grecia. Altri 659 sono in Francia e Belgio, 8 nella piccola Andorra.

Solo in Italia si sono coinvolti 162 «attori» in 18 regioni, famiglie, gruppi, associazioni, parrocchie, Caritas, Sant’Egidio, Migrantes, Tavola valdese, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, collegi, congregazioni religiose, privati. Quasi 3.500 volontari e almeno altre 30mila persone danno convintamente un contributo.

A settembre 2020 è stato firmato un nuovo accordo con l’Italia che permette alla Comunità di Sant’Egidio di avviare ufficialmente il Corridoio da Lesbo e dalla Grecia per i primi 300 (si veda il reportage da Lesbo a pag. 59).

Per questo c’è bisogno di altre persone che mettano a disposizione quello di cui dispongono: una piccola cifra, del tempo, una casa inutilizzata, una professionalità. Chi aiuta non è lasciato solo: Sant’Egidio si assume anche questo ruolo, oltre all’ospitalità diretta.

Si può fare ancora molto

In un mondo attraversato dalla brutalità del Covid-19, in un’Europa spaventata dall’incertezza, c’è il rischio che questa risposta intelligente e umana alle migrazioni si fermi. Sarebbe un errore. Per l’Europa è di primario interesse la creazione di un Corridoio europeo per i profughi di Lesbo, che è già Europa, e dei lager libici.

In Italia andrebbe rinnovato il decreto flussi per gli ingressi legali, ormai ridotti quasi solo ai ricongiungimenti familiari.

È positiva la parziale apertura sul cambiamento del permesso di soggiorno, che può riavviare una integrazione oggi bloccata anche dai controproducenti «decreti sicurezza» che avevano creato da 30 a 70mila «irregolari» incolpevoli.

Sarebbe necessario introdurre permessi di soggiorno di un anno per la ricerca del lavoro, accanto a quelli di lavoro: sono più realistici.

Sarebbe opportuno fare emergere quanti sono diventati irregolari come «overstayers» (perché rimasti sul territorio italiano oltre il tempo consentito), attraverso il ravvedimento operoso, non solo con regolarizzazioni a ondate.

Ci vorrebbe un ampliamento dei ricongiungimenti familiari che tenga nel debito conto la diversa ampiezza dei legami familiari nei paesi di provenienza, non limitabili solo alla moglie, ai figli, ai nonni o ai fratelli.

E sarebbe sensata una riqualificazione professionale di profughi e rifugiati presenti da tempo in Italia, con investimenti in collaborazione con il settore privato: sarebbe una risposta anche al declino e all’invecchiamento della popolazione.

Ci si può arrivare. Intanto, i Corridoi umanitari ci aiutano a rimanere umani.

Mario Marazziti

foto Marco Pavani


Ecumenismo dell’accoglienza

La ricerca dell’unità dei cristiani ha attraversato stagioni diverse. Dal Vaticano II a oggi, si è conosciuto entusiasmo, ma anche crisi e nuove distanze, che hanno rallentato il cammino.

La stessa preghiera sacerdotale di Gesù e l’imperativo a essere una cosa sola, sgorga dal cuore della Passione, dentro un confronto agonico con il male. Il Male è anzitutto divisione. E i suoi frutti sono terribili. Il Concilio Vaticano II è stato una risposta dello Spirito, dopo la tragedia della II Guerra Mondiale.

La ricerca dell’unità si oppone alle derive centrifughe che lacerano i cristiani e i popoli. Oggi, in un tempo di rinascenti nazionalismi, appare necessario un sussulto di audacia, per porre la questione dell’unità in un mondo globalizzato e drammaticamente diviso. L’indifferenza o la disunione tra le Chiese suonano troppo simili alle chiusure nazionali di fronte alle migrazioni, ai conflitti, carestie, disastri ambientali.

Per questo i cristiani non possono condividere – anche se dolorosamente accade – il cinismo e il rifiuto opposto da populismi e paura.

Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha offerto un antidoto alla separazione e alla cultura dello scarto: la fraternità universale, sola medicina per le grandi piaghe dell’umanità.

Le stesse confessioni cristiane, «insieme», sono invitate a non conformarsi al pensiero corrente e a lavorare per un’umanità riconciliata e inclusiva, di cui loro stesse siano segno. Per questo, il tema dei rifugiati e dei migranti, del superamento delle barriere, dell’integrazione e dell’accoglienza, incrocia e provoca il cammino ecumenico per una risposta profonda e contagiosa alla «globalizzazione dell’indifferenza».

Il 6 marzo 2016, all’Angelus, papa Francesco citava come segno concreto di impegno per la pace e la vita, proprio «l’iniziativa dei Corridoi umanitari per i profughi, avviata ultimamente in Italia. Questo progetto pilota, che unisce la solidarietà e la sicurezza – diceva -, consente di aiutare persone che fuggono dalla guerra e dalla violenza, come i cento profughi già trasferiti in Italia, tra cui bambini malati, persone disabili, vedove di guerra con figli, e anziani». E concludeva: «Mi rallegro anche perché questa iniziativa è ecumenica, essendo sostenuta da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche italiane, Chiese valdesi e metodiste».

Si sarebbe aggiunta in seguito, tramite un accordo con la Comunità di Sant’Egidio, la Cei per un Corridoio dal Corno d’Africa.

Tutta l’esperienza dei Corridoi umanitari rappresenta un esempio evangelico e di ecumenismo della solidarietà e della giustizia. Un esempio per le persone di buona volontà, per non abbassare la soglia del nostro «rimanere umani», in un tempo difficile.

È l’immaginazione evangelica nella storia.

Conosco, con le sorelle e i fratelli valdesi, la fatica costruttiva di aprire varchi di disponibilità nella compagine delle Chiese in Europa.

Oltre all’Italia, la Francia ha visto la collaborazione della Chiesa riformata, mentre partner in Europa sono anche diversi vescovi luterani tedeschi.

A Lesbo, un protocollo di collaborazione è stato siglato con la Metropolia ortodossa di
Mitilene.

Si prosegue l’impegno perché in modo creativo e efficace, si possa ecumenicamente offrire il diritto al futuro e alla pace ai profughi siriani, eritrei, sud sudanesi, e a tutti coloro che soffrono violenza, persecuzione e tortura, e all’Europa una opportunità per non allontanarsi dall’umanesimo che è alle sue fondamenta.

mons. Marco Gnavi,
parroco di Santa Maria in Trastevere

foto Marco Pavani


Hanno firmato il dossier:

Mario Marazziti
Giornalista e scrittore, è stato editorialista per il «Corriere della Sera», «Avvenire», «Famiglia Cristiana», «Huffington Post» e portavoce della Comunità di Sant’Egidio. Presidente del Comitato per i diritti umani e poi della Commissione affari sociali della Camera dei deputati dal 2013 al 2018, è stato promotore e primo firmatario della legge di cittadinanza per i bambini immigrati (ius soli e ius culturae) e ha portato a termine la riforma delle professioni sanitarie, la legge di sostegno ai disabili gravi «Dopo di noi», e quella sul recupero degli sprechi alimentari. È cofondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte.

Monsignor Marco Gnavi
Parroco della parrocchia di Santa Maria in Trastevere e direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo, il dialogo interreligioso e i nuovi culti del Vicariato di Roma, tra i responsabili internazionali della Comunità di sant’Egidio.

Luca Lorusso
Giornalista redazione MC curatore del dossier.

Archivio MC sui corridoi umanitari:
Enrico Casale, Per vincere il traffico (di migranti), MC novembre 2018.
Enrico Casale, Ecumenismo per le migrazioni, MC marzo 2019.

foto Luca Lorusso




Nel segno del Mekong

testo e foto di Piergiorgio Pescali |


Il nuovo Laos

Un’apertura made in China

Vientiane (gennaio 2020, poco prima che il mondo si fermi per la pandemia). Il mercato notturno lungo il Mekong è affollato di turisti che, dopo aver fatto la rituale foto del tramonto sul fiume, si riversano tra le bancarelle spulciando tra magliette, borse, ciabatte e souvenir vari. I ristorantini lavorano a pieno ritmo offrendo piatti locali e internazionali, mentre i motorini sfrecciano fendendo nubi di fumo liberate delle griglie su cui vengono abbrustoliti pesci, cotiche di maiale, polli e salsicce. Sul Quai Fa Ngum, il lungofiume, i centri di massaggi – la maggior parte dei quali (è bene rimarcarlo) non offrono supplementi sessuali – fanno a gara per accaparrarsi i clienti.

La capitale del Laos, relativamente assopita durante il giorno, di notte si trasforma in un formicaio di brulicanti attività, ma rispetto alle città vietnamite, thailandesi e cambogiane, Vientiane rimane, comunque, un grande villaggio di frontiera.

L’isolamento della nazione dovuto alla sua posizione geografica, alla conformazione del territorio e all’esiguità della popolazione ha permesso al Laos di mantenere un fascino particolare nell’immaginario collettivo del viaggiatore. Scenari spettacolari immersi in una natura incontaminata, viaggi lungo i fiumi, minoranze etniche ancora relativamente isolate dall’infezione del turismo di massa e dei tour operator, sono stati per decenni le cornici ideali entro cui si organizzava una vacanza in questo paese del Sud Est asiatico.

Tutto, però, sta per cambiare in un modo così veloce che, probabilmente già nei prossimi anni, il Laos descritto oggi sarà una memoria relegata nei libri e nelle fotografie rimaste nei cassetti o nei nostri computer.

Un monaco passa sul ponte di bambù costruito sul fiume Nam Khan, a Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

Strade e ferrovie: l’attivismo cinese

Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare i numerosi cantieri che stanno lavorando a quel progetto colossale voluto dalla Cina inserito in quel fronte di espansione economica denominato One belt, One road, da noi meglio conosciuto come «nuova Via della Seta». L’idea, è noto, è quella di collegare il cuore produttivo cinese con il resto del mondo (Asia, Europa, Africa, America Latina) attraverso la costruzione di una rete di infrastrutture che si diramano principalmente verso Sud e verso Ovest; un piano miliardario (si parla di mille miliardi) che vede la partecipazione di una sessantina di stati, tra cui anche l’Italia. Nonostante l’economia laotiana non sia sviluppata quanto quelle dei vicini, la nazione è entrata nel mirino di Pechino essenzialmente per la sua posizione geografica che la pone come crocevia obbligato sulla linea di passaggio delle grandi arterie di comunicazione tra la Cina, il Mar Cinese meridionale e lo Stretto di Malacca.

I grandi progetti di comunicazione che collegheranno Singapore a Kunming si sviluppano attraverso la costruzione di una superstrada a quattro corsie e di una ferrovia ad alta velocità, la Pan-asiatica, lungo sei paesi (Singapore, Malesia, Thailandia, Laos, Myanmar e Cina). Il tratto laotiano si dipanerà tra Vientiane e Boten per un totale di 414 km di cui il 47% nascosti in settantacinque tunnel. Iniziata nel dicembre 2016, l’intera opera dovrebbe essere terminata (Covid-19 permettendo) a tempo di record nel 2021 (a dicembre 2019 l’80% del tratto era già stato completato), mentre nel 2023 la ferrovia sarà collegata alla rete thailandese attraverso un nuovo ponte in fase di costruzione tra Thanaleng (all’altezza di Vientiane) e Nong Khai, in Thailandia1.

Il programma è tenacemente appoggiato dal governo tramite la figura di Lattanamany Khounnyvong che, oltre ad essere viceministro dei Lavori pubblici e dei Trasporti, occupa anche la posizione di presidente del Comitato di direzione della Laos-China Railway Construction Project, l’azienda statale (30% del governo laotiano e 70% del governo cinese) che sta costruendo la ferrovia e ne gestirà l’operatività.

Mercato di Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

La popolazione laotiana ha accolto tutto sommato favorevolmente il progetto, non solo perché nella nazione ogni forma di opposizione politica e sociale alle decisioni dell’Assemblea nazionale dominata dal Partito rivoluzionario popolare è ostacolata dal governo, ma anche per il fatto che sarà facilitato lo spostamento di persone e merci garantendo, almeno sulla carta, un miglioramento delle condizioni di vita. Nella novella Thi Pak Chai («Il rifugio del cuore»), lo scrittore Thongbay Photisane descrive bene l’atteggiamento che ho riscontrato nei villaggi toccati dal progetto sinolaotiano: «La notizia dell’arrivo dei lavoratori che costruivano la strada si sparse di bocca in bocca e in ogni casa del villaggio. I più anziani apprezzarono e furono contenti che l’unica strada esistente, ormai da diversi anni polverosa, sporca, fangosa e cosparsa di buche, sarebbe finalmente stata riparata e migliorata».

Del resto, già in questi anni le reti di comunicazione laotiane sono state oggetto di ampi investimenti che si sono favorevolmente ripercossi sull’economia. Le vie, oltre ad essere state potenziate, possono contare su una buona qualità del manto stradale tanto che il 65% dei villaggi ha un accesso carrozzabile per tutto l’anno e solo il 7,9% della popolazione vive in villaggi completamente isolati (nel 2005 era il 21%). I tempi di percorrenza si sono accorciati e anche il parco dei veicoli dei trasporti pubblici è sensibilmente migliorato rendendo i trasferimenti più confortevoli. Solo vent’anni fa, spostarsi da un luogo all’altro del paese era insicuro a causa del banditismo e della guerriglia etnica; agli occidentali veniva sconsigliato di viaggiare in strada da Vientiane a Luang Prabang o nelle aree abitate da minoranze etniche meno presidiate dall’esercito. I mezzi pubblici erano rari e affollati e molti passeggeri erano costretti a spostarsi pigiati all’interno di abitacoli fatiscenti o affrontare il viaggio fermamente aggrappati sui portapacchi posti sul tetto.

È ancora Thongbay Photisane a darci uno spaccato della nuova vita nei villaggi dopo l’arrivo delle strade: «Nel villaggio i lavori per la costruzione della nuova strada continuavano. Da mattina a sera si sentiva il rumore dei trattori, dei camion e delle ruspe. La strada, prima fangosa e piena di buche, divenne liscia e larga come mai prima d’allora. Gli abitanti del villaggio strinsero amicizia con i lavoratori e la strada, in precedenza silenziosa e polverosa, prese nuova vita nel modo più straordinario. La sera i lavoratori si riunivano e si rilassavano mangiando e bevendo la tradizionale bevanda alcolica laotiana. Le ragazze, che prima d’allora non si erano mai truccate, iniziarono a farsi belle dipingendo le loro labbra con rossetti».

È al di fuori del confini del Laos, invece, che il programma di sviluppo delle infrastrutture dei trasporti incontra una maggiore opposizione.

Per finanziare il progetto ferroviario, che costerà 6,7 miliardi di dollari, Vientiane ha dovuto chiedere un prestito di 480 milioni di dollari (2,8% del Pil) alla Eximbank cinese destando la preoccupazione degli istituti finanziari internazionali per l’aumento del debito pubblico, oggi pari al 65% del Pil.

Il governo è, inoltre, accusato di aver costretto 4.400 famiglie di 167 villaggi ad abbandonare le loro case confiscando 3.830 ettari di terreno, superiori alle reali esigenze richieste per la costruzione delle infrastrutture2 e contribuendo alla deforestazione del paese (se nel 1940 la superficie forestale del paese era il 70% del totale, e nel 1995 il 47%, oggi è solo il 40%)3. Lattanamany Khounnyvong ha dichiarato che gli appezzamenti espropriati saranno risarciti, ma i proprietari lamentano che i rimborsi ottenuti, 595-715 Usd (dollari Usa) per ettaro, sono di gran lunga inferiori al prezzo di mercato, valutato attorno ai 1.420 Usd4.

Tramonto sul Mekong a Champasak. Foto: Piergiorgio Pescali.

Turismo, tra idealismo e devastazione

Poi ci sono i turisti che, dai finestrini dei bus con l’aria condizionata, osservano perplessi l’avanzare dei lavori temendo che sia sfregiata quella parte di mondo che invece vorrebbero mantenere intatta per portare a casa selfie con gente rigorosamente vestita in abiti tradizionali. Mantenere il Laos, al pari di qualunque altra realtà classificata come «esotica», immutabile come un dipinto naïf e idolatrare modi di vita di popolazioni indigene è una costante presente in molte realtà del turismo sui generis.

Sono tanti gli occidentali imbevuti di un ecologismo new age che idealizzano le comunità etniche elevandole a modello di sviluppo alternativo da seguire per vivere in simbiosi con l’ambiente. Poco importa se, nella realtà, la maggioranza di queste comunità vede la natura in una doppia valenza, foriera di vita e di morte. Ben lontano dalle loro menti è il concetto proprio delle società industrializzate che identifica la natura unicamente come una «madre benigna». Quando si deve lottare ogni giorno per sopravvivere non si ha il tempo, la voglia e la forza di rispettare qualcosa che si ritiene, nel migliore dei casi, indifferente al futuro e al benessere della propria famiglia e della comunità.

Viaggiando in Laos tra queste popolazioni e con i mezzi locali è chiaramente visibile la mancanza di un concetto di rispetto dell’ecosistema secondo la nostra concezione occidentale. Dai finestrini dei bus, dalle barche che solcano i fiumi o dalle verande delle case in cui abitano queste popolazioni, viene gettato nell’ambiente di tutto: sacchetti di plastica, bottiglie di vetro, abiti consunti, copertoni, carcasse di moto, auto o addirittura tuc-tuc o minibus. Strade e fiumi sono costellati di rifiuti. E sono ancora queste popolazioni che cacciano o aiutano i bracconieri a stanare e uccidere animali le cui parti anatomiche sono ritenute miracolose per la medicina tradizionale. Insomma, l’idealismo proprio di alcuni movimenti primitivisti cozza violentemente contro una realtà ben differente da quella ingenuamente proposta.

Mercato a Luang Prabang. Foto di: Piergiorgio Pescali.

Vang Vieng è forse l’esempio più eclatante di questa doppia visione. Fino al 2012 era una cittadina devastata dal turismo giovanile: centinaia di migliaia di ragazzi muniti di zaino si riversavano nel villaggio facendo uso di stupefacenti e alcool per poi ridiscendere il fiume Nam Song a bordo di camere d’aria, tuffarsi nelle acque del fiume, lanciarsi lungo le zip-lines (speciali teleferiche a scopo ludico, ndr). I bar mettevano a disposizione le droghe più varie: da funghi allucinogeni all’oppio, dalle metamfetamine alla marijuana che, mescolate alla grande quantità di liquori offerti, formavano pericolosi cocktails.

La popolazione della cittadina non ne poteva più: il turismo e la presenza di questi backpackers, dopo aver distrutto la tranquillità e l’armonia sociale metteva a rischio lo stesso ecosistema. I rifiuti non si riuscivano a smaltire, i campi erano cosparsi di bottiglie, sacchetti di plastica, vestiti, cartacce. Il sistema sanitario locale era al collasso e il piccolo ospedale lavorava solo per salvare turisti in stato di coma alcolico, in overdose o che si erano feriti durante le loro bravate. Nei periodi di alta stagione le strutture ospedaliere dovevano curare tra i cinque e dieci turisti al giorno.

Nell’agosto 2012 le autorità laotiane decisero finalmente di dare un taglio a tutto questo: furono chiusi i bar più problematici e imposero direttive più stringenti per regolare la vita notturna ed escursionistica. Le zip-line più pericolose, quelle non in regola e i trampolini lungo il fiume vennero distrutti. Il tutto però sembra non sia bastato: ancora oggi ci sono siti5, che danno indicazioni su come sfruttare il turismo sessuale specificando in quali bar è possibile comprare droga.

Al mercato di Phonsavan. Foto: Piergiorgio Pescali.

Governo e Ong impegnati nello sviluppo

Al tempo stesso, però, c’è un’altra fetta, seppur minoritaria, di occidentali che prestano opera di volontariato per avviare programmi di sviluppo rurale. Uno di questi è Sae Lao6, un progetto fondato nel 2008 da Sengkeo Frichitthavong che cerca di aiutare la sostenibilità sociale e ambientale della zona di Vang Vieng, mentre un altro è l’Eefa (Equal education for all), progetto di una Ong che ha permesso a cinquecento ragazzi laotiani di frequentare classi di lingua inglese e ha avviato programmi di igiene dentale7.

In tutto il Laos diverse Ong lavorano per aiutare piccole comunità, ma non è un compito facile: il governo vuole avere sotto stretto controllo ogni attività connessa con enti stranieri e ogni visita ai luoghi dove operano le diverse organizzazioni deve essere approvata attraverso un lungo ed estenuante iter burocratico. È comunque anche grazie a questa cooperazione e a un’oculata selezione delle agenzie interessate a interventi nel paese, che l’«indice di sviluppo umano» è salito da 0,399 nel 1990 a 0,604 nel 20198.

Chiesa cattolica a Paksè. Foto: Piergiorgio Pescali.

Un indicatore ancora basso (secondo l’Onu il Laos si pone al 140° posto nella classifica mondiale), ma i successi della politica adottata dai governi succedutisi alla guida del paese dal 1975 a oggi sono evidenti. Tra il 1992 e il 2013 la fetta di laotiani sotto la linea di povertà è dimezzata passando dal 46 al 23,2% della popolazione9 e oggi l’economia è la tredicesima al mondo come ritmo di crescita10. Siamo comunque lontani dallo sradicamento di povertà e malnutrizione: il traguardo di un Pil che raggiungesse i 3.100 dollari pro capite prospettato qualche anno orsono, si è rivelato irraggiungibile. Secondo il computo della Banca mondiale, nel 2018 ogni laotiano contribuiva per 2.460 dollari alla ricchezza nazionale11. Inoltre, il benessere è estremamente segmentato sulla base di una rigida frammentazione etnica: due terzi di quella fetta di popolazione che sta sotto il livello di povertà appartengono alle minoranze nazionali e, tra queste, Mon-Khmer e Hmong sono le più colpite.

Come spesso accade nei paesi in via di sviluppo in questa parte del mondo, l’industria tessile è la calamita con cui si cercano di attirare investimenti stranieri: un centinaio di aziende, concentrate principalmente a Vientiane e Savannakhet, occupano circa trentamila persone, la maggioranza delle quali ragazze sotto i 25 anni12. Le condizioni di lavoro a cui esse sono sottoposte non raggiungono le devastanti realtà cambogiane e, a differenza di quanto accade nel vicino paese, un recente rapporto dell’International labour office (Ilo) delle Nazioni unite afferma che si sta assistendo a un lento, ma costante miglioramento nel trattamento all’interno dei reparti produttivi13. Insomma, contrariamente al liberismo economico selvaggio scelto dalla Cambogia, qui in Laos la presenza dello stato sembra farsi sentire.

Monaci a Ban Huay Xay aspettano di attraversare il confine verso la Thailandia. Foto: Piergiorgio Pescali.

La spinta e i costi delle dighe

Il motore principale con cui il presidente Bounnhang Vorachit vuole trainare l’economia nei prossimi decenni è quello energetico. Il Laos, assieme a Myanmar, Thailandia, Cambogia e Vietnam fa parte del basso bacino del Mekong14, un’area ricca di oro, metano, piombo, zinco, fosfato, potassio, gas, pietre preziose e abitata da sessantacinque milioni di persone, l’80% delle quali vive nelle campagne15.

Il territorio laotiano è una potenziale fonte di enorme ricchezza, soprattutto di energia idroelettrica. I milleottocento chilometri del Mekong che scorrono entro e lungo i confini del paese e le decine di altri affluenti potrebbero liberare milioni di watt di energia, un tesoro immenso che viene sempre più sfruttato in nome di uno sviluppo nazionale.

Secondo uno studio della Mekong River Commission16, nel 2020 lo sviluppo degli impianti idroelettrici sul fiume Mekong porterà alle casse dell’economia laotiana 21,1 miliardi di dollari che saliranno a 36,0 miliardi nel 204017,18. Queste cifre, però, non includono i costi che la nazione dovrà sostenere per fronteggiare i danni all’ambiente e alle microeconomie derivati da questa politica.

Lo sviluppo delle stazioni idroelettriche sta causando la veloce erosione degli argini dovuti sia alle innumerevoli cave, più o meno abusive, che sorgono lungo il corso dei fiumi, sia all’aumento dei sedimenti che, trattenuti dalle dighe, non riescono a scendere a valle. All’altezza di Pakse, nel Laos meridionale, i sedimenti portati a valle dal Mekong sono scesi da una media di 147 tonnellate per anno alle attuali 6619. Per fronteggiare il problema, il paese dovrà intervenire con progetti che, nel solo 2020, costeranno 228 milioni di dollari per salire a 990 milioni nel 204020. Il problema emerge in tutta la sua drammatica evidenza viaggiando lungo le vie idriche ancora percorribili dai battelli e dalle barche pubbliche o private21. I nuovi cantieri, per lo più cinesi, che innalzano dighe e centrali idroelettriche, sollevano le proteste di molti abitanti contro la dissennata politica del governo. La costruzione di sbarramenti idrici influisce pesantemente sulla vita quotidiana dei laotiani, e le tradizionali vie fluviali, solcate ogni giorno da centinaia di imbarcazioni, sono ormai interrotte o costringono ad allungare i tempi di trasferimento per aggirare gli sbarramenti. Decine di migliaia di contadini e pescatori sono stati costretti ad abbandonare i villaggi inondati dai bacini artificiali.

Cercatori d’oro – donne e bambini – lungo il Mekong. Foto: Piergiorgio Pescali.

Sono proprio le microeconomie che si sviluppano attorno alle dighe quelle che subiranno i danni maggiori. Il governo ha affermato che il 70,8% dell’energia prodotta in Laos viene esportata22, diretta per il 44% alla Thailandia, il 10% in Cambogia e il 15% in Vietnam23. I proventi di tale operazione non andranno però a beneficiare le comunità interessate e i danni economici e ambientali saranno immensi, specialmente nel lungo periodo.

La maggioranza della popolazione che vive lungo il bacino del Mekong è impiegata nell’agricoltura, in particolare nella coltivazione del riso24. I funzionari governativi, nel tentativo di rassicurare la popolazione che imbrigliare le acque dei fiumi consentirà di regolare piene e siccità stagionali così da avere più sicurezza nei raccolti e aumentare la produzione, si sono «dimenticati» di aggiungere che, a lungo andare, il suolo rischierà di inaridirsi a causa della mancanza di ricambio naturale dei sedimenti. Tra il 2007 e il 2020 il gettito dell’agricoltura sull’economia laotiana è aumentato del 7,5% (45,7 miliardi Usd nel 2020 contro i 42,5 nel 2007), molto meno rispetto a quello cambogiano e vietnamita nello stesso periodo (rispettivamente +105% e +21,2%)25.

Anche l’industria ittica, la seconda fonte di approvvigionamento alimentare ed economico delle popolazioni rivierasche, è in pericolo a causa delle chiuse. Il gettito economico di questa attività si è dimezzato rispetto al 2007, scendendo da 8,3 miliardi di dollari ai 4,7 attuali26. Le ditte costruttrici delle dighe non hanno approntato sistemi che consentano alla fauna di passare da un tratto all’altro dei fiumi interessati dagli sbarramenti, isolandone i diversi corsi e aumentando così il rischio di estinzione. L’intera popolazione degli ottantacinque delfini dell’Irrawaddy (Orcaella brevirostris) nell’arcipelago fluviale di Si Phan Don è minacciata dalla costruzione della diga di Don Sahong27, a un chilometro e mezzo dal confine cambogiano. Entro il 2040 la quantità di pesce nel Mekong diminuirà del 50% in Laos e questo, oltre a essere un problema economico per molte famiglie, aggraverà la malnutrizione visto che il pesce è il principale alimento che garantisce un’apporto proteico alle popolazioni insediatesi lungo i fiumi laotiani.

Infine, vi è anche un problema di sicurezza, di cui numerose agenzie internazionali da tempo hanno avvertito il governo centrale, senza successo. Il disastro di Xe Pian-Xe Namnoy, nella provincia di Champasak è stato solo il più grave (e neppure l’ultimo) di una serie di incidenti succedutisi negli anni. Il 23 luglio 2018 una delle otto dighe del complesso, formato da tre dighe principali e altre cinque ausiliarie che avrebbero plasmato un bacino artificiale alto 73 metri e lungo 1.600 metri, è crollata riversando migliaia di metri cubi di acqua su diciannove villaggi, uccidendo settantuno persone e colpendo anche quindicimila cambogiani della provincia di Stung Treng. Cinquemila persone vivono ancora in campi temporanei e il governo di Vientiane ha già avvisato che occorreranno almeno quattro o cinque anni prima che si possa trovare loro una sistemazione definitiva. Nel frattempo, alle famiglie delle settantuno vittime è stato dato un indennizzo una tantum di diecimila dollari e una fornitura di venti chilogrammi di riso al mese; a tutti gli altri, oltre alle derrate alimentari, vengono consegnati 60-75 dollari mensili28.

Costruzione di un ponte ferroviario sul Mekong. Il ponte fa parte della ferrovia che da Singapore giungerà a Kunming, in Cina, attraversando il Laos. Foto: Piergiorgio Pescali.

Le responsabilità dell’accaduto vengono rimpallate da una parte all’altra. L’impianto di Xe Pian-Xe Namnoy, data la sua complessità e l’elevato costo (1,02 miliardi di dollari), è stato costruito da una cordata di imprese: le sudcoreane SK Engineering & Construction (azionaria al 26%), la Korea Western Power (azionaria al 25%), la thailandese Ratchaburi Electricity Generating Holding (azionaria al 25%) e la laotiana Lao State Holding Enterprise (azionaria al 24%).

La commissione indipendente incaricata dal governo di far luce sul motivo dell’incidente ha concluso che il crollo è stato dovuto a un difetto di costruzione29, ma le aziende coinvolte ed appoggiate dalle quattro banche thailandesi finanziatrici del progetto30, hanno rigettato l’argomentazione finale riuscendo a riprendere i lavori e a concluderli alla fine del 2019.

Di fronte a tali situazioni l’atteggiamento del governo è decisamente ambiguo: al World Economic Forum of Asean, tenutosi nel settembre 2018, il primo ministro laotiano Thongloun Sisoulith, dopo aver affermato che il «Laos non potrà diventare la batteria dell’Asia perché la nostra capacità di sviluppo energetico è molto limitata rispetto alla richiesta dei paesi Asean nostri vicini», ha subito dopo specificato che la nazione «ha la capacità di aumentare il suo potenziale in termini di risorse idriche. Possiamo produrre una quantità di energia sufficiente per il Laos e che può essere esportata nei paesi limitrofi»31.

In linea con questo schema, la mappa delle centrali idroelettriche già presenti o programmate sui fiumi laotiani è impressionante: nel 2005 c’erano undici dighe con nove stazioni idroelettriche per una capacità installata di 679 megawatt32, nel 2015 la capacità aveva raggiunto i 3.894 MW33.  Nel maggio 2019 sessantatré stazioni idroelettriche fornivano 7.213 MW; altre 112 centrali erano in costruzione. A queste entro il 2040 se ne dovrebbero aggiungere 340, con un totale produttivo di 19.494 MW34.

L’alternativa, secondo il governo di Vientiane, è un ritorno al carbone più di quanto stia facendo oggi. Nel 2015 è entrata in funzione la centrale di Hongsa che ha quadruplicato la produzione di energia elettrica da carbone (da 1.055 chilotonnellate nel 2013 a 4.793 nel 2015)35.

Oggi l’energia prodotta dal paese è per il 14,9% derivata dal carbone e per l’85,1% dalle centrali idroelettriche, ma nel 2040 il divario diminuirà in un rapporto di 22 a 8836.

A Phonsavan, comunismo e capitalismo camminano insieme. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il nuovo «Triangolo d’oro»

Ridiscendere i fiumi laotiani non è solo un modo per accorgersi dei cambiamenti che andranno ad influire sulla vita di sette milioni di persone, ma anche fare un tuffo nel passato. Sebbene oggi si usino ben altri canali, il Mekong è stato per decenni il punto di transito della droga proveniente dal leggendario «Triangolo d’oro». Oggi questa regione è più un retaggio per turisti, un punto geografico che riunisce in un unico vertice tre paesi: Thailandia, Laos e Myanmar. Il Laos ha creato una zona a economia speciale nella speranza di attirare miliardari cinesi con la costruzione di un casino e di alcuni hotel che si affacciano sul Mekong. Le uniche monete accettate, oltre ai dollari, sono il bath e lo yuan. I campi di oppio sono scomparsi da decenni spostandosi verso l’interno oppure, più semplicemente, sostituiti da fabbriche di metamfetamine, più facili da mimetizzare, preparare e da smerciare. Secondo un rapporto dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime) tra il 2013 e il 2018 la quantità d’oppio prodotta dal Myanmar si è ridotta del 40%, ma al tempo stesso sono aumentati i laboratori di produzione chimica artificiale di stupefacenti37.

Nei soli due mesi di febbraio e marzo 2018 nello stato Shan del Myanmar sono stati scoperti e distrutti sei laboratori di produzione di droghe sintetiche38, mentre nel 2018 in Asia Orientale e nel Sudest asiatico sono state sequestrate 116 tonnellate di metamfetamine, in aumento rispetto alle 82 tonnellate confiscate l’anno precedente39.

Il Laos è diventato terra di transito non solo delle droghe sintetiche dirette per la maggior parte verso la Thailandia, ma anche di prodotti usati per la sintesi di metamfetamine nei laboratori del Myanmar e della Cina e per il loro smercio. Efedrina, pseudoefedrina, 1-fenil-2-propanone (P-2-P) sono i reagenti più comunemente usati dai produttori. Dato che risulta sempre più difficile commerciare queste merci, i boss della droga hanno iniziato a produrle direttamente in Laos partendo da prodotti sino ad oggi non sorvegliati dalle squadre antidroga, come il 2-bromo-1-fenil-1-propanone (2-bromopropiofenone) o cianuro di sodio (NaCN).

Le metamfetamine stanno soppiantando le altre droghe: una pastiglia in Laos viene venduta sul mercato a due dollari. Non proprio conveniente, ma sicuramente meno costosa rispetto all’eroina (24 dollari al grammo). I sequestri di metamfetamine, dopo aver avuto un minimo storico nel 2016 (meno di tre milioni di pastiglie sequestrate), nel 2018 hanno raggiunto il massimo con 21 milioni di pillole intercettate40.

Battelli lungo il Mekong tra Ban Huay Xai e Luang Prabang. Foto: Piergiorgio Pescali.

L’oppio e la guerra del Vietnam

Il commercio di droga nell’area del Sudest asiatico è un’attività storicamente utilizzata nel bilancio economico delle popolazioni locali. Fino agli anni Sessanta la coltivazione dell’oppio era limitata al solo consumo interno, ma l’avvento al potere di Mao Zedong nel 1949 rivoluzionò involontariamente per sempre questo equilibrio. I ribelli del Kuomintang si rifugiarono in Birmania (oggi Myanmar) e, per finanziare la loro rivolta contro i comunisti, iniziarono a coltivare oppio aiutati dalla Cia. Il commercio si rivelò così redditizio che i servizi segreti statunitensi continuarono a incentivare la coltivazione sia nel Triangolo d’oro, ma soprattutto tra le popolazioni Hmong del Laos41.

Ben presto queste minoranze e la loro abilità nel lavorare il papavero da cui si ricavava l’oppio divennero una colonna portante nella guerra contro il Vietnam. Tra il 1964 e il 1973 l’Us Air Force condusse una serie di incursioni aeree, tenute segrete al Congresso, in appoggio al governo monarchico e in opposizione al Pathet Lao, il movimento di guerriglia di ispirazione socialista. In meno di dieci anni, un paese formalmente neutrale come il Laos fu squassato da 270 milioni di bombe lanciate durante l’arco di 580mila missioni42. Queste bombe lasciano ancora oggi un segno nella società laotiana, ma pochi se ne accorgono. Sembra quasi che il Laos non sia stato scalfito dalla storia che ha plasmato l’ex Indocina. Una storia drammatica, ma al tempo stesso affascinante perché fatta non solo di eccidi, guerre, colonialismo, ma anche di popoli che hanno saputo tenere testa a potenze mondiali politicamente e militarmente soverchianti. Chi va in Cambogia sarà avvolto dai ricordi e dalle testimonianze del periodo di Kampuchea Democratica; chi cammina in Vietnam troverà ovunque memorie della guerra che, fino al 1975, ha sconvolto il paese. Chi arriva in Laos, invece, non ha la sensazione di respirare il passato più recente, nonostante il paese sia stato pesantemente coinvolto nella guerra del Sudest asiatico sin dal 1964. Sembra che la storia, qui sia stata dimenticata.

I turisti passeggiano allegramente lungo le vie delle cittadine e dei villaggi, quasi non accorgendosi delle innumerevoli bandiere con la falce e martello che ricordano di essere, pur sempre, in un paese retto da un governo socialista.

Per percepire la storia del Laos bisogna abbandonare le tradizionali vie del turismo, deviando dalle rotte principali, e cercare nelle periferie delle città o nei villaggi più isolati. È allora che si incrociano le vicende più atroci, quelle fatte di bombardamenti segreti, di mine ancora inesplose che continuano a mietere vittime, di fabbriche di protesi, di sminatori che per 240 dollari al mese rischiano ogni giorno la loro vita.

Consiglio sempre a chi si reca in Laos, di visitare la Piana delle Giare prendendo, in partenza o in arrivo, un volo aereo. È dall’alto che si ha la chiara visione di cosa abbia significato, per questa nazione essere stata costantemente martellata da bombardamenti. La provincia di Xiangkhoang è una delle aree più colpite dalle incursioni e i crateri sono ancora ben visibili nella conformazione del territorio nonostante siano passati ormai quasi cinquant’anni dalla fine delle ostilità.

Un cartello indica il pericolo di esplosione sul luogo dove è stata identificata la presenza di un Uxo (un ordigno bellico inesploso) nella regione di Xiangkhouang. Foto di: Piergiorgio Pescali.

I pericolosi «ricordini» della guerra

Se il Vietnam ha ereditato il dramma dell’agente arancio e la Cambogia quello delle mine, il Laos sta ancora lottando contro gli ordigni che, raggiungendo inesplosi il terreno, oggi costituiscono un pericolo per la vita di migliaia di persone. Si stima che il 30% delle bombe lanciate durante le missioni aeree non abbia detonato; il che significa che il terreno, alla fine della guerra, era cosparso da almeno 80 milioni di ordigni pronti ad esplodere.

La situazione oggi non è molto più rosea: il governo laotiano ha valutato che 8.470 chilometri quadrati di superficie del paese sarebbero contaminati da bombe a grappolo (Cluster munition remnamnts, Cmr) e 87.000 da Uxo (Unexploded ordnance)43,44, ma solo nel 2021, al termine di un lavoro di ricerca che sta effettuando il Mag (Mines advisory group), si saprà nel dettaglio quanta superficie di territorio laotiano sia ancora contaminata. A oggi, meno dell’1% delle munizioni sono state distrutte. Gli ordigni causano danni non solo all’economia del paese, ma dissestano anche la pace e la convivenza sociale. Ampie aree agricole non possono essere coltivate a causa della probabile presenza di Uxo, quindi i contadini si trovano a dover dividere terreni con conseguenti discussioni e diatribe. Inoltre, vivere con la costante paura di incappare in una bomba inesplosa innalza la tensione sociale.

La bonifica del territorio è costosa e richiede sforzi immani sia da parte del governo laotiano che da parte della popolazione. Gli Stati Uniti, principali responsabili di questa devastazione, dal 1995 al 2016 hanno donato un totale di 169 milioni di dollari per programmi di bonifica e attività correlate45 a cui si sono aggiunti 90 milioni di dollari promessi da Obama durante la sua visita effettuata nel 201646. L’allora presidente Usa era stato particolarmente colpito dalla situazione laotiana affermando che «in nove anni, tra il 1964 e il 1973, gli Stati Uniti hanno lanciato più di due milioni di tonnellate di bombe sul Laos, più di quanto ne abbiamo lanciate su Germania e Giappone assieme nella Seconda guerra mondiale. Questo ha reso il Laos il paese più bombardato nella storia. Penso quindi che gli Stati Uniti hanno un obbligo morale nell’aiutare il Laos a guarire»47.

Tremila operatori suddivisi in nove organizzazioni internazionali e due battaglioni dell’esercito laotiano lavorano nel campo della bonifica del territorio e nei programmi di prevenzione e cura traumatica della popolazione48.

Questua mattutina dei monaci buddhisti a Ban Huay Xay. Foto: Piergiorgio Pescali.

La minaccia degli Uxo è data dal fatto che ognuno di essi ha un grado di pericolosità differente dovuto non solo al tipo e alla quantità di esplosivo contenuto (ci sono 186 diversi tipologie di Uxo in Laos)49, ma anche al grado di corrosione, alla profondità in cui si trovano nel terreno, alla condizione del dispositivo di innesco. Basta accendere un fuoco affinché un ordigno posto a meno di venticinque centimetri di profondità possa detonare50. È quindi indispensabile, oltre al lavoro di ricerca e disinnesco, programmare un’intensa opera di informazione presso scuole, villaggi, centri di aggregazione sociale. Nel 2012 Vientiane ha avviato Safe path forward 2 (Avanzamento del cammino di sicurezza 2), un programma che terminerà nel 2022 e che ha come obiettivo quello di ridurre le vittime (morti e feriti) da 300 a 75 mediante la bonifica di 200 chilometri quadrati di territorio all’anno51. Grazie a queste campagne e alla bonifica di terreni, gli incidenti e i morti avvenuti nel Laos tra il 2008 e il 2018 a causa degli Uxo è drasticamente diminuito passando da 302 vittime (di cui 99 morti) nel 2008 a 24 (di cui 3 morti) nel 201852.

Tutto questo, però ha un costo enorme: contro una stima di circa 50 milioni di dollari all’anno per bonificare la nazione, assistere e curare le vittime, garantire loro la sopravvivenza, il governo laotiano ne fornisce 15 milioni, contando per il rimanente sugli aiuti internazionali i quali, oltre che dagli Stati Uniti, arrivano da Irlanda, Unione Europea, Nuova Zelanda, Lussemburgo, Canada, Corea del Sud53.

La guerra, nel Sudest asiatico, non è ancora finita.

Piergiorgio Pescali

Questua mattutina a Ban Huay Xay. I monaci ringraziano un istituto bancario che ha donato soldi al locale monastero. Foto: Piergiorgio Pescali.


Note al testo

  • (1) https://laotiantimes.com/2017/02/20/everything-you-need-to-know-laos-china-railway/
  • (2) http://www.asianews.eu/content/compensation-payments-laos-china-railway-slated-completion-2019-85946
  • (3) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 2. The nature of Lao Pdr’s growth and its constraints, pag. 11, 9 marzo 2017.
  • (4) Radio Free Asia, Families in Oudomxay province first to receive compensation from Lao-China Railway, 14 maggio 2018.
  • (5) https://adventureprime.com/vang-vieng-vice-guide-nightlife-drugs-girls/#Drugs
  • (6) https://www.saelaoproject.com/
  • (7) http://www.eefalaos.org/
  • (8) Human Development Report 2019, Inequalities in Human Development in the 21st Century – Lao People’s Democratic Republic, Capitolo 2 – Human Development Index (HDI) § 2.1 Lao People’s Democratic Republic’s HDI value and rank, pag. 3.
  • (9) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 1, Country context, Box 1: MDG attainment and LDC graduation criteria, pag. 2, 9 marzo 2017.
  • (10) ibidem, Executive summary, pag. I, 9 marzo 2017.
  • (11) https://www.worldbank.org/en/country/lao/overview
  • (12) https://www.ilo.org/asia/media-centre/news/WCMS_358225/lang–en/index.htm
  • (13) International Labour Office (ILO), Improving the garment sector in Lao PDR: Compliance through inspection and dialogue – Independent final evaluation, giugno 2017.
  • (14) Il corso del Mekong è stato diviso in due bacini: l’Alto e il Basso bacino che complessivamente occupano una regione di 795mila chilometri quadrati. L’Alto bacino è l’area del fiume che scorre solo in territorio cinese per 1.995 km in tre diverse regioni: Tibet, i Tre Fiumi e il Bacino di Lancang e occupa il 25% dell’intero bacino.
  • (15) Jorge Soutullo, The Mekong River: geopolitics over development, hydropower and the environment, Capitolo 4 – Geographical relevance and natural resources of the Mekong River, European Parliament – Policy Department for External Relations, Novembre 2019, pag. 18.
  • (16) La Mekong River Commission (Commissione sul fiume Mekong) è un organismo transnazionale che comprende i governi di Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam per coordinare e promuovere uno sviluppo sostenibile del Mekong.
  • (17) Mekong River Commission, The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
  • (18) Secondo la stessa ricerca, in Thailandia lo sviluppo sarà di 28,7 nel 2020 e di 81,1 nel 2040; in Cambogia di 6,6 miliardi USD nel 2020 e di 12,0 nel 2040; in Vietnam di 16,0 miliardi USD nel 2020 e di 31,7 nel 2040.
  • (19) Mekong River Commission, Integrated Water Resources Management-based – Basin Development Strategy 2016-2020 for the Lower Mekong Basin, Capitolo 2 – Development trends and long-termoutlook, §2.3 – Economic, social and environmental trends and outlook, pag. 30.
  • (20) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7 – Main scenario impact assessment results, § Cross-sector comparison, 26 dicembre 2017, pag. 25.

Venditrice di alimentari sul bus da Muang Khua a Oudom Xay. Foto: Piergiorgio Pescali.

  • (21) A causa delle dighe numerose tratte fluviali oggi non sono più coperte dai barconi.
  • (22) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Maggio 2018, Capitolo 2 – Energy Balance Table § Electricity, n. 19, Febbraio 2020, pag. 31.
  • (23) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
  • (24) Il 15% del riso prodotto nel mondo proviene dal bacino del basso Mekong.
  • (25) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 23.
  • (26) Ibidem, pag. 22.
  • (27) La diga di Don Sahong è costruita dalla malese MegaFirst in joint venture con il governo laotiano.
  • (28) Pratch Rujivanarom, Special Report: Compensation talks begin for dam disaster victims, The Nation, 18 February 2019.
  • (29) Vientiane Times, Investigators: Dam collapse not a «force majeure» event, 29 May 2019.
  • (30) Le banche, tutte thailandesi, sono la Krung Thai Bank, l’Ayudhya Bank, la Thanachart Bank e la Export-Import Bank of Thailand.
  • (31) https://laotiantimes.com/2018/09/13/laos-pm-thongloun-confirms-hydropower-generation-policy/
  • (32) Lao News Agency, Laos Expects to Have100 Hydropower Plants by 2020, 6 Luglio 2017.
  • (33) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Outlook 2020, ERIA Research Project Report 2018 – Capitolo 1 – Introduction §1.2 Energy Supply – Demand Situation No 19, Febbraio 2020, pag. 3.
  • (34) Songxay Sengdara, Govt. hydro developers pave way for safe dam management, Vientiane Times, 19 June 2019.
  • (35) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Capitolo 1 – Primary Energy Data § Coal, Maggio 2018, pag. 2.
  • (36) ibidem, Capitolo 5 – Model Assumptions §5.3 Electricity Generation Technologies, No 19, Febbraio 2020, pag. 54.
  • (37) United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 3.

La biglietteria del battello pubblico da Nong Khiaw a Muang Khua. Foto: Piergiorgio Pescali.

  • (38) Central Committee for Drug Abuse Control (Myanmar) – CCDAC, Synthetic drug situation in Myanmar, rapporto al Global SMART Programme Regional Workshop, Chiang Rai, Thailandia, Agosto 2018.
  • (39) Ibidem, Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 1.
  • (40) Lao National Commission for Drugs Control and Supervision (Lcdc), Report of illicit drug seizures for 2018 and corresponding reports from previous years.
  • (41) «Triangolo d’oro» è il nome in codice dato dalla Cia alla regione a cavallo tra Thailandia, Birmania (oggi Myanmar) e Laos dove era concentrata la coltivazione e la produzione di oppio.
  • (42) Legacies of War, Unexploded Ordnance (UXO) in Laos: Background and Recommendation, pag. 1.
  • (43) Phoukhieo Chanthasomboune, Direttore del National Regulatory Authority, CCM intersessional meetings (Clearance and Risk Reduction session), Ginevra, 7 aprile 2014.
  • (44) Le bombe a grappolo, o CMR, erano lanciate per la loro capacità di penetrare tra il fogliame della giungla ed esplodere lanciando detriti in una vasta area colpendo il maggior numero possibile di nemici.
  • (45) U.S. Department of State, To Walk the Earth in Safety, 17th Edition, 18 dicembre 2018.
  • (46) I finanziamenti Usa sono principalmente diretti alle seguenti organizzazioni: Mines Advisory Group, HALO Trust, Norwegian People’s Aid, World Education, Health Leadership International, Spirit of Soccer, Geneva International Center for Humanitarian Demining, Janus Global Operations.
  • (47) Casa Bianca, Remarks by President Obama to the People of Laos, 6 settembre 2016.
  • (48) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 7.
  • (49) Landmine Action, Explosive remnants of war and mines other than anti-personnel mines, Global Survey 2003-2004, Marzo 2005, pag. 104.
  • (50) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
  • (51) National Regulatory Authority, Safe Path Forward – II, 22 giugno 2012.
  • (52) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
  • (53) Ibidem, pag. 14.

Contadina in una risaia a Don Khon, nelle isole Si Phan Don, sul Mekong. Foto: Piergiorgio Pescali.


Ha firmato questo dossier:

PIERGIORGIO PESCALI
Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Monaci buddhisti a Huay Xai. Foto: Piergiorgio Pescali.




Camerun: Uniti, ma divisi

testo di Enrico Casale |


Un conflitto continua a mietere vittime nelle due regioni anglofone del Camerun. Dalle proteste del 2016 alla guerra separatista iniziata nel 2017. Mentre si parla di cambiare la forma dello stato.

La guerra continua. Nel silenzio dei media internazionali. In Camerun si sta combattendo un conflitto sottotraccia, ma non per questo poco letale. Negli ultimi tre anni sono morte almeno tremila persone (ma la stima è per difetto), in migliaia hanno lasciato le proprie abitazioni e almeno 40mila camerunesi hanno cercato rifugio all’estero, in particolar modo in Nigeria. Lo scontro vede opposte le forze armate e la polizia legate al governo francofono di Yaoundé e i movimenti indipendentisti delle regioni anglofone. La crisi è esplosa nel 2016, ma ha radici profonde, che sono da ricercare nel colonialismo e nelle sue politiche.

Pullmini bruciati al bus terminal di Buea. (© – / AFP)

Retaggio coloniale

Il Camerun diventa colonia tedesca nel 1884 con il nome di Deutsche Kolonie Kamerun. La sconfitta degli Imperi centrali nella Prima guerra mondiale, impone alla Germania un duro scotto in termini economici e territoriali. Le colonie africane di Berlino sono suddivise tra le nazioni vincitrici: l’Africa Tedesca del Sud Ovest (l’attuale Namibia) al Sudafrica; la parte principale dell’Africa orientale tedesca alla Gran Bretagna (l’attuale Tanzania) e una piccola parte al Belgio (gli attuali Ruanda e Burundi). Il Camerun e il Togoland sono infine spartiti tra la Francia e l’Impero britannico: dell’ex Camerun Tedesco i 4/5 sono assegnati alla Francia così come i 3/5 del Togoland, mentre all’Impero britannico vanno i 2/5 del Togoland e 1/5 del Camerun. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, anche in Camerun nascono i primi movimenti indipendentisti. Il partito «Unione delle popolazioni del Camerun» si schiera apertamente per il distacco dalla potenza coloniale, ma viene bandito negli anni Cinquanta e duramente represso. Nel 1960 il Camerun francese diventa però indipendente con il nome di Repubblica del Camerun sotto la guida del Presidente Ahmadou Ahidjo. In quel frangente, la parte meridionale del Camerun britannico si stacca unendosi al Camerun francofono per formare la Repubblica federale del Camerun. Successivamente il paese cambia nome, perde la sua caratteristica federale e, nel 1972, diventa Repubblica unita del Camerun e, poi, nel 1984, Repubblica del Camerun.

(© STRINGER / AFP)

Lingua e petrolio

«Siamo intervenuti tardi, non quando era necessario farlo – ha recentemente dichiarato in un’intervista al canale Equinoxe Tv il cardinale camerunese Christian Wiygham Tumi -. Il problema doveva essere affrontato nel 1972, quando il paese cambiò perdendo la sua connotazione federale e assumendo il nome di “repubblica unita”». Questa svolta è stata il segno della progressiva centralizzazione della politica e dell’amministrazione. Ciò ha significato anche uno spostamento del baricentro decisionale verso le élite francofone.

La scoperta di grandi giacimenti petroliferi nella penisola di Bakassi e la vittoria della disputa con la Nigeria ha inasprito ulteriormente le tensioni latenti tra le regioni di lingua inglese e il governo centrale. Yaoundé ha infatti affidato lo sfruttamento dei giacimenti a grandi multinazionali, in particolare Perenco (anglo-francese), Total (francese), Shell (anglo-olandese) e ExxonMobile (statunitense), ma i profitti non sono stati equamente redistribuiti tra la popolazione. Anzi, la presenza di queste abbondanti riserve di idrocarburi ha reso ancora più stringente il controllo di Yaoundé su quelle regioni. Anche perché l’economia del Camerun dipende in larga parte dall’attività estrattiva, che rappresenta il 40% del Pil nazionale.

Regioni in fiamme

La scintilla che porta all’incendio scoppia nel 2016. Nelle due regioni anglofone, gli insegnanti e gli avvocati organizzano scioperi e manifestazioni in strada. Protestano contro l’invio di giudici e insegnanti francofoni che, a loro dire, non avrebbero la preparazione adeguata per gestire i processi secondo la common law (il diritto consuetudinario di matrice britannica in vigore nelle due regioni) e non sarebbero in grado di seguire i programmi scolastici incentrati sulla lingua inglese. In un primo momento, il governo di Yaoundé si mostra disponibile a negoziare, ma poi il numero dei manifestanti aumenta progressivamente e le loro richieste si fanno più ambiziose, fino a invocare una maggiore autonomia per le due regioni. Di fronte a queste richieste, già da tempo avanzate dai nazionalisti anglofoni, il governo reagisce. Nelle due regioni anglofone vengono inviati reparti delle forze armate e rinforzi delle forze dell’ordine. I militari e gli agenti usano la violenza e ricorrono agli arresti di massa. La situazione degenera rapidamente. Come spesso accade in queste situazioni, la violenza chiama violenza. In seno ai gruppi separatisti, nascono formazioni armate che non solo reagiscono duramente alla repressione, ma si spingono, nel settembre 2017, a chiedere la secessione dal Camerun delle regioni anglofone, e la nascita dello Stato indipendente di Ambazonia (da Ambas Bay, la regione a Ovest della baia del fiume Mungo). Questi gruppi non sono più composti da compassati avvocati e insegnanti, ma da milizie bellicose che, secondo l’International Crisis Group, contano tra i due e i quattromila combattenti. Negli scontri sia le forze separatiste sia i militari commettono atrocità soprattutto nei confronti dei civili.

Il cardinal Christian Wiyghan Tumi chiacchiera con il leader storico dell’ opposizione, John Fru Ndi, durante una sessione degli incontri  di dialogo promossi dal presidente Biya, in Yaounde, Cameroon, il 30/09/2019. (© Stringer / AFP)

Violenza continua

A tre anni dall’inizio delle tensioni, le violenze non si fermano. «Molte case sono state bruciate e scontri armati continuano ogni giorno – ci racconta una fonte locale che vuole rimanere anonima -. Alcune persone sono rimaste uccise. Le pattuglie di polizia spaventano la popolazione, soprattutto gli anziani che non hanno mai vissuto una simile atmosfera di tensione».

L’economia e la vita sociale delle regioni anglofone sono bloccate. «I continui scontri – prosegue la fonte – rendono impossibili le attività della società civile. Anche in campo economico le difficoltà sono crescenti da quando la maggior parte delle imprese ha cessato di operare in loco. Le due province vivono di agricoltura, ma anche coltivare i campi è complicato. Molti contadini sono stati uccisi mentre lavoravano».

Nel mirino è entrata anche la Chiesa cattolica. «Negli ultimi mesi si sono registrati molti rapimenti di sacerdoti – continua la nostra fonte -. Ciò ha costretto Andrew Nkea Fuanya, il vescovo di Mamfe, a chiudere tre parrocchie nella sua diocesi. George Nkuo, vescovo di Kumbo, è stato rapito. Non solo le autorità religiose, ma anche i civili vengono rapiti quotidianamente per essere liberati dietro riscatto. Detto questo, va aggiunto che gran parte della popolazione preferisce i miliziani alla polizia. I vescovi chiedono che si apra un dialogo inclusivo attraverso il quale le parti si confrontino senza pregiudizi. Di fronte alle costanti minacce, soprattutto da parte dei separatisti, la Chiesa cattolica cerca di avvicinare i ragazzi per educarli ai valori della vita».

© Stringer / AFP

Stato federale?

Di fronte a questa crisi, la comunità internazionale non è rimasta immobile. A gennaio 2019, gli Stati Uniti hanno diminuito gli aiuti militari al Camerun facendo riferimento alle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate nelle regioni anglofone. A maggio, sempre gli Usa, hanno promosso il primo vertice del Consiglio di sicurezza dell’Onu incentrato sul conflitto anglofono. E, a luglio, la Camera dei rappresentanti di Washington ha adottato la risoluzione n. 358 che chiede al governo del Camerun di ricostituire il sistema federale per tentare di risolvere la crisi. Sempre a luglio, la Svizzera, che da secoli ha adottato un sistema federale ed è un altro partner importante del Camerun, ha avviato un tentativo di mediazione indicando al presidente camerunese Paul Biya proprio il modello svizzero incentrato sui cantoni che nei secoli ha garantito la convivenza tra comunità linguistiche diverse. Anche sul fronte interno le cose stanno cambiando. L’opinione pubblica moderata francofona è sempre più incline all’idea di uno stato federale, da tempo invocato dai moderati anglofoni.

Le pressioni internazionali e nazionali hanno portato all’inizio di ottobre alla convocazione di un dialogo nazionale inclusivo per affrontare la situazione. Nell’incontro si è parlato di uno statuto speciale per le regioni anglofone, dell’immediato rilancio di alcuni progetti come la costruzione di infrastrutture: aeroporti e porti marittimi nelle due regioni, dell’integrazione degli ex combattenti nella società e del ripristino del vecchio nome, Repubblica unita del Camerun. Come segno di distensione, poi, il presidente Biya ha ordinato di fermare i procedimenti giudiziari contro più di 300 prigionieri, tra cui il leader dell’opposizione Maurice Kamto del Crm (Camerun renaissance movement).

Un provvedimento, quello dell’amnistia, non ritenuto sufficiente dai separatisti che continuano a chiedere la liberazione di tutti i prigionieri reclusi dal 2016, compresi i dieci leader condannati all’ergastolo lo scorso agosto.

Nonostante il dibattito in corso, la violenza continua. «I civili continuano a essere uccisi senza pietà e le abitazioni degli anglofoni vengono bruciate – conclude la nostra fonte -. La vita è davvero difficile perché a soffrire è soprattutto la gente comune. Il governo pensa ancora di poter decidere da solo. La soluzione migliore è solo un dialogo inclusivo che vada alla radice della crisi e trovi una soluzione una volta per tutte».

Enrico Casale

(© ALEXIS HUGUET / AFP)




Israele: Come si vive vicino a Gaza


La mia camera è un bunker

In Israele, chi abita lungo il confine con Gaza ha una vita particolare. Razzi e palloncini incendiari diventano «normalità». Così occorre attrezzarsi per non morire. Ma c’è una donna che vorrebbe tornare a quando gli abitanti dai due lati del muro si frequentavano. Un sogno o un futuro possibile?

Testo e foto di Valentina Tamborra

Il 2 gennaio 2019 l’esercito israeliano ha completato la barriera marina che separa Gaza da Israele, nella località di Zikim, a Nord di Gaza. Alta sei metri sopra il livello del mare e lunga 200 metri, è stata costruita su un terrapieno artificiale poggiato sul fondo marino, ed è dotata di sensori. Lo scopo della barriera è evitare che si possano scavare tunnel sotto il confine marino. Anche nel Nord di Israele, si sta ultimando un muro che separa il paese dal Libano. Lì sono stati cementati tunnel degli hezbollah, già noti all’intelligence israeliana da quattro anni.

A di là delle misure di sicurezza prese dall’esercito, come vivono le persone che ogni giorno hanno a che fare con la tensione di stare proprio sui confini?

Rifugi anti razzo

Abbiamo incontrato Adele Raemer, insegnante di scuola elementare, segnalata dal quotidiano Haaretz come una fra le dieci persone israeliane più significative del 2018.

Adele vive dal 1975 nel kibbutz Nirim, che dista poche centinaia di metri dal confine con la Striscia di Gaza.

È la fondatrice del gruppo «The movement for the future of western Negev» (Il movimento per il futuro del Negev occidentale) che si occupa essenzialmente dell’area del Negev occidentale, ovvero quella direttamente confinante con Gaza. È la zona dove lo stato ha imposto la costruzione di una «safe room» (camera di sicurezza), in ogni casa. Dal 2011 infatti, per legge, è obbligatorio per tutti coloro i quali vivono entro 4 km dalla Striscia di Gaza, avere una stanza bunker.

Adele ha creato su google maps (programma che permette la visualizzazione geografica, ndr) una «mappa dei fuochi», ovvero degli attacchi di vario tipo, che colpiscono Israele: la aggiorna quotidianamente avvalendosi della collaborazione di tutti gli aderenti al gruppo che, come lei, vivono sul confine. La mappa su google è attiva dall’aprile 2018 e a oggi partecipano alla segnalazione anche persone che ufficialmente non dovrebbero esporsi, come pompieri o esercito.

L’azione di Adele non è passata inosservata alle Nazioni Unite, che lo scorso novembre l’ha chiamata a Ginevra a raccontare ciò che fa, dato l’enorme riscontro che il suo lavoro stava ottenendo su strumenti social quali facebook, sul quale gestisce la pagina «Living on the border with Gaza» (vivere alla frontiera con Gaza).

Una vita sotto tensione

Il suo obiettivo non è però promuovere se stessa o ciò che fa: Adele infatti, vuole solo raccontare lo stato di perenne tensione in cui si vive giorno per giorno a pochi chilometri da Gaza. La sua stessa camera da letto, infatti, è stata colpita da un mortaio pochi anni fa, e lei è viva per miracolo.

Nel kibbutz dove vive, tutti i centri diurni per i bambini, le scuole, sono state fortificate così da renderle dei veri e propri bunker in caso di escalation degli attacchi.

I bunker comunque nulla possono in caso di arrivo improvviso di palloncini incendiari, i quali, se per un adulto non sono mortali, possono provocare gravissime lesioni ai bambini. Si tratta di semplici palloncini, come quelli utilizzati alle feste. Ad essi viene collegata una fialetta di liquido esplosivo che, quando il palloncino tocca terra o viene preso in mano, prende fuoco.

«Ho creato la mappa perché volevo che le persone capissero cosa significa vivere in questa situazione: da entrambe le parti soffriamo, abbiamo paura e la gente non immagina neppure lontanamente cosa significhi essere in uno stato di perenne tensione».

Un missile in camera

Adele ci racconta di quanto accadde circa dieci anni fa, in novembre, un mese prima che suo marito si suicidasse.

Non esistevano ancora le safe room e un colpo di mortaio colpì la loro camera da letto. Adele e il marito si salvarono solo perché in quel momento erano in cucina.

Nel ristrutturare la stanza, Adele scelse di lasciare visibile un segno sullo stipite della porta, là dove il mortaio aveva terminato la sua corsa: «Voglio ricordarmi quanto sono stata fortunata, voglio ricordarmi ogni giorno quanto è bello essere vivi».

Oggi quella camera da letto è diventata un bunker: la finestra è stata cementata, le mura sono spesse il doppio di quelle delle altre stanze.

Stanze prive di serratura però, in quanto in caso di bombardamento è necessario poter intervenire velocemente per estrarre le persone.

Adele ci dice che non è una safe room a far sentire al sicuro chi vive al confine: uno dei timori più forti è quello delle infiltrazioni di estranei. Mi racconta che prima del muro era normale frequentarsi, cenare insieme, condividere una quotidianità senza barriere. Oggi invece, con l’odio e il livore che c’è stato e viene alimentato giorno per giorno, i «vicini» sono persone da temere per entrambe le parti. Così l’idea che qualcuno possa superare il muro, il filo spinato, ed entrare nel kibbutz è la cosa che più atterrisce chi vive sul confine.

Intrusioni, palloncini incendiari, missili: convivere ogni giorno con la paura di sentire improvvisamente una voce femminile registrata che dà l’allarme: «Tzeva adom…tzeva adom…tzeva adom» (colore rosso…colore rosso…colore rosso). Una voce che scandisce quel lasso di tempo brevissimo nel quale puoi rifugiarti nella tua safe room prima che si senta l’esplosione. Dai 4 ai 10 secondi nei quali, se stai dormendo, devi svegliarti, realizzare cosa accade e correre il più velocemente possibile verso la stanza fortificata.

Quando si stava insieme

Nonostante tutto questo, Adele continua a portare avanti la sua idea di coesione: vorrebbe tornare indietro, a quando israeliani e palestinesi si mescolavano, lavoravano insieme. Anche casa sua è stata costruita da palestinesi. Dopo l’ultimo conflitto del 2014, è stato difficile mantenere i contatti, ma Adele continua a comunicare con alcuni giornalisti di Gaza e sta tentando di far arrivare degli strumenti musicali alle scuole elementari della Striscia. «La musica può unire. Non mi illudo, non può abbattere confini ma può forse aprire un dialogo». E sono in molti a pensarla come lei: chi vive a ridosso della Striscia infatti, spera solo in una soluzione di pace.

La costituzione di due stati, Israele e Palestina, non spaventa Adele. A spaventarla è il gioco di potere fra partiti politici dall’una e dall’altra parte del muro. Giochi di potere che non tengono conto delle persone coinvolte, di chi ogni giorno vive nella paura.

Prima di salutarci Adele mi porta a vedere un luogo, proprio accanto alla rete che separa il kibbutz dalla linea di terra che porta a Gaza. Qui, a ridosso del confine, c’è un albero con una targa in pietra: è una lapide. È stata posta a ricordo dei due uomini, due padri di famiglia, morti nel 2014 a causa di un razzo qassam sparato da Gaza. Si erano arrampicati su un palo della luce precedentemente colpito da un missile per ripristinarlo e riportare la luce nel kibbutz.

«È perché non accada più una cosa come questa che continuo il mio lavoro, perché si smetta di morire in modo così stupido: segnalo le esplosioni, i palloncini incendiari, tutto ciò che accade qui a ridosso della Striscia, non per indicare “un colpevole” ma perché si capisca che non è più possibile vivere così. È necessaria la pace, aneliamo tutti la pace. E il silenzio che ci circonda va rotto: solo noi, persone comuni, possiamo farlo, continuando a parlare, a lottare, a dire “ci siamo”».

Il muezzin inizia a cantare: il vento di gennaio porta la sua voce fino a noi. Sono due mondi così vicini che un semplice canto raggiunge e scavalca il muro, le reti, il filo spinato e pervade l’aria.Dal fondo della strada vediamo arrivare tre bambine: avranno dieci o undici anni. Salutano Adele, la abbracciano. Sono sue allieve.

I sorrisi sul volto, il kibbutz che si anima, le persone a passeggio e il sole che inizia a fare capolino da dietro le nubi. È un giorno come tanti, una quotidianità che convive con l’inaspettato, con la paura, cercando però di non farsi sopraffare.

Il muezzin ha finito il suo canto, per Adele è ora di rientrare a scuola, i ragazzi la aspettano.

Nell’aria fredda di gennaio ci salutiamo: «Ciò che accade a Gaza è orribile, ma anche qui non è un pic nic».

Valentina Tamborra

 




Reportage da Kirkuk: I sopravvissuti (alla follia dell’Isis)


L’Isis ha portato distruzione, morte e follia non soltanto a Mosul. Siamo andati nella città petrolifera di Kirkuk, a lungo contesa dalle varie fazioni in lotta, per incontrare i sopravvissuti della guerra. Molti altri vivono nei campi profughi (a volte da anni) in attesa di capire la loro sorte.

testo e foto di Angelo Calianno

Sono passati quasi 5 anni dalle invasioni e dai massacri dell’Isis in Iraq. Dal 2017 la presenza degli uomini del Daesh è stata notevolmente ridimensionata fino a ridursi a poche frange che combattono ancora in Siria. Alcune tra le città precedentemente occupate – come Sinjar, Mosul, Kirkuk – sono state riconquistate, anche se sono andate semidistrutte durante le battaglie per riperderne il controllo.

Dove sono oggi tutti quegli uomini e donne che hanno combattuto contro l’Isis? Dove sono e cosa fanno oggi le persone sopravvissute a maltrattamenti, abusi e violenze? Ci sono ancora cellule dormienti dell’Isis? Dove sono gli accusati di collusione con i terroristi dello Stato islamico?

Tra Erbil, Mosul e Kirkuk incontro alcune delle persone che hanno vissuto quei giorni, che hanno perso molti dei propri cari durante gli scontri e gli attentati di questi ultimi, tremendi anni.

Il petrolio (come sempre)

Uno dei più grandi obiettivi del Daesh durante la sua prima comparsa è stata proprio Kirkuk.

Questa è oggi una città di circa 600 mila abitanti di diversi credi religiosi, tra cui sunniti, sciiti e cristiani. L’importanza della città risiede nel suo sottosuolo, uno dei più ricchi e antichi giacimenti di petrolio del Medioriente. Una stima dello scorso novembre ha calcolato che, se si estraesse tutto il petrolio greggio da quest’area, la sua quantità ammonterebbe a oltre 9 miliardi di barili: questo dice molto sul motivo per il quale sia stata così contesa.

I terroristi del califfato sono arrivati a Kirkuk e nella sua provincia nel 2014. La regione è stata strenuamente difesa dalle milizie curde dei peshmerga che l’hanno contesa all’Isis fino al 2017. Anche lo stato semiautonomo del Kurdistan avrebbe voluto, in qualche modo, annettersi i giacimenti di petrolio ai suoi territori. Nel 2017, le milizie sciite del governo iracheno però sono entrate in città con i carri armati a riprenderne il controllo.

Si è sfiorato un altro conflitto interno tra curdi iracheni e iracheni, diversi civili sono stati feriti e tantissimi curdi, inclusi i peshmerga, hanno ripiegato verso la capitale Erbil, lasciando definitivamente Kirkuk nelle mani di Baghdad.

A Kirkuk

Arrivo nella zona di Kirkuk in auto con Ahmed Salah, un militante peshmerga che ha combattuto un po’ ovunque sul fronte anti Isis. Alcuni dei suoi zii e cugini sono morti proprio in questa zona, durante i primi scontri contro gli uomini dello Stato islamico.

Per arrivare qui da Erbil abbiamo attraversato tre check-point, uno peshmerga e due delle forze di sicurezza irachene. «Da questi villaggi e queste campagne – mi racconta -, molta gente si è unita al Daesh. Vedi quella casa? Oggi è tenuta sotto controllo 24 ore al giorno: uno dei ragazzi che ci abitava con la sua famiglia era un terrorista, oggi è in carcere. Ha molti fratelli e si teme che alcuni di loro possano far parte delle cellule dormienti».

Pensi ci siano molte persone che segretamente ancora supportano l’Isis?, gli chiedo. «Io penso di sì, lo pensa anche l’intelligence, vedi quel ragazzo ad esempio?».

Mi dice indicando un ragazzo vestito con abiti tradizionali, barba lunga e con visibili problemi di ritardo mentale.

«Il Daesh arruolava molte persone con poca istruzione, gente che aveva problemi mentali o problemi economici. Li indottrinavano con la religione islamica. Io conosco quel ragazzo e la sua famiglia: non si sarebbe mai vestito così prima. È stato arruolato anche lui, poi per il suo chiaro stato psicologico è stato lasciato in pace e riaffidato alla famiglia che comunque è sotto controllo».

Tu hai combattuto un po’ ovunque – dico al mio interlocutore -. C’è stato un episodio che più di altri ti ha segnato? «Ce ne sono stati tanti, uno dei più brutti è stato quando ho trovato mio cugino e mio zio uccisi qui vicino. Tuttora non ne sappiamo il motivo, ma durante l’invasione del Daesh si moriva per niente. Forse però l’immagine che non mi toglierò mai dalla mente è un’altra…».

Ahmed Salah tira fuori il cellulare per farmi vedere alcune fotografie, ritraggono un pickup bianco con quattro cadaveri senza vestiti al suo interno: «Qui eravamo tra Mosul e Sinjar. Avevamo scavato delle trincee per ostacolare qualsiasi attacco potesse arrivare con i mezzi terrestri. Una mattina, all’alba, vediamo questo pickup venire a tutta velocità verso di noi. Non si vedeva nulla per la nebbia e il parabrezza era tutto sporco di terra e polvere».

«Abbiamo aperto il fuoco contro il veicolo che poi si è infossato nella trincea. Quando abbiamo aperto le portiere del mezzo abbiamo trovato loro: erano quattro ragazzini nudi e legati. Sull’acceleratore era stata messa una pietra. Erano sicuramente stati rapiti, avevano subito abusi e poi erano stati lanciati contro di noi. Non siamo mai nemmeno riusciti a fare il riconoscimento dei cadaveri per sapere chi fossero, ma forse per i parenti, in quei giorni, è stato meglio non sapere la fine che avevano fatto i loro figli».

Ahmed Salah mi saluta e si incammina verso casa, ma dopo qualche secondo torna indietro per dirmi qualcos’altro: «Vorrei aggiungere un’altra cosa, un dubbio che per noi è sempre stato importante. All’inizio, durante gli scontri con il Daesh, venivamo continuamente bombardati. I colpi di mortaio si susseguivano notte e giorno, senza tregua. Poi le esplosioni cessavano non appena gli americani mettevano piede nel nostro campo. La stessa cosa accadeva quando dalle nostre postazioni gli americani cercavano di colpire i terroristi, non centravano mai l’obiettivo al primo colpo, ma sempre al terzo o al quarto. Queste coincidenze sono accadute più di una volta e a tutti i peshmerga hanno sempre creato molto sospetto».

Nel nome di Allah

A Kirkuk incontro altri due ragazzi che sono sfuggiti per un soffio alle spedizioni punitive dell’Isis. Essendo cristiani erano uno i primi bersagli da persegure. Il modo in cui sono riusciti a scappare è davvero particolare: «Siamo scappati perché uno dei nostri amici era con il Daesh. Prima di arrivare a Kirkuk ci ha telefonato per avvisarci, così siamo riusciti a fuggire con le nostre famiglie».

Chiedo loro: conoscevate molte persone che si sono unite al Daesh? Se sì, perché lo hanno fatto secondo voi? «Ne conoscevamo diverse, con due in particolare lavoravamo trasportando ortaggi e frutta nei mercati. Sai, all’inizio, quando ne parlavano e facevano le prime riunioni nelle moschee, non sembrava una cosa così grande. Nessuno pensava che saremmo arrivati a questo punto, alla guerra, alle violenze. I miei amici si sono uniti al Daesh perché a loro sembrava una cosa giusta. Erano sunniti. Il governo sciita di Baghdad aveva impoverito le loro famiglie, vedevano la corruzione ovunque. Il Daesh aveva promesso che ci sarebbero stati soldi divisi più equamente nel nome di Allah. Io penso che quando si sono resi conto di quello che sarebbe successo, fosse troppo tardi per tirarsene fuori. Sono riusciti però a salvare noi».

Avete avuto più notizie di loro? «No, penso siano morti. Non sono più tornati a casa e le loro famiglie comunque sono sorvegliate dall’esercito, nel caso dovessero tornare o altri terroristi si facessero vedere».

Gli Yazidi del campo profughi

Gli uomini dell’Isis hanno perpetrato violenze ovunque, ma c’è un gruppo su cui si sono particolarmente accaniti, i credenti di una fede religiosa che i terroristi hanno praticamente decimato. Sono gli Yazidi, ritenuti dal Daesh, per il loro singolare credo religioso, adoratori del diavolo.

Uno degli stermini più atroci che l’Iraq abbia mai vissuto si è consumato a Sinjar. Il 4 agosto 2014 gli uomini del Daesh hanno ucciso 5mila persone, mentre in 7mila sono stati rapiti, la maggior parte donne per diventare «schiave del sesso», e bambini, poi mandati nelle scuole di rieducazione per diventare militanti, erano tutti di fede yazida.

Mirza è una di quelle persone riuscite a fuggire dal massacro. Ha 39 anni, anche se dimostra molto più della sua età. Lo incontro in una tenda nel campo di rifugiati a Shari, nella provincia di Dohuk. L’Iraq ha decine di campi profughi destinati ai cosiddetti «rifugiati interni», quelle persone che hanno perso le proprie case e terre durante il conflitto contro l’Isis. In questo campo sono quasi 5mila. Vivono accatastati in tende consumate dalle intemperie.

Mirza ha combattuto nell’esercito iracheno per 11 anni, per questo, quando l’Isis è arrivato a Sinjar, il suo nome era in cima alla lista delle persone da eliminare. Da 4 anni Mirza vive qui con la sua famiglia. In una delle tende a lui destinate ha aperto un piccolo laboratorio dove ripara apparecchi elettrici. Nel campo tutto funziona solo con i generatori a gasolio. Lo intervisto mentre si riscalda davanti a una stufetta a legna. Fuori ci sono tre gradi e la pioggia battente ha ricoperto le strade del campo di fango.

Mirza, raccontami di come hai fatto a fuggire da Sinjar? In quanti siete scappati? «Prima del 4 agosto 2014, già da giorni sapevamo che il Daesh sarebbe arrivato. Avevo dei conoscenti che si trovavano vicino al loro campo, furono loro ad avvisarci di scappare. Ci dissero che altrimenti sarebbe potuta finire molto male per noi. Con mio fratello prendemmo tutta la nostra famiglia: i nostri figli, mogli, fratelli e sorelle, eravamo in 30, la notte prima che arrivassero gli uomini del Daesh ci nascondemmo in montagna».

Come avete fatto a sopravvivere? Siete più tornati a Sinjar?, gli chiedo. «Ogni notte scendevo nei villaggi a valle per prendere da mangiare, dalle montagne abbiamo poi passato illegalmente il confine con la Siria dove siamo rimasti per tre mesi, poi anche lì la situazione cominciò a peggiorare. Allora sono riuscito a trovare uno smuggler che ci ha portato di nuovo in Iraq e poi in Kurdistan. Abbiamo speso tutto quello che avevamo per il viaggio, 1.000 dollari. Sono in questo campo da allora».

Conoscevi alcune delle persone che si sono arruolate con l’Isis? A molti faccio la stessa domanda, come hanno potuto farlo secondo te? Molte delle persone, prima che arrivasse Daesh, vivevano in pace e non avevano mai fatto del male a nessuno.

«Io penso che dipenda moltissimo dalla loro istruzione ed educazione, da dove vengono, dalle loro famiglie, per molti all’inizio sembrava una cosa buona, nessuno quando si sono arruolati aveva parlato di sterminare gli Yazidi, uccidere i propri amici perché di religione diversa. La propaganda era più religiosa e mirata contro l’invasione occidentale, contro le multinazionali che volevano usare la nostra terra, contro la corruzione. Ogni giorno però la situazione diventava più grave fino ad arrivare a quello che sappiamo oggi. Ci hanno sterminati», mi dice commuovendosi.

«Io conoscevo alcune delle persone che hanno attaccato Sinjar. Molto probabilmente oggi sono morte. Io non ce l’ho con loro. So che sono stati manipolati e che gli hanno riempito la testa di sciocchezze. Però nessuno ci ha difeso, ora con la mia famiglia viviamo qui, senza lavoro, senza futuro. Quest’anno non ci hanno nemmeno consegnato il gasolio per il riscaldamento e da giorni non fa altro che piovere. Io vorrei tornare un giorno a Sinjar, ma oggi Sinjar non esiste più».

Mirza mi racconta che nel campo ci sono anche diverse ragazze che sono state rapite da Daesh e poi segregate a Mosul per essere «schiave sessuali»: «Conosco le famiglie di tutti qui, alcune di queste ragazze, da allora, da quando sono riuscite a scappare, non parlano più, non riesco a immaginare quanto possa essere doloroso solo ricordare quello che è successo».

Bassem, cristiano di Mosul

Spostandomi a Mosul mi ritrovo in una città in rovina. In questi vicoli, oggi devastati dai bombardamenti americani, sono morti insieme agli uomini dello Stato islamico anche migliaia di civili. In alcune di queste case, mi dice la gente per strada, l’Isis teneva segregate sia ragazze che ragazzi per abusare sessualmente di loro. Altri luoghi invece, come chiese e scuole, venivano usati come carceri o stanze per le esecuzioni.

Davanti alla chiesa armena di Etchmiadzin, sventrata dalle bombe americane, incontro Bassem.

Vive in uno stanzino qui accanto, poca roba ammassata sotto un edificio pericolante, lo incontro mentre beve whisky da una bottiglia di plastica con due suoi amici. Molti non musulmani comprano a poco prezzo distillati fatti in casa: per tanti di loro, soprattutto dopo la distruzione di Mosul, è l’unica via di fuga dalla realtà.

Bassem, perché hai deciso di vivere in questo centro storico ormai distrutto?, gli chiedo. «Ho sempre vissuto qui. Non me ne sono andato quando è arrivato Daesh, non me ne sono andato quando gli americani bombardavano e non me ne vado adesso. Poi li vedi quelli?».

Mi dice indicando alcuni ragazzi con un vecchio veicolo a tre ruote: «Girano di edificio in edificio per rubare tutto quello che trovano, soprattutto metalli come il rame. In questa chiesa ci sono ancora candelabri, lapidi, targhe di ottone. Io sono qui per proteggerla».

Bassem toglie il lucchetto della catena che chiude la porta della chiesa. Entrando, tra calcinacci e vetri rotti, solleva il maglione per mostrarmi delle cicatrici sulla schiena: «Un giorno mi hanno portato qui perché hanno trovato a casa mia una parabola per la televisione e dell’alcol. Mi hanno preso a bastonate sulla schiena e lasciato per terra. Non sono riuscito a muovermi per settimane. Ridevano mentre lo facevano e mi sputavano addosso».

Bassem mi mostra altri angoli della chiesa e racconta ancora dei giorni dei bombardamenti. Lo fa con un sorriso abbozzato, con il sollievo di essere sopravvissuto, ma senza molta speranza di vedere una ricostruzione. Dopo aver riconquistato la maggior parte delle città irachene, è cominciata la ricerca dei dispersi, migliaia sono le persone di cui non si ha più traccia.

Tra novembre 2018 e gennaio 2019 sono state trovate oltre 200 fosse comuni contenenti migliaia di cadaveri giustiziati dall’Isis. Al momento sono state scoperte nelle province di Ninive (la maggior parte attorno alla città di Mosul), Kirkuk, Salahuddin e Anba.

Secondo le prime stime dell’Onu, le vittime trovate sarebbero 12mila. Si è cominciato un lento e paziente riconoscimento dei cadaveri che potrebbe portare in futuro a dei processi per crimini contro l’umanità. Tutti gli intervistati mi hanno parlato delle vittime ancora da ritrovare. Nella stessa Mosul, ad esempio, tantissimi corpi si trovano ancora sotto le macerie della città, impossibili da estrarre se non ci sarà una ricostruzione.

Dopo l’Isis: giustizia sommaria, sospetti, paura

Il segno dell’Isis non è stato lasciato solo addosso alle sue vittime. Proprio in questi giorni Human Rights Watch ha pubblicato un dossier che parla di arresti indiscriminati e torture da parte dell’intelligence irachena e di quella curda, ai danni di chi – in qualche modo – ha interagito con gli uomini del Daesh.

Ragazzi che lavoravano nei ristoranti dove gli uomini del califfato andavano a mangiare, musulmani sunniti che praticano un islam più radicale, famiglie di ragazzi arruolati nelle file dell’Isis. Moltissimi vengono arrestati, interrogati, spesso con violenza, e una volta rilasciati, tutta la loro comunità li marchia come terroristi. Tra di loro ci sono molti minorenni, Human Rights Watch, nel suo dossier, riporta che fino a dicembre 2018 il numero di minori detenuti superava i 1.500, di cui 185 condannati con l’accusa di terrorismo. Recentemente, 19 di loro hanno dichiarato di essere stati percossi con tubi di plastica e torturati con scosse elettriche, fino ad essere costretti a confessare di aver fatto parte dell’Isis. Tutto pur di far cessare le torture.

Il terrorismo in queste terre non ha portato solo morte e distruzione ma ha lasciato una scia di paura: la paura di un’altra guerra e che nuovi gruppi di terroristi possano apparire da un giorno all’altro. Questa paura ha fatto chiudere spesso un occhio alle autorità sui metodi usati nelle indagini antiterrorismo, e ha portato ad un sovraffollamento, spesso non giustificato, delle carceri.

Il timore che l’Isis possa tornare ha inoltre insinuato il sospetto della gente nei confronti dei propri vicini di casa, a dubitare dei propri conoscenti, a volte dei propri amici.

Malgrado questo, ogni persona da me incontrata o intervistata mi ha espresso speranza. Non quella di avere una vita migliore o rivivere nelle proprie case ricostruite, ma quella di tornare a vivere in pace, senza paura che il terrore possa tornare a regnare per queste strade.

Angelo Calianno


Yazidi: Il tempio vuoto

Su una montagna, a 60 km da Mosul, sorge il sacro tempio degli Yazidi, dove una volta l’anno i fedeli si recano in pellegrinaggio.
È un freddissimo giorno di febbraio, piove da molti giorni, ci togliamo le scarpe per camminare nella parte sacra del tempio, sentendo la pietra bagnata e gelata del pavimento delle ampie corti. Uno dei sacerdoti mi mostra il pozzo sacro: «Qui – mi racconta -, è dove tutte le ragazze, dopo essere scappate o liberate dalla cattività dell’Isis, vengono per purificarsi, per essere di nuovo pulite».

Come mai è così vuoto il tempio?, chiedo. «Da quando è arrivato l’Isis il numero di chi viene al tempio è sempre minore, persino nelle nostre festività principali ho visto centinaia di persone in meno. Tutto questo è il frutto dei massacri e anche della fuga di tanti nostri fedeli all’estero».

Si è stimato che su quasi 600mila yazidi, 100mila siano fuggiti all’ estero durante i primi attacchi dello Stato islamico. Oggi 6.500 sono le persone, per lo più donne, che portano il peso e i segni della cattività, durata in alcuni casi 3 anni. Sopravvissute ai rapimenti, agli stupri sono passate da questo tempio per lavarsi via la violenza, per ricominciare una nuova vita.

A.Cal.

 

Archivio MC: sulla vicenda degli Yazidi la rivista ha pubblicato un dossier uscito a marzo 2017 e firmato da Simone Zoppellaro.

 




Reportage da Mosul: Le bombe non conoscono religione


Dalla famosa moschea di Al-Nuri, oggi distrutta, Al-Baghdadi ha fatto conoscere al mondo l’Isis (il Daesh). Era il 4 luglio del 2014. Mosul è stata liberata tre anni dopo, il 9 luglio 2017. Di quella città oggi è rimasto un gigantesco cumulo di macerie e migliaia di persone senza casa. E senza attenzione mediatica: Mosul ormai è sparita dalle prime pagine.

Testo e foto di Angelo Calianno

Nell’estate del 2014 gli uomini dell’Isis entrano nella città di Mosul, in Iraq. Dalla grande moschea di Al-Nuri, il terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi si autoproclama «Califfo dello Stato islamico» e dichiara il jihad contro l’Occidente.

L’occupazione di Mosul dura tre anni. Anni in cui chiunque non rispetti le rigide regole degli uomini dell’Isis, chiunque non sia musulmano sunnita, chiunque non si vesta in modo appropriato o semplicemente abbia un’antenna satellitare o ascolti musica occidentale, viene severamente punito, torturato, a volte ucciso.

Molti fuggono con la famiglia e chi non ce la fa, cerca di uscire il meno possibile da casa, sopravvivendo come può.

Come la città di Kirkuk per il petrolio, Mosul è una città chiave in Iraq per le sue riserve d’acqua. A circa 50 km da qui infatti sorge la diga di Mosul, la più grande del paese e la quarta in tutto il Medioriente. La diga, che sbarra il corso del Tigri, prima dell’occupazione forniva energia elettrica a due milioni di persone, nonché acqua per l’agricoltura in tutta la provincia. Continuamente a rischio crollo fin dalla sua costruzione, dal 2016 vede delle aziende italiane impegnate nella sua riparazione tra cui la Trevi (di Cesena) e la Bdm (di Roma). Nel 2016, dato l’elevato rischio della zona, gli operai lavoravano protetti da 500 bersaglieri del Sesto reggimento di Trapani (sostituiti da altri reggimenti ogni sei mesi).

Dagli Assiri a Saddam Hussein

La città di Mosul viene finalmente liberata il 9 luglio 2017. La liberazione avviene per mano di una coalizione guidata da raid aerei degli Stati Uniti con il supporto terrestre delle milizie curde dei peshmerga e dell’esercito iracheno.

Quella che verrà denominata «la battaglia di Mosul» dura nove mesi, gli ultimi tre in particolare sono quelli più intensi, con gli scontri più aspri e sanguinosi. Questi mesi verranno poi ricordati come i «100 giorni di Mosul».

Il numero dei «danni collaterali» è drammatico. Non si sa con precisione quanti civili rimangano uccisi durante i bombardamenti, ma le stime parlano di oltre 500 persone decedute e oltre 300 mila senza una casa. Gran parte della città, specialmente il suo centro storico, oggi è un cumulo di macerie.

Fondata dagli Assiri sulle rive del Tigri, poi conquistata dagli Arabi, occupata dai Mongoli, dominata dagli Ottomani, a Mosul hanno convissuto per secoli cristiani, musulmani, yazidi, armeni, curdi ed ebrei. Qui, nel 1743, migliaia di uomini di religioni diverse si coalizzarono e combatterono con successo contro lo Shah di Persia che aveva deciso di invadere la città.

Prima dell’occupazione dell’Isis, Mosul aveva 38 quartieri, ognuno con una propria connotazione e un proprio mercato, un’incredibile alternarsi di moschee e chiese a pochi passi l’una dall’altra, come quelle di Al-Tahira e di San Tommaso. Proprio dell’apostolo Tommaso si dice che sia vissuto qui durante il suo viaggio verso l’India. Qu, inoltre, c’erano gli antichissimi mausolei di Giona e San Giorgio, anche questi distrutti dall’Isis. Conosciuta come «la Città dei profeti», è stata meta di carovanieri e viaggiatori come Ibn Jubayr (1145-1217), che nel suo libro Il Viaggio di Ibn Jubayr, scritto nel 1185, ne descrisse la bellezza e particolarità.

La parola Mosul deriva da Al Mawsil che vuol dire «collegamento» o «unione», perché questo è stata per secoli, un ponte tra Iraq, Turchia, Siria e Kurdistan, almeno fino ai giorni nostri.

Mosul comincia a vivere un grande cambiamento durante il regime di Saddam Hussein. Nel 1980 Saddam dichiara guerra all’Iran e attua quello che diventa un processo di «arabizzazione» dello stato, molte famiglie non sunnite scappano in Turchia e Siria. Inoltre, per non essere inviati in guerra, fuggono oltre confine anche moltissimi curdi e yazidi. In due decenni la popolazione sunnita di Mosul raggiunge l’80%. Questa maggioranza renderà la conquista di Mosul, da parte del califfato, ancora più semplice, come vedremo tra poco.

Raccontare Mosul

Entro a Mosul in automobile. Per arrivarci dal Kurdistan supero cinque check point: due dei quali peshmerga, le milizie curde, uno delle forze di sicurezza irachene e uno dell’esercito iracheno.

Il livello dei controlli di sicurezza è ancora molto alto, in uno dei posti di blocco intervisto Mohammed, un peshmerga che ha combattuto contro l’Isis.

Gli chiedo il perché di così tanta sicurezza, visto che Mosul è stata liberata. «Ci sono – mi spiega – ancora molte cellule dormienti da queste parti, non tutti i terroristi sono stati sconfitti, alcuni semplicemente sono scappati e si nascondono».

«Mohammed, tu sei curdo e peshmerga. Hai combattuto in territorio iracheno per liberare delle città. Tra voi e gli iracheni di origine araba c’è sempre stata un po’ di diffidenza, come ti sei sentito in quei giorni a questo proposito? – gli domando -. E poi quanto è stato difficile combattere contro l’Isis?».

«Hai ragione – replica Mohammed -, tra di noi i rapporti non sono stati sempre buonissimi, ma più per ignoranza. Quando ci siamo trovati a combattere fianco a fianco con i soldati iracheni alla fine abbiamo fatto amicizia, poi noi peshmerga combattiamo sempre contro gli invasori. Quando sono arrivati quelli del califfato per difendere le città sono accorsi vecchi peshmerga da tutti i villaggi curdi del paese, tutti pronti ad andare in prima linea, alcuni avevano 70 anni.

Devo dire che i primi mesi di combattimento sono stati difficili, ma solo per il fatto che loro erano davvero ben armati. Avevano armi automatiche e mezzi pesanti, noi spesso ci guardavamo negli occhi e ci chiedevamo da dove venissero tutte quelle armi, chi le aveva date ai Daesh? Le cose sono cambiate quando siamo stati dotati di Milan tedeschi (razzi anticarro, ndr), allora abbiamo cominciato a respingerli e guadagnare terreno. Gli uomini del Daesh non erano poi questi grandi combattenti, molti di loro erano spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una volta ben equipaggiati e con l’aiuto del supporto aereo, abbiamo combattuto e vinto».

Quando imbocco la strada principale di Mosul si nota subito la devastazione. L’ingresso è una grande discarica di rifiuti dove pascola qualche capra. Più oltre si vedono gli scheletri dei palazzi sventrati dai bombardamenti.

Il prezzo pagato dai civili

Il mio interprete si chiama Sardar Abudlahh, ha lavorato qui con i giornalisti arrivati durante e dopo la liberazione, mi racconta:

«I giorni dopo la liberazione arrivarono qui in tantissimi, Tv straniere e giornalisti. Entravano in città dentro le jeep dell’esercito e posavano facendosi fotografare con elmetti e giubbetti antiproiettile militari. In realtà poi facevano solo qualche minuto di registrazione e andavano via, pochissimi sono andati tra i vicoli a parlare con la gente di questo luogo, chiedendo quale fosse il loro stato d’animo dopo la liberazione.

Le vittime civili sono state tantissime, Mosul è stata liberata sì, ma a che prezzo? Alla gente che ha perso la famiglia per colpa dei bombardamenti, alla gente che non aveva colpa di questa guerra, quasi nessuno ha chiesto che cosa avesse da dire.

C’è stata anche una grande campagna mediatica attorno a tutto questo. In quei giorni sembrava che l’unica cosa importante da dire fosse: siamo degli eroi, abbiamo sconfitto i terroristi del Daesh e riconquistato Mosul! I giornalisti hanno continuato a venire per i successivi due mesi, poi pian piano hanno cominciato a dimenticarsene, come vedrai tu stesso per le strade».

Nessuno qui chiama gli uomini del califfato «Isis» ma «Daesh» (acronimo di Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato islamico dell’Iraq e della Siria). Per la gente del luogo la parola «Isis» risulta offensiva perché la connotazione «Stato islamico» potrebbe far pensare che tutto l’islam sia coinvolto con il terrorismo. Chiunque incontri ci tiene molto a ribadirmi questo concetto.

Camminando per i vicoli distrutti della città vecchia di Mosul vedo tanti ragazzini che scavano tra le macerie: cercano rame, ferro, acciaio, qualsiasi cosa possano poi rivendere per qualche dollaro.

La settimana prima del mio arrivo, mi raccontano, un bambino di 6 anni è saltato in aria per aver calpestato una bomba, fino a quel momento inesplosa. Questi incidenti sono molto comuni, più volte gli agenti di polizia mi ribadiscono di non entrare troppo all’interno degli edifici crollati, per l’elevato pericolo di esplosioni o cedimenti.

Le storie di Mahmoud e Amir

In uno dei tanti vicoli incontro Mahmoud. Nato e cresciuto qui, non ha mai voluto abbandonare Mosul, mi mostra le cicatrici inferte da un coltello e racconta:

«Queste me le hanno fatte i Daesh, dicevano che i miei pantaloni erano troppo corti, così mi hanno portato nella chiesa armena che usavano per le esecuzioni. Pensavo che mi avrebbero ucciso, poi mi hanno picchiato e con un coltello, mi hanno fatto questi tagli sulle caviglie. Così dovrò ricordare per sempre di indossare pantaloni più lunghi».

Mahmoud conosceva tutti in questo lato della città, camminando per le rovine mi racconta porta per porta la storia delle famiglie che ci abitavano, fino ad arrivare a quella che era casa sua. Anche lui ha perso una figlia, l’ultima nata della famiglia, aveva 5 anni. Mi mostra commosso una piscina gonfiabile, unico oggetto rimasto dei giocatoli della piccola. Subito dopo si fa molto serio e comincia a imprecare contro i terroristi e contro l’America. Urlando mi dice:

«I miliziani del Daesh avevano occupato questa che era casa nostra e poi gli americani con le loro bombe hanno distrutto tutto. Le bombe americane hanno ucciso mia figlia e tanti ancora sono sotto le macerie ed è impossibile tirarli fuori. Perché? Cosa abbiamo fatto noi? Io avevo amici cristiani, eravamo tutti amici, vivevamo in pace, noi non siamo terroristi, perché?».

Ci vuole un po’ di tempo per far calmare Mahmoud e continuare a camminare insieme. Dopo ogni vicolo, a noi si aggiunge qualcun altro: sono le persone che vogliono raccontare la propria storia. Vogliono ribadirmi che loro non hanno niente a che fare con i terroristi estremisti, che l’islam è una religione di pace.

Tra le persone che si sono aggiunte al nostro cammino c’è Amir. Ha lavorato per anni come falegname, anche lui ha perso casa e la bottega durante i raid americani. Amir mi mostra le rovine di una scuola e, con le lacrime agli occhi, mi dice che lì ci andava suo figlio, anche lui morto durante i bombardamenti, aveva 8 anni.

Racconta: «In questa scuola ci andavano sia cristiani che musulmani, siamo sempre stati rispettosi delle idee e religioni altrui, poi sono arrivati i miliziani del Daesh e poi le bombe».

Fa un gran sorriso e conclude: «Le bombe non conoscono religione».

Mentre saluto Amir si avvicina un uomo, si chiama Fares Abdurazal. Mi dice che si è sparsa la voce che sto intervistando persone per la città e vuole raccontarmi anche lui qualcosa.

Storia di Fares

Fares lavora per il municipio di Mosul, si occupa di registrare e controllare gli indirizzi di residenza. Gli chiedo perché Al-Baghdadi e i suoi uomini hanno scelto di conquistare proprio Mosul e come hanno fatto a rimanerci così tanto.

Mi risponde: «Non è che gli uomini del Daesh volessero conquistare solo Mosul, loro volevano conquistare quanto più potevano. Ci sono riusciti meglio qui perché la maggior parte delle persone è di fede sunnita, e purtroppo all’inizio hanno trovato molto supporto in questa maggioranza. Vedi, molti sono in disaccordo con il governo iracheno dominato dagli sciiti. All’inizio tanti hanno visto negli uomini del Daesh la speranza di ristabilire un governo sunnita e un islam più tradizionale. Anche durante il periodo di Saddam si verificò la stessa cosa, essendo sunnita, prese tantissimi voti da Mosul».

«E tu durante giorni delle battaglie dov’eri? Cosa facevi?», gli domando. «Io mi sono dovuto nascondere. Ero ricercato dai miliziani del Daesh come tutti quelli che lavoravano per il governo. Insieme a yazidi e cristiani eravamo il primo bersaglio. Sono scappato con la mia famiglia prima sulle montagne e poi in Kurdistan. Sono tornato perché questa è casa mia e spero che un giorno questa città possa essere ricostruita». Gli chiedo ancora: «Mi hai detto che qui i terroristi hanno avuto molto supporto, so che alcune persone di Mosul si sono arruolate nelle loro file, è vero? Tu ne conosci qualcuno?». «Purtroppo è vero, la maggior parte però veniva dai piccoli villaggi di campagna piuttosto che dalla città, era più facile fare il lavaggio del cervello a loro. Molti poi hanno scoperto quali erano le vere intenzioni dei miliziani del Daesh, hanno visto come agivano, ma a quel punto era troppo tardi per tirarsene fuori, ora sono morti o in galera. Io ne conoscevo alcuni, si sono uniti ai terroristi perché erano ignoranti, noi sapevamo che sarebbero stati una disgrazia. Hanno portato anche vergogna alle loro famiglie perché adesso anche loro sono sotto controllo, 24 ore al giorno. Magari sono innocenti, ma il governo teme che si risveglino cellule dormienti e io so che ce ne sono ancora tante».

«Tu lavori per il governo locale, c’è un piano di ricostruzione?». «Una proposta per un piano di ricostruzione venne fatta subito dopo la liberazione ma, come vedi, non è stato fatto nulla. Non penso che il governo iracheno riuscirà mai a ricostruire qualcosa senza un aiuto dall’estero, ma penso che nemmeno quello arriverà. Sembra che si siano tutti dimenticati di Mosul». Poi aggiunge: «Io credo che sia l’America quella che dovrebbe ricostruire Mosul. Io non ce l’ho con gli americani, ma sono loro che hanno distrutto la città con i bombardamenti. È vero: ci hanno aiutato a sconfiggere il Daesh, ma non dimenticarti che hanno anche ucciso più di 500 innocenti e tanti sono ancora sotto le macerie. Le chiamano vittime collaterali, ma erano le nostre famiglie e amici. Non ce l’ho con loro, ma chi distrugge poi dovrebbe ricostruire. Sarebbe un bel gesto e per noi vorrebbe dire tantissimo».

Succo di melograno (ma nessuna ricostruzione)

Mosul oggi versa in uno stato di povertà estrema: non essendoci ricostruzione, non c’è lavoro. Sono circa 300mila le persone che sono scappate da qui. Tanti vanno a Erbil, capitale del Kurdistan, sperando di trovare un lavoro, altri tentano di passare illegalmente il confine con la Turchia.

Le Nazioni Unite hanno stimato che per ricostruire la città sarebbe necessario un miliardo di dollari. Purtroppo, Mosul non è l’unica emergenza che necessita di aiuti umanitari in Iraq. C’è un altissimo numero di rifugiati che arriva dalla Siria, senza contare i cosiddetti «rifugiati interni», cioè tutte quelle persone a cui è stata distrutta la casa o il villaggio durante l’occupazione dell’Isis e che – da quattro anni – vivono nelle tende, nei campi profughi.

Una cosa che non ho incontrato a Mosul, a differenza di molti altri luoghi in guerra, è stato qualcuno che mi chiedesse denaro per strada, cosa molto comune in situazioni del genere. Ho trovato invece nei racconti della gente, insieme alla tristezza, molta fierezza. Ho trovato molta ospitalità, gentilezza e anche i primi segni di speranza.

A gennaio 2019 l’Università di Bologna ha annunciato una campagna di scavo archeologico sulle rovine di Ninive, l’antica capitale Assira che sorgeva proprio nell’odierna Mosul.

La Trevi ha vinto un ulteriore appalto per il prolungamento dei lavori sulla diga di Mosul, fondamentale per l’approvvigionamento idrico ed elettrico della città, che – al momento – continua a essere dipendente dai generatori diesel.

Fuori dal centro storico distrutto un piccolo nuovo centro sta rinascendo, i commercianti hanno trovato uno spazio dove sistemare il bazar, i giovani sono tornati a iscriversi all’Università e i ragazzini salgono in cima alle colline per farsi dei selfie con la valle del Tigri alle spalle. Le giovani coppie sulle panchine bevono succo di melograno fresco comprato dai venditori ambulanti, che piano piano stanno riprendendo a vendere i propri prodotti in giro.

Scene di vita normali in un luogo che, negli ultimi anni, di normale ha avuto pochissimo.

Lasciando Mosul, tra i saluti e le raccomandazioni di chi ho intervistato, mi si chiede di raccontare di come sono stato accolto. Mi si chiede di dire, a chi incontrerò, che qui sognano un giorno di ospitare nuovamente viaggiatori e scambiare con loro due chiacchiere davanti a un bicchiere di tè. Sperando che Mosul possa tornare quello che è stata, un collegamento tra genti e culture diverse.

Angelo Calianno

L’autore

Nato a Cisternino (Brindisi), Angelo Calianno da anni scrive da luoghi in conflitto in Medioriente, Asia e Africa. Per MC ha scritto un reportage dall’Afghanistan pubblicato a maggio 2018 e reperibile sul sito della rivista.


Cronologia essenziale

Mosul, non rimasero che macerie

 

  • 1916, Maggio – Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra si dividono i territori del Medio Oriente (accordi di Sykes-Picot). All’inizio Mosul, praticamente più vicina alla Siria che a Baghdad, è sotto il controllo francese. Il crescente interesse per il petrolio iracheno da parte degli inglesi, porta, dopo una serie di trattative, al passaggio della città sotto il controllo del Regno Unito.
  • 1932 – Il Regno Unito instaura una monarchia sotto il proprio controllo. Nasce lo stato dell’Iraq.
  • 1950 – Dopo la creazione di Israele, le famiglie ebree di Mosul lasciano la città per emigrare nel nuovo stato.
  • 1967 – Mosul fonda la sua Università, la seconda più grande in Iraq dopo quella di Baghdad.
  • 1979, Luglio – Dopo diversi tentativi di colpi di stato sin dalla fine degli anni ‘60, il governo iracheno viene rovesciato da Saddam Hussein, che rimarrà al potere per oltre 20 anni. Di fede sunnita, Saddam riceve molti consensi dalla città di Mosul.
  • 1980, Settembre – L’Iraq dichiara guerra all’Iran (sciita). Molti dei curdi (soprattutto di fede cristiana), sciiti e yazidi, fuggono da Mosul per non essere mandati al fronte. La maggior parte si rifugia in Siria e Turchia.
  • 2003, Marzo – Gli Stati Uniti e gli alleati invadono l’Iraq (seconda Guerra del Golfo). Oltre Baghdad, gli altri punti cardine dello stato sono Kirkuk, per le risorse petrolifere e Mosul per quelle idroelettriche, petrolifere e logistiche. I dintorni di Mosul sono teatro di scontri tra le forze leali a Saddam Hussein e i soldati statunitensi, coadiuvati dalle milizie peshmerga. Nell’aprile 2003 le forze governative irachene sconfitte abbandonano Mosul. Le forze speciali americane tengono sotto controllo la città per poi lasciarla sotto il presidio peshmerga.
  • 2014, Giugno – Gli uomini dell’Isis occupano Mosul e ne fanno la loro capitale simbolica. Rimangono nella città fino alla sua liberazione del luglio 2017. Durante questa occupazione stilano una propria «Costituzione» da far rispettare agli abitanti della città. Per chi si oppone sono previste punizioni fisiche e detenzione; per le violazioni giudicate più gravi, si viene giustiziati.
  • 2017, Luglio – Dopo mesi di assedio, Mosul è liberata. Difficile dare una stima della sua popolazione attuale: un grande numero di persone, registrate come residenti, in realtà si è spostato a Erbil, per cercare lavoro, o illegalmente in Turchia. Le ultime stime del 2017 contavano 1 milione e 377 mila abitanti; altri 700 mila sono scappati o sono stati uccisi durante la guerra contro l’Isis. Oggi la maggior parte della città e della sua economia sono da ricostruire.

Angelo Calianno

Fonti: BBC World, Washington Post.


I protagonisti della battaglia di Mosul

Al-Baghdadi, i Peshmerga e gli altri

Al-Baghdadi – Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Al-Badri, nato a Samarra in Iraq nel 1971. Al-Baghdadi nasce da una famiglia della classe media irachena di fede sunnita. Cresce in un sistema sociale tribale diviso in clan, il suo in particolare si dichiara direttamente discendente del profeta Maometto. Per la sua stretta osservanza delle regole islamiche viene soprannominato dai suoi familiari «il credente». Prosegue poi gli studi della fede islamica fino a prendere una laurea con specializzazione sugli studi coranici all’Università di Baghdad. Dopo la laurea insegna in alcune moschee attorno Baghdad, ma nel 2003 Al-Baghdadi diventa a tutti gli effetti un militante combattente. Viene successivamente arrestato a Falluja e imprigionato per 10 mesi a Camp Bucca, prigione irachena gestita dagli Usa.

Durante la prigionia predica il Corano con lunghi sermoni sull’islam e la guerra contro l’Occidente, proprio in carcere comincia ad avere i primi seguaci. Durante la detenzione conosce anche alcuni di quelli che successivamente saranno i suoi uomini in Siria. Una volta libero, combatte in Siria a fianco del gruppo terrorista Al-Nusra. Fonda l’Isis, che, dopo varie divergenze, viene espulso da al-Qaeda.

Il nuovo gruppo comincia a conquistare territori nell’Est della Siria e nell’Ovest dell’Iraq, fino a Mosul, dove – nel luglio del 2014 – Al-Baghdadi, davanti alle telecamere, si auto proclama Califfo dello Stato islamico.

Nell’estate del 2017 la Russia dichiara la morte di Al-Baghdadi, ucciso in un raid aereo a Raqqa, in Siria. Tuttavia, non ci sono prove evidenti. Il 23 agosto 2018 viene divulgato un audio con la voce del leader dell’Isis che incita alla lotta contro gli infedeli. Anche se l’audio non è mai stato autenticato, molti pensano che Al-Baghdadi sia ancora vivo e si nasconda tra Siria e Iraq.

Peshmerga – I peshmerga sono dei combattenti e guerriglieri curdi. Il loro gruppo pare si sia formato dopo il crollo dell’Impero ottomano agli inizi del 1900. Per anni gruppo di guerriglieri indipendenti sono diventati, di fatto, l’esercito della regione indipendente del Kuridstan in Iraq. I peshmarga annoverano tra le proprie file anche diverse donne che hanno combattuto, oltre che contro l’Isis, anche a fianco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein nel 2003. La parola peshmerga vuol dire letteralmente «prima morte» e sta a significare la volontà di essere sempre i primi a combattere, a sacrificarsi e pronti a morire.

Italia in Iraq – Il totale delle forze di coalizione anti-Daesh, tra Iraq e Siria, è di 74 nazioni. La presenza italiana è la seconda come numero, subito dietro a quella degli Stati Uniti. Oggi l’Italia ha 700 soldati e 100 carabinieri dislocati su 11 basi. Il contingente italiano si occupa dell’addestramento e formazione delle truppe locali, nonché dello sviluppo e installazione di sistemi di sicurezza. Molti dei peshmarga curdi sono stati addestrati dagli italiani nella base di Erbil.

Coalizione anti Isis – La coalizione per la liberazione di Mosul fu guidata dagli aerei statunitensi con la partecipazione dell’aviazione australiana, il supporto delle forze armate irachene e quelle curde dei peshmerga. Il primo febbraio 2019 l’Australia ha ammesso alla BBC, pubblicamente per la prima volta, che durante l’attacco di Mosul le bombe della coalizione hanno ucciso diversi civili. Amnesty International ha accusato l’esercito iracheno e gli Stati Uniti, per l’enorme numero di civili uccisi durante i bombardamenti e di gravi violazioni dei diritti umani. A oggi non è stato designato alcun responsabile.

Angelo Calianno

Fonti: BBC, The Guardian, difesa.it, Tolo News, The Atlantic.




Libia 2011: l’anno del non ritorno

Dossier scritto da Angela Lano e curato da Marco Bello


Indice

Introduzione: Intrico libico.
•  La voce del ricercatore.
•  L’insurrezione del 2011 e l’intervento della Nato: Primavera o inverno?.
•  Preparazione all’estero.
•  La rivolta della Cirenaica.
•  La risoluzione Onu e la Libia «liberata».

Cosa pensano i libici all’estero.
•  Chi ha iniziato la rivolta?
•  Italia – Libia, amici o nemici?
•  Come vediamo l’Italia.

Danni economici
Breve cronologia.

Il complotto dell’Occidente: Attacco alla Libia A chi ha giovato?
•  Francia principale mandante?
•  Le riserve auree di Gheddafi nel mirino.
•  Sostegno dei ribelli e protezione dei civili?

Dopo la guerra il caos: Il paese non paese.
•  Islamismo politico nella rivolta.
•  Jihadismo «infiltrato».

Nota redazionale.


Introduzione: Intrico libico

Tentare di ricostruire cause ed effetti, storici e attuali, del caos libico non è affatto facile né scontato: tanti sono gli attori e gli interessi in gioco, quante le linee di analisi e le prospettive di lettura. Dal 2015 a oggi, nell’ambito di una ricerca accademica che stiamo svolgendo sulla rivolta in Libia del 2011, abbiamo incontrato decine di libici sia in Tunisia sia in Europa (per ragioni di sicurezza non ci siamo recati in Libia). Ognuno di essi ci ha fornito versioni e spiegazioni diverse del dramma libico: dalla questione delle qabile (tribù o gruppi etnici tradizionali – ndr) e lotte interne, alle politiche del vecchio regime di Muammar Gheddafi, alle interferenze di agende esterne (occidentali e arabe), all’islamismo radicale.

Ci sono quelli che vedono in Gheddafi e nel suo quarantennale regime la responsabilità del disastro, e altri che puntano il dito contro i piani neocoloniali occidentali, quelli volti a cambiare regime per accaparrarsi le risorse e smontare i piani panafricani del Colonnello. C’è chi lo odia a morte e chi lo esalta. Chi ringrazia la Nato per l’aiuto alla rivolta (tramite i bombardamenti) e l’appoggio ai ribelli, e chi invece chiede l’apertura di un’inchiesta per crimini contro l’umanità nei confronti della stessa Nato, Usa, Francia, Gran Bretagna. C’è chi vede nelle (contraddittorie) politiche panafricane del Fratello Leader (sempre Gheddafi) e nei suoi progetti di dinaro d’oro africano le vere ragioni del rovesciamento del regime.

Dopo anni di letture, incontri, interviste e analisi di dati, siamo portati a credere a un insieme di cause, interne ed esterne, sulle quali hanno prevalso, tuttavia, le agende occidentali per il cambio di regime.

L’effetto evidente di tante e molteplici azioni è che il paese, da sviluppato e relativamente prospero nell’era gheddafiana, ora affonda sempre di più nella tirannide di milizie, gruppi criminali, qabile, partiti, formazioni islamiste dalle più violente alle «moderate», ciascuno con propri progetti e obiettivi che poco hanno a che fare con il bene comune
dell’ex jamahiriyya (Al-Jamāhīriyyah al-ʿArabiyyah al-Lībiyyah, una sorta di «repubblica delle masse»).

Alla fine, come molti degli intervistati hanno tristemente ammesso, pare di poter dire che «si stava meglio, quando si stava peggio», cioè quando c’era Gheddafi.

18/02/2011, Tripoli, sostenitori di Gheddafi. © MAHMUD TURKIA / AFP

La voce del ricercatore

Londra, febbraio 2019. Incontriamo Tarek Megerisi, ricercatore anglo-libico, presso il suo ufficio all’European council on foreign relations di Londra. È figlio di un libico e di una palestinese, e l’unica volta in cui ha potuto recarsi in Libia è stato nel 2011: «Non sono né pro governo di Tripoli né pro governo di Tobruk (i due governi che si contendono il paese, nda) – ci tiene a premettere -, ma entrambi mi considerano persona non gradita, quindi non posso più andarci. Gheddafi era un dittatore, ma vista la situazione attuale, la qualità della vita dei libici era migliore sotto il suo regime che oggi. Abbiamo sostituito un Gheddafi con altri dieci».

Questa amara constatazione non nasconde l’avversione per il regime di Gheddafi, nelle cui politiche Megerisi, come altri, vede la responsabilità della tragedia libica attuale, non salvando nulla: neanche lo sviluppo degli anni ’70, dovuto alle ingenti rimesse petrolifere.

Per il ricercatore, il Colonnello era una figura egocentrica che per 40 anni ha concentrato su di sé ogni potere, agendo come un padre padrone, usando la vecchia e collaudata tattica del divide et impera per tenere a bada le qabile e le varie tendenze eterogenee e centrifughe del paese. «Ha fatto solo danni – afferma Megerisi -, portando via proprietà e capitali alle classi medie e alte e distribuendole a quelle popolari ha imposto una sorta di socialismo dei beni di produzione e ha spazzato via l’iniziativa privata; ha creato problemi all’estero, in vari stati africani, imponendo le sue visioni e interferendo nella vita politica di vari governi. La gente non ne poteva più e ha colto l’occasione per ribellarsi, chiedendo l’aiuto militare alla Nato. Aiuto che è stato fondamentale per la liberazione dal regime».

Questa lettura senza sconti dei 40 anni di jamahiriyya è condivisa da diversi libici intervistati, scrittori e giornalisti, economisti, impresari, ex funzionari di ambasciata, islamisti, giuristi e così via. Ma è avversata da altri, che vedono le reali cause del caos attuale nelle decennali sanzioni Usa, che hanno portato le gravi crisi economiche, e quindi anche politico-sociali, del paese, nei piani economici e strategici franco-britannico-statunitensi, ma anche di Qatar e Emirati Arabi Uniti.

 Angela Lano

Bengasi, manifestazione contro Gheddafi in marzo 2011. © ROBERTO SCHMIDT / AFP


L’insurrezione del 2011 e l’intervento della Nato: Primavera o inverno?

La sollevazione popolare libica del 2011 fu diversa dalle altre Primavere arabe. Preparata all’estero da esuli. Le prime rivolte scoppiano a Bengasi, da sempre città ribelle al regime di Gheddafi. Per impedire il «bagno di sangue» l’Onu autorizza un intervento militare occidentale. Gheddafi viene catturato e ucciso dai rivoltosi. La motivazione della Nato è «proteggere i civili libici», vittime di massacri e stupri di massa.

In concomitanza con le «primavere arabe» in Tunisia, Egitto e altri paesi, anche la Libia del colonnello Muammar al-Gheddafi a febbraio del 2011 viene travolta dalla rivolta «popolare»: le proteste scoppiano a Bengasi e si diffondono in altre città, scatenando scontri tra le forze di sicurezza governative e gli insorti. A marzo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizza una no-fly zone sulla Libia e attacchi aerei per «proteggere i civili» di cui la Nato assume il comando, sotto lo slogan «responsibility to protect» (responsabilità per proteggere). A luglio, l’International contact group on Libya riconosce ufficialmente come governo legittimo il principale gruppo di opposizione, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), formatosi a febbraio 2011. Ad agosto, formazioni militari di rivoltosi addestrate da Francia, Gran Bretagna, Qatar e Usa, delle quali fanno parte membri di al Qaida, appoggiati dai bombardamenti della Nato, entrano a Tripoli dichiarandone la «liberazione».

Delle gesta di queste truppe, parla Sam Najjar, un combattente libico-irlandese, nel suo libro «Soldier for a summer». Con Najjar abbiamo dialogato sui social media, mentre abbiamo incontrato il fratello Yusuf, a Manchester, nell’agosto 2015, anche lui reduce dai combattimenti in Libia. La città britannica è uno stato dentro lo stato, rifugio e sede di varie attività dell’islamismo politico, dal più moderato al più pericoloso e aggressivo (cfr. MC ottobre 2017).

Le rivolte arabe non sono state tutte uguali, ognuna si è svolta con dinamiche ed esiti differenti: per quelle in Tunisia ed Egitto si è trattato di autentiche sollevazioni popolari di massa, per quelle libica e siriana è diverso, e gli effetti di quegli eventi saranno duraturi.

La tendenza, scrive la professoressa Michela Mercuri nel suo libro «Incognita Libia» è d’inserire «la rivolta libica nell’ambito delle cosiddette primavere arabe, i movimenti di protesta che, tra il 2010 e il 2011, hanno interessato molti stati del Nord Africa e del Vicino Oriente. Tuttavia, non è possibile assimilare tout court i rivolgimenti del 2011 a un unico grande movimento. […] Ogni rivolta ha avuto le sue cause, i suoi sconvolgimenti e i suoi esiti e per questo, oggi, i paesi che all’inizio avevamo indistintamente chiamato “Primavera araba” appaiono come un prisma mutevole in costante evoluzione. […] Da questo punto di vista sarebbe un errore interpretare gli eventi libici del 2011 come mere contingenze di quanto stava accadendo negli stati confinanti. Nell’ex jamahiriya le proteste hanno assunto una connotazione peculiare rispetto a quelle degli altri paesi interessati dal fenomeno e per questo la Libia rappresenta una sorta di “eccezione regionale” sia per il modo in cui le rivolte hanno avuto inizio sia per come si sono evolute sia, infine, per le loro conseguenze».

© MAHMUD TURKIA / AFP

Preparazione all’estero

In particolare, la rivolta libica è una sollevazione che, seppur partita da un diffuso malcontento generato da repressione, crisi economica, corruzione e da richieste di maggiori libertà, è stata preparata per anni all’estero – da esuli libici in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti -, e poi prontamente infiltrata da forze dell’islamismo radicale sia presenti sul campo sia arrivate da fuori, appoggiate militarmente e finanziariamente da Parigi, Londra, Washington, Abu Dhabi e Doha, così come molti mercenari. Una sorta di complotto organizzato con pazienza da varie forze e attori, libici e internazionali, che hanno aspettato il momento opportuno per agire.

Questo momento che si presenta il 15 febbraio 2011, con l’arresto da parte del regime dell’avvocato Fathi Tarbel, legale delle famiglie dei prigionieri massacrati nella prigione di Abu Salim il 26 giugno 19961. È il casus belli che scatena le rivolte a Bengasi caratterizzate da scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza che causano diversi morti. Le proteste coinvolgono anche El Bayda, nella Libia orientale, dove vengono uccisi due manifestanti, e Zintan, a Sud Ovest di Tripoli.

Le manifestazioni vengono organizzate via social network come in altri paesi arabi. Il loro obiettivo è chiedere riforme in campo economico, sociale, abitativo, lavorativo, e lottare contro la corruzione. La popolazione scesa nelle piazze non chiede un cambio di regime. Il 17 febbraio, il quinto anniversario delle manifestazioni a Bengasi contro le vignette anti islamiche pubblicate su un giornale danese2, viene dichiarato «Giorno della collera». Nel frattempo, però, lo slogan è diventato il regime change, progetto caro a vari gruppi di oppositori, e a Usa, Gran Bretagna e Francia.

Sulla scia delle rivolte nei paesi vicini, nel gennaio del 2011 Gheddafi ha avviato alcune riforme economiche: riduzione dei dazi, delle tasse sul cibo importato e su altri prodotti, con l’intento di evitare lo scatenarsi del malcontento, ma la mossa risulta infruttuosa.

I giornali occidentali e Al Jazeera parlano di «primavera libica», ma a sollevarsi contro il regime, più che i giovani o i lavoratori (che in Libia sono prevalentemente stranieri), come invece sta accadendo in Egitto e in Tunisia, sono le qabile, in particolare quelle della Libia orientale da sempre avverse al governo, gruppi progressisti e liberali, e islamisti. Ovvero i vecchi nemici di Gheddafi. Quando infatti la popolazione vede il degenerare degli eventi e le manovre occidentali, scende in piazza a sostenere il governo contro quella che pare a molti un’interferenza esterna.

Ajdabiya, ribelli sotto attacco delle forze di Gheddafi. © ARIS MESSINIS / AFP

La rivolta della Cirenaica

Bengasi, la «vecchia strega» anti jamahiriyya: le prime manifestazioni contro il regime partono da lì, dalla capitale della Cirenaica (Nord Est) e sono violente. Gheddafi chiamava Bengasi la «vecchia strega» in quanto ribelle e spina nel suo fianco: è infatti abitata da qabile che gli sono ostili e filo monarchiche3.

Alcuni tra i libici intervistati e che provengono da quell’area raccontano che il rais puniva questa regione tenendola in condizioni peggiori di altre e investendo meno nella ridistribuzione dei proventi del petrolio. Un alto tasso di disoccupazione e carenza di appartamenti aveva contribuito a creare una situazione pesante.

Nonostante la Rivoluzione del settembre 1969 nella quale giovani ufficiali guidati da Gheddafi presero il potere senza spargimento di sangue, deponendo Re Idris, e la successiva lotta contro il qabilismo, considerato una delle cause di arretratezza del paese, la Libia ha continuato a essere dominata da diverse e potenti famiglie in antagonismo e in conflitto tra di loro. Famiglie che il Fratello Leader riusciva a gestire con il metodo «del bastone e della carota» e con la politica del divite et impera.

Alcuni studiosi leggono, infatti, la Rivoluzione del 1969 come la rivolta di alcune qabile contro quelle della Cirenaica e dei Senussi, altri come un colpo di stato contro il potere del qabilismo in generale. La rivolta del 2011 sarebbe una «controrivoluzione» o ripresa del potere delle vecchie forze.

Di fatto il Colonnello, abbattuto il regime del Regno senussita alleato dell’Occidente, e il sistema di clientele, ne aveva creato uno nuovo che la Cirenaica, con le sue potenti e storiche famiglie, non aveva mai pienamente accettato. Anche il nuovo assetto, come affermano molti libici incontrati, si basava sul clientelismo e l’appartenenza a questo o a quel clan, e la distribuzione dei proventi del petrolio era vincolata all’aderenza e alla fedeltà alla Rivoluzione e a Gheddafi.

Dunque, la Cirenaica, penalizzata dal regime e piena di risentimento, dà vita alla rivolta, che poi si estende al resto del paese. Scrive Mercuri: «Nel sistema redistributivo troppo era stato preso dai fedeli del Colonnello; la sua tribù, assieme ad altre come quella dei Meqarha del compagno di rivoluzione Abdelsalam Jalloud, poi “allontanato” dal rais, avevano monopolizzato pressoché tutti i settori dell’economia al prezzo di sanguinose repressioni. Per tutti questi anni i poteri della Cirenaica marginalizzati e repressi nel risiko tribale, hanno covato la voglia di prendersi una storica rivincita sul colpo di stato, considerato dai fieri senussi un golpe dei libici occidentali».

La risoluzione Onu e la Libia «liberata»

La comunità internazionale risponde a quello che i media definiscono «bagno di sangue», repressione violenta da parte del regime contro i manifestanti, con la risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, il 26 febbraio 2011, che impone sanzioni a Gheddafi e chiede alla Corte di giustizia internazionale di indagare sulla repressione contro i cittadini. Poco dopo giustifica gli attacchi aerei e richiede l’immediato cessate il fuoco, imponendo anche il divieto dei voli sullo spazio aereo libico e ulteriori sanzioni.

La lega araba appoggia la risoluzione Onu e il Qatar e gli Emirati Arabi forniscono aeroplani di supporto alla Nato.

Il 20 ottobre successivo, Gheddafi viene catturato e ucciso brutalmente, nel frattempo, altri combattenti prendono Sirte, sua città natale. Il 23 ottobre, il Cnt dichiara la Libia ufficialmente «liberata» e annuncia i piani per indire democratiche elezioni entro otto mesi. Nel novembre 2011, con l’accusa, mai provata, di «crimini contro l’umanità», viene catturato e imprigionato Saif al-Islam, il figlio di Muammar, nonché intellettuale e riformista, che negli ultimi anni ha lavorato per un’apertura libica verso i diritti politici e civili e ha scarcerato numerosi oppositori dell’islamismo radicale imprigionati dal regime.

Ufficialmente, la fine della guerra contro il regime di Gheddafi avviene nell’ottobre del 2011, propagandata come una «vittoria» dal presidente francese Nicolas Sarkozy, dal primo ministro britannico David Cameron e dal segretario di stato Usa Hillary Clinton, di cui si ricorda il commento, accompagnato da risata: «Siamo venuti, abbiamo visto, è morto», in riferimento all’uccisione del Colonnello.

Secondo le loro dichiarazioni, l’intervento militare sotto l’egida della Nato era l’unica strada per «proteggere» la popolazione civile dai «massacri» del regime e dagli «stupri di massa» che le truppe di Gheddafi, alle quali sarebbe stato preventivamente fornito il viagra, avrebbero compiuto contro le donne libiche in città e villaggi. Questi orrori, mai effettivamente provati, sono stati la giustificazione ufficiale per la guerra.

 Angela Lano

Vicino a Bengasi il 21/03/2011 dopo un attacco aereo francese contro le forze di Gheddafi. © PATRICK BAZ / AFP


Cosa pensano i libici all’estero

La voce di tre libici che vivono all’estero. Il loro sentire sul perché della guerra civile e dell’appoggio esterno. La loro preoccupazione sulla situazione attuale.

Iran Sarah (il nome è di fantasia) è una libico italiana di 60 anni. Viaggia sovente in Libia dal 2002, per motivi familiari e di lavoro. Durante la guerra civile, nel 2014 ha perso un fratello.

«In Libia ora c’è guerra tra gruppi, milizie: mio fratello e mio nipote sono stati uccisi da bande, perché non volevano unirsi a loro. Il problema sono i due governi e la lotta tra di loro (la Libia ha oggi due uomini forti: Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar, ndr). Sono contraria a un governo a Tobruk o a Sirte o a Bengasi. Deve essere a Tripoli. Il governo di Tobruk è riconosciuto dall’Europa perché ci sono i loro amici, ma è Tripoli la capitale.

In Libia dove trivelli c’è petrolio. Sono circa sei milioni i libici e se Gheddafi avesse ridistribuito i proventi del petrolio, non gli avrebbero fatto guerra, ma lui privilegiava alcuni contro gli altri. Comunque, rispetto ad ora, sotto il regime si stava meglio, non c’era tutta questa violenza».

Esharef A. Mhagog, 45 anni, musicista libico di Tripoli, in Italia da 31 anni. «Nella guerra civile ho perso un fratello. In Libia c’è una brutta situazione. Siamo stati ingannati dall’Occidente. Prima ci credevo alla rivoluzione, sapevo cosa volesse dire il regime – avevo studiato la storia della Libia -, ma non pensavo che con questa scusa ci potessero ingannare. Sono tornato nel mio paese nell’ottobre 2012 e ho trovato una situazione familiare molto divisa: chi era pro chi era contro la rivoluzione.

Per me è stato un trauma. Io e papà eravamo a favore, tutto il resto pro Gheddafi. Nessuno di noi era mai stato perseguito dal regime, anzi, tutta la famiglia lavorava per il governo. I miei fratelli mi telefonavano in Italia per tranquillizzarmi: “In Libia va tutto bene”. Ma io cercavo notizie. Ho scoperto tutto andando là. Ho saputo dopo anche della morte di mio fratello: era un poliziotto ed era morto mentre faceva il suo turno in pattuglia. Faceva la guardia, a Tajura, il 20 agosto 2011, quando dei cecchini hanno aperto il fuoco contro la sua auto. Era sposato e aveva un figlio di sei mesi.

In Libia c’è una confusione, ci siamo liberati di un dittatore, è vero, ma si è creato un vuoto. Chi lo può riempire? Ci sono milioni di armi che circolano su una popolazione di sei milioni di persone. Passeggiavo con i miei cugini che giravano con il kalashnikov. Loro se la ridevano, ma io pensavo: “Guarda a che punto siamo arrivati”. Prima non era così, ora una rissa per banali motivi si trasformava in guerra di quartiere. Un caos. I mercenari, foreign fighters, sono arrivati da ovunque».

N.S.M., nato a Tripoli nel 1977, avvocato con un dottorato a Londra in diritto. Era in Libia durante la rivolta del 2011.

«Non fu una rivoluzione ma un conflitto interno. Il risultato è stato negativo se guardiamo la situazione attuale. Quando scoppiarono i disordini sapevo che sarebbe successa la stessa cosa che in Iraq. Dissi ai miei amici: “Ricordatevi dell’Iraq”. Non si tratta di diritti umani – che potrei capire – ma di coinvolgimento della Francia di Sarkozy, che aveva i suoi obiettivi e voleva il petrolio libico. Le potenze occidentali parlavano di “proteggere la popolazione”, ma ciò che è successo e quante persone sono morte dimostrano il contrario. Fu ed è solo un gioco politico».

Chi ha iniziato la rivolta?

Il cantante libico Esharef. © Angela Lano

Sarah: «Le prime a ribellarsi contro Gheddafi furono le qabile di Bengasi; seguirono quelle di Sirte, Sabha, poi Tripoli. Zu’ara, Jbal e varie altre aree e qabile odiavano Gheddafi perché al potere non erano loro.

Prima tutti avevano paura di Gheddafi, ora si spaventano tra di loro, se non sono d’accordo gli uni con gli altri. In ogni città c’è uno che vuole comandare. C’è diffusione di armi tra tutti, anche tra i giovani. Nei mercati, tra frutta e verdura, trovi banchi con armi.

Gheddafi non era amato in Occidente, perché non lasciava spazio a Usa e Israele. Non aveva amici nei paesi del Golfo. A molti libici, invece, piaceva».

Esharef: «La Nato e i francesi hanno armato la parte orientale della Libia, che ha poi ringraziato Sarkozy. Se non avessero iniziato a bombardare, il 19 marzo 2011, Gheddafi avrebbe raso al suolo Bengasi: ha sempre detestato l’Est del paese. Lui fu vittima di un attentato, negli anni ‘90, in quell’area e promise vendetta: tagliò la corrente, i viveri. Era un dittatore e giocava sulle divisioni. Tutti sapevano che lui odiava la parte orientale e che dunque la rivolta doveva iniziare da lì. Nella parte occidentale non potevano fare niente perché era controllata dall’esercito. I libici orientali sono stati armati dagli egiziani, dai francesi e dai Fratelli Musulmani (gruppo islamista), altre vittime della persecuzione di Gheddafi per tanti anni.

Adesso non si capisce più niente. Ci sono due eserciti. Nel 2014 Haftar ha creato un esercito ed eseguito l’Operazione Dignity. Tutti aderirono, tranne quelli di Misurata, che decisero di prendere il potere, bombardando l’aeroporto. Ci siamo così trovati ad avere due governi diversi: uno illegale a Tripoli e l’altro legale a Tobruk. Nel giugno 2014 si sono fatte le elezioni, e hanno vinto i moderati. I Fratelli Musulmani di Misurata-Tripoli non hanno riconosciuto l’esito elettorale e hanno cacciato via gli eletti, che si sono rifugiati a Tobruk. I Fratelli hanno preso il potere a Tripoli, non accettando la sconfitta».

N.S.M.: «Nel periodo di Gheddafi non si stava male: molte persone volevano solo più diritti ed educazione. Ma qualcuno dentro e fuori della Libia ha manipolato e usato tali richieste, e da una protesta popolare per il raggiungimento di qualche diritto civile si è arrivati a distruggere il paese con la partecipazione di forze interne – soprattutto islamisti legati ai Fratelli Musulmani – e mercenari, criminali comuni, tutti finanziati dal Qatar e aiutati e organizzati da Usa, Francia e Gran Bretagna, che volevano un cambio di regime».

Angela Lano

Italia – Libia, amici o nemici?

Riportiamo la testimonianza di A.Q., giovane avvocato di Tripoli che ci ha richiesto l’anonimato. Il suo testo si concentra sui rapporti tra Italia e Libia.

«Gheddafi per l’Italia era un grande sostegno economico: i primi investimenti libici in Italia furono nel 1972. Poi dal ‘75 aiutò la Fiat, l’Eni, l’Unicredit e altre banche, anche per il finanziamento alle imprese. Invece l’Italia tradì tutto questo, lasciandosi coinvolgere nella distruzione della Libia. E perché? Perché la politica estera italiana non è autonoma al 100%. È un paese sconfitto nella
II guerra mondiale, fa parte della Nato, è sottomessa direttamente e indirettamente agli Usa, ha 113 basi Usa e Nato sul suo suolo. Non può sottrarsi alle guerre volute dalla “comunità internazionale”.

Il 30 agosto 2008 fu firmato il trattato di amicizia tra Italia e Libia nel quale venne sancita la non ingerenza interna tra i due paesi e il divieto di usare la forza, o gli spazi territoriali, contro l’altro. Tuttavia, tutto ciò è stato totalmente violato dall’Italia.

La propaganda affermava che la Nato è intervenuta per “proteggere” il popolo libico, ma secondo me è falso. Perché eliminare le istituzioni statali, le forze militari… A chi interessava?

La vera motivazione dell’intervento della Nato è stata quella di creare il disastro, l’instabilità. Un paese sottomesso, nel caos, per permettere meglio la spartizione.

Sirte, Gheddafi e Silvio Berlusconi, allora primo ministro, il 10/02/2004. © POOL / AFP

Come vediamo l’Italia

Da una parte noi libici continuiamo a vedere l’Italia come simbolo di fratellanza, amicizia, il più vicino al mondo arabo; dall’altra la vediamo come parte di un passato molto doloroso, che non è facile dimenticare. I fascisti costruirono i primi campi di concentramento in Libia. Massacrarono 300.000 persone tra il 1929 e il 1931, nell’Est della Libia, intorno a Bengasi.

Con l’accordo sopra citato molti dei libici pensarono a un punto di svolta con l’Italia: le scuse dell’allora presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, che baciava la mano anche al figlio di Omar al-Mukhtar (guerrigliero libico che guidò la resistenza al colonialismo, ndr), simbolo dell’anti-italianismo. Il gesto italiano fu considerato una grande vittoria morale libica.

Tuttavia, dopo il 2011 si sentirono traditi, a pochi anni dall’accordo.

Ora è forte il sentimento anti italiano. Il governo di el-Serraj è considerato filo italiano, grazie allo sforzo dell’Italia è riuscito a insediarsi a Tripoli. Ma non è riconosciuto dal popolo libico. Non ha una vera efficacia sul territorio. Non riesce neanche a controllare un quartiere di Tripoli.

Ci sono i gruppi militari e le milizie che hanno il vero potere e controllano tutto. La Libia, che ha perso la propria sovranità, senza esercito, senza un servizio di intelligence, senza unità nazionale, non si può certo governare. Tantomeno dall’esterno.

Perché da 100 anni riceviamo solo danni dall’Italia? Tutte le azioni militari sono partite per colpire Tripoli dall’Italia.

Danni economici

Gli imprenditori italiani hanno perso un sacco di soldi. L’interscambio tra Libia e Italia, nel 2008, è arrivato a 20 miliardi di euro: il nostro paese è sempre stato importante per l’Italia.

Inoltre, 11.000 italiani lavorano in Libia. Tra le esportazioni italiane nel mondo arabo, la Libia era al primo posto.

Il 2 marzo 2009 Gheddafi aveva dichiarato di voler privilegiare l’Italia negli affari commerciali e negli appalti interni. Invece l’Italia ha partecipato alla sua distruzione. Più che fare gli interessi economici libici, Gheddafi aveva offerto benefici all’Italia.

Inoltre, fino al 2010, la Libia riusciva a controllare tutta la costa e l’emigrazione clandestina. Nel 2014 sono arrivati in Italia 140mila migranti, prevalentemente dalla Libia.

Se dal punto di vista economico la relazione Italia-Libia è stata positiva, il rapporto politico, sociale e mediatico è stato ben diverso. I media italiani hanno sempre denigrato Gheddafi, hanno accusato la Libia di inviare jihadisti, immigrati, ecc.

C’è troppa disinformazione, rifiuto di sapere, ignoranza voluta, eppure i prodotti italiani sono presenti in Libia, così come ristoranti e altri locali».

a cura di Angela Lano


Breve cronologia

© ROBERTO SCHMIDT / AFP)

1951, 24 dicembre – Proclamazione dell’indipendenza della Libia.

1969, 1 settembre – Un colpo di stato rovescia il re Idris. Muammar al-Gheddafi prende il potere.

1970, gennaio – Sono nazionalizzate le banche, le compagnie petrolifere e le proprietà dei coloni.

1973, gennaio – Lanciata la rivoluzione culturale islamica. Occupata la banda di Aozou, nel Nord del Ciad.

1977, 2 marzo – Instaurazione dello stato delle masse, al Jamahiriyya araba, popolare e socialista.

1982, marzo – Inizia l’embargo commerciale degli Stati Uniti.

1984, aprile – Rottura delle relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna.

1988, 21 dicembre – Attentato contro aereo della Pan Am nei cieli di Lockerbie, in Scozia (270 morti).

2002, marzo – Inizio della costruzione del gasdotto Libia-Europa.

2009, 2 febbraio – Elezione di Gheddafi alla testa dell’Unione africana per un anno.

2011, 15-16 febbraio – Manifestazioni nella città di Bengasi. Il 17 febbraio i manifestanti reclamano le dimissioni di Gheddafi e sono repressi nel sangue.

2011, 21 febbraio – Bombardamento di Tripoli da parte dell’aviazione libica.

2011, 17 marzo – Risoluzione 1973 dell’Onu che autorizza il ricorso della forza per proteggere i civili libici, crea la no fly zone e aumenta l’embargo sulle armi. Il 19 marzo iniziano i bombardamenti degli occidentali contro Gheddafi. Il comando sarà della Nato.

2011, 21-22 agosto – Caduta di Tripoli, i ribelli del Cnt prendono la città.

2011, 15 settembre – 20 ottobre – Battaglia di Sirte. Il 20 ottobre Gheddafi è catturato e giustiziato sommariamente.

2011, 31 ottobre – Fine dell’operazione militare Nato.

2012, 6 marzo – La Cirenaica (Bengasi) dichiara la sua autonomia. Inizia il «caos libico».

2019, 27 febbraio – Sotto l’egida dell’Onu, al-Serraj e Haftar firmano un accordo di principo per organizzare nuove elezioni.

Hillary Clinton, segretaria di stato degli Usa con combattenti del concilio Nazionale di Transizione a Tripoli, 18/10/2011. © KEVIN LAMARQUE / POOL / AFP


Il complotto dell’Occidente: Attacco alla Libia. A chi ha giovato?

La diffusione delle mail di Hillary Clinton rivelano al mondo i retroscena della geopolitica Usa e Francese. L’intervento militare «a protezione dei civili libici» nascondeva l’avversione dei due paesi occidentali alle idee di politica monetaria di Gheddafi. Dal loro punto di vista, un progetto del rais di una moneta unica africana, sebbene assai improbabile, avrebbe messo a rischio la finanza mondiale.

Subito dopo la diffusione delle 3.000 mail sottratte dal server personale dell’allora segretario di stato Usa Hillary Clinton, nel dicembre del 2015, fu resa di pubblico dominio la ragione per la quale la Francia e gli Stati Uniti mossero guerra alla Libia: le riserve auree del paese e la salvaguardia del Franco Cfa.

Ma vediamo una di queste mail che data 2 aprile 2011, inviata a Clinton dal suo consigliere Sidney Blumenthal: «Il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento. Questo oro è stato accumulato prima dell’attuale ribellione e doveva essere utilizzato per stabilire una moneta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano è stato progettato per fornire ai paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (Cfa)».

Si tratta di una mail «declassified», cioè desecretata, che continua riportando il colloquio che Blumenthal aveva avuto con ufficiali dell’intelligence francese: «Secondo esperti questa quantità di oro e argento è valutata a oltre 7 miliardi di dollari. I servizi segreti francesi hanno scoperto questo piano poco dopo l’inizio dell’attuale ribellione, e questo è stato uno dei fattori che ha influenzato la decisione del presidente Nicolas Sarkozy di impegnare la Francia nell’attacco alla Libia. Secondo questi individui i piani di Sarkozy sono guidati dalle seguenti questioni: 1. il desiderio di ottenere una maggiore quota della produzione petrolifera della Libia; 2. aumentare l’influenza francese in Nord Africa; 3. migliorare la sua situazione politica interna in Francia; 4. fornire all’esercito francese l’opportunità di riaffermare la sua posizione nel mondo; 5. affrontare la preoccupazione dei suoi consiglieri sui piani a lungo termine di Gheddafi di soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa francofona4».

Inoltre, in una precedente mail del 27 marzo 2011, Blumenthal parlava degli interessi francesi nel conflitto e citava «esperti» che avrebbero affermato che Sarkozy «sta facendo pressioni affinché la Francia emerga dalla crisi come principale alleato di qualsiasi nuovo governo che prenda il potere».

Francia principale mandante?

Di queste mail parla anche un’inchiesta della House of Commons britannica5 ripubblicando tali motivazioni, segnalando violazioni e chiedendo al governo spiegazioni. «La Francia guidò la comunità internazionale a portare avanti il caso dell’intervento militare contro la Libia nel febbraio e marzo 2011. La politica britannica seguì la decisione presa dalla Francia. […] Gli Usa erano piuttosto reticenti sul coinvolgimento militare […]. Gran Bretagna e Francia influenzarono gli Usa a sostenere la risoluzione 1973». E qualche riga più in là, il rapporto aggiunge che mancavano «dati e informazioni reali sulla situazione in Libia, sulla sua storia, struttura tribale e complessità regionale, e sui motivi per cui la rivolta era scoppiata a Bengasi e non a Tripoli», sottolineando che «su sei milioni di libici, i ribelli erano soltanto 30.000, e non tutta la popolazione», come millantato dai media internazionali e dai signori della guerra.

L’inchiesta evidenzia, inoltre, come Bengasi fosse la roccaforte dell’Islam radicale, rappresentato da forze qaediste coinvolte nella ribellione e dal Lifg (Libyan fighting group, una formazione jihadista, nella black list statunitense, britannica e libica da anni).

Il rapporto britannico mette in dubbio anche che Gheddafi abbia veramente minacciato il proprio popolo.

Dunque, le tanto propagandate «ragioni umanitarie» e di aiuto alla popolazione libica «massacrata», o in procinto di esserlo, erano solo menzogne per giustificare un intervento che aveva ragioni economiche, petrolifere e geopolitiche. E il regime change. Emergono altre conferme in altre mail raccolte in un articolo da Robert Parry, giornalista investigativo6, nel quale si parla dei crimini di guerra commessi dai ribelli e di attività di addestramento in Libia dall’inizio delle proteste (di queste operazioni parla anche uno dei combattenti, Sam Najjar, nel già citato «Soldier for a summer»), e di jihadisti di al Qaida embedded con le truppe ribelli appoggiate dagli Usa e dalla Nato. A tal riguardo vi è, inoltre, un’abbondanza di video che i jihadisti stessi registravano e diffondevano per celebrare le loro gesta.

Parry sostiene, non diversamente da altri7, che le informazioni su «massacri», «stupri», e viagra usato da parte delle truppe regolari libiche contro questa o quella città o popolazione erano soltanto «voci» o mera propaganda che secondo il giornalista sarebbero potute provenire dallo stesso Blumenthal.

Quando Najjar parla di queste cose nel suo libro, non fornisce mai una testimonianza, seppur indiretta, ma cita dei «sentito dire». Le accuse di genocidio sono propaganda usata dagli addestratori militari di quei giovani giunti in Libia da mezzo mondo arabo e occidentale.

Citando tale propaganda o rumors, Parry chiede retoricamente ai lettori: «Quindi pensate che sarebbe stato più facile per l’amministrazione Obama mobilitare il sostegno americano dietro questo “cambio di regime” spiegando come i francesi volevano rubare la ricchezza della Libia e mantenere l’influenza francese neocoloniale sull’Africa, oppure che gli americani avrebbero risposto meglio ai temi della propaganda su Gheddafi che distribuiva il viagra alle sue truppe in modo da poter stuprare più donne mentre i suoi cecchini bersagliavano bambini innocenti?». Purtroppo, un mese dopo, le voci, fatte circolare dagli ambienti del dipartimento di stato Usa, e mai veramente confermate, degli stupri e dei cecchini diventarono materiale accreditato per una presentazione all’Onu dell’allora ambasciatrice Usa Susan Rice, e da lì, probabilmente, ritornarono come «sentito dire» tra i ribelli in Libia.

In realtà, l’offensiva militare di Gheddafi era rivolta verso i gruppi dell’islamismo radicale, ma i propagandisti dell’amministrazione Obama trasformarono la questione in «Gheddafi che massacra il popolo della Libia orientale», giustificando così l’operazione «Responsibility to protect» guidata dagli Stati Uniti.

Insomma, come in tutti gli altri precedenti conflitti di rapina contro Africa e Medio Oriente, bisognava creare il mostro per poterlo poi distruggere, non differentemente da ciò che è avvenuto con l’Afghanistan, l’Iraq e da ciò che ancora accade con la Siria. Come spiega bene Enrica Perrucchietti nel suo interessante libro «False Flag», le notizie per il casus belli di turno sono spesso inventate, o da giornalisti, o da politici o dalle varie intelligence.

Tripoli, 19/03/2011, proteste contro le decisioni contro Gheddafi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. © MAHMUD TURKIA / AFP

Le riserve auree di Gheddafi nel mirino

Qual era la vera minaccia rappresentata da Gheddafi? Tale minaccia non aveva a che fare con le politiche anticoloniali libiche? E con il tentativo di estromettere il nostro paese dal business petrolifero, e non solo, in Libia? D’altronde, Italia, Francia e Gran Bretagna sono in antagonismo sullo sfruttamento della Libia da ben oltre un secolo.

Da anni Gheddafi tentava di stabilire una moneta africana indipendente e alternativa al franco Cfa – adottato da 14 stati africani (di cui due non francofoni: Guinea Equatoriale e Guinea Bissau) su proposta della Francia (Cfr. MC marzo 2019) – e al dollaro, svincolata dall’ingerenza e dagli interessi della finanza globale. Dalle mail citate, trapela che la Francia di Sarkozy riteneva il Colonnello e il suo regime una minaccia per la sicurezza finanziaria del mondo8.

Scrive Ellen Brown sul sito «Counterpunch»9, il 14 marzo 2016: «Dopo il 1944, il dollaro Usa veniva scambiato in modo intercambiabile con l’oro come valuta di riserva globale. Quando gli Stati Uniti non furono più in grado di assicurare riserve d’oro per il dollaro, negli anni ‘70 stipularono un accordo con l’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) per “sostenere” il dollaro con il petrolio, creando il “petro-dollaro”. Il petrolio sarebbe stato venduto solo in dollari Usa, che sarebbero stati depositati a Wall Street e in altre banche internazionali. Nel 2001, insoddisfatto della contrazione del valore dei dollari che l’Opec stava ottenendo per il suo petrolio, l’iracheno Saddam Hussein ruppe il patto e vendette il petrolio in euro. Il cambio di regime seguì rapidamente, accompagnato da una distruzione diffusa del paese. Anche in Libia, Gheddafi ruppe il patto; ma fece molto di più che vendere il suo petrolio in un’altra valuta».

Sostegno dei ribelli e protezione dei civili?

Molti studiosi e analisti di geopolitica e storia della Libia si chiedono se l’intervento Nato fu fatto per proteggere i civili. Megerisi, Najjar e altri libici intervistati sostengono di sì e ringraziano l’Alleanza atlantica per la «liberazione» del paese.

Tuttavia, come evidenza, tra gli altri, il professor Maximilian Forte nel suo libro Slouching towards Sirte: Nato’s war on Libya and Africa, «l’obiettivo dell’intervento militare statunitense era quello di interrompere un modello emergente di indipendenza e una rete di collaborazione in Africa che facilitasse l’aumento dell’autosufficienza africana. Ciò contrastava con le ambizioni economiche, geostrategiche e politiche delle potenze europee extra continentali, in particolare negli Stati Uniti».

A suscitare ulteriori interrogativi sull’operazione militare occidentale contro la Libia, vi è la creazione, da parte dei «ribelli», di una «banca centrale» in sostituzione di quelle statali del regime. La decisione venne presa a marzo, un mese dopo l’avvio della rivolta e della guerra civile: in un incontro avvenuto il 19 di quel mese, il Consiglio di Transizione ne diede l’annuncio, insieme a quello della creazione di una nuova compagnia petrolifera. Inoltre, designò la Banca centrale di Bengasi come «autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia», nominandone anche il governatore.

Dunque, da quanto riportato qui sopra l’aggressione alla Libia non aveva come principale obiettivo la sicurezza della popolazione, ma quella delle banche e della finanza globale, del denaro e del petrolio.

Angela Lano

Ribelle anti Gheddafi. © MARCO LONGARI / AFP


Dopo la guerra il caos: Il paese non paese

Al contrario di un paese pacificato, la Libia vive oggi profonde divisioni. Il territorio è controllato da milizie e bande criminali che vivono di traffici vari. I fronti dei nemici di Gheddafi, dagli islamisti politici neoliberali ai comunisti ai jihadisti infiltrati, finita la guerra hanno iniziato a combattersi tra loro perché mancava un progetto politico comune. E nonostante le intelligence occidentali temessero l’ascesa dell’islamismo radicale, non esitarono a finanziare i jihadisti.

La Libia è tutt’altro che un paese unito e «democratizzato», come s’affannavano a descriverla tra la fine del 2011 e il 2014 i governi e i media occidentali: con la fine della jamahiriyya e l’assenza di un governo centrale riconosciuto da tutti, il paese si è trasformato in un rompicapo di regioni, qabile, città, gruppi, fazioni, tanti stati nello stato, mini sistemi feudali di potere e alleanze, tutti armati e con proprie milizie. Il paese è ostaggio di uomini armati, famiglie, partiti, islamisti, bande criminali. L’antica e mai sopita rivalità tra Tripolitania e Cirenaica, e tra le decine di qabile o gruppi etnici di cui si compone in gran parte la Libia fin dai tempi antichi, è riesplosa in modo devastante, aggravata dalla continua ingerenza politica ed economica delle potenze occidentali. Un paese frammentato e sofferente di cui non si può prevedere un futuro né prossimo né lontano.

Nelle città e nelle regioni di confine gli scontri hanno sovente come obiettivo il controllo di traffici illeciti: droga, petrolio, migranti. Intere aree della Libia, al Nord come al Sud, vivono della tratta degli immigrati provenienti dalle regioni subsahariane (Cfr. MC marzo e aprile 2018). Si tratta di una economia criminale emersa durante gli anni di guerra civile e che si radica sempre di più.

Islamismo politico nella rivolta

Le agende occidentali anti Gheddafi e i suoi progetti contro il neocolonialismo in Africa hanno trovato pronti e validi alleati in tutti quei, nemici che il Colonnello si era creato nei 40 anni di potere, tutti appartenenti, sostanzialmente, alle classi medio alte che le politiche di nazionalizzazione portate avanti avevano profondamente danneggiato: progressisti, conservatori neoliberisti, islamisti aderenti a movimenti dell’islam politico conservatore e neoliberista. Per gli islamisti e i comunisti c’era l’aggravante delle persecuzioni politiche a cui erano stati sottoposti per decenni. Tutti questi fronti si sono inizialmente coalizzati nella sollevazione contro il regime, per poi dividersi e trasformarsi in rivali a guerra Nato terminata. A questo si sono aggiunte le già citate antiche conflittualità tra le qabile.

L’islamismo politico, conservatore e vicino alle dottrine economiche neoliberiste, dal punto di vista religioso ha sempre considerato Gheddafi una sorta di innovatore miscredente. I partiti islamisti che hanno preso parte alle «primavere arabe» in Nord Africa e nel Medio Oriente, non sono «rivoluzionari», a livello economico, ma sostenitori della dottrina capitalista neoliberista (Cfr. MC gennaio 2013). Lo stesso capo del Lifg (Libyan Fighting Group), Abdelhakim Belhaj, che ad agosto del 2011 guidò la presa di Tripoli, di cui poi si nominò governatore, nel giro di poco tempo, da jihadista è diventato un businessman milionario con aereo privato.

Patrick Haimzadeh, ex diplomatico francese a Tripoli, scrive su «Le Monde Diplomatique» (ottobre 2012): «I principali partiti non islamisti sono descritti come “liberali”, ma tutte le parti sono accanite sostenitrici del sistema economico neoliberale. La più nota tra queste è la National forces alliance (Tahalouf al-quwwa al-wataniyya) guidata da Mahmoud Jibril. Questo ricco uomo d’affari ha lavorato a stretto contatto con il figlio minore del dittatore, Saif al-Islam Gheddafi, e ha aiutato a liberalizzare l’economia libica nei primi anni 2000, è stato un membro fondatore del Ntc insieme a Mustafa Abdel Jalil, ed è stato in contatto regolare durante la guerra civile con Sarkozy e Bernard-Henri Lévy (lo scrittore francese che ha richiesto l’intervento occidentale). Altro partito, nella regione orientale, è il National front party (Hizb al-jabha al-wataniyya), un tempo noto come Fronte nazionale per la salvezza della Libia, fondato da Muhammad Yousef Megharief nel 1981, quando era in esilio nel Regno Unito».

Jihadismo «infiltrato»

L’islamismo jihadista ha infiltrato la rivolta fin dai primi giorni, trasformandola in «cambio di regime». Nello scambio di mail tra Hillary Clinton e Blumenthal viene spiegata qual è la realtà, svuotata dalla propaganda: i ribelli, presunti innocenti, nella Libia orientale comprendono elementi jihadisti, come il Lifg e al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi), infiltrate nel consiglio nazionale di transizione. Dalle mail emerge che Sarkozy era molto preoccupato per questi aspetti e voleva anche capire «il ruolo dei Fratelli Musulmani nella leadership ribelle». Blumenthal spiega poi che le intelligence europee temevano che il nuovo governo potesse autorizzare l’Aqmi o altri gruppi islamisti a «creare piccole entità locali semi autonome o “Califfati” nelle regioni produttrici di petrolio e gas della Libia sudorientale»: nel marzo del 2011, erano tutti, politici e intelligence, coscienti del grave rischio rappresentato dalla presenza dell’islamismo radicale e dal terrorismo, pronti a sfruttare il vuoto di potere che la guerra occidentale stava creando in Libia. Tuttavia questa consapevolezza non li ha fatti arretrare, anzi. Milizie jihadiste sono state rifornite di ogni mezzo militare possibile.

Angela Lano

Note

(1) Ne scrive Hisham Matar nel romanzo «Il Ritorno».
(2) Pubblicate il 15 febbraio 2006 su un quotidiano danese.
(3) Regno di Libia, post indipendenza, 1951.
(4) US Department of State, H: France’s client and Q’s gold. Sid, 2 April 2011, C05779612.
(5) House of Commons, Foreign Affairs Committee, Libya: examination of intervention and collapse and UK’s future policy options, third report of Session 2016-17.
(6) Sito Common dreams (www.commondreams.org) «What Hillary new about Lybia», 13 gennaio 2016.
(7) Sito Counterpunch (www.couterpunch.org), Ellen Brown, Exposing the libyan agenda: a closer look at Hillary’s emails, 14 marzo 2016. Inoltre: Foreign Policy Journal (www.foreignpolicyjournal.com), Brad Hoff, Hillary emails reveal true motive for Lybia intervention, 6 gennaio 2016.
(8) Sito The new american, www.thenewamerican.com.
(9) Ellen Brown, ibidem.


Nota redazionale

Come scrive l’autrice nell’introduzione a questo dossier, tentare di ricostruire le cause e gli effetti del caso libico è tutt’altro che scontato. Per questo motivo il dossier approfondisce solo alcuni aspetti del processo che ha portato prima alla ribellione e poi all’intervento della Nato. Le questioni delle riserve petrolifere (tra le più grandi in Africa), del gas naturale (terzo stock sul continente), e dell’importanza geostrategica del paese come centro di snodo del traffico di migranti verso l’Europa, sono qui appena accennate. Come non sono trattati in queste pagine i fatti di attualità e le ripercussioni internazionali della situazione presente.

Ci riserviamo dunque di ritornare su questi temi in futuri approfondimenti.

Hanno firmato questo dossier:

  • Angela Lano – Giornalista professionista e ricercatrice presso l’Università Federale di Bahia-Salvador e la Soas (School of Oriental and African Studies), University of London. Collabora da molti anni con MC.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.

Archivio MC: Arturo Varvelli, Libia: caos post Gheddafi, novembre 2012.




Cari Missionari


Grazie a don Paolo Farinella

Buonasera,
sono un vostro abbonato, nonché estimatore. Ho letto che don Paolo Farinella, che conduceva la rubrica Insegnaci a pregare, lascia. Intanto ringrazio MC per aver fatto una scelta così importante a suo tempo. Mi dispiace che lasci; il suo linguaggio, la sua rubrica l’aspettavo ogni mese. Mi è stata compagna di meditazioni ogni mattino; vi ritornavo spesso sempre sullo stesso numero. Devo dire che ho atteso più di 50 anni prima di trovare chi facesse scivolare/penetrare la Parola di Dio, così come l’ha fatto lui; quanto scriveva mi suscitava il gusto di accedervi più volte. Sì, quando uno ti mette nella condizione di gustare (io che sono uno qualsiasi) e di progredire, puoi solo essergli grato.
Posso dire che come Piero Angela ha saputo parlare alla gente della complessità della scienza e farla gustare, così ha fatto don Paolo nel suo ambito. Don Paolo, un abbraccio riconoscente.

Ottorino Saccon
21/12/2018

Questa è la risposta di don Paolo.

Carissimo Sig. Ottorino
[…] la ringrazio per la e-mail che padre Gigi, direttore di MC, mi ha fatto avere. Non le nascondo che mi sono sentito in grave imbarazzo leggendo, e nello stesso tempo ho provato la gioia di sapere che la Parola di Dio può essere indirizzata a tutti, anche non specialisti, basta studiare tanto per parlare un linguaggio umano accessibile e comprensibile. Se lei vuole e se le interessa può visitare il sito www.paolofarinella.eu/ oppure digiti «Paolo Farinella, prete» su Google, e lo trova. Poi alla finestra Liturgia trova tutti i commenti alle domeniche e feste di tutto l’anno (quello in corso è l’Anno-C).

Da 13 anni non ho solo scritto per la rivista, ma consapevole della mia responsabilità, ogni giorno portavo i lettori di MC, verso i quali ho sempre nutrito una grande stima, nel mio cuore e nella mia preghiera perché, pur non conoscendoli, io entravo tutti i mesi nelle loro case, non sapendo quale effetto potessero avere le mie parole. Per questo tutti gli articoli erano prima pensati e poi pregati e poi pubblicati, nel tentativo di aiutare qualcuno a uscire dal «raccontino biblico» per avere un «incontro» vitale con la Parola che è comunione con Dio.

Lei mi ha dimostrato che è possibile e quindi mi conferma che è questa la strada giusta e l’obiettivo di una vita per cui vale la pena vivere.

Da questo momento lei e tutta la sua famiglia, le persone che ama, siete presenti nella mia Eucaristia e nella mia amicizia, oltre il tempo oltre lo spazio. Con affetto.

Paolo Farinella, prete
Genova, 22/12/2018

 

Abbiamo ricevuto anche altre email in proposito e le abbiamo girate a don Paolo che, come suo solito, ha risposto immediatamente. Grazie ancora Paolo Farinella, prete innamorato della Parola. Anche noi ti portiamo nel cuore e preghiamo per te. Sul nostro sito è possibile trovare i testi pubblicati e scaricarli in formato pdf dallo sfogliabile. Entro Pasqua contiamo di raccogliere i testi di don Paolo pubblicati in un unico pdf per facilitarne la lettura e la consultazione e scaricarli con facilità.

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka – cattedrale devastata

Ho paura, ma voglio ancora diventare prete

Dal Carmel di Bangui, Rep. Centrafricana.
La mattina del 15 Novembre ad Alindao, cittadina a circa 500 km da Bangui, un campo di sfollati situato nei pressi della Cattedrale, è preso d’assalto da un gruppo di ribelli islamisti che porta il curioso nome di «Unione per la pace in Centrafrica». Si tratta di uno dei tanti gruppi agli ordini di un certo Ali Darassa, sorti dalla dissoluzione della Seleka e che ancora infestano i tre quarti del paese. I morti sono più di ottanta. Un vero massacro. Anzi, una razzia: oltre alle persone uccise, i ricoveri degli sfollati sono incendiati, l’intero sito è raso al suolo, le abitazioni sono saccheggiate, la chiesa è profanata. La strage avviene davanti all’inerzia del contingente dell’Onu che avrebbe, di per sé, il mandato di proteggere i civili. Tra le vittime, oltre a donne, bambini e persone anziane, anche due sacerdoti: abbé Célestin e abbé Blaise.

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka – cattedrale devastata

Il coraggio del giovane vescovo di Alindao, Cyr-Nestor Yapaupa (nella foto qui sotto), impedisce che il bilancio sia ancora più pesante. Invece di accogliere la gente, che vorrebbe trovare rifugio all’interno della cattedrale, ordina a tutti di scappare nella savana. Se i cristiani non gli avessero obbedito, il numero dei morti sarebbe stato ancora più alto. Il vescovo e alcuni sacerdoti decidono di restare comunque.

La notizia e i dettagli dell’avvenimento ci raggiungono increduli e scoraggiati. Le foto dei cristiani carbonizzati fanno il giro del mondo. Le già lentissime lancette dell’orologio della pace sembrano improvvisamente e drammaticamente correre all’indietro. Il Centrafrica sembra ormai essersi ingarbugliato in un inestricabile groviglio d’ingerenze straniere, inadempienze della comunità internazionale e incapacità del governo locale. L’elemento confessionale non fa che rendere il cocktail ancora più micidiale.

Alcuni giorni dopo gli avvenimenti, partecipiamo a un incontro di sacerdoti a Bangui. È presente abbé Donald, appena arrivato da Alindao. Originario di Bangui, sacerdote da poco più di un mese, aveva trascorso al Carmel i giorni di preparazione all’ordinazione, ascoltando con attenzione le conferenze del sottoscritto. Conferenze che avrebbero dovuto dargli le ultime istruzioni prima di essere un ministro di Dio per sempre.

Da qualche settimana Donald era stato inviato in aiuto alla diocesi di Alindao. Questa volta sono io che ascolto con attenzione la sua conferenza, nonostante sia ancora sotto shock, circa quanto avvenuto ad Alindao. Donald non ha ancora avuto il tempo d’imparare a fare il prete; ma ne ha già visti due morire, davanti ai suoi occhi, uccisi per il vestito che indossavano e il mestiere che esercitavano.

In classe, durante la lezione, è quindi un dovere parlarne. Gli studenti che ho davanti non sono allievi qualunque. Sono i futuri sacerdoti del Centrafrica. Provengono dalle città e dai villaggi dell’intero paese. Hanno visto la guerra e ora sono nel Seminario di Bangui perché vogliono fare lo stesso mestiere di Célestin e Blaise. Poi ripartiranno, sacerdoti, nelle diocesi da cui sono venuti. Chiedo loro se hanno ancora voglia di continuare il cammino intrapreso e se sono consapevoli dell’alto rischio che li attende.

Odilon, dall’alto dei suoi vent’anni, risponde per tutti: «Ho paura, mon père. Ho tanta paura. Ma non cambio idea. Voglio ancora diventare prete». La sua sincerità e il suo coraggio disarmerebbero anche Ali Darassa. Vorrei dire a Donald che ho paura anch’io. Ma nessuna voglia di cambiare mestiere. Penso al giorno in cui sono diventato sacerdote. Proprio non immaginavo che sarei finito qui, a spiegare chi era Origene e Agostino, a decine di volti neri, curiosi e imprevedibili, ostinatamente convinti che si può e si deve diventare preti, anche in un paese in guerra.

[…] C’è forse un legame tra il sacrificio dell’abbé Célestin e dell’abbé Blaise, il coraggio del vescovo Cyr-Nestor, quanto ha visto abbé Donald, la solenne promessa di Odilon e il «per sempre» di fra Michaël?

Sant’Agostino chiedeva a Dio, per sé e i suoi pastori, di amare il proprio gregge fino a morirne aut effectu aut affectu, cioè di fatto, con il sacrificio della vita, o con il cuore, nella dedizione senza risparmio al servizio del popolo di Dio. In passato gli argomenti per parlare male di questa giovane chiesa non sono certo mancati. Questo 2018, nel quale ben cinque sacerdoti e decine di cristiani sono stati uccisi durante le celebrazioni o nei pressi delle loro chiese, ci consegna una chiesa sicuramente ancora giovane e fragile, ma che non scappa davanti al nemico e i cui pastori non sono mercenari.

Padre Federico Trinchero
Bangui, 17/12/2018

Massacro all’episcopio di Alindao ad opera dei Seleka


Rinnovi e cancellazioni

Spett. Redazione Rivista Missioni Consolata,
vi sarei grata se sospendeste l’invio della rivista all’indirizzo […] a causa del decesso del destinatario. Vi sarei altresì molto grata se la sospensione avvenisse nel più breve tempo possibile per non riempire eccessivamente la cassetta delle lettere. Cordiali saluti

Email firmata, 22/01/2019

Desidero continuare a ricevere la vostra interessantissima rivista. Grazie per gli articoli che riportano notizie serie, non facilmente reperibili in altra carta stampata.

M.P., 22/12/2018

Buongiorno. Vi scrivo per disdire l’abbonamento alla rivista Consolata, che continua ad essere spedita all’indirizzo di mia zia, nonostante lei sia morta dall’anno 2005. Se vi chiedete perché io non doni al posto suo, vi dico che ho scelto di aiutare l’Unicef. Potreste risparmiare carta e quindi alberi; è pur vero che avrei potuto scrivervi prima di adesso. Vi auguro di continuare la vostra missione nel miglior modo possibile.

Email firmata, 17/11/2018

Con la presente vi chiederei cortesemente di non inviarmi più la bella rivista Missioni Consolata, la rivista aveva incominciato ad arrivare a casa dopo che mio figlio aveva fatto una bella esperienza in Africa, tanti anni fa. Adesso lui non vive più in questo indirizzo ed io non riesco che a leggere ogni tanto un articolo e mi dispiace che venga sprecata.

Email firmata, 22/10/2018

Abbiamo condiviso con voi alcune delle email ricevute di questi tempi. La maggior parte riguarda benefattori delle nostre missioni che sono andati alla casa del Padre. Non finiremo mai di ringraziare il Signore per il loro affetto e il loro sostegno.

Naturalmente non tutti i messaggi ricevuti sono benevoli. Alcuni, inviati dagli «eredi» dei nostri lettori/benefattori suonano come aspri rimproveri perché in tutti questi anni abbiamo approfittato della loro buona fede per spillare soldi.

Non è piacevole neppure sentirsi dire che la nostra rivista riempie eccessivamente la cassetta postale, come se fosse insistente e invasiva alla stregua della pubblicità dei supermercati.
Quanto alla scelta di aiutare un’agenzia Onu invece dei nostri missionari, pur rispettando la libertà personale, inviterei a valutare le percentuali dei fondi usati per il personale in quelle agenzie e quanto usi invece la nostra Onlus o altre simili alla nostra.


Yukari passava di lì

Yukari passava di lì, quando vide una strana costruzione e vari stranieri che andavano e venivano. Pensò: «Se gli stranieri qui sono i benvenuti, allora accoglieranno bene anche me». Salì una gradinata ed entrò: stava cominciando la messa. Lei non sapeva che quella era una chiesa, in particolare la chiesa di Tong Du Chon dove i nostri padri Tamrat Defar e Patrick Mrosso portano avanti la pastorale dei migranti.

Yukari è una donna giapponese nata dalle parti di Osaka e sposata con un coreano. Si sono conosciuti e sposati in Giappone ma, per ragioni di lavoro, lui è cuoco, si sono dovuti trasferire in Corea del Sud. Yukari era in Corea da pochi mesi, non conosceva ancora la lingua ed era triste quel giorno. Entrata in chiesa rimase colpita dalla luminosità dell’edificio. Finita la messa qualcuno si accorse che lei non era una dei soliti fedeli, la invitò a prendere un caffè con gli altri migranti e le spiegò come poté che ogni domenica c’era una scuola di coreano gratis. Fu così che Yukari cominciò a frequentare la comunità di Tong Du Chon e a partecipare alla messa domenicale. Quel giorno, il 6 agosto 2017, le è rimasto impresso nella memoria come uno degli eventi più belli che le siano capitati.

«Ogni volta che partecipavo alla messa – mi dice – sentivo la gioia che entrava in me, in piccole dosi, come pacchettini di gioia e vedevo la luce brillare intorno a me. Allora chiesi a una delle volontarie, insegnante di lingua, cosa dovevo fare per diventare cristiana. Da quel momento cominciai il catecumenato e a Pasqua del 2018 (nella foto: Yukari – a destra – il giorno del battesimo) ricevetti il battesimo e scelsi come nome nuovo quello di Justina».

«Come è cambiata la tua vita da quando sei diventata cattolica?», le chiedo.

«Adesso non ho più paura», mi risponde senza esitare. «Per esempio – mi dice – a metà del 2018 ci fu un forte terremoto nella zona di Osaka e l’epicentro era proprio dove stanno tutti i miei parenti. Normalmente sarei stata terrorizzata, ma quel giorno invece ero serena. Guarda che combinazione – e mi mostra sul suo telefonino un’app in giapponese – quel giorno la Parola di Dio diceva di non temere e di confidare nel Signore».

Adesso Yukari si difende bene col coreano, partecipa al coro e ad altre attività della parrocchia e ha stretto una bella amicizia con le altre volontarie. Parla della sua esperienza anche alle sue amiche giapponesi che vedono ancora Chiesa e cristianesimo come una cosa strana (ricordiamoci che in Giappone solo lo 0.35% della popolazione è cattolico). È attiva, allegra e ha partecipato perfino alla nostra festa della Consolata, incaricata di leggere una preghiera, per mostrare che il Signore continua a chiamare pecore nel suo gregge da qualsiasi terra Lui voglia.

Yukari passava di lì, ma diamo grazie al Signore perché quel giorno c’era anche qualcuno pronto ad accoglierla!

padre Gian Paolo Lamberto
Daejeaon, Corea del Sud, 16/10/2018


Informazione sicura

Caro padre,
[…] sfogliando il numero (di ottobre 2018) ho visto la lettera «Ha ragione Salvini?». Lì si parla in realtà del fenomeno (che è tra lo strambo e il surreale) del gender e delle sue conseguenze ma si cita Salvini che è uno dei simboli […] di questa presunta deriva anti-cristiana.

Ora, Salvini sì o Salvini no, a me interessa poco adesso, quello che mi fa riflettere è che siamo in tempi in cui sostenere ovvietà come il fatto che il matrimonio è tra uomo e donna e un bambino ha un papà e una mamma oppure che i fenomeni migratori vanno regolati e sono comunque un sintomo di squilibri sociali da «riaggiustare», si passa per intolleranti e brutti e cattivi e anche per cattivi cristiani. Ma anche un’opinione (questa sì è un’opinione, diversamente dal fatto naturale che i genitori sono papà e mamma) come lo ius sanguinis… apriti cielo! Non si può. […]

Rimanendo all’immigrazione penso che, nonostante tutto, molti non siano ancora convinti che il fenomeno migratorio Africa-Europa così come lo vediamo non è per nulla spontaneo, come non lo è quello nuovo dall’Honduras verso gli Usa (guarda caso ci sono le elezioni di medio termine in Usa…) e credo che una buona parte della causa di ciò sia nei mass media (diciamo almeno l’80% dei grandi media) che sembrano lì apposta per «formare» l’opinione pubblica invece che informarla. Sono più attori della politica invece che osservatori.

Ancora rifacendomi a cose già dette, se MC fa giornalismo, allora ha una gran responsabilità e c’è un gran bisogno di informare in modo ben ragionato i lettori. Se volete anche formare le pecorelle che credono di essere rimaste all’ovile ne sarò molto felice ma che sia formazione cristiano «sicura», basata non sulle ventate dell’attualità ma sulla Verità e ciò che la Chiesa ha sempre insegnato a ragion veduta. Un saluto

Andrea Sari
15/01/2019

Caro Sig. Andrea,
mi perdoni se ho di nuovo tagliato la sua lunga email. La questione dei migranti è molto complessa e il modo con cui è trattata nei mass media (e dai politici, e non solo quelli nostrani) non aiuta a capire che questa tragedia, vissuta da milioni di uomini che fuggono dalla loro terra e altri milioni che si vedono «invadere», non è «il problema», ma solo l’effetto di problemi ben più gravi, certo non causati dai mass media. Guerre, riscaldamento climatico, sfruttamento sconsiderato delle risorse, dominio incontrollato delle multinazionali, debolezza dell’Onu, dittature, corruzione e altro, sono i veri problemi da affrontare. MC, nel suo piccolo, cerca di dare un’informazione documentata, puntuale e non di moda.




Penisola Arabica:

(Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?

«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?

«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?

«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?

«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times
, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:

Vicario:
 mons. Camillo Ballin

? Arabia Saudita:

monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.

? Kuwait:

è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata. 

? Bahrein:

il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.

? Qatar:

monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:

Vicario:
mons. Paul Hinder

? Emirati Arabi:

è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

? Oman:

con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

? Yemen:

il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.