Tra dubbi e profezia


Il 2022 è iniziato un po’ in sordina, azzoppato dalla variante Omicron che sta condizionando la vita di mezzo mondo. Omicron, nell’alfabeto greco, è la lettera «o», presente due volte nella parola mondo e nel suo omologo greco cosmo. Invece di essere come le ruote di una bicicletta (o di una moto), è diventata come due macigni che appesantiscono e frenano.
Ventuno anni fa siamo entrati in pompa magna nel terzo millennio, ma guardando a quanto sta succedendo nel mondo, verrebbe da dire che siamo tornati alla preistoria. Con tutto il rispetto per la preistoria, quando forse si viveva più «umanamente» di quanto facciamo noi oggi, quando un guaio combinato da qualcuno aveva conseguenze solo locali. Nonostante oltre cinquemila anni di storia documentata, nonostante la conoscenza e lo studio di religioni e filosofie di tutti i popoli, nonostante il progresso scientifico e tecnologico e gli incredibili sviluppi della comunicazione, nonostante tutto questo, stiamo vivendo la distruzione ambientale, l’aumento delle ingiustizie sociali e delle guerre, con i ricchi che diventano più ricchi a spese dei poveri, degli sfruttati e della salute del nostro pianeta, e i potenti che, invece di investire nella pace, usano la guerra e l’intolleranza per dominare, sostenuti dalle derive fondamentaliste delle grandi religioni, anche del cristianesimo.

Viene da domandarsi: perché questo imbarbarimento? Perché non abbiamo imparato nulla dalla storia? Perché duemila anni di cristianesimo sembrano persi nel dimenticatoio di fronte alla logica del profitto, del consumismo, del benessere, del materialismo? Com’è che moltiplichiamo leggi e regolamenti e non cambiamo il cuore?

Come può succedere che un capo di stato chieda – applaudito – che l’aborto diventi un diritto umano universale pari al diritto alla vita, alla libertà in tutte le sue espressioni, alla sicurezza, all’istruzione, al riposo e al gioco, al cibo, alla casa e al lavoro?

Sappiamo poi molto bene che se ci fosse una guerra atomica tutti e tutto ne pagheremmo il prezzo. Perché, allora, sembra impossibile liberarsi dalle armi atomiche? Perché troppe nazioni rifiutano di ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, promosso dalle Nazioni Unite?

Terribile è poi l’ipocrisia sui migranti. Si trovano i soldi per costruire muri, per armare e mantenere reparti di polizia specializzati contro i migranti, come la discutibile guardia costiera libica, si costruiscono campi che diventano il limbo in cui sono fatti sparire, ma poco viene fatto per curare le cause che sono all’origine di un così grande esodo di genti: povertà, sfruttamento, dittature, guerre, persecuzioni, cambiamento climatico. E poi si chiudono tutti e due gli occhi sul caporalato, la tratta delle persone, il traffico della prostituzione, lo sfruttamento dei lavoratori in nero, il lavoro dei bambini, le nuove forme di schiavitù. E si rifiuta lo jus soli. Fa poi comodo usare i migranti per la propaganda politica come se essi fossero la causa di tutti i mali, come se davvero tenerli fuori dai nostri confini risolvesse i nostri problemi di lavoro, sicurezza, sanità, giustizia sociale, invecchiamento della popolazione, spopolamento.

Nell’elenco ci sarebbe da aggiungere il rinascere del razzismo, la manipolazione della storia, il crescere dell’ignoranza, l’incapacità di dialogo, il narcisismo sociale e politico, l’illusione che l’avere di più dia più felicità, l’aggressività sui social, la contraffazione mediatica, l’invasione della privacy.

Mentre scrivo mi arrabbio con me stesso, perché sono bravo a elencare, a fare liste, a piangermi addosso. Ma a cosa serve?

In tutto questo c’è una luce di speranza, una profezia di vita e libertà. Ci è offerta dai poveri del mondo, con i quali vivono tanti dei miei confratelli e consorelle missionari. Poveri che hanno una resilienza incredibile e un’infinita voglia di riscatto. Viene dal guardare a quella croce che domina nelle nostre chiese, che è sui muri di tante stanze, che è al collo di tante persone. Una croce, un crocefisso, che durante questo tempo di quaresima siamo invitati a reincontrare perché non rimanga solo un segno esterno. Il «prendere la croce e seguirlo» deve diventare un modo di essere e uno stile di vita che promuova la vita, ogni forma di vita, tutta la vita. Che sia una via alternativa al tran-tran disumanizzante e cosificante del consumismo, alla logica del più forte e del più ricco, alla rassegnazione alla paura, all’ansia per il futuro, alla chiusura all’altro. Una verità che decodifichi le fake news, gli inganni, le alienazioni dell’uomo e, invece, promuova un uomo libero e liberante, creativo, resiliente e soggetto della storia, non spettatore rassegnato.

 




Myanmar, etnie e nazione

Sommario


Un anno di giunta militare

L’esercito e la resistenza delle etnie

Dopo il golpe del primo febbraio 2021, il Myanmar è tornato al passato. Un generale è al potere, la leader Aung San Suu Kyi è agli arresti e i numerosi conflitti interni al paese sono di nuovo esplosi.

In Myanmar, stragi, massacri e processi non si arrestano. Nel silenzio del mondo, la giunta militare al potere continua la repressione iniziata con il golpe del primo febbraio 2021. Ma la resistenza non si arrende, soprattutto quella delle milizie etniche, da sempre parte attiva contro i soprusi dei militari.

L’esercito, comandato dal generale Min Aung Hlaing, non risparmia nessuno, spara ad altezza uomo durante le manifestazioni, uccide operatori sanitari e giovanissimi. Dal colpo di stato di un anno fa è in corso una repressione che include esecuzioni e torture, caratteristiche di un ritorno del vecchio regime. L’ultimo brutale episodio è avvenuto nello Stato Kayah, al confine con la Thailandia. Nella «strage di Natale» hanno perso la vita almeno trentacinque civili nel tentativo di fuggire dagli scontri in corso nel villaggio di Mo So tra i gruppi di resistenza armata e l’esercito birmano. I corpi sono stati ritrovati nelle auto bruciate. Tra le vittime ci sono anche due membri dello staff della Ong Save the children.

Tre settimane dopo, il 10 gennaio, un tribunale di Naypyitaw (o Nay Pyi Taw) ha condannato Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) e dominatrice delle elezioni parlamentari del novembre 2020, ad altri quattro anni di prigione per possesso illegale e importazione di walkie talkies e per aver trasgredito alle norme anti Covid. Complessivamente, alla leader birmana sono imputati una dozzina di capi d’accusa. È opinione generale che le modalità dei processi contro di lei siano del tutto illegali, delle vere e proprie farse, come ha commentato Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Una manifestazione in favore di Aung San Suu Kyi, deposta e arrestata dalla giunta militare nel golpe del 1 febbraio 2021. Foto Saw Wunna – Unsplash.

Proteste popolari e nuove tecnologie

La spirale di violenza in cui si ritrova il paese asiatico non pare destinata a ridursi: il dissenso arriva dalle campagne, dai piccoli villaggi di montagna fino alle proteste in città. I gruppi armati etnici formano un fronte comune col resto dell’opposizione. La prima differenza sostanziale tra le rivolte attuali e quelle avvenute nel 1988 (terminate con la vittoria dei militari) è la tecnologia, che ha aiutato la comunicazione alimentando la protesta collettiva e sviluppando, soprattutto nei giovani, una consapevolezza maggiore sulle violazioni dei diritti umani comprese quelle nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya. Il popolo birmano sta cercando di superare le storiche divisioni etniche per non soccombere a coloro che non hanno rispettato l’ultimo voto democratico, e spinge a continuare il decennio di libertà di cui ha goduto dalla transizione democratica iniziata nel 2011.

Le tre dita alzate in cielo (utilizzate anche per le proteste in Thailandia e Hong Kong) sono divenute il simbolo del movimento civile di disobbedienza. Subito dopo il colpo di stato, migliaia di persone si sono riversate in strada pacificamente e in prima linea si sono ritrovati anche medici e operatori sanitari che, pur consapevoli di dover dare priorità ai pazienti in ospedale, non hanno rinunciato a mobilitarsi organizzando delle cliniche mobili e dei servizi di ambulanza per i feriti nelle proteste. Il personale sanitario da subito ha deciso di boicottare gli ospedali gestiti dalla giunta dando vita al movimento dei «colletti bianchi». La Bbc ha riportato la testimonianza di un medico che riassume il sentimento collettivo della categoria: «Cinquant’anni di precedente governo militare non sono riusciti a sviluppare il nostro sistema sanitario e invece hanno inasprito povertà, disuguaglianza e cure mediche inadeguate. Non possiamo tornare a quella situazione».

Oggi, il Tatmadaw, com’è denominato l’esercito, teme di perdere autorità, non è più solido come in passato e sta subendo perdite e defezioni, oltre ad avere difficoltà a gestire i conflitti e la guerriglia etnica.

L’indipendenza dal dominio inglese e la formazione degli stati etnici

Storicamente etnicità e nazionalismo hanno una relazione molto stretta. Anthony Smith, uno dei maggiori studiosi del tema, ci ricorda che l’etnia è in costante ricerca di autonomia, unità e identità. Il conflitto con lo stato nazione può insorgere non quando le etnie richiedano statuti regionali piuttosto che autonomie locali, ma quando ritengono di possedere un’altra identità rispetto alla nazione. A livello mondiale, con il diffondersi della globalizzazione, la questione etnica non si è indebolita, ma anzi si è accentuata, favorita dalla perdita di presa da parte dello stato nazione.

Il Myanmar è un esempio di nazionalismo etnico de facto basatosi sull’idea che la nazione troverebbe la propria legittimazione nell’omogeneità etnica di coloro che la guidano (i Bamar, Burman nella narrativa inglese). L’opposizione delle altre etnie ha portato alla costituzione di un apparato nazionalista rappresentato dal Tatmadaw. La complessità del paese nasce dal numero delle minoranze etniche che popolano tutto il territorio birmano e che, dal giorno dell’indipendenza dal Regno Unito, aspirano o alla costituzione di una federazione o alla costituzione di diversi stati autonomi.

L’indipendenza è arrivata nel 1948, al termine di lunghe negoziazioni condotte dal generale Aung San (il padre di Aung San Suu Kyi, assassinato nel 1947), il quale aveva convinto i gruppi di minoranza ad aderire alla nuova Unione. Gli Accordi di Panglong (Panglong agreement) del 1947 schematizzavano i diritti delle minoranze e, in modo particolare, conferivano alle popolazioni Shan e Karenni la facoltà di staccarsi dall’Unione birmana dieci anni dopo l’indipendenza. Ma queste garanzie costituzionali non sono mai state completamente rispettate. L’indipendenza non ha portato ad avere un paese unito, al contrario ne ha esasperato la frammentazione, dando inizio a una serie di logoranti guerre etniche. Alcuni passi positivi sono avvenuti con il Nationwide ceasefire agreement (Accordo nazionale di cessate il fuoco) dell’ottobre 2015 e nell’agosto del 2020 quando l’allora leader Aung San Suu Kyi ha dato il via a incontri con le minoranze etniche – i nuovi colloqui di Panglong -, interrotti poi dal golpe militare del 2021.

Contadino birmano. Foto Richard Mcall – Pixabay.

Una storia di corsi e ricorsi

Ripercorrere la storia del paese aiuta a capire meglio gli attuali eventi che hanno reso endemica l’instabilità nel paese. Lo storico e scrittore birmano americano Thant Myint-U, ci ricorda che, per decenni, la storia dell’ex Birmania è stata descritta secondo una visione duale manichea che raccontava di una nazione divisa tra il dominio delle giunte militari e i movimenti per la democrazia e diritti umani, mentre la realtà è ben più complessa. Nel suo libro L’altra storia della Birmania, Thant Myint-U s’interroga se è possibile che il mondo abbia frainteso il Myanmar.

La tragicità dei corsi e ricorsi storici del paese ha fatto aprire tardi gli occhi al mondo, non in ultimo all’Occidente, che ha sempre avuto aspettative troppo alte e scontate: il Myanmar doveva essere il progetto democratico per eccellenza degli anni Duemila, un paese destinato ad avviarsi a una transizione democratica con un sicuro lieto fine.

I processi di transizione sono però delicati e richiedono decenni per consolidare un sistema democratico così come lo concepisce la maggior parte dei paesi occidentali, vale a dire con partiti politici in competizione, media liberi e libere elezioni. In Occidente occorre rimproverarsi di non aver avuto la visione d’insieme e di aver considerato la democrazia come un naturale decorso dopo la tirannia militare che ha sempre dominato la storia della Birmania. Questa miopia non ha permesso di interpretare i segnali di fragilità del paese: dai problemi strutturali della società birmana all’eredità scomoda del colonialismo, dalle persecuzioni dell’esercito allo scontro etnico e alla resistenza dei gruppi armati.

Timidi tentativi di cambiamento

Nel 2008, il Tatmadaw capisce la necessità di superare l’isolamento del Myanmar sulla scena internazionale e far rimuovere le sanzioni (all’epoca le più severe mai adottate contro qualsiasi paese del mondo, Corea del Nord inclusa), imposte per le violazioni dei diritti umani. In quell’anno viene concessa una nuova Costituzione (la terza nella storia birmana) che prevede elezioni multipartitiche. L’operazione per ingraziarsi l’Occidente – inclusa l’Unione europea – si conclude con la liberazione dagli arresti domiciliari, nel 2010, di Aung San Suu Kyi, The Lady, «La Signora», com’è sempre stata soprannominata. Premio Nobel per la pace, adulata in patria ma soprattutto dalla comunità internazionale (almeno fino allo scoppio della questione dei Rohingya), sulla Lady vengono riposte le speranze di un futuro democratico senza però considerare che lei non si è mai potuta liberare veramente dei suoi carnefici.

Nel 2012 Aung San Suu Kyi entra in parlamento, dopodiché nel 2015 il suo partito – la Lega nazionale per la democrazia – vince le elezioni, le prime libere e regolari per un’intera generazione di birmani.

A causa della restrizione costituzionale imposta dalla giunta militare che esclude dalla carica i candidati con coniugi o figli stranieri (il marito della Lady era un cittadino inglese), alla Lady non è possibile ricoprire la carica di presidente. Nel 2016, diventa così la leader de facto del governo, con il ruolo di «consigliere di stato». Ma, nonostante milioni di birmani abbiano votato contro l’Union solidarity and development party (Usdp), il partito dell’esercito, il vero potere rimane nelle mani di quest’ultimo: il 25% dei seggi parlamentari e il controllo dei ministeri chiave del paese, tra cui la difesa, gli affari interni e gli affari di frontiera.

Il golpe del febbraio 2021 riporta il paese nel passato e Aung San Suu Kyi è nuovamente privata della libertà. Le persecuzioni non riguardano più soltanto le minoranze, ma tutto il popolo birmano, unito nella rabbia per il ritorno alla violenza da parte del Tatmadaw.

Secondo i dati dell’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici (Assistance association for political prisoners, Aapp) almeno 1.503 persone sono già state uccise e più di 8.835 manifestanti e oppositori sono stati arrestati e incarcerati (dati al 31 gennaio 2022). Le inchieste della Bbc raccontano un modus operandi fatto di torture e sevizie da parte dei militari, alcuni dei quali anche minorenni. Come confermano le testimonianze raccolte, si sono verificate delle vere e proprie spedizioni punitive nei villaggi per coloro che si ribellavano al ritorno al potere dei generali. Corpi torturati e mutilati sono stati ritrovati nelle fosse comuni, tra cui il corpo di un bambino nei pressi del villaggio Zee Bin Dwin. Il colpo finale alla democrazia è stato quello di silenziare tutti i media locali e vietare l’ingresso ai giornalisti stranieri. Inoltre, lo scorso 14 dicembre, Radio free Asia ha riportato la prima morte ufficiale di un giornalista, il fotoreporter birmano Soe Naing, arrestato a Yangon, mentre documentava una protesta e morto in prigione a dicembre.

Detto questo, è evidente che la situazione del Myanmar non spiace a tutti gli attori, a cominciare dalla vicina superpotenza cinese.

Il percorso degli oleodotti sinobirmani, dallo Yunnan (Cina) al Golfo del Bengala. Da minorityvoices.org.

Le nuove vie di Pechino

Situato nel cuore del Sud Est asiatico, il Myanmar occupa una posizione geopoliticamente strategica soprattutto per le nazioni con cui confina: India e Bangladesh a Ovest, Cina a Nord Est.

Fin dall’antichità, la Cina ha giocato un ruolo dominante in molti settori dell’economia birmana. Tra le montagne a Nord del paese si estendeva la storica rotta commerciale conosciuta come via della seta, che collegava il mondo cinese a quello indiano fino al Mediterraneo. Oggi, il progetto della nuova via della seta viene portato avanti sotto il nome di One belt one road. Ufficialmente, esso riguarda una settantina di paesi, che si sono resi disponibili ad allineare i propri piani di sviluppo a quello di Pechino.

Le mire commerciali cinesi puntano al Golfo del Bengala (Oceano Indiano) e ai giacimenti di petrolio e gas del Myanmar, formando un corridoio economico che si estende da Ruili, nella provincia cinese dello Yunnan, attraversa Muse e Mandalay fino a Khyaukphyu nel Rakhine State e segue i gasdotti e gli oleodotti costruiti nel 2013 e nel 2017. All’estremità del percorso del Myanmar è previsto un porto e una zona economica speciale a Khaukphyu. Il collegamento con la città del Rakhine è importante per Pechino, in quanto consente alla Cina di trasportare rapidamente via terra petrolio e gas, oltre a beni e risorse prodotti a livello regionale e quindi meno costosi, aggirando la rotta marittima attraverso lo stretto di Malacca (tra Indonesia e Malesia). Gli oleodotti, già operativi, sono di proprietà della China national petroleum corporation (Cnpc) e della Myanmar oil and gas enterprise (Moge), entrambe grandi società statali. Inoltre, il progetto prevede la costruzione di una rete ferrovia Muse-Mandalay di 431 km, con costi stimati in nove miliardi di dollari, che collegherebbe il Myanmar alla rete ferroviaria cinese. Un’altra parte importante del corridoio commerciale sarà costituita da tre zone di confine. Le zone prevedono aree produttive e commerciali senza tassazione, hotel e servizi finanziari. Secondo un piano politico pubblicato nel 2019 dal ministero del Commercio del Myanmar (Silk road briefing), le località sarebbero Muse e Chinshewehaw nella parte settentrionale dello Stato Shan e Kan Pite Tee nello Stato Kachin.

Un mercato di Bagan. Foto Lim Ashley.

L’Onu e la strategia cinese

Oltre al principale partner commerciale, la Cina si è rivelata per il Myanmar un indispensabile alleato politico in sede Onu. Utilizzando il suo seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Pechino ha protetto il paese da alcune sanzioni internazionali difendendo così i propri interessi economici. Come confermato anche dall’analista politico U Maung Maung Soe al giornale the Irrawaddy: «L’Occidente ha spinto il Myanmar tra le braccia della Cina, che non si arrenderà facilmente per portare avanti i propri piani strategici. Di conseguenza, è meglio trovare soluzioni pratiche per collaborarci».

Riguardo all’attuale crisi politica nel paese, la Cina – strategicamente – cerca di evitare ogni forma di coinvolgimento esplicito sia nell’appoggiare la giunta militare sia nel favorire una possibile resistenza armata, in quanto il suo scopo rimane quello di tenere il più lontano possibile un ritorno nel paese delle potenze occidentali.

   Federica Mirto

Veglia di protesta a Yangon il 12 marzo 2021, a poco a un mese e mezzo dal golpe militare. Foto Zinko Hein – Unsplash.


Colonialismo e diatriba storico-lessicale

Due nomi, 135 etnie, tanti conflitti

Il termine «Myanma» appare per la prima volta in una incisione circa mille anni fa. Si attribuisce il suo significato originario alle genti che vivono nella valle dell’Irrawaddy, il principale fiume del paese. Nel corso dei secoli esse si proclamano Myama pyi (il paese Myanma) o Myanma naig-nga (Mynama, la terra conquistata). L’aggettivo «Bama» viene introdotto nel XVII secolo e deriva da Bamar (Burman) che indica il gruppo etnico maggioritario. Con l’arrivo dei primi europei il sostantivo «Birmania» si diffonde, mentre la colonizzazione inglese ufficializza il nome «Burma». In lingua birmana, il nome rimane Myama pyi1.

Da Burma a Myanmar

La denominazione del paese non causa polemiche fino al 1989, quando la giunta militare, dopo esser arrivata al potere con un colpo di stato, cambia ufficialmente il nome da Burma (Birmania) a Myanmar. La giustificazione ufficiale offerta è che il nome «Myanmar» include tutti i popoli indigeni. Altra ragione plausibile per questa scelta è la volontà di superare il passato coloniale. Ulteriori correzioni vengono fatte con i nomi delle città: per esempio, la città di Rangoon (Rangun), la più grande e nota del paese (già capitale), dopo il 1989 viene denominata Yangon. La polemica intorno all’utilizzo del termine Birmania o Myanmar assume un significato politico, sia all’interno del paese, sia nella comunità internazionale.

Come già accennato, «Burma» è stato imposto dai colonizzatori britannici e non rappresentava tutte le minoranze etniche. Tuttavia, secondo Aung San Suu Kyi e i suoi sostenitori, utilizzare «Myanmar» significherebbe approvare la scelta di una giunta militare e, di fatto, la sua legittimazione storica. A livello internazionale, il cambiamento non è stato riconosciuto all’unanimità: le Nazioni Unite e alcuni paesi, come la Francia, utilizzano il termine Myanmar; invece, Regno Unito e Stati Uniti (ma non i loro media) continuano ad usare il termine «Burma»2.

Nel corso del delicato processo di democratizzazione (oggi interrotto dal nuovo golpe militare) ci sono state, peraltro, alcune eccezioni. Per esempio, nel 2012 quando, durante una visita al paese asiatico, il presidente degli Stati Uniti in carica, Barack Obama ha usato sia «Burma» che «Myanmar». La stessa Aung San Suu Kyi ha utilizzato principalmente il termine «Myanmar» durante il suo primo discorso alle Nazioni Unite come rappresentante del paese, nel settembre 2016.

Non soltanto Bamar

Semplificando la questione, possiamo dire che Burma è termine legato alla prepotenza coloniale e Myanmar alla presenza di molte minoranze etniche stanziate lungo le regioni di confine, minoranze che da sempre lottano con i Bamar raccolti soprattutto al centro del paese e detentori del potere. È con esse che qualsiasi governo dovrà dialogare. Come, prima del golpe di febbraio 2021,
si era iniziato a fare attraverso il Nationwide ceasefire agreement (2015) e i nuovi colloqui di Panglong (2020).

Fe.M.

1 Than MyintU, The Hidden history of Burma, Atlantic Books London, 2020

2 In un articolo del 2018, l’Istituto per la pace degli Stati Uniti aveva spiegato che gli Stati Uniti non riconoscevano il cambio di nome perché era stato fatto senza il consenso dei cittadini e, pertanto, lo ritenevano illegittimo: https://www.usip.org/blog/2018/06/whatsnameburmaormyanmar

Cerimonia per la donazione della Cina allo Stato Kachin di materiale sanitario anti Covid-19, a Tengchong (Yunnan) il 27 agosto 2021. Foto cgnt.com.


Le minoranze

Il calderone etnico e l’abbraccio cinese

I Bamar hanno le redini del paese, ma le altre 135 etnie non si arrendono. Sugli uni e sulle altre pesa l’interventismo della superpotenza cinese intenzionata a rafforzare il proprio dominio neocoloniale.

In Asia, si giocheranno molti degli equilibri geopolitici mondiali. Consapevole di questo, la Cina ha tutto l’interesse a mantenere il controllo sui 2.400 chilometri di frontiera che la separano dal Myanmar, dove risiedono alcuni dei principali gruppi armati delle diverse etnie. Come accennato, il gigante asiatico non prende posizioni dirette nella politica birmana, ma diplomaticamente pone le basi per instaurare una forma di neocolonialismo.

Per esempio, l’inefficiente gestione dell’emergenza pandemica dovuta al Covid-19 da parte della giunta militare ha portato Pechino a intervenire: fino ad oggi sono state consegnate più di tredici milioni di dosi di vaccino ai generali del Tatmadaw e più di diecimila vaccinazioni sono state fatte, a luglio, all’inizio della terza ondata, presso il quartiere generale del Kachin independence army (Kia) a Laiza, come riporta il colonello kachin Naw Bu (straitstimes.com).

Il colonialismo del «dividi et impera»

L’atteggiamento da parte della Cina ricorda le tipiche dinamiche instaurate dal colonialismo inglese: dividi et impera, ovvero andare a sfruttare le debolezze interne al paese per rafforzare il potere nelle proprie mani. Le conseguenze del sistema coloniale nel tessuto sociale e culturale di un paese rimangono nel tempo anche una volta cessato il rapporto tra gli stati coinvolti.

In Myanmar, la fase coloniale inglese iniziò nel 1824 come estensione del dominio coloniale dell’India. Fino al 1937, il paese fu infatti governato come provincia indiana. Gli inglesi instaurarono un sistema basato su due amministrazioni: Ministerial Burma e il Frontier area. Questa divisione diede inizio a un susseguirsi di episodi discriminatori portati avanti dai padroni inglesi: alcuni popoli vennero scelti come referenti principali e così s’iniziò a costruire un ordine sociale basato sull’appartenenza etnica e sull’esclusione, spianando la strada alle rivalità interne tra popoli che fino a quel momento non avevano sviluppato attriti o dissapori.

I gruppi etnici dei Karen, Kachin e Chin, in maggioranza cristiani, assunsero posizioni di rilievo, «a discapito di altri gruppi, ritenuti meno adatti a comunicare con l’Inghilterra e ad agire secondo le sue volontà» (Valeria Dell’Orzo, in istitutoeuroarabo.it) portandoli persino a combattere tra le file dell’esercito inglese contro quello giapponese nella Seconda guerra mondiale.

Vita contadina in Myanmar. Foto Ilya Yakubovich.

I Chin e il cristianesimo

Con il colonialismo arrivarono anche i primi missionari battisti che introdussero il cristianesimo nei villaggi abitati dal gruppo etnico chin, nella vasta catena montuosa che risale dal Myanmar occidentale fino al Mizoram nel Nord-Est dell’India. Oggi i Chin abitano l’unico stato del Myanmar a maggioranza cristiana (86% di cristiani, secondo il censimento governativo del 2014).

Riconoscibili per i loro tradizionali tatuaggi, come quasi tutte le etnie, anche i Chin hanno un proprio esercito (Chin defence force, Cdf), ma le loro proteste sono sempre state causate soprattutto dalle condizioni di vita molto precarie: mancanza di strutture sanitarie ed educative e di lavoro. Come riportato dal report della Banca mondiale e Undp condotto nel 2017, lo Stato Chin è il più povero del paese: sei persone su dieci vivono in condizioni precarie. Tanto che molti giovani uomini chin, nel disperato tentativo di sfuggire all’estrema povertà, si sono arruolati nell’esercito birmano. Un altro fattore che determina la mancanza di opportunità economiche è la totale assenza di infrastrutture, molti villaggi nello Stato Chin sono accessibili solo a piedi, tramite una rete di piccoli sentieri.

Inoltre, come altri gruppi etnici anche i Chin sono stati vittime del processo di «birmanizzazione» che, tra le diverse forme di discriminazione, prevede il divieto d’inserire la storia della loro etnia nei libri di scuola.

Alla fine degli anni Ottanta e inizio degli anni Novanta, le tensioni con il governo militare sono esplose: torture, stupri, arresti e lavori forzati ne sono state le conseguenze.

A gennaio 2022, la Chin human rights organization (chinhumanrights.org) ha riferito che i cristiani chin continuano a subire persecuzioni da parte del governo, inclusi sgomberi forzati, incendi dolosi, divieti di raduni religiosi e aggressioni. Oltre sessantamila Chin si sono rifugiati in India, dove continuano il loro destino di povertà con la popolazione locale.

Censimenti inaffidabili

La frammentazione etnica, il multiculturalismo e la diversità di credi religiosi rendono il Myanmar antropologicamente unico: centotrentacinque sono le etnie ufficialmente riconosciute. Tuttavia, non essendoci statistiche affidabili sulla popolazione, nessuno sa esattamente quanti gruppi etnici ci siano e quale sia la loro consistenza numerica.

I censimenti di riferimento sono due, entrambi controversi. Il primo è stato effettuato dagli inglesi nel 1931, il secondo dal governo birmano nel 2014 (29 marzo-10 aprile), in collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa). I risultati di sintesi provvisori sono stati pubblicati nell’agosto 2014 dal ministero dell’Immigrazione e della popolazione. Questi risultati preliminari hanno censito 51.419.420 persone, tra cui circa 1.206.353 che non erano mai state contate, residenti in alcune parti degli stati Arakan, Kachin e Karen.

Numerose organizzazioni della società civile hanno criticato la codifica etnica nel censimento, sostenendo che fosse stata progettata senza un’adeguata consultazione, chiedendo pertanto la sospensione del censimento fino a quando non ci fosse stata la pace nel paese. Inoltre, nonostante le iniziali promesse, oltre un milione di Rohingya sono stati conteggiati come «altri» in quanto la definizione di «Rohingya» non era consentita. Infine, il censimento non ha contato i milioni di birmani che vivono fuori dal paese. Pertanto, la fiducia nelle cifre del governo rimane problematica, in particolare per quanto riguarda le dimensioni delle popolazioni etniche.

Dall’indipendenza ad oggi, i governi hanno cercato di esasperare un nazionalismo propagandistico e discriminatorio, basato sul privilegiare l’etnia dei Bamar, predominante nel paese (il 68% della popolazione, secondo il citato censimento del 2014).

I Bamar parlano il birmano (lingua ufficiale) e professano il buddhismo theravada. I vantaggi politici e sociali dei Bamar sono stati palesi anche nelle elezioni del 2015, che hanno inaugurato il breve periodo della transizione democratica con il volto di Aung San Suu Kyi, essa stessa di etnia bamar.

Contadini birmani. Foto Karl Ferdinand – Pixabay.

I Rohingya e gli errori della Lady

Negli ultimi anni, la maggior parte dei rifugiati – sia all’interno che all’estero (soprattutto in Bangladesh) – sono stati i citati Rohingya dello Stato Rakhine, minoranza etnica musulmana da sempre – ne abbiamo accennato – oggetto di repressione.

Nel 2016 e nel 2017, il Tatmadaw e le forze di sicurezza locali hanno organizzato una brutale campagna contro di essi, uccidendo migliaia di persone e radendo al suolo centinaia di villaggi. Gruppi per i diritti umani e funzionari delle Nazioni Unite sospettano che i militari abbiano commesso un genocidio.

Tanto che, a novembre 2019, il Gambia, paese africano distante 11.500 chilometri dal Myanmar ma a grande maggioranza islamica, ha intentato una causa internazionale contro il Myanmar presso la Corte internazionale di giustizia con sede a l’Aia (International court of justice, Icj), accusando il paese di aver violato la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio.

Da parte sua, quando era al governo, Aung San Suu Kyi ha sempre negato che fosse in atto una pulizia etnica, pregiudicando in maniera importante la sua immagine virtuosa di premio Nobel per la pace e confermando che la giunta militare non aveva mai smesso di dirigere, da dietro le quinte, le azioni del neoeletto governo democratico. Peraltro, le prospettive di una democrazia giusta e rispettosa nei confronti delle minoranze etniche si erano esaurite anche con la Lady al potere non soltanto per la questione dei musulmani rohingya, ma anche per le altre minoranze etniche che non hanno ottenuto più vantaggi o più partecipazione politica. Nelle camere del parlamento, i Bamar detenevano il 60,2% dei seggi, i Kachin 1,2% e poco di più le altre minoranze, a eccezione dei Rohingya che, non avendo diritto al voto, non potevano avere rappresentanti all’interno delle camere. Dunque, anche con Aung San Suu Kyi al governo, il Myanmar aveva confermato di essere un’«etnocrazia».

Gli eserciti etnici

Le tensioni con i gruppi etnici hanno radici nel passato e sono state esacerbate dalla giunta militare al potere nel 1962, che ha ridotto i diritti delle minoranze alimentando interminabili conflitti armati con il Tatmadaw. Questo ha portato alla formazione di più di venti organizzazioni armate etniche e oltre a dozzine di piccoli gruppi di milizie, producendo quella che alcuni analisti hanno descritto come la guerra civile più lunga del mondo.

Le zone calde dove risiedono i movimenti indipendentisti sono principalmente quelle lungo i confini: nello Stato Rakhine, l’esercito buddhista pro-Rakhine (non Rohingya); nello Stato Kayin, i Karen; nello Stato Shan, lo Shan state army (scisso in due gruppi, Nord e Sud) e l’United wa state army (nato dal partito comunista e con base nell’etnia wa); nello Stato Kachin e parzialmente in quello Shan, l’esercito per l’indipendenza dei Kachin (Kia).

Dopo il golpe del febbraio 2021, secondo molte organizzazioni per i diritti umani, la maggiore resistenza contro la nuova giunta militare si registra negli stati birmani a forte presenza cristiana: lo Stato Chin, abitato da una maggioranza di cristiani, e lo Stato Kachin.

Soldati palaung nello Stato Shan. Foto Steve Tickner / Frontier Myanmar.

I Kachin e il Tatmadaw

Dopo i Chin, la seconda minoranza cristiana presente in Myanmar sono i Kachin. Il numero esatto di questa etnia è sconosciuto a causa dell’assenza di dati affidabili. Tuttavia, la maggior parte delle stime suggerisce che potrebbero essere circa un milione. Di essi circa il 34% è cristiana, mentre la parte restante segue il buddhismo o l’animismo.

Con i Kachin le ostilità nascono ufficialmente nel 1961 con la formazione del Kachin independence army (Kia), creato dalla diserzione di militari kachin, precedentemente arruolati dall’esercito nazionale.

I Kachin sono una delle minoranze etniche che avevano firmato l’accordo di Panglong del 1947, e come tali avevano ricevuto l’approvazione per la creazione di un proprio stato separato, che si rifletteva nella prima costituzione della Birmania di recente indipendenza. Per un po’ questo era stato sufficiente per evitare insurrezioni immediate contro il governo. La situazione cambia drasticamente nel 1961, quando il buddhismo viene dichiarato religione di stato. Percepito come un affronto dai Kachin cristiani, si arriva alla creazione della Kachin independence organisation (Kio) e la sua ala militare, il citato Kia. L’ultima provocazione è il colpo di stato militare del generale Ne Win nel 1962, poiché il presidente eletto all’epoca è un Kachin, Sama Duwa Sinwa Nawng.

Anche i Kachin subiscono il fenomeno della «birmanizzazione» dell’esercito e delle istituzioni pubbliche. Con essa cresce un forte senso di discriminazione ed esclusione che alimenta la ribellione nelle aree kachin.

Nei primi anni dell’insurrezione, il Kio è in grado di controllare gran parte dello Stato Kachin. La situazione comincia a cambiare dopo il 1988 quando il «Consiglio statale per il ripristino della legge e dell’ordine» (Slorc) inizia a concludere accordi di cessate il fuoco con altri gruppi ribelli e, quindi, a concentrare le forze militari contro i ribelli kachin. La conseguenza è che, nel 1994 (Myitkyina, 24 febbraio), il Kio decide di stipulare un cessate il fuoco con la giunta, che gli consente un certo grado di controllo amministrativo nello Stato Kachin, sebbene tutte le terre e le risorse naturali rimangano sotto l’autorità del «Consiglio per la pace e lo sviluppo» (Spdc).

Secondo Human rights watch, l’accordo di Myitkyina, però, non pone fine alle violazioni dei diritti umani da parte di nessuna delle due parti. Il Kia – secondo gruppo armato etnico non statale del Myanmar – continua a reclutare bambini-soldato, mentre l’esercito birmano continua a utilizzare il lavoro forzato e a confiscare terreni.

Nel 1999 viene fondata l’Organizzazione nazionale kachin (Kno) con l’obiettivo di ripristinare un’autentica unione federale nel paese. Negli anni, il movimento nazionalista kachin è riuscito a creare una forte identità politica tra i diversi sottogruppi di Kachin che abitano la regione. Il Kio mantiene un’amministrazione civile che governa ancora una parte del territorio, operando come uno stato parallelo con propri dipartimenti di salute, istruzione, giustizia.

Accordi fittizi e lotta per le risorse

Tra il 2009 e il 2010, il governo centrale annuncia (mmpeacemonitor.org) che tutti i gruppi armati soggetti ad accordi di cessate il fuoco avrebbero dovuto trasformarsi in una forza di guardia di frontiera (Border guard forces, Bgf) sotto il controllo diretto dell’esercito birmano e rinunciando alla propria autonomia.

I Kachin respingono la proposta, affermando che la propria milizia non si sarebbe trasformata in un Bgf senza una soluzione politica alle cause del conflitto etnico. Ogni accordo di cessate il fuoco tra il Kia e l’esercito birmano va comunque in frantumi il 9 giugno 2011, quando l’esercito birmano attaccò un posto strategico del Kia dando inizio a una grande offensiva militare nello stato dei Kachin. Nei mesi successivi, il Kio perde il controllo di una parte significativa di territorio che aveva precedentemente controllato e amministrato. La presenza di risorse naturali, in particolare di giada, ha complicato la situazione. Le lotte per mantenere il controllo delle ricchezze locali hanno portato a continui combattimenti in alcune aree: i proventi delle miniere (insieme a quelli della droga) costituiscono un finanziamento a cui nessuno dei contendenti vuole rinunciare. Nel contempo, l’estrazione di risorse, la diffusa deforestazione e le dighe idroelettriche costruite nello stato dei Kachin hanno portato anche al degrado ambientale, alla distruzione dei terreni agricoli e all’ulteriore emarginazione della popolazione locale.

Raffreddare il calderone etnico

L’unica opportunità per risanare le sorti di un calderone etnico come il Myanmar sarebbe un vero dialogo tra le varie minoranze e l’élite dei Bamar. Di sicuro, le mosse della giunta militare al potere non sembrano presagire una simile svolta. A meno che gli alleati – con la superpotenza cinese e la piccola Cambogia, in primis – non convincano i militari di Naypyidaw.

Federica Mirto

Un monaco con il «mala», conosciuto anche come il «rosario buddhista». Foto Alistair McLellan – Pixabay.


Il buddhismo birmano

I due volti dello Sangha

La religione è uno dei fattori principali per identificare l’identità etnica, in alcune culture diventa anche il fattore essenziale. I politologi ci ricordano che la religione è una delle principali cause di conflitto dalla fine della guerra fredda (Bernard Lewis) e diventa un elemento esclusivo di discriminazione, anche in modo più significativo rispetto all’identità etnica per quanto riguarda il senso di appartenenza alla nazione (S.P. Huntighton). In base a questi principi, i leader politici invocano la loro lealtà verso una determinata etnia e religione rafforzando una coscienza nazionale a discapito delle minoranze.

L’arrivo del buddhismo

Il Myanmar è entrato in contatto con il buddhismo tramite gli scambi commerciali con l’India: il sovrano indiano Ashoka (304 a.C.-232 a.C.) inviava a Thaton (città dell’odierno Stato Mon) i monaci per diffondere il buddhismo. Nei secoli successivi, il clero buddhista ha assunto un’influenza cruciale per il popolo: i monasteri erano esentati dalle tasse e i giovani ricevevano un’educazione presso le strutture gestite dai monaci. La forte spiritualità si consacrava con la costruzione degli stupa (termine sanscrito che indica edifici votivi dove si conservano reliquie buddhiste), luoghi di devozione e preghiera, simbolo di identità religiosa. Troppo spesso però questa è stata strumentalizzata dai governanti, che si sono serviti della costruzione degli stupa e delle offerte per conquistare l’appoggio dei monaci. Politica e religione si sono incontrati ufficialmente quando il buddhismo è diventato religione di stato con il regno di Pakan nel 1044 e, in seguito, nel 1961 con il primo ministro U Nu fino al colpo di stato del 1962.

Strumentalizzazione e contaminazione

La politica ha strumentalizzato sempre più l’immagine del buddhismo birmano, il quale ne ha assorbito le contraddizioni andando a contaminare la sua natura pacifica.

Spinto dal processo di «birmanizzazione», il nazionalismo ha inevitabilmente innescato una cultura dell’odio verso specifiche minoranze religiose, legittimando movimenti e azioni violente. L’ideologia nazionalista è stata un’arma importante nelle mani della dittatura che ha ispirato intolleranza e marginalizzazione, cercando il costante consenso nella maggioranza del paese (circa 87,9%) che aderisce al buddhismo theravada (una delle due principali scuole di pensiero buddhista, diffusa anche in Sri Lanka, Cambogia, Laos e Thailandia).

Con il nazionalismo strettamente affiliato all’identità birmana sono nati slogan come «Essere birmano significa essere buddhista», ignorando le altre religioni presenti sul territorio come i cristiani (6,2%) e l’islam (4,3%). Una chiara volontà di mantenere esclusa la religione musulmana è stata assunta anche nelle elezioni democratiche del 2015, con colpevole complicità del partito di Aung San Suu Kyi: nessun musulmano ha avuto la possibilità di essere rappresentato nel parlamento lasciando l’87,3% dei seggi nelle mani della maggioranza buddhista e il 10,9% ai cristiani.

Papa Francesco con Sitagu Sayadaw, la massima autorità del buddhismo del Myanmar, nel corso del viaggio pontificio del novembre 2017. Foto via AdnKronos.

L’Occidente e l’iconografia buddhista

Quando, nei primi anni Novanta, il paese ha iniziato ad aprire (pur con varie limitazioni) le frontiere al turismo, l’immagine tipica con cui si sponsorizzava il Myanmar era spesso quella dei monaci vestiti con la loro tradizionale tonaca color zafferano. Oltre a essere diventati un simbolo per il turismo occidentale e cinese, i monaci hanno contribuito nell’attivismo politico del paese. Durante il periodo coloniale erano stati testimoni del movimento per la libertà della nazione e alcuni di loro avevano perso la vita nelle prigioni per mano degli inglesi. Sono stati poi in prima linea contro i militari nel 2007: ottantamila tra monaci e monache hanno manifestato per la democrazia e la liberazione di Aung San Suu Kyi, in quella che è stata poi chiamata la «rivoluzione zafferano», riprendendo il nome dal colore delle loro vesti. Le proteste sono state represse nel sangue, ma hanno certamente attivato un processo di cambiamento attirando l’attenzione internazionale e, probabilmente, hanno contribuito a spingere i militari verso le prime riforme.

In Myanmar, il sangha (altro termine di origine sanscrita che indica la comunità dei monaci) ha però due volti: quello dei monaci martiri per la lotta dei diritti democratici rappresentati da U Gambira (ex monaco che fu guida politica e religiosa durante la «rivoluzione zafferano») e quello dei monaci islamofobi che hanno manifestato con violenza nei confronti dei Rohingya, guidati da Ashin Wirathu. Due personalità buddhiste opposte, ma entrambe con le loro esistenze legate al regime militare.

U Gambira è stato torturato, imprigionato per quattro anni e, dopo l’iniziale condanna a sessantotto anni di reclusione, è stato rilasciato durante l’amnistia di prigionieri nel gennaio 2012. L’ex monaco ha sofferto diverse malattie fisiche e disturbi di salute mentale: «Mi hanno negato ogni cura medica e lasciato senza documenti d’identità. Non c’era neanche un monastero disposto ad accogliermi e, per paura di rappresaglie del governo, sono stato costretto a spogliarmi degli abiti religiosi. Diciotto mesi dopo ho sposato mia moglie Marie e ci siamo trasferiti in Thailandia» (La Repubblica, 17 febbraio 2021). Oggi U Gambira vive con la famiglia in Australia dove gli è stato concesso l’asilo politico.

Ashin Wirathu e il movimento «969»

La copertina del luglio 2013 del settimanale Usa «Time» dedicata al monaco Ashin Wirathu. Lo scorso settembre la giunta militare lo ha rilasciato.

Gambira è convinto che il sentimento antislamico non era sostenuto dalla maggior parte del clero buddhista, ma portato avanti con fervore da Ashin Wirathu e i suoi seguaci perché sponsorizzati (anche economicamente) dai militari. Il monaco di Mandalay è diventato noto in patria e all’estero per i suoi discorsi nazionalisti e persecutori nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya e come leader del movimento «969». Il numero «969» rappresenta i «tre gioielli» della religione buddhista: le 9 virtù del Buddha, le 6 caratteristiche della pratica buddhista (Dharma) e le 9 caratteristiche della comunità dei monaci (Sangha). Nel 2012, il movimento si è trasformato in una vera e propria organizzazione, il Ma Ba Tha (traducibile con «Associazione per la protezione della razza e della religione»). Ashin Wirathu basava la propria campagna antislamica sostenendo che i musulmani avrebbero conquistato il Sud Est asiatico, proclamandosi protettore dell’integrità del buddhismo, dell’identità e razza birmana.

Non a caso, nel luglio 2013, Wirathu è stato soprannominato il «Bin Laden buddhista» dal settimanale Time, che gli ha dedicato una copertina intitolata «il volto del terrore buddhista».

L’esplosione dell’odio

L’istigazione all’odio da parte del monaco ha contribuito a incentivare le violenze nello Stato Rakhine (Arakan) dove risiedono i Rohingya di religione islamica. Nel 2012, la violenza tra le comunità è aumentata, uccidendo centinaia di persone e spingendo più di 140mila Rohingya nei campi per sfollati interni al paese e, nel corso degli anni a seguire, oltre 500mila nel vicino Bangladesh, che oggi ospita il campo di rifugiati più grande del mondo: Kutupalong a Cox’z Bazar. Anche il Dalai Lama, la più alta autorità del buddhismo tibetano, ha condannato il comportamento adottato nei confronti della comunità musulmana, ricordando che usare violenza in nome della religione buddhista è impensabile.

Nel 2017, la massima autorità buddhista del Myanmar ha vietato a Wirathu di predicare per un anno e nel 2018 Facebook ha cancellato la sua pagina per incitamento all’odio.

Il governo democratico dell’epoca lo ha accusato di sedizione e incarcerato nel novembre 2020. Il 6 settembre 2021, a sorpresa, Wirathu – che oggi ha 54 anni – è stato liberato dai militari tornati al potere. Nell’attuale momento storico, ci sono, pertanto, tutti i presupposti per un ritorno in auge dei gruppi nazionalisti buddhisti. Da una parte, la giunta militare cerca con ogni mezzo di costruirsi un’egemonia solida e un gruppo di sostenitori da manovrare, dall’altra molti monaci (tra quelli sopravvissuti) degli anni della «rivoluzione zafferano» non si sono mai veramente ripresi dalla repressione, o perché lasciati ad affrontare da soli i problemi psicologici causati dalla prigionia o perché costretti all’esilio.

Federica Mirto


La Chiesa cattolica

Cristiani nel mirino

Un’immagine fa il giro del mondo suscitando ammirazione e plauso, e facendo conoscere a tutti l’esistenza di una piccola ma vivace comunità cattolica in un paese a prevalenza buddhista. Una comunità che sta pagando un prezzo molto alto per il suo impegno a favore della riconciliazione e della pace.

La suora e la polizia

È un’immagine che arriva da Myitkyina, capitale del Kachin (uno dei sette stati del paese asiatico), il 28 febbraio 2021. Suor Ann Rose Nu Tawng, infermiera di 45 anni, s’inginocchia davanti a uno schieramento di polizia chiedendo di non sparare sulla popolazione e offrendosi come ostaggio al suo posto (MC 4/2021, p. 56).

Il gesto della suora della congregazione birmana di San Francesco Saverio ha un’eco mondiale. Il 17 marzo papa Francesco, alla fine dell’udienza generale, lo ricorda: «Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar». A fine anno, la Bbc inserisce suor Ann Rose tra le 100 donne simbolo del 2021.

Il cardinale e il generale

Il gesto di suor Ann Rose rispecchia l’atteggiamento di tutta la piccola Chiesa cattolica del Myanmar impegnata a difendere i più deboli, identificata com’è con diverse etnie minoritarie, e a promuovere pace e riconciliazione. Gesti simili a quello della suora vengono fatti da altri religiosi nel paese e vengono in qualche modo raccolti e portati sotto gli occhi dei militari dagli interventi del cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, la città più importante, già capitale, e vice presidente della conferenza episcopale del paese (16 diocesi in tutto).

Il cardinale Charles Maung Bo e il generale Min Aung Hlaing tagliano una torta natalizia il 23 dicembre 2021. Foto Myanmar military information team – AFP.

Dopo la profanazione di alcune chiese da parte di militari a caccia di ribelli, e gli arresti di alcuni sacerdoti, il cardinal Bo scrive un messaggio per l’Avvento 2021 nel quale denuncia la situazione di violenza nel paese e mette in guardia i fedeli dalla tentazione di cercare vendetta, ricordando che «c’è sempre una via non violenta, una soluzione pacifica».

Il 23 dicembre, com’è consuetudine, il cardinale accoglie allo scambio di auguri di Natale del personale dell’arcidiocesi di Yangon il senior general Min Aung Hlaing, che partecipa alla festa per la terza volta accompagnato da molti esponenti del Tatmadaw. Durante l’incontro, il generale e il cardinale hanno un momento di dialogo privato di cui non si conosce il contenuto. Le foto del taglio della torta di Natale vengono ampiamente diffuse dall’ufficio informazioni dei militari e raccontate da The Global New Light of Myanmar, il quotidiano ufficiale in lingua inglese dei golpisti, che vi dedica l’intera pagina 4 esaltando l’impegno dell’esercito per la pace nel paese.

Il giorno dopo, però, il 24 dicembre, i militari compiono un massacro nel villaggio di Mo So, che ha una forte presenza cristiana (vedi pag. 36). Almeno 35 persone, per lo più donne e bambini, sono uccisi, tra essi due operatori di Save the children. Il giorno di Natale vengono ritrovati i loro corpi carbonizzati all’interno di tre veicoli dati alle fiamme. Il 26, nella sua dichiarazione di condanna dell’accaduto, il cardinale Bo definisce il massacro un «indicibile e spregevole atto di barbarie disumano». Assicura la sua preghiera per le vittime e i loro cari. «L’intero nostro amato Myanmar è ora una zona di guerra», afferma facendo riferimento anche agli attacchi aerei nello stato di Kayin che hanno costretto migliaia di persone a fuggire oltre il confine con la Thailandia e ai bombardamenti a Thantlang, nello stato di Chin. «Quando finirà tutto questo? Quando cesseranno decenni di guerra civile in Myanmar? Quando potremo godere della vera pace, con giustizia e vera libertà? Quando smetteremo di ucciderci l’un l’altro? Fratelli che uccidono fratelli, sorelle che uccidono sorelle: questa non potrà mai e poi mai essere una soluzione ai nostri problemi. Pistole e armi non sono la risposta».

L’ultimo intervento significativo del cardinale risale al primo febbraio, giorno del primo anniversario del golpe militare: «Basta armi, aiutateci a ricostruire la pace». E, rivolgendosi ai cristiani: «Sentiamo il vostro dolore, la vostra sofferenza, la vostra fame. Capiamo la vostra delusione, comprendiamo la vostra resistenza. […] A quelli che credono solo nella resistenza violenta diciamo: “Ci sono altri mezzi”».

Papa Francesco e Aung San Suu Kyi nell’incontro del 28 novembre 2017 a Naypyidaw, capitale del Myanmar. Foto AFP.

Francesco e Aung San Suu Kyi

In Myanmar, il buddhismo è stato religione di stato in due occasioni (attorno all’anno mille, durante il Regno Pagan, e nel 1961-’62). La Costituzione del 2008 (sezione 361) gli ha invece attribuito una posizione speciale rispetto alle altre fedi religiose.

Con poco più del 6% dei birmani, il cristianesimo (battisti, anglicani e cattolici) è la seconda fede religiosa dopo quella buddhista. I cattolici sarebbero circa 750mila, in gran parte tra le minoranze etniche dei Karen, Kachin, Chin, Shan e Kayan.

Nel novembre del 2017, Francesco è stato il primo papa a visitare il paese, incontrando autorità civili, militari e religiose. Tra queste ultime anche il monaco Sitagu Sayadaw, leader dei buddhisti del paese asiatico, lontano dall’estremismo di Ashin Wirathu, il monaco di Mandalay, noto per le sue posizioni ultranazionaliste e antimusulmane. Durante quel viaggio, papa Francesco ha incontrato anche Aung San Suu Kyi, leader civile del governo, all’epoca molto criticata a livello internazionale per non aver difeso la minoranza dei Rohingya musulmani dello Stato Rakhine, oggetto di persecuzione (ma molti parlano di genocidio) da parte dell’esercito e dei buddhisti.

Per il Myanmar, anche il 2022 inizia sotto i peggiori auspici con pesanti attacchi dell’esercito negli stati etnici. Il 10 gennaio scorso, rivolgendosi al Corpo diplomatico in Vaticano, Francesco ha detto: «Dialogo e fraternità sono quanto mai urgenti per affrontare, con saggezza ed efficacia, la crisi che colpisce ormai da quasi un anno il Myanmar». Le sue «strade, che prima erano luogo di incontro sono ora teatro di scontri, che non risparmiano nemmeno i luoghi di preghiera».

A metà gennaio, anche mons. Marco Tin Win, arcivescovo di Mandalay, è intervenuto ricordando che il paese sta affrontando «la crisi del Covid-19, la fame, le guerre civili e la tortura».

La redazione

Ha firmato questo dossier:

Federica Mirto – È laureata in scienze politiche alla Sapienza di Roma. Ha dedicato la sua tesi magistrale (in lingua inglese) al Myanmar: «The ethnic minorities in the democratic processes: the case of Myanmar and Rohingya». Ha svolto vari periodi all’estero: studio presso l’Università di Nantes (Francia), volontariato presso il monastero tibetano Pema ts’al Sakya di Pokhara (Nepal), volontariato presso Oxfam di Manchester (Gran Bretagna), tirocinio a Bruxelles (Belgio), lavoro a Cork (Irlanda) e Edimburgo (Scozia), volontariato a Tijuana (Messico). Oltre che per MC, pubblica articoli e foto per alcune testate online.

 

Parata dell’esercito dei Palaung a Tangyan, nello Stato Shan, lo scorso 12 gennaio 2022. Foto STR / AFP.




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




Libia: Le macerie della guerra


Una città abitata da discendenti degli schiavi. Una popolazione che durante la guerra si è schierata dalla parte sbagliata. Tawargha ha pagato tutto questo con l’annientamento della sua comunità. Vediamo cosa è successo durante la guerra e che ne è oggi.

Siamo a Misurata, nel luglio 2012. Ciccio è ossessionato dal ricordo del suo chihuahua. Si chiamava Alex: un omaggio al suo idolo calcistico Alessandro Del Piero. Alex è morto nella primavera del 2011, nella fase più calda della guerra civile libica. Terrorizzato dal colpo di un mortaio esploso vicino casa, aveva cercato rifugio in una grondaia nella quale era rimasto incastrato. Ciccio lo ha trovato lì, morto.

«Il cuore di Alex – ricorda Ciccio – non resistette allo stress di quei giorni. A Misurata non faceva altro che piovere piombo».

Ciccio è di Misurata, una delle città che più hanno dato filo da torcere agli uomini di Muammar Gheddafi. La sua famiglia conta ben nove martiri della rivoluzione. La perdita di tutti quei parenti lo aveva scosso, ma non così tanto da indurlo a imbracciare un fucile per vendicarli e liberare la Libia da Shafshufa (Ricciolone), come veniva chiamato sottovoce il Rais. È stata la perdita di Alex a sancire l’inizio del nuovo corso rivoluzionario di Ciccio.

«Vedere il mio Alex morto di crepacuore fece scattare qualcosa in me. Era la creatura più innocente sulla faccia della terra. Montò in me una collera mai provata prima e il giorno seguente ero già un thuwar (rivoluzionario)».

Murad – il vero nome di Ciccio – ha 27 anni. Ciccio è il soprannome che i suoi compagni d’armi gli hanno affibbiato quando si è presentato alla qatiba (brigata) cui appartenevano alcuni dei suoi cari perduti in combattimento. L’ingombrante stazza di Murad, sommata alla diffusione della lingua italiana in Libia, non ha lasciato scampo al ragazzo: il nome di battaglia «Ciccio» è stato un plebiscito.

Ciccio il miliziano

Da oltre un anno Ciccio fa parte della qatiba misuratina Malik Idris, in onore di re Idris, detronizzato nel 1969 a seguito del golpe di Gheddafi.

Il quartier generale della Malik Idris si trova all’ingresso Ovest di Misurata, sullo stradone che collega la città alla capitale Tripoli. L’intero compound è circondato da scheletri di carri armati e pick up andati distrutti durante la guerra.

È luglio inoltrato, il caldo è asfissiante e le prime ombre della sera non portano alcun refrigerio. È finalmente arrivata l’ora della rottura del digiuno del Ramadan. Un’unica scodella con del latte di mandorla viene fatta girare tra i miliziani e il primo a poggiarci le labbra è Ali, il capo della Malik Idris.

Poco più che quarantenne, fisico asciutto e baffi neri, Ali apre la busta di datteri da distribuire ai suoi. «Guai a te se te li mangi tutti come l’ultima volta», intima Ali al povero Ciccio. «È un bravissimo ragazzo, ma ha un chiodo fisso: quel chihuahua. Mi chiedo come possa piacere tanto una bestia del genere».

Incurante, Ciccio caccia dalla tasca dei jeans un Nokia malconcio sul cui display c’è una foto che lo ritrae con Alex in braccio. «Lui è dalla mia parte. Mi porta bene! Se sono sopravvissuto a Shafshufa è anche un po’ merito suo». Bacia lo schermo del cellulare come se fosse una reliquia.

La guerra è ufficialmente finita da quasi un anno. Tutto fa sperare al meglio per la nuova Libia hurra (libera). Ma nessuno vuole abbandonare le armi, e la qatiba Malik Idris non è da meno. Ali e i suoi uomini vogliono dimostrare cosa fanno i rivoluzionari in tempo di pace.

L’appuntamento è per l’indomani all’alba. I thuwar, puntualissimi, si fanno trovare già con i motori accesi a bordo di due pick up tirati a lucido. Saldata sui cassoni, l’immancabile artiglieria contraerea.

Oltre a Ciccio e ad Ali, ci sono Mohamed, cinquantenne capo in seconda; Salam, appena diciottenne; Abdul-Kareem, trentenne; Amir, l’undicenne primogenito di Ali che maneggia il kalashnikov con la destrezza di un veterano. I thuwar, in tre per vettura, sono eccitatissimi. «Si va a caccia di negri a Tawergha», annuncia con un ghigno Ali.

Città fantasma

Tawergha, distante una quarantina di chilometri da Misurata, è stata ridotta a un cumulo di macerie dalla furia della qatiba di Misurata. Prima della rivoluzione del 2011 era abitata dai circa 35mila neri discendenti degli schiavi condotti in Libia nel corso del XVIII secolo. Oggi è deserta.

Gheddafi aveva piazzato ad hoc molti tawergha (pure il nome degli abitanti, ndr) agli alti ranghi dell’esercito e della pubblica amministrazione. Durante la guerra, Tawergha era stata anche la base di lancio dei missili governativi Grad che avevano messo in ginocchio Misurata.

«Odiamo i negri tawergha – afferma senza giri di parole Mohamed – perché stuprarono le donne misuratine durante la guerra. Per questo ci siamo scatenati contro di loro».

Mohamed, Salam e Ciccio, l’equipaggio del pick up che fa da apripista, giurano di non avere in famiglia casi di donne violentate.

Difficile arrivare a un numero approssimativo delle presunte violenze sessuali perpetrate dai tawergha. L’Onu non dispone di dati attendibili. A Misurata c’è chi sostiene di avere visto i video degli stupri scovati nei cellulari confiscati ai prigionieri tawergha, ma sono immagini che con ogni probabilità non verranno mai utilizzate come prova davanti a un tribunale, soprattutto per la reticenza dei familiari delle vittime.

Tawergha è una città fantasma. Mohamed ha una mano sul volante e l’altra sul kalashnikov. Appena scorge in lontananza un cagnone nero che rovista tra i rifiuti in cerca di cibo, lo punta, si scaglia contro di lui a tutta velocità, caccia fuori dal finestrino del pick up l’arma e fa fuoco con la mano sinistra, non la sua preferita. «Sarà appartenuto a un tawergha e quindi è un cane tawergha», urla e digrigna i denti. Manca di parecchio il bersaglio. A tutta velocità i pick up percorrono quella grande groviera che è diventata la città. Inchiodano davanti a una villetta danneggiata esternamente dal fuoco e disabitata. «È questa qui. Dai, rapidi», urla Ali.

Ha inizio lo spettacolo: Ali fa fuori due caricatori contro la credenza della cucina e un frigorifero malandato; Mohamed mette in fila delle bottiglie, e questa volta centra ogni bersaglio al primo colpo; con una spranga di ferro Abdul-Kareem si scaraventa contro le pale di un ventilatore da soffitto; Salam sfonda a calci le ante di un armadio nella camera da letto dei bambini; il piccolo Amir raggruppa dei giornali ingialliti e gli dà fuoco senza riuscire ad appiccare un incendio: «La benzina! Dovevo portare la benzina!»; Ciccio urina sulle foto di famiglia trovate in un ripostiglio.

Il tutto dura più di mezz’ora. Ali prende una mappa di Tawergha e con un pennarello fa una croce sul punto dove è segnata la villetta. «Ogni volta che visitiamo una casa – sorride il capo – la segniamo qui. Ci manca poco per passare al setaccio tutta la città».

I tesori dei Tawergha

Ciccio sussurra qualcosa all’orecchio di Ali. «Ok ma fa presto. E se trovi qualcosa voglio la mia parte», gli risponde il comandante. Ciccio afferra una pala dal cassone del pick up e comincia a scavare davanti l’uscio della villetta vandalizzata. Secondo una recente leggenda, durante la guerra, al momento della fuga dalla città, i tawergha avrebbero scavato delle buche all’ingresso di casa seppellendo oggetti preziosi per non farli finire nelle mani dei thuwar. E, vuole sempre la leggenda, i tawergha approfitterebbero delle tenebre per recuperare i loro tesori.

Ciccio raggiunge il gruppo a mani vuote e tutto sporco di terra. Il goffo miliziano emana una puzza di sudore acido che fa subito scattare le battute impietose dei suoi compagni. Ripone la pala nel cassone e sbuffa sonoramente. È tempo di ripartire. Per i 250 chilometri che dividono Tawergha da Tripoli, disseminati di posti di blocco delle milizie, quasi non viene proferita parola. La sete e la fame del Ramadan si fanno sentire.

Essere nero in Libia

La tappa successiva è il campo per sfollati di Fellah, alle porte della capitale. Prima della guerra questo era il cantiere di una clinica privata. Oggi sono rimasti solo una quindicina di container utilizzati per ospitare i tawergha scappati dalla loro città. L’Onu presta una modestissima assistenza a circa mille sfollati della città fantasma che non hanno potuto trovare una soluzione più dignitosa, magari all’estero. La «sicurezza» è gestita dai thuwar. Non è un’impresa semplice convincere Ali e la sua truppa a rimanere al di fuori della recinzione. Vogliono assistere ai colloqui con gli sfollati. «Quei negri – sbotta Mohamed – raccontano un sacco di balle. Sono delle serpi, negano di avere violentato le figlie di Misurata». Ma alla fine desistono e optano per un riposino all’ombra di una palma.

Gli anziani tawergha sono tutti riuniti sotto un tendone. «Non abbiamo nulla da perdere, ci ammazzassero pure quei cani. Questa non è più vita per noi», esordisce Houssein, 73 anni, maestro di scuola elementare in pensione, che durante la guerra ha perso sette dei suoi undici figli. «Essere nero in Libia oggi vuol dire essere un uomo morto. È vero, Tawergha è rimasta fedele a Gheddafi fino alla fine. Ma che potevamo fare?».

«Siamo cittadini libici – interviene Omar, 68 anni, che a Tawergha aveva un piccolo ristorante – e abbiamo dei diritti che vengono calpestati di continuo. Gli stupri delle donne ci sono stati da una parte e dall’altra. E poi, dato che siamo neri, ci associano ai mercenari africani assoldati da Gheddafi».

Una donna spinge la sedia a rotelle di Samir, 27 anni. L’uomo è in queste condizioni da quasi un anno. Fuggiva da Tawergha insieme al fratello maggiore Yoosuf. I due sono incappati in una qatiba misuratina. I miliziani hanno pestato a sangue i due fratelli fino a spaccare loro le ossa di braccia e gambe. L’ultimo colpo in testa, sferrato con una mazza di legno, è stato letale per Yoosuf. Samir ha visto un solo dottore dopo settimane dall’aggressione, troppo tardi per ricomporre le fratture riportate.

Il tempo a disposizione al campo di Fellah è terminato. È Ciccio a comunicarlo, indicando col dito l’orologio al polso. Una volta varcata l’uscita, senza dire nulla, Ciccio corre indietro verso gli anziani tawergha. Visto da lontano, il miliziano sembra usare modi gentili nei loro confronti. Ma la cortesia dura ben poco: Ciccio comincia a imprecare contro di loro, arrivando a puntargli contro il kalashnikov. «Non mi hanno voluto dire dove hanno sepolto i loro tesori. Gli ho pure proposto che avremmo potuto fare a metà, che l’oro l’avrei recuperato io. Sono furbi quei negri, vogliono tenersi tutto per loro».

Aprile 2021

Dopo nove anni dal nostro viaggio, ci domandiamo come sia la situazione della città di Tawerga oggi, se continua a essere una città fantasma o meno. Riusciamo a contattare due tawergha. Non è stato facile. Hanno accettato di parlare a patto di rimanere nel più assoluto anonimato. Sono due cugini di Tawergha, dal 2011 residenti a Tripoli.

Raggiunti via Skype, si mostrano in video con delle sciarpe che coprono la parte inferiore del volto. Hanno gli occhi scavati e una profonda stempiatura. Sembrano avere più anni di quelli dichiarati, 33 e 36. Si percepisce subito che i due uomini sono molto affiatati: uno termina le frasi dell’altro.

Spiegano che la tregua stipulata nel 2019 tra Misurata e Tawergha sembra tenere, e che da allora circa 4mila persone hanno fatto ritorno alla città fantasma. «Noi abbiamo deciso di vivere in capitale ma abbiamo alcuni parenti che hanno preferito riappropriarsi delle loro case. Non è un’impresa facile rimettere in piedi una montagna di macerie, specialmente quando i fondi a disposizione sono scarsissimi».

Il governo di Fayez al-Serraj ha stanziato circa 100 milioni di dinari (circa 18 milioni di euro) per la ricostruzione di Tawergha e i risarcimenti ai familiari delle vittime di Misurata morte in battaglia contro i tawergha. «Non è chiara la distribuzione di questo denaro e se realmente è arrivato a destinazione», si fanno eco i due cugini.

Le uniche attività commerciali che hanno riaperto a Tawergha sono negozi di alimentari e qualche ferramenta. «Per qualsiasi altro prodotto bisogna mettersi in macchina e raggiungere Misurata, con il rischio di essere presi a schiaffi solo per il colore della pelle, oppure andare a Tripoli. Che razza di vita può mai essere questa?».

Il neo governo di Mohamed al-Menfi (in carica dal 15 marzo scorso, ndr) si è detto interessato alla rinascita di Tawergha. «È giusto dargli il tempo di lavorare, ma non vogliamo farci troppe illusioni. Tutti sanno ciò che ha dovuto subire la nostra gente, peggio di come siamo stati trattati dalla cacciata di Gheddafi non può certo andarci».

Dalla fine della guerra, la maggior parte dei tawergha si è stabilmente stanziata a Tripoli e Bengasi. Persone che sono riuscite, tra mille difficoltà, a ricostruirsi una parvenza di vita normale grazie a lavori umili. Gli stessi due cugini, ai bei tempi di Tawergha geometra e titolare di una ditta di spedizioni, attualmente sono impiegati come netturbini con una paga da fame.

«Quelli che sono tornati non vogliono parlare, temono rappresaglie. Non crediamo che Tawergha si ripopolerà più come una volta. Ormai quello è un luogo di dolore, non è rimasto nulla di buono lì. Neanche i tesori di cui tanto hanno parlato i thuwar di Misurata».

Luca Salvatore Pistone




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.

 

 




Ribelli, mercenari ed eserciti

testo di Marco Bello |


Pare strano che uno dei paesi più poveri dell’Africa sia di tanto interesse per potenze mondiali e continentali. Il conflitto che dura dal 2013 e si sta riattizzando, sotto forme diverse, suscita non pochi interrogativi. La risposta, come sempre, sta nel sottosuolo.

«La gente è demoralizzata. La cosa più brutta è che manca la speranza», ci racconta una nostra fonte da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, che richiede l’anonimato.

Nel grande paese nel cuore dell’Africa (esteso due volte l’Italia, con 5 milioni di abitanti), senza sbocchi sul mare, negli ultimi mesi da sotto le ceneri di una mai spenta guerra civile, è venuta una fiammata.

Tutto è iniziato a metà dicembre 2020, quando sei gruppi ribelli, attori del conflitto che ha insanguinato il paese tra il 2013 e il 2018, sono tornati allo scoperto uniti sotto il nome di Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc) e ha attaccato l’esercito regolare, le Faca (Forze armate centro africane), prendendo il controllo di diverse città. Si dice che siano arrivati a controllare i due terzi del paese. È stata la ripresa della guerra,che, dopo gli accordi di Karthoum del 2019 tra governo e alcune fazioni ribelli, si era placata, lasciando di fatto irrisolti molti problemi.

«Una mossa che in qualche modo ci si aspettava con l’approssimarsi delle elezioni», rivela la nostra fonte. Il 27 dicembre scorso, si è infatti tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali e legislative. Elezioni perturbate appunto dagli attacchi della Coalizione in diverse zone del paese. Il 14 marzo, poi si è svolto il secondo turno delle legislative, ma anche il recupero del primo turno nei seggi dove non era stato possibile votare. Le presidenziali, invece, avevano già dato un risultato al primo turno, con la rielezione del presidente Faustin-Archange Touadéra, in carica da cinque anni, con quasi il 54% dei voti.

La rinascita dei ribelli

Ma chi sono questi ribelli? Come sono organizzati? Chi li arma? E quali sono le altre forze in campo?

Nella Coalizione si assiste a un «matrimonio contro natura», commenta la nostra fonte, in quanto si trovano gli anti Balaka con gli ex Séléka, feroci avversari negli anni 2013-2018. Inoltre a metà marzo la Coalizione ha chiesto al generale François Bozizé, di diventare il suo coordinatore, e lui ha accettato. Bozizé, presidente dal 2003 al 2013, che era stato cacciato dal potere proprio dai Séléka.

La nostra fonte mette in evidenza alcune anomalie dell’attuale ribellione: «I ribelli di oggi sembrano diversi da quelli del periodo precedente. Sono bene armati e organizzati. Non compiono saccheggi efferati come facevano prima. Sembra che ci sia qualche finanziamento dietro. Questo è un primo elemento». Inoltre, continua, «la coalizione nasce contro il presidente Touadéra, però ha disturbato le elezioni in zone del paese dove questi difficilmente avrebbe vinto. Anche questo elemento è strano».

I ribelli, intorno al 20 dicembre, oltre a conquistare diverse città, hanno pure bloccato la Rn3, strada principale che collega Bangui con il Camerun, e quindi con lo sbocco sul mare, il porto di Douala, e il resto del mondo. Tutte le merci principali, compresi i beni di prima necessità, arrivano nel paese attraverso la Rn3, che passa da Bossembélé, Baoro, Bouar. «È il cordone ombelicale del paese, ed è rimasto bloccato due mesi. Così i prezzi in capitale e nel resto del paese sono aumentati», ci racconta padre Federico Trinchero, delegato provinciale dei Carmelitani Scalzi in Rca, raggiunto telefonicamente a Bangui.

Intorno al 13 gennaio i ribelli hanno attaccato Bangui, e sono stati a un passo dal conquistarla. «C’è stato un tentativo, che però non ha convinto nessuno, di prendere la capitale. È sembrata una finta. Erano pochi e male organizzati, al contrario del solito. Un altro elemento quanto meno strano». La nostra fonte sembra quasi ipotizzare degli accordi segreti tra ribelli e presidente.

Il Presidente Faustin-Archange Touadera (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Nuovi alleati

La mossa del presidente Touadéra, già a dicembre, è stata quella di chiedere aiuto a due alleati fondamentali e insoliti per un paese da sempre «feudo» della Francia: il Rwanda di Paul Kagame e la Russia di Vladimir Putin.

Il Rwanda era già presente nel paese con un contingente nella Minusca (i caschi blu dell’Onu), per la quale, tra l’altro, fornisce il numero più elevato di uomini (1.686, dato di agosto 2020), ma ha prontamente schierato militari sotto i colori nazionali, circa 800 uomini ben armati e addestrati. «Il Rwanda da tempo aveva interesse a estendere la sua zona d’influenza in un paese ricco di oro e diamanti come la Rca», e si sa, il piccolo Rwanda è uno dei maggiori esportatori di minerali e preziosi (oro, coltan, ecc.), sottratti a paesi terzi (in particolare la Repubblica democratica del Congo).

I russi invece sono presenti in Rca con mercenari, o paramilitari, una milizia privata, assimilabile alla Wagner, compagnia militare privata, che avrebbe legami diretti con il ministero della Difesa russo, e che è stata impiegata in Siria e in Ucraina. Ufficialmente, l’ambasciatore Vladimir Titorenko, in un’intervista rilasciata a Radio France internationale, li chiama «istruttori», al servizio del ministero della Difesa russo, che in nessuno caso sono coinvolti in scontri armati. Chi li ha visti in azione dice che sono piccoli gruppi di militari esperti, sui 35-40 anni, che non stanno nelle caserme, ma si mischiano con la gente, occupando delle case vuote, dove stabiliscono le loro basi. Sono ben armati, forniti di risorse economiche, «pieni di dollari», e affiancano le truppe della Faca in operazioni di combattimento. L’ambasciatore conferma un incremento di 300 unità sulle 235 già presenti nel paese e pure quattro elicotteri da combattimento.

Grazie a questi potenti alleati, le Faca hanno potuto respingere i ribelli della Coalizione, riconquistando città dopo città, a partire da fine gennaio. «In effetti i ribelli si sono ritirati mano a mano che gli altri risalivano. Il problema è che non si è fatta pulizia, queste milizie si sono solo spostate», dice la fonte. In questo modo però è stata liberata anche la strada verso il Camerun, il 22 febbraio, e i camion hanno ripreso a circolare.

Ma la gente ha paura, i ribelli sono nelle campagne. «Nella nostra scuola di Baoro, gli alunni sono passati da 1.700 a 800, perché i genitori non vogliono mandarli. L’ospedale nei pressi di Bouar è inattivo, perché il personale e i pazienti non si fidano ad andarci», ci dice padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano a Bouar.

Bangui, durante le elezioni del dicembre 2020 (Photo by Nacer Talel / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Caschi «blu stinto»

Poi c’è la missione delle Nazioni Unite in Rca (Minusca), presente nel paese dal 2014, una delle tre più grandi missioni Onu al mondo. Oggi può contare su circa 13.200 effettivi (di cui 10.800 militari, gli altri polizia e staff tecnico) e ha recentemente chiesto e ottenuto dal Consiglio di sicurezza un aumento di 3.700 unità. Le loro regole d’ingaggio non prevedono di attaccare il nemico, ma di rendere sicuro il processo elettorale.

La gente li accusa di immobilismo. «I ribelli sanno che i militari Minusca non possono andare oltre un raggio di cinque chilometri dalla loro postazione, per cui mettono il posto di blocco per fermare la gente a sei, e fanno quello che vogliono. Molti pensano che la richiesta di aumento sia una vergogna, perché aumenteranno le spese, ma continueranno a non fare niente».

Le vittime dei recenti scontri sono soprattutto i civili, di cui si contano circa 200mila profughi. La metà sono sfollati interni, secondo l’Ocha (Organizzazione delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario). Circa 105mila si trovano invece in Rdc, Ciad, Camerun e Congo.

Il primo ministro Firmin Ngrebada (al centro)  saluta la truppe mentre un elicottero russo vola sopra. (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Cuori uniti

Il presidente Touadéra non è molto amato dalla popolazione: «In cinque anni non ha fatto granché – dice la nostra fonte -. Adesso è stato rieletto con poco più di 300mila voti, ovvero meno del 20% degli aventi diritto. Questo ci dice che è una presidenza debole e che la situazione non è per nulla stabile, potrebbero esserci recriminazioni».

Anche le legislative non sono state tanto favorevoli al partito del presidente, il Mcu (Movimento cuori uniti) che, pur restando maggioritario, è inseguito da indipendenti e opposizione. Anche il 14 marzo, in diverse zone del paese non si è potuto votare, ma l’Autorità nazionale elettorale ha assicurato che il 96% dei seggi è stato aperto.

Il maggiore concorrente di Touadéra, arrivato secondo alle presidenziali, è Anicet-Georges Dologuélé. È stato rieletto all’Assemblea nazionale, ma non brilla per iniziativa. «Le opposizioni, in particolare Dologuélé, hanno molto deluso. Non hanno reagito in tempo, avrebbero potuto creare delle alleanze, negoziare qualcosa di politico, ma non sono state all’altezza», sostiene la nostra fonte.

Secondo padre Federico: «Al contrario che nel 2013, nei recenti scontri non c’è l’elemento confessionale. Il tentativo di destabilizzare il paese è solo una guerra per il potere, quelli che erano nemici sono diventati alleati, uniti per prendere il potere». E continua: «Abbiamo passato due mesi nei quali la gente era disperata, se ci fosse stato un colpo di stato, saremmo tornati al punto di partenza. Adesso, dopo la controffensiva di regolari e alleati, la gente reagisce e cerca di riprendere le proprie attività».

Marco Bello


Intervista al cardinale Dieudonné Nzapalainga

L’instancabile ricerca della pace

Il giovane cardinale del Centrafrica percorre senza sosta il paese. Spesso con i «colleghi» musulmani e protestanti. Vuole parlare al cuore e alla coscienza. Perché crede fermamente che una uova società si possa costruire. Ma solo con l’impegno e la partecipazione di tutti.

Abbiamo contattato telefonicamente il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, per chiedergli il suo punto di vista sulla ripresa della guerra. Monsignor Nzapalainga è anche un religioso della Congregazione dello Spirito Santo.

Cardinale, quali sono i maggiori problemi della Rca oggi?

«Il problema più importante è il raggiungimento della pace, perché quando c’è insicurezza, i bambini non vanno a scuola, i genitori non possono lavorare nel campo, la gente vive nascosta.

Affinché ci sia la pace occorre che i dirigenti si riuniscano, inizi un dialogo, e chi combatte riprenda a fare il lavoro che faceva prima di pensare che prendendo le armi si può diventare ricchi, distruggendo, saccheggiando. La pace inizia nel cuore di ognuno».

Lei sta percorrendo il paese per incontrare la gente.

«Sono appena rientrato da un’area di campagna, dove ho chiesto alla gente cosa è successo alla loro vita. Mi hanno spiegato dell’arrivo dei ribelli, di cosa hanno fatto, poi dell’arrivo dei regolari. Ho chiesto a tutti come potremmo ripartire, imparando da quanto è successo.

Quando sono andato a Banagassou ho parlato con i ribelli. Li ho incontrati, ho chiesto loro da dove venivano, e perché erano venuti qui e a fare cosa. All’inizio erano nervosi.

Quando si va a cercare la pace occorre farsi piccoli. Io e il mio gruppo abbiamo camminato per due chilometri e mezzo per incontrarli. Poi abbiamo aspettato che ci ricevessero. Hanno sparato in aria, ma io ho detto che se avessimo avuto paura, e fatto dietro front, non avremmo potuto costruire la pace. Forse era il modo per darci il benvenuto. Finalmente ci hanno ricevuto e abbiamo parlato con un generale e alcuni suoi collaboratori. Noi pensiamo che siano il nemico, il diavolo, ma bisogna andare a incontrarli, parlare con loro, alle loro coscienze, mendicare la fraternità e l’abbandono delle armi, affinché tutto torni normale.

Poi ci hanno detto che erano venuti a difendere il paese ed erano pronti a morire per esso. Ho chiesto al generale se aveva una madre, mogle e figli, e mi ha risposto di sì. Ho detto che loro non hanno chiesto di essere vedova, orfani. È una questione di responsabilità. Ho anche detto loro che il villaggio si era svuotato, la gente dormiva dispersa all’addiaccio, senza sicurezza, e che non è così che possiamo costruire un paese.

Andando via un giovane ufficiale mi ha accompagnato, e, in disparte, mi ha detto che le mie parole lo avevano toccato, che voleva lasciare il gruppo, che però lo avrebbero ucciso.

Ho poi saputo che tre giorni dopo la nostra visita, i ribelli hanno lasciato la posizione. Questo vuol dire che un cammino di pace è iniziato».

Ma come fare per mettere tutti d’accordo?

«Come in tutto il mondo, non possono esserci due capitani sulla stessa nave. Oggi abbiamo un presidente, si aspetta la fine del suo mandato, e si fanno altre elezioni. Ma se vogliamo cacciarlo con le armi, domani verrà un altro che le userà per mandare via noi. Bisogna che tutti accettino di deporre le armi e tornino alle proprie occupazioni. Quando vedo questi giovani armati, cerco di parlare ai loro cuori, alle loro coscienze».

In generale qual è dunque il ruolo della Chiesa?

«È fare mediazione, perché Dio unisce, mette insieme, e così dobbiamo fare noi. Il ruolo della Chiesa è anche asciugare le lacrime, perché ci sono delle vittime. Gente che ha perso tutto, può avere l’istinto della collera, dell’odio. Noi dobbiamo dire loro che Dio non li ha abbandonati, e non devono cadere nel circolo vizioso della violenza. C’è impunità, ma ci deve essere giustizia. Chi ha sbagliato deve essere fermato, occorre spiegargli che ciò non è bene.

In Rca c’è la Piattaforma delle confessioni religiose, della quale fanno parte musulmani, protestanti e cattolici. Quando riusciamo, andiamo a fare le visite insieme, io, un imam e un pastore. Se ad esempio un ribelle musulmano dice: “Il vostro ruolo è pregare Dio, perché vi immischiate in politica?”. L’imam  cita un versetto del Corano nel quale si dice che i fedeli che soffrono e sono divisi, sono figli di Dio e il sacro libro domanda loro di unirsi, dialogare, trovare soluzioni. Questa è una citazione che io non potrei fare. È insieme che cerchiamo il cammino per la pace, non ci sono riferimenti solo nella Bibbia. Insieme costruiremo la nostra società».

Il presidente Touadéra e il suo governo stanno cercando la pace?

«Sì, lo abbiamo incoraggiato a cercare la pace. Io sono andato con altri vescovi a parlargli, dicendo: anche se avete vinto la guerra, occorre fare la pace con il nemico, altrimenti chi ha perso si preparerà per vendicarsi. Abbiamo piuttosto interesse a integrare tutti, affinché ognuno abbia il suo posto e si costruisca il paese insieme. L’aspetto militare non basta, occorre anche quello politico. Noi parliamo con i ribelli e parliamo con il governo. Interpelliamo anche la comunità internazionale».

E a livello internazionale, la missione dei caschi blu cosa fa?

«Vengono da tanti paesi, è difficile metterli tutti insieme. Hanno un ruolo di interposizione, non devono sparare. Ci sono cose che funzionano, ma anche dei limiti, bisogna avere il coraggio di dirlo. La loro presenza permette di proteggere la gente, ma per contro sono passivi, quando ci sono conflitti non intervengono e la popolazione non capisce perché siano venuti così armati se poi non possono difenderli dagli attacchi».

In Centrafrica che misure sono state prese per la pandemia da Covid-19?

«Le autorità hanno preso delle misure, ma posso dire che qui c’è la mano di Dio. Qui ci sono state sensibilizzazioni che non hanno portato la gente a usare le mascherine, eppure le vittime sono state poche. Così la gente ha iniziato a dire che la malattia non è qui».

Cardinale Nzapalainga, secondo lei cosa impedisce che la guerra finisca?

«In Centrafrica non si fabbricano le armi, c’è qualcuno che le vende e si arricchisce. Vengono qui per comprare in modo illecito diamanti, oro e altri preziosi. Questi trafficanti non vogliono che la guerra finisca. Per via normale dovrebbero pagare concessioni, rendere conto del loro operato. Ma vogliono andare direttamente dai produttori. Occorre combattere questo traffico».

Marco Bello


Archivio MC

● F. Trinchero, Solo Dio può salvare il Centrafrica, agosto 2018.
● F. Trinchero, M. Bello, S. Turrin, Il convento dei rifugiati, luglio 2014.
● Marco Bello, Il cuore (malato) del continente, ottobre 2013.

Soldati del Minusca in un villaggio vicino a Bangui (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)




Etiopia: La breve ferocia

testo di Enrico Casale |


Un conflitto velocissimo e, al tempo stesso, violentissimo. Questa è stata la guerra in Tigray scoppiata il 4 novembre 2020 e durata un mese (ma combattimenti continuano tuttora nelle montagne) con gravi conseguenze umanitarie.

È un conflitto dalle radici profonde, quello al quale abbiamo assistito nel novembre scorso in Etiopia, per questo, allo scopo di comprenderne le ragioni, bisogna ripercorrere la storia del paese degli ultimi decenni.

Dei cento milioni di abitanti dell’Etiopia, il 6-7 per cento abita nella regione settentrionale del Tigray, confinante con l’Eritrea. Essi appartengono all’etnia tigrina, la stessa che è in maggioranza in Eritrea.

Negli ultimi cinquant’anni, pur essendo minoranza, i Tigrini hanno sempre ricoperto un ruolo determinante nel paese.

Potere tigrino

Siamo negli anni Settanta. Dalle montagne del Tigray, aspre e altissime, parte la resistenza contro la sanguinosa dittatura di Menghistu Haile Mariam, l’uomo che nel 1974 ha rovesciato l’imperatore Haile Selassie, e con lui la millenaria dinastia salomonide.

Proprio su quelle montagne, i Tigrini creano le loro basi, e conducono una guerriglia durissima.

In questa lotta si serra un’alleanza storica tra eritrei, guidati da Isayas Afeworki, e Tigrini etiopi, guidati da Meles Zenawi.

Quando nel 1991 questi due attori riescono, in alleanza con altre forze regionali, ad abbattere il regime dell’odiato «negus rosso», conquistando il potere, l’Eritrea si avvia all’indipendenza, e Meles Zenawi diventa premier, sostenuto dal Tigray people’s liberation front (Tplf, Fronte popolare di liberazione del Tigray).

Meles rimane al potere fino alla morte nel 2012. Sono anni duri nei quali, nonostante venga introdotto nel paese un sistema federale, il potere è concentrato saldamente nelle mani dei Tigrini che lo gestiscono con fermezza, senza grande rispetto delle altre etnie, in particolare gli Amhara, che per secoli sono stati l’anima della classe dirigente etiope, e gli Oromo, che, sebbene rappresentino l’etnia maggioritaria, sono sempre stati esclusi dal potere politico ed economico.

Rifugiati etiopici in fuga dalla guerra del Tigray – Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP

La vendetta

Con la morte di Zenawi, per i Tigrini iniziano i problemi. Progressivamente sono messi ai margini, in un processo che subisce un’accelerazione nel 2018, dopo l’arrivo di Abiy Ahmed al potere.

Abiy, primo ministro etiope, è un oromo con una lunga carriera militare all’ombra dei Tigrini. Arrivato al governo, da un lato, apre spazi alle etnie oromo e amhara, dall’altro restringe l’influenza dei Tigrini.

La mossa che scatena lo scontro con il Tplf data il 21 novembre 2019, quando Abiy dà vita al nuovo Prosperity party (Partito della prosperità), tramite la fusione di tre dei quattro partiti che componevano il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (Eprdf), e di altri cinque partiti affiliati. I partiti includono l’Oromo democratic party (Odp), il Southern ethiopian people’s democratic movement (Sepdm), l’Amhara democratic party (Adp), la Harari national league (Hnl), l’Ethiopian somali people’s democratic party (Espdp), l’Afar national democratic party (Andp), il Gambella people’s unity party (Gpup) e il Benishangul Gumuz people’s democratic party (Bgpdp).

Una mossa che non viene accolta bene dai leader del Tplf, i quali, infatti, ne rimangono fuori e si arroccano nel Tigray.

A settembre 2020, nonostante i divieti imposti dal premier Abiy, si svolgono le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, vinte, come facilmente previsto da tutti i media nazionali e internazionali, con ampio margine dal Tplf.

Il parlamento di Addis Abeba taglia i rapporti con l’esecutivo del Tigray, dichiarandolo illegittimo, e annuncia che da questo momento in avanti avrà a che fare solo con le strutture amministrative locali (comuni, amministrazioni distrettuali, ecc.) per mantenere «i servizi di base» a favore della popolazione.

La goccia che fa traboccare il vaso è l’occupazione di una base militare dell’esercito federale da parte delle milizie del Tplf. È guerra.

Conflitto breve e feroce

© GCIS / Kopano Tlape

Come tutti i conflitti civili, anche quello in Tigray è durissimo, non solo per i combattenti, ma anche per la popolazione civile.

«La situazione era già drammatica prima della guerra – spiega Fessaha Alganesh, dottoressa italoeritrea, da anni attiva nell’aiuto agli eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray -, con l’invasione delle locuste, i campi distrutti, la carenza di cibo, l’epidemia di Covid-19. A queste piaghe bibliche, si sono aggiunti i combattimenti sul terreno e i bombardamenti dal cielo».

Presto si diffondono notizie di stragi. A Mai Kadra, il 9 novembre, sembra che siano uccise decine di persone di etnia amhara. Nella città di Axum, che gli ortodossi etiopi considerano santa perché lì sarebbe conservata l’Arca dell’Alleanza, è segnalata una strage di centinaia di Tigrini che avrebbero impedito l’accesso ai luoghi santi da parte delle milizie. Diverse sono poi le segnalazioni di incidenti, inclusi attacchi di artiglieria su aree popolate, attacchi deliberati ai civili, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi diffusi.

Non si conosce l’esatto numero dei morti in combattimento. Si sa però che 950mila civili sono costretti ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi.

Migliaia di Tigrini fuggono in Sudan per cercare rifugio dalle bombe e dalle violenze. «Ho parlato con una donna che è riuscita ad arrivare in un campo profughi sudanese – continua Alganesh -. Mi ha detto che quando sono iniziati i bombardamenti intorno al suo villaggio, presa dalla paura, si è caricata il figlio più piccolo in spalla e ha preso per mano quello più grande. Ha percorso, senza nulla da mangiare, decine di chilometri per cercare un rifugio sicuro. È drammatico quanto sta succedendo. I civili fanno fatica a capire che senso abbia questa guerra».

Questa situazione impedisce l’accesso degli operatori umanitari, cosa che rende impossibile verificare sul campo tutte le denunce di violazioni dei diritti umani.

«Se i civili sono stati deliberatamente uccisi da una o più parti in conflitto, queste uccisioni costituiscono crimini di guerra. Ci sarà bisogno di indagini indipendenti, imparziali, approfondite e trasparenti per stabilire la responsabilità e garantire la giustizia», dichiara la responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che descrive gli incidenti «strazianti» e «spaventosi».

In un mese, l’esercito federale di Addis Abeba, coadiuvato dalle milizie amhara, invade tutta la regione.

Analisti militari accusano l’Eritrea di essere scesa in campo. Il governo di Asmara, che nel 2018 ha siglato un accordo di pace con Addis Abeba, avrebbe accettato volentieri di sostenere l’esercito etiope per vendicarsi di quella dirigenza tigrina che per una ventina di anni gli si era contrapposta.

A puntare il dito contro l’Eritrea sono soprattutto gli Stati Uniti. Grazie a immagini satellitari, comunicazioni intercettate e numerosi report, gli Usa avrebbero raccolto le prove del coinvolgimento dei soldati di Isaias Afewerki. Tra i loro reparti ci sarebbero anche numerosi somali che Mogadiscio aveva inviato ad addestrarsi nei campi militari eritrei e che si sarebbero trovati a combattere contro i Tigrini.

In Somalia il caso è sollevato in parlamento, ma il governo del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo non offre risposte convincenti e, al momento, si sa solo che alcuni militari di Mogadiscio sono morti (anche se le autorità affermano che sono morti durante l’addestramento).

Quella che sembra una vittoria semplice, però, potrebbe trasformarsi in una sorta di Vietnam per gli etiopi. Le forze del Tigray hanno ripiegato sulle montagne. Si sono rifugiate in una regione che conoscono bene, dove per anni hanno combattuto contro il regime di Menghistu e dove, si dice, abbiano sempre tenuto in efficienza, e ben forniti di armi, alcuni rifugi.

Il Tigray oggi

«A Macallè la situazione sembra tranquilla, apparentemente pacifica. Non si vedono poliziotti per strada. Ci sono solo alcuni agenti della polizia federale nella stazione principale e nelle vie principali. Le strade sono pattugliate da soldati armati che si muovono su veicoli equipaggiati con mitragliatrici. Ci sono alcuni posti di blocco in punti strategici della città, come i valichi. L’elettricità arriva nelle case, i telefoni funzionano, ma non ci sono collegamenti Internet. Il cibo è disponibile, il sistema bancario funziona, i prezzi sembrano normali». Sono queste le impressioni di un testimone, rientrato da poco dal Tigray e che vuole mantenere l’anonimato. Le sue parole trasmettono un’immagine tranquilla della capitale del Tigray, ma la realtà pare più complessa. «Le persone – continua la nostra fonte – sono caute, alcune non vogliono uscire di casa, non vogliono essere chiamate, altre sono traumatizzate. Le donne hanno paura a uscire perché temono di essere violentate. Tutti raccontano storie orribili dei giorni in cui, a novembre, la capitale del Tigray è stata al centro dei combattimenti».

La nostra fonte conferma che gli scontri sul campo non sono terminati, e che i miliziani del Tplf stanno continuando a combattere sulle montagne. «Abbiamo udito spari di artiglieria pesante – ricorda -. Apparentemente erano lontani, ma erano talmente forti che li abbiamo sentiti all’interno della nostra abitazione con porte e finestre chiuse. La salva è durata per circa 10-15 minuti poi è finita all’improvviso com’era iniziata».

Da più parti si segnala la presenza di soldati eritrei, somali, emiratini, miliziani amhara. La nostra fonte non ha visto di persona i militari di Asmara, né quelli somali o emiratini, ma ha raccolto testimonianze sulla loro presenza. «Da quanto mi hanno raccontato – osserva la nostra fonte -, gli eritrei avrebbero annesso una striscia di confine settentrionale a Nord di Adigrat. Gli eritrei sono temuti per la crudeltà e i saccheggi. Mi hanno raccontato che spesso ucciderebbero civili innocenti vendicandosi per le perdite subite durante i combattimenti».

La nostra fonte ha raccolto testimonianze anche sui miliziani di etnia amhara, sui somali e sugli emiratini. «Secondo quanto mi hanno detto le persone del posto – continua -, anche i miliziani amhara saccheggerebbero il territorio. Per quanto riguarda i somali, sono stati visti da testimoni oculari nelle loro uniformi vicino a Macallè. Farebbero parte di quei reparti che erano stati inviati in Eritrea per addestrarsi e si dice siano stati impiegati per combattere nel Tigray. Gli Emirati arabi uniti invece avrebbero schierato propri droni facendoli decollare dalla loro base in Eritrea, anche se la loro presenza è stata denunciata solo dai media vicini al Tplf».

Un sopravvissuto del massacro di Mai Kadra, il 9 novembre 2020. / Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP

Quale futuro?

Quello in Tigray è stato un conflitto locale che avrà profonde ricadute a livello nazionale.

La sconfitta del Tplf ha (al momento) messo la sordina a un forte movimento di fronda che minacciava direttamente il potere di Abiy Ahmed. In questo senso, la sconfitta invia un messaggio ad altre importanti forze etnonazionaliste, come l’Oromo liberation front, e quelle che hanno destabilizzato la tormentata regione di Benishangul-Gumuz.

L’allontanamento del Tplf dalla politica nazionale può inoltre essere visto, come è scritto in uno studio elaborato per Ispi da Aleksi Ylönen, del Center for international studies di Lisbona, come una mossa «per promuovere l’unità e l’armonia etnica», portando «a una ripresa della popolarità e alla fiducia in un progetto nazionale comune».

Rimuovere il Tplf da un ruolo preminente nella politica e nell’economia nazionali e garantire che non riprenderà il potere nel processo di liberalizzazione economica, è scritto nell’analisi di Ylönen, «sembra essere stato cruciale nei calcoli dell’amministrazione Abiy», perché favorirebbe «una graduale apertura dell’economia» rispetto alla visione localista dei Tigrini.

Il premier dovrà però ora pagare un prezzo elevato per il sostegno ricevuto da Asmara e dalle milizie amhara. Molto probabilmente alle truppe eritree sarà concesso il permesso di occupare quelle aree nel Tigray assegnate all’Eritrea nella decisione della Commissione per i confini Eritrea-Etiopia del 2002 (al termine della guerra del 1998-2000). A loro volta le milizie amhara potranno riprendere il controllo delle terre che erano state ritenute rubate durante il governo del Tplf.

Enrico Casale




Per non ricadere nell’indifferenza

testo di Marco Bello |


L’attacco a un convoglio di due auto del Programma alimentare mondiale (Pam), da parte di sei uomini armati, ha causato la morte dell’ambasciatore d’Italia in Rdc, Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese Mustapha Milambo. Un altro italiano, funzionario del Pam si è salvato. L’assalto è avvenuto la mattina del 22 febbraio nei pressi di Kanyamahoro, circa 30 chilometri Nord di Goma, Nord Kivu, Rdc, dove la strada corre lungo il confine con il Rwanda.

Alcune piccole riflessioni su questa tragedia.

  1. L’Italia scopre che esiste il Congo, solo grazie a tragedie che coinvolgono suoi connazionali, e in particolare, italiani di un certo livello istituzionale.
  2. Le analisi che ho sentito raramente vanno al di là dei gruppi ribelli presenti in quella zona del Congo e delle ricchezze del sottosuolo. Il perché ci siano i gruppi ribelli, perché paesi come il Rwanda, l’Uganda, lo stesso Congo, ma anche (soprattutto direi) potenze internazionali non africane, abbiano interesse a mantenere la situazione così instabile, e questa situazione perduri, e peggiori, da oltre un quarto di secolo, raramente viene spiegato.
  3. Le responsabilità del Programma alimentare mondiale (Pam, Wfp) nel mandare una delegazione di così alto livello, o comunque di elementi stranieri, in una zona così rischiosa, senza scorta armata (ricordiamo che nella zona sono presenti i caschi blu dell’Onu della Monusco, quindi non c’era difficoltà ad avere una scorta), sono a mio parere enormi. Voglio citare un episodio simile, capitato in Burundi nel 1999, quando un convoglio dell’Onu fu attaccato e persero la vita due giovani europei, membri staff Nazioni unite. Vivevo nel paese e ricordo come anche in quel caso c’era stata troppa leggerezza da parte di alcune agenzie Onu e, soprattutto, del loro servizio di sicurezza (super pagato), sul fatto di autorizzare il viaggio di una delegazione di quel tipo, in quel luogo e in quel momento.

Quindi attenzione:

  • Sì ci sono milizie e bande armate nell’Est Congo, ma perché queste imperversano in quella zona da decenni?
  • E perché mandare un ambasciatore con una piccola delegazione non scortata (due auto) proprio lì, in una strada che attraversa un parco naturale della Virunga, al confine con il Rwanda, infestato di bande e trafficanti di ogni tipo?

Vorrei che il sacrificio di questi tre uomini servisse almeno a creare un movimento di indignazione della società civile, che possa spingere chi governa a livello mondiale a cambiare qualcosa nell’Est Congo.

Marco Bello

Goma, teschi di vittime delle violenze di questi anni nel Kivu / foto Renata Andolfi




Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




Corridoi umani

testi di  Mario Marazziti, Marco Gnavi e Luca Lorusso |


Rifugiati siriani raccontano l’accoglienza ricevuta in Italia

«Grazie, fratelli italiani»

Giovani sposi di Houla, in Siria, nel 2012 fuggono in Libano dai massacri e dalla minaccia del carcere. Negli occhi, l’immagine di un’amica sgozzata insieme ai suoi quattro bambini. Per cinque anni vivono in un garage ai margini del campo profughi di Tel Abbas. Nel 2018 giungono in Italia grazie ai Corridoi umanitari. Oggi si dicono felici e grati per i loro «fratelli» italiani.

Arriviamo a Mondovì (Cn) alle 17. È fine ottobre e il sole è già basso. Amira e Farid (nomi di fantasia), sposi siriani con lo status di rifugiati, vivono qui da poche settimane con i loro gemelli di 5 mesi, Iman e Mahdi, al primo piano di una modesta palazzina. Prima sono stati un anno e mezzo a Cuneo e, prima ancora, nove mesi a Rosbella, frazione di Boves (Cn).

Ad aspettarci c’è Farid, uomo sui quarant’anni, grande e grosso, viso tranquillo e bonario, barba incolta, vestito con una tuta grigia. Tra le braccia tiene Iman: tutina rosa, orecchini ai lobi, occhi che sembrano chiari e molto vivaci.

Farid ci invita a entrare con modi molto cordiali. L’ingresso dà su un piccolo soggiorno occupato da una credenza e tre sofà disposti uno accanto all’altro. Al centro, un tavolino con un piatto di biscotti, uno di arachidi, e un cesto di frutta.

I tre vani che dal soggiorno portano agli altri ambienti, sono chiusi da tende di velluto verdi. Sentiamo dietro una di esse la voce di Amira che dà la pappa a Mahdi.

Farid ci fa accomodare e ci chiede se prendiamo un caffè o un tè, e va in cucina. Quando ricompare, porta un vassoio con due bicchieri di tè caldo, zucchero e cucchiaini. Intanto arriva Amira: occhi nerissimi in un viso giovane, sulla trentina, incorniciato da un velo nero. Tiene in braccio Mahdi, che ci guarda. Il Covid non ci permette contatti fisici, non ci stringiamo la mano, ma sorridiamo molto.

foto Luca Lorusso

Cinque anni in un garage in Libano

foto Luca Lorusso

Amira e Farid sono scappati otto anni fa dalla loro terra con le immagini negli occhi (e negli incubi) di un’amica e dei suoi quattro bambini sgozzati durante un’incursione di forze filogovernative nella loro città di Houla, vicino Homs.

L’uomo tranquillo che abbiamo di fronte, in Siria è considerato disertore, e per questo ricercato dalla polizia. Lui e sua moglie sono arrivati in Italia nel 2018, dopo cinque anni di apolidia in Libano, tramite i «Corridoi umanitari» organizzati dalla comunità di Sant’Egidio e dalla Papa Giovanni XXIII in accordo con lo stato italiano.

«In Siria ci sono problemi grandi», racconta Farid nel suo italiano semplice ma comprensibile. «Anche in Libano è molto pericoloso: i siriani non hanno documenti e sono sempre cercati dalla polizia. In Italia, invece, stiamo bene».

I due sposi, in Libano hanno vissuto in un garage appena fuori dal campo profughi di Tel Abbas. La loro condizione di rifugiati non è mai stata riconosciuta, e, con il tempo, è cresciuto il rischio di essere arrestati e rimandati in Siria.

Per un po’ di tempo hanno potuto vivere grazie ai soldi che Farid aveva messo da parte in Siria con la sua ditta, ma quando quelli sono finiti, ha dovuto cercare lavori in nero, mal retribuiti e pericolosi, per pagare l’affitto del garage, la luce, il cibo. Poi ha conosciuto i volontari dell’Operazione Colomba: «Ho incontrato tanti amici italiani in Tel Abbas. Loro sono molto forti e anche molto gentili». Farid sorride. «Loro venivano da noi, mangiavamo assieme. Anche quando c’era il ramadan. Conosci il ramadan?», ci chiede. Poi prosegue: «Per loro era difficile fare il digiuno», e sorride. «Lo facevano due giorni. Poi basta».

Una vita nuova in Italia

Chiediamo ad Amira e Farid come si trovano in Italia. «Per me, sono felice», risponde Farid, «perché non c’è il rischio che c’era in Libano. Poi in Italia ci sono tante persone amiche che sempre ci aiutano e sono molto gentili».

«Per me, quando sono arrivata in Italia, avevo paura», dice invece Amira, «perché pensavo che la gente era come in Libano. Ma poi, piano piano, ho visto che andava tutto bene». Amira ride e incrocia timidamente il nostro sguardo. «È cambiata la nostra vita. Ora non voglio più tornare in Libano e neanche in Siria».

Farid riprende il discorso degli amici, ed elenca alcuni nomi dei molti italiani che li hanno aiutati: «Giorgio e sua moglie Elisa sono molto bravi. Anche Alessandro, anche Abu Tony e tanti altri. Loro si preoccupano sempre per noi. Adesso in Italia la mia vita è nuova. Ci sono due gemelli: è una famiglia nuova, una vita nuova. Siamo felici!». Farid ci invita a guardare i suoi bimbi, pieno di orgoglio. «Dieci anni fa, eravamo già sposati, ma non c’erano figli. Era un problema», dice grave, poi sorride ironico: «Anche adesso è un problema: loro non dormono tutta la notte».

AFP PHOTO/HO/SHAAM NEWS NETWORK

«Tutti in Siria a fare guerra»

Quando chiediamo loro di raccontarci della Siria, si fanno entrambi seri: «Veniamo da Houla, Homs», la cittadina nella quale furono uccise 108 persone nel maggio 2012, tra cui molte donne e bambini inermi.

Farid si consulta in arabo con Amira: «Il presidente è un criminale di guerra», dice abbassando la voce, «un criminale di guerra. In Siria molte persone sono morte per le bombe. In strada ho visto un braccio così, un piede là». Farid ci mostra a gesti quello che ha visto dopo i bombardamenti e l’incursione delle forze sciite nella sua città. «Un uomo con la testa così», fa un segno all’altezza della tempia, «oh… mamma!».

«Anche l’Italia ha avuto la guerra tanti anni fa», prosegue, «ci sono stati tanti morti. Quanti anni è durata la guerra in Italia? Adesso, in Siria, da 10 anni. E poi sono arrivati Turchia, Russia, Iran, Hezbollah, Iraq: tutti in Siria a fare guerra», ride amaramente, «Morti, morti, morti».

«Io ho visto la guerra in Siria per due anni», aggiunge Amira. «Poi è arrivato l’aereo, sono arrivate le bombe, e io sono scappata in Libano. Poi è venuto anche Farid, perché era pericoloso. Io pensavo: questo mese finirà, poi un altro mese… però no! Anche la nostra casa è stata distrutta».

Si zittiscono entrambi. Amira e Farid sembrano a disagio, fanno fatica a raccontare della guerra.

Dopo un anno dal loro arrivo in Italia, Amira è andata in una scuola a parlare agli studenti: «Due volte. È stato difficile. I ragazzi hanno fatto tante domande. Mi hanno chiesto della guerra, cosa ho visto in Siria. Quello è difficile per me: raccontare cosa ho vissuto. Sono andata due volte, però la terza no. No. Basta». E conclude: «I ragazzi erano tristi per noi in Siria, per i bimbi, per tutti».

AFP PHOTO / HO / SHAAM NEWS NETWORK

L’accoglienza italiana

Lasciamo cadere il discorso della guerra. Amira e Farid preferiscono parlare della loro nuova vita. Soprattutto degli amici italiani, alcuni dei quali sono diventati come fratelli per loro. «Tutte persone italiane: cento per cento», dice Farid. «Giorgio è bravissimo», aggiunge Amira riferendosi a Giorgio di Rosbella che li ha accolti, grazie all’aiuto di altre cento persone, quasi in casa sua. «Quando siamo arrivati qua, piano piano, parlando con lui, l’ho sentito come mio fratello. Poi abitavamo uno sopra l’altro. Quando c’era qualche problema lo chiamavo, e lui ci aiutava».

«Per favore, scrivi grazie, grazie molte, grazie agli amici italiani che ci hanno aiutati. Molto molto gentili», aggiunge ancora Farid.

I due sposi parlano dell’Italia solo in termini positivi. Domandiamo loro se è proprio tutto bello, se non ci sono difficoltà: ad esempio con la lingua, con lo stile di vita, la cultura.

«Per la lingua», racconta Amira, «prima pensavo che è difficile, però ho studiato tantissimo grazie a un gruppo bellissimo di maestre: una veniva al mattino e poi l’altra al pomeriggio». «Tredici maestre», precisa Farid: «Io ho studiato tre mesi, poi ho iniziato a lavorare. Il problema è stato che nel primo lavoro come muratore non c’erano italiani: erano rumeni, albanesi. Anche per loro era difficile l’italiano. Ci dicevamo: “Va bene”, “ciao”, “grazie”, “vuoi caffè?”», Farid ride ricordando quel periodo. «Adesso, grazie a Dio, lavoro in un’azienda che fa porte qui vicino. Ho un contratto di tre mesi. Purtroppo in Italia non c’è tanto lavoro, e ho paura di rimanere senza».

Chiediamo se, oltre alla lingua, hanno avuto altre difficoltà: «Per me tutto bello», risponde Amira.

Photo by Haitham Mussawi / AFP

Il futuro da costruire

«Io spero in un contratto lungo di lavoro», dice Farid quando chiediamo come vedono il loro futuro, «e spero di comprarmi una casa».

«Io spero di aprire un negozio per fare la sarta», aggiunge Amira, «mi piace molto cucire. Io per il futuro penso anche ai miei bimbi che conosceranno due lingue: arabo e italiano».

La piccola Iman si sta addormentando in braccio alla mamma. «Se in Siria finisse la guerra, tornereste?», chiediamo. «Io no, mai!», risponde decisa Amira: «No no no! Io ho visto il massacro: in cinque minuti sono morte cento persone. Bimbi e donne. Solo bambini e donne».

«Loro non sono morti per una bomba», aggiunge Farid, riprendendo il discorso della guerra che avrebbero voluto entrambi lasciare da parte, ma che forse è ancora troppo vivo, anche dopo otto anni. «Loro non sono morti per una bomba, ma con il coltello. Coltello! Tutti! L’ho visto: due bambini di due mesi. Perché con il coltello? Perché i bimbi?», Farid si commuove e ha la voce rotta. Anche per la rabbia.

«E così non voglio tornare in Siria», conclude Amira, ma Farid riprende: «La mia famiglia è quasi tutta in Siria. È difficile adesso per loro. Ho tre fratelli avvocati, ma non c’è lavoro per loro: solo guerra. È difficile. Difficile tanto: non c’è cibo, non c’è acqua, non c’è luce. Da nove anni è così. Non ci sono soldi, non c’è lavoro. Il lavoro è la guerra. Così lavorano».

«La gente qua in Italia è gentilissima», torna a dire Amira. «Per me, io voglio rimanere sempre qua. Abbiamo trovato una famiglia grande. Gli italiani sono grandi».

Un bicchiere di mate

foto Luca Lorusso

Ci rendiamo conto che fuori è oramai buio. La piccola Iman dorme, Mahdi invece è sveglio, ma irrequieto. È tempo di togliere il disturbo.

Mentre però iniziamo a salutare, Farid ci chiede se ci piace il mate. Rispondiamo di sì, l’abbiamo bevuto in Argentina diversi anni fa.

«Bravo», ci incalza lui, «io bevo il mate sempre», e aggiunge che poco fa ha bevuto il tè solo per cortesia nei nostri confronti. «In Siria, se vieni a trovarmi e non bevi il mate, per me è un problema. Come il caffè per gli italiani», si alza sorridente e va in cucina. Dopo poco, torna con un vassoio sul quale ci sono due bicchieri pieni di yerba mate, una teiera e due bombillas, le cannucce tradizionali.

Farid versa l’acqua bollente nel bicchiere. È molto contento che beviamo il mate insieme. «Tutti i siriani bevono il mate. Se io non bevo il mate, non vado al lavoro. È la mia colazione. Lo bevo sempre. Mattina, notte, pranzo».

Farid parla ad Amira in arabo per chiederle qualcosa, poi va di nuovo in cucina. Quando torna, ha un pacchetto di yerba mate tra le mani, e una bombilla. «È difficile trovare italiani a cui piace il mate», ci dice, e ce li regala.

Beviamo parlando del più e del meno: dove comprano la yerba mate, quanto costa, quanto è bella l’Italia, quanto era bella la Siria prima della guerra, con i monti, il mare, la gentilezza delle persone, luoghi pieni di storia come Palmira.

Quando salutiamo per andare, Farid ci ripete per la terza volta: «Per favore tu scrivi sul giornale: grazie ai miei fratelli. Grazie, grazie!».

Luca Lorusso


 

foto Luca Lorusso

Una famiglia e cento volontari per Amira e Farid

Accogliere come stile di vita

Rosbella è una bellissima frazione di Boves (Cn) a mille metri d’altitudine, abitata da 15 persone. Giorgio, Elisa e loro figlio Davide, vivono in comodato al primo piano della vecchia scuola addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Al piano terra, per nove mesi, hanno ospitato Amira e Farid, siriani fuggiti dalla guerra. Un’accoglienza corale, fatta assieme ad altre cento persone, che prosegue ancora oggi e fa parte di un percorso di vita tra parrocchia, nonviolenza, commercio equo, fraternità.

Ci troviamo a Rosbella con qualche minuto di anticipo. È un mattino di inizio autunno. Siamo a quasi mille metri e fa freddo. Il posto è splendido: un piccolo borgo di poche case molto ben tenute che sorgono ai due lati della strada.
La prima costruzione che incontriamo è la vecchia scuola parrocchiale addossata alla chiesetta di Santa Pazienza. Qui, al primo piano, vivono Giorgio ed Elisa con il loro bimbo Davide di 8 anni. Al piano terra hanno vissuto Amira e suo marito Farid per nove mesi.

Oltre la chiesa c’è un piccolo locale dal nome ironico, «RosBettola, osteria di infimo ordine». Pare che qui si beva una birra artigianale molto buona. Vediamo un Bed & Breakfast, abitazioni e, in fondo, un recinto con due cavalli.

Per arrivare a Rosbella bisogna fare qualche chilometro nel bosco, su per la montagna a Sud di Boves (Cn). L’isolamento del borgo, che d’inverno si accentua notevolmente, non ha spaventato le decine di volontari che si sono presi cura di Amira e Farid nei mesi della loro vita qua.

foto Luca Lorusso

Accogliere come stile

«Noi siamo arrivati a Rosbella nel 2005». Giorgio, infreddolito come noi, sta dentro un grosso maglione grigio, ha capelli ricci, lievemente brizzolati, mani sottili e calme, come il viso, sguardo profondo e accogliente. È appena tornato da Castellar dove suo figlio frequenta la scuola primaria. Lui è infermiere domiciliare: uno di quelli in prima linea contro il Covid. Sua moglie è educatrice e fa teatro: ora è in casa che lavora.

Ci accomodiamo nella cucina del piano terra, dove hanno vissuto Amira e Farid e dove si sono consumati pasti, svolte riunioni, a volte discussioni accese, sia prima dell’arrivo della coppia, sia insieme a loro.

«Questa casa è del 1910, era la scuola del paese. Qui sotto c’erano le aule. Sopra abitava la maestra. Quando don Gianni Riberi, allora parroco di Boves, ci ha chiesto di venire qua, era abbandonata da tempo. Inizialmente eravamo un gruppo di tre famiglie con il desiderio di fare fraternità. Quando gli altri ci hanno detto che non se la sarebbero sentita di venire a vivere qui, il parroco ci ha incoraggiati: “Va bene lo stesso. Una parte l’abitate voi, l’altra la usiamo per fare ospitalità”.

Don Gianni ha provato a dare nuova vita alle strutture abbandonate della parrocchia: qui a Rosbella, ad esempio, ma anche al santuario di Sant’Antonio (dove la famiglia Bovani offre da 20 anni percorsi di spiritualità domestica per famiglie, ndr), e a San Mauro, in una struttura che ora è gestita dalla comunità Papa Giovanni XXIII».

Fino al 2016, Elisa e Giorgio, attraverso la loro associazione «Sentieri di pace», hanno accolto in questi spazi gruppi parrocchiali, scout, campi del Mir (Movimento internazionale della riconciliazione). «Eravamo legati alla bottega del commercio equo di Cuneo, e facevamo anche iniziative di educazione alla mondialità. Abbiamo cercato di declinare la vita in questo luogo come occasione per costruire pace e nonviolenza». E l’accoglienza del Corridoio umanitario si è inserita in questo percorso: dal 2017, infatti, Elisa e Giorgio, insieme al parroco attuale don Bruno Mondino, hanno deciso di accogliere a Rosbella famiglie in difficoltà.

«La prima “ospite” nel 2017 è stata Carla, una donna senza tetto di Torino. È stata qui tre mesi. Poi ci è arrivata la richiesta dall’Operazione Colomba per una famiglia siriana. Io ero già legato a Operazione Colomba perché 20 anni fa ho fatto esperienze in Bosnia, Kosovo e Chapas con loro».

foto Luca Lorusso

Cento persone per un corridoio

Dopo aver accettato di buttarsi nell’avventura, Giorgio è andato in Libano con Matteo, un amico muratore che ha messo a posto gratuitamente l’alloggio per l’ospitalità. Era giugno 2017. Sono stati 10 giorni nel campo profughi di Tel Abbas, vivendo con i volontari di Operazione Colomba. In quei giorni hanno conosciuto Amira e Farid che sarebbero arrivati a Rosbella quasi un anno più tardi. «La mamma di Amira era malata di tumore, non aveva potuto curarsi, e stava morendo. Lei voleva aspettare».

Giorgio ci spiega come si organizza chi vuole accogliere una famiglia tramite i corridoi umanitari. «Funziona così: tu individui una casa; poi costruisci un gruppo per raccogliere i soldi per garantire alla famiglia un anno e mezzo di vitto, alloggio, scuola di italiano, cure, documenti, e così via. L’indicazione generale è di aiutare la famiglia a diventare autonoma nel giro di un anno e mezzo, però poi dipende dai percorsi: qualche famiglia arriva all’autonomia prima, altre non ci sono ancora dopo tre anni. I soldi, in ogni caso, si raccolgono in maniera privata, senza pesare sullo stato o gli enti pubblici».

Quando la mamma di Amira è mancata a fine 2017, Giorgio, Elisa e altri sei amici, hanno organizzato incontri e cene per raccogliere fondi e, soprattutto, aggregare volontari. «Le persone le abbiamo contattate tramite Facebook, altre associazioni, amicizie, e abbiamo raccolto tutti i soldi necessari per partire: 10mila euro».

Più avanti, quando l’esperienza di Rosbella era già in corso, Giorgio avrebbe partecipato all’avvio di altri due corridoi: uno a Cervasca, vicino Cuneo, nato da don Mariano Bernardi e dal gruppo giovani della parrocchia, e uno a Trinità, a Sud di Fossano, nato da Marina, membro del gruppo di Rosbella che voleva far partire un corridoio anche dalle sue parti. «Abbiamo costituito tre gruppi, ciascuno di circa cento persone. La ricchezza del gruppo è che ogni volta che c’è bisogno di qualcosa, un vestito, un mobile, un passaggio in auto, per fare scuola di italiano… arriva sempre una persona. Noi siamo partiti in otto, ma da soli non ce l’avremmo fatta. Quando ti manderò qualche foto, te ne manderò di collettive, dove si vede il gruppo. Infatti, quando si parla di questa esperienza, molte volte si dice che la famiglia di Elisa e Giorgio, insieme ad altri volontari, hanno accolto Amira e Farid, mi piacerebbe, invece, far capire che è stata un’esperienza e un’accoglienza corale. Se non fosse stata corale, non sarebbe esistita. È stato grazie al lavoro di tutti che l’esperienza è andata bene».

Chiediamo a Giorgio come hanno fatto con la lingua, soprattutto i primi tempi dell’accoglienza. «Nel gruppo ci sono una famiglia marocchina e una tunisina, migranti di lunghissimo corso. Sono parte del gruppo fin dall’inizio, e, parlando arabo, sono tra i protagonisti, perché sono quelli che fanno più lavoro di socialità, accompagnamenti, ecc. La sera in cui Amira e Farid sono arrivati, erano qua con del cibo arabo».

foto Luca Lorusso

La storia di Amira e Farid

Giorgio parla con grande affetto di Amira e Farid, con cui la sua famiglia ha vissuto a stretto contatto dal maggio al dicembre del 2018. «Loro sono di Houla, nel governatorato di Homs. Sono una bella coppia. Contenti. Lui aveva una ditta di piastrellisti. Dal punto di vista economico stavano bene. Lei racconta che si occupava dei nipoti: era la zia preferita, e preparava cibo per frotte di bambini. Vivevano in un nucleo di case che ospitava la famiglia allargata di lei.

Non hanno conservato nulla della loro casa: è finito tutto sotto le macerie».

Giorgio mette insieme i tanti pezzi del puzzle della storia di Amira e Farid raccolti qua e là negli ultimi due anni e mezzo. «Nel 2011 è arrivata la primavera araba e la crisi economica. La crisi ha portato le manifestazioni, le manifestazioni il disastro. Tutto questo, loro lo raccontano come qualcosa che è successo senza che se ne rendessero conto. Amira è venuta una volta a parlare a scuola: ha raccontato di questa loro vita molto bella e serena che a un certo punto è stata stravolta, perché, in quanto sunniti, hanno iniziato a essere perseguitati da governo e filogovernativi.

foto Luca Lorusso

Un giorno Houla è stata circondata dagli alawiti che hanno cominciato a bombardare per cercare i terroristi. Era il 2012, maggio.

 

Racconta Amira che a un certo punto si sono rifugiati nelle cantine, ma suo marito era rimasto fuori. Allora è uscita in mezzo al fumo e alle macerie per cercarlo, gridando a gran voce, finché non l’ha trovato. Poi si è resa conto che la casa della sua migliore amica era stata bombardata, però non era distrutta. Allora è corsa a cercarla. Quando è entrata in casa, l’ha trovata sgozzata con i suoi quattro bimbi.

Questo è il massacro di Houla: centootto persone, soprattutto bambini e donne, massacrate con la scusa di cercare i terroristi. A quel punto, Amira, davanti ai ragazzi a scuola, ha detto: “Io non capisco perché cercavano terroristi e hanno ammazzato una donna con quattro figli”.

Quell’immagine terribile, la sogna ancora adesso.

Farid ci manda ogni anno su WhatsApp il video di loro che portano i corpi dei bambini in braccio durante il funerale. Ce lo manda per condividere il ricordo, per non scordare da dove arrivano».

Dopo il massacro, Amira è partita per il Libano con la madre, attraversando di notte il confine a piedi, mentre Farid sperava che la guerra finisse presto, ed è rimasto a Houla. «Dopo sei mesi, è andato in Libano anche lui. Pare che in quel tempo lui sia stato arrestato, e che per tre mesi si siano perse le sue tracce. Di questa cosa, però, lui non vuole raccontare. Dice solo che tutti i sunniti dovevano arruolarsi per combattere i ribelli e i terroristi, ma che in realtà venivano mandati a massacrare i loro fratelli, come avevano fatto a Houla, e allora è scappato».

Amira e Farid sono arrivati in Libano nel 2012: un paese di quattro milioni di abitanti che ha accolto nell’arco di pochi mesi un milione e mezzo di profughi, ma non ha mai riconosciuto il loro status di rifugiati. «Essendo una famiglia benestante, per un po’ hanno ricevuto soldi dalla Siria. Poi però i soldi sono finiti, e allora Farid è andato a fare il muratore con degli amici libanesi: era una vita molto povera».

Vivendo in un garage non lontano dal campo di Tel Abbas, la coppia ha conosciuto i volontari di Operazione Colomba, il cui lavoro era quello di difenderli dagli arresti arbitrari, e di aiutarli dal punto di vista sanitario. «Stando fuori dal campo, il rischio di essere arrestati ed espulsi cresceva, quindi sono entrati nell’elenco dei corridoi, e sono stati fatti conoscere a Sant’Egidio. Il criterio principale con cui Sant’Egidio decide quali persone far venire in Italia, è quello della fragilità: problemi di salute, famiglie numerose e con figli piccoli, e poi persone che rischiano la vita. Amira e Farid erano tra questi ultimi».

foto Luca Lorusso

Dialogo interculturale

Giorgio ripercorre le tappe della vita di Amira e Farid come se stesse raccontando le vicende della propria famiglia, e ci racconta com’è stata la «convivenza» con loro: «Abbiamo potuto parlare molto, anche di religione. Noi siamo cattolici e lui ha sempre chiesto che gli spiegassimo le nostre usanze. La prima Pasqua, lui ha voluto sapere tutto sul triduo: cosa si faceva, perché si ricordava la morte di Gesù, perché poi risorgeva, cos’è la comunione. Ha sempre chiesto tanto senza mai giudicare, ad esempio il modo in cui stanno assieme uomini e donne. Diceva il suo pensiero: “Da noi funziona così, e penso che sia giusto così”. Ma non mi ha mai detto: “Tu con tua moglie fai delle cose che non sono giuste”.

Un po’ per volta abbiamo capito che rapportarsi con un’altra cultura è diverso dal dire: “Qui funziona così e, dato che ti accolgo, ho diritto di dirti che devi fare come me”. Quando accogliamo qualcuno, rischiamo di credere di poter pensare e decidere per lui, e di dire questo va bene, questo non va bene. Ma questa non è accoglienza».

Come fratelli

A gennaio 2019, Farid ha trovato un lavoro in un’azienda agricola difficile da raggiungere da Rosbella. La coppia ha quindi cercato, con l’aiuto del gruppo, una casa a Cuneo. «Lì era tutto più facile: fare la spesa, muoversi… e sono diventati autonomi su molte cose».

Finito il contratto di lavoro di un anno, Farid ha fatto poi diversi altri lavoretti. Ora è in prova per un’azienda di serramenti dalle parti di Mondovì, dove il gruppo li ha aiutati a trovare un’altra casa in affitto. «Adesso sono completamente autonomi, e pagano tutto loro. Poi Amira è rimasta incinta di due gemelli che sono nati a maggio, e questa è stata un’altra tappa importante del loro percorso per ritrovare la serenità».

Nonostante le difficoltà della lingua, spesso affrontate attraverso Google translate, Giorgio racconta del bel clima che si era creato con Amira e Farid quando vivevano a Rosbella. Una bella relazione che tutt’ora continua.

«Alla fine, il gruppo è diventato una famiglia. Lei, per esempio, si confida molto con una delle maestre d’italiano. E lui si confida con Guardini, l’amico originario del Marocco. Per Amira e Farid, noi siamo la loro famiglia: ci chiamano fratelli e sorelle. Ed è proprio così, nel senso che ci trattano così. Per noi è stata un po’ la realizzazione della convivenza che avevamo cercato quando siamo venuti qui nel 2005. È stato un bel trauma quando se ne sono andati. Poi loro sono proprio amabili, molto delicati, molto rispettosi dei rispettivi spazi, ma anche molto coinvolgenti. Loro erano contenti che ci fossimo noi qui sopra, si sentivano protetti, non si sentivano soli. La convivenza è stata proprio bella, una ricchezza enorme.

Penso che una delle persone che ha beneficiato di più di questa esperienza sia stata nostro figlio Davide, che non ha mai vissuto l’accoglienza come una cosa strana. Due persone diverse, con un modo di fare diverso, con una lingua diversa sono entrate dentro la sua famiglia in modo naturale: sono semplicemente arrivate, e basta.

Secondo me, la rivoluzione che possiamo fare attraverso l’accoglienza, è far vivere ai nostri bimbi, giovani, ragazzi, questa cosa come normale: non un’emergenza, un’esperienza eccezionale, un far fronte all’ondata che arriva; non una cosa eccezionale, super, per persone in gamba, ma una cosa normale.

Per la nostra famiglia è stato bello, e continuo a dire: vale la pena farlo».

Luca Lorusso


foto Marco Pavani

Storia e numeri dei corridoi umanitari

Un varco possibile

Una via legale e sicura per mettere in salvo i profughi in cerca di protezione umanitaria c’è. Una via che sottrae denaro ai trafficanti ed evita le morti in mare. Sono i Corridoi umanitari, immaginati dalla Comunità di Sant’Egidio e realizzati da migliaia di volontari, grazie anche alla collaborazione tra chiese, in dialogo tra loro e con le istituzioni.

Lampedusa, 5 ottobre 2013. Nell’hangar azzurro, all’aeroporto, c’era odore di disinfettante. C’erano la polizia scientifica e i corpi delle persone recuperate in mare nei sacchi neri, pronti per la sepoltura. Ricordo anche quelli di quattro bambini.

Un anno dopo, la Comunità di Sant’Egidio, sarebbe riuscita a dare almeno un nome a tutte le vittime, compresi i 350 e più che sono stati poi recuperati dal fondo del mare.

Erano partiti tutti dall’Eritrea e dal Corno d’Africa due anni prima. Duemila dollari e molti mesi di quasi schiavitù per raccogliere gli altri soldi necessari per il viaggio della morte o della vita.

Non era possibile che per vivere, non essere perseguitati, ricattati, minacciati, si dovesse morire così. Era inaccettabile che quello fosse, per i profughi, l’unico modo per raggiungere l’Europa, per ritrovare dignità e sicurezza. E non andava accettato. Ma dalla commozione collettiva italiana ed europea si sarebbe passati presto alla «globalizzazione dell’indifferenza», e all’impotenza.

È stato allora, lì a Lampedusa, che ho letto per la prima volta su un lenzuolo la scritta, metà grido e metà preghiera, «Corridoi umanitari».

foto Marco Pavani

Un modello che apre strade nuove

Il merito straordinario dei Corridoi umanitari creati nel 2015 da Comunità di Sant’Egidio, Tavola valdese e Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), è quello di avere aperto un varco nelle politiche migratorie europee, e di indicare un modello praticabile per un’immigrazione verificata, sicura, fuori dall’illegalità a dalle maglie dei trafficanti.

Essi offrono un modello anche per il «dopo approdo», cioè per l’accoglienza e l’integrazione delle persone dopo il loro arrivo. E forniscono una risposta al grande rischio che, per veti incrociati della politica, l’Ue rinunci al suo cuore, alla «democrazia inclusiva» e «umanitaria» che è alla base stessa della genesi e della necessità storica ed economica dell’Europa unita.

Il paradosso europeo

Se si guardano le nazionalità delle persone i cui corpi vengono recuperati nel Mediterraneo, risulta una verità asciutta e terribile: molti erano profughi, meritevoli di protezione internazionale.

Il sistema europeo per i rifugiati è paradossale: per accedervi è necessario presentarsi alla frontiera dell’Ue, ma alla frontiera si può arrivare solo come turisti – dissimulando quindi il proprio bisogno di protezione – oppure come irregolari.

Zygmunt Bauman scriveva: «Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di “immigrati illegali”, e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di “emigranti economici” [morti] nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli».

Il primo protocollo di apertura di «Corridoi umanitari» promossi dalla Comunità di Sant’Egidio sulla base di norme vigenti (l’art. 25 del Regolamento europeo n.810/2009 che prevede la possibilità per gli stati della Ue di emettere visti umanitari a territorialità limitata, cioè validi per un singolo paese), è stato firmato con i ministeri degli Esteri e dell’Interno, assieme alla Federazione delle chiese evangeliche italiane (Fcei) il 15 dicembre 2015. Successivamente, altri protocolli sono stati firmati anche con la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas.

Oggi, dopo cinque anni, ci sono corridoi attivi anche in Francia, Belgio, Andorra e San Marino, nella speranza di creare un «Corridoio europeo».

foto Marco Pavani

Il «dopo approdo»

I Corridoi umanitari, che sarebbe meglio definire semplicemente «umani», rappresentano una buona pratica non solo per l’arrivo, ma anche per l’inclusione dei rifugiati. Quella dei percorsi di accoglienza e integrazione dopo l’arrivo è, infatti, la parte forse meno conosciuta del progetto, ma non per questo meno significativa.

Nel «modello italiano» dell’accoglienza, il «dopo approdo» è il punto più dolente: straordinari nella prima accoglienza, siamo deficitari nella seconda, mostrando scarsa capacità di promuovere autonomia e integrazione delle persone accolte. I Corridoi umanitari, invece, per loro natura, promuovono una rete di persone che accompagna i rifugiati passo dopo passo, senza lasciarli soli e smarriti in un mondo per loro sconosciuto e a volte ostile.

La grande avventura dei Corridoi inizia come una favola, anche se non la è: si sale su un aereo di linea, invece che su un barcone; si vede dall’alto il mare bello e amico; si scende a Fiumicino stralunati e col cuore che batte, e si è accolti come in una festa da volti che poi diventeranno amici. Due giorni dopo si viene già accompagnati da qualcuno che mostra come si raggiunge la scuola dove i bambini sono già iscritti, come si prende l’autobus, dove sono i negozi. Qualcuno che aiuta a fare la spesa e a essere conosciuti in paese, nel quartiere.

Lo stupore del «modello adottivo»

Di solito con i Corridoi, non arrivano singoli, ma gruppi, famiglie più vulnerabili di altre. Nonne con ragazzi che hanno perso i genitori in guerra, donne e adolescenti, chi ha bisogno di cure urgenti. Ciascuno con la sua storia già «verificata» prima di partire.

Il viaggio, l’accoglienza, l’accompagnamento all’autonomia, tutto è a carico della società civile. Su base volontaria. Viene così svuotato in radice l’argomento, miope ma popolare, che dice: «Basta spendere soldi pubblici per gli stranieri!». In più, si mettono insieme risorse umane, professionali, spirituali, civili altrimenti inutilizzate.

Invece di dare per scontata la frammentazione sociale, ci si mette insieme, si riduce la solitudine: giovani, adulti, pensionati, anziani, diventano il nerbo di un’esperienza che trasforma i problemi – di lingua, inserimento, diffidenza, paura – in una rinascita, spesso allegra, appassionante, di pezzi di società civile.

I gruppi che accolgono, si assumono gli oneri materiali e relazionali necessari per favorire l’inserimento sociale «simpatetico» dei rifugiati. Questo «modello adottivo» suscita spesso nelle persone accolte una risposta che va oltre le speranze di chi accoglie: è normale infatti che chi arriva da anni di inganni e di offerte di aiuto interessate, resti stupito del fatto che non c’è nessuna trappola nei Corridoi.

foto Marco Pavani

Burocrazia senza paura

Il parlamento italiano ha definito la «sponsorship» privata di questa esperienza «un modello esemplare di accoglienza diffusa». Papa Francesco l’incoraggia sottolineando l’«immaginazione» che ha aperto questo varco di umanità.

A differenza dei programmi di «resettlement» (reinsediamento), che si rivolgono a persone già riconosciute dall’Unhcr come rifugiate, i Corridoi umanitari prevedono che, al loro arrivo sul territorio italiano, i beneficiari presentino la domanda di asilo e seguano l’iter comune a qualsiasi richiedente. Le loro storie sono state già in larga parte verificate prima della partenza, e le domande superano presto l’esame delle Commissioni territoriali. Le persone vengono accompagnate dal gruppo anche in questo percorso, perché non si trovino sole davanti alla burocrazia, agli avvocati, e al tam tam dei passaparola.

I punti di forza dei Corridoi

I punti di forza di questo modello sono, quindi, diversi: innanzitutto la verifica delle storie personali prima della partenza; poi la creazione di un canale di fiducia nei rifugiati che viene confermato al loro arrivo in Italia (quello che è stato promesso prima del viaggio, si realizza davvero); la creazione di una rete di persone che accoglie e attiva un processo di integrazione che riduce il rischio di isolamento sociale; l’assenza di costi a carico dello stato e del bilancio pubblico; infine la sicurezza di tutto il processo, e lo svuotamento del potere dei trafficanti umani.

A ben pensarci, questo modello potrebbe essere utilizzato per riqualificare il sistema pubblico di assistenza, migliorandone l’efficienza e la capacità di integrazione con investimenti modesti.

Tremilacinquecento

Ad oggi quasi 3.500 persone sono arrivate in Europa in questo modo, più di quante ne abbiano accolte 21 stati europei con le ricollocazioni: 2.700 in Italia, di cui quasi 2.000 dai campi in Libano, 623 via Etiopia e Giordania e 67 dalla Grecia. Altri 659 sono in Francia e Belgio, 8 nella piccola Andorra.

Solo in Italia si sono coinvolti 162 «attori» in 18 regioni, famiglie, gruppi, associazioni, parrocchie, Caritas, Sant’Egidio, Migrantes, Tavola valdese, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, collegi, congregazioni religiose, privati. Quasi 3.500 volontari e almeno altre 30mila persone danno convintamente un contributo.

A settembre 2020 è stato firmato un nuovo accordo con l’Italia che permette alla Comunità di Sant’Egidio di avviare ufficialmente il Corridoio da Lesbo e dalla Grecia per i primi 300 (si veda il reportage da Lesbo a pag. 59).

Per questo c’è bisogno di altre persone che mettano a disposizione quello di cui dispongono: una piccola cifra, del tempo, una casa inutilizzata, una professionalità. Chi aiuta non è lasciato solo: Sant’Egidio si assume anche questo ruolo, oltre all’ospitalità diretta.

Si può fare ancora molto

In un mondo attraversato dalla brutalità del Covid-19, in un’Europa spaventata dall’incertezza, c’è il rischio che questa risposta intelligente e umana alle migrazioni si fermi. Sarebbe un errore. Per l’Europa è di primario interesse la creazione di un Corridoio europeo per i profughi di Lesbo, che è già Europa, e dei lager libici.

In Italia andrebbe rinnovato il decreto flussi per gli ingressi legali, ormai ridotti quasi solo ai ricongiungimenti familiari.

È positiva la parziale apertura sul cambiamento del permesso di soggiorno, che può riavviare una integrazione oggi bloccata anche dai controproducenti «decreti sicurezza» che avevano creato da 30 a 70mila «irregolari» incolpevoli.

Sarebbe necessario introdurre permessi di soggiorno di un anno per la ricerca del lavoro, accanto a quelli di lavoro: sono più realistici.

Sarebbe opportuno fare emergere quanti sono diventati irregolari come «overstayers» (perché rimasti sul territorio italiano oltre il tempo consentito), attraverso il ravvedimento operoso, non solo con regolarizzazioni a ondate.

Ci vorrebbe un ampliamento dei ricongiungimenti familiari che tenga nel debito conto la diversa ampiezza dei legami familiari nei paesi di provenienza, non limitabili solo alla moglie, ai figli, ai nonni o ai fratelli.

E sarebbe sensata una riqualificazione professionale di profughi e rifugiati presenti da tempo in Italia, con investimenti in collaborazione con il settore privato: sarebbe una risposta anche al declino e all’invecchiamento della popolazione.

Ci si può arrivare. Intanto, i Corridoi umanitari ci aiutano a rimanere umani.

Mario Marazziti

foto Marco Pavani


Ecumenismo dell’accoglienza

La ricerca dell’unità dei cristiani ha attraversato stagioni diverse. Dal Vaticano II a oggi, si è conosciuto entusiasmo, ma anche crisi e nuove distanze, che hanno rallentato il cammino.

La stessa preghiera sacerdotale di Gesù e l’imperativo a essere una cosa sola, sgorga dal cuore della Passione, dentro un confronto agonico con il male. Il Male è anzitutto divisione. E i suoi frutti sono terribili. Il Concilio Vaticano II è stato una risposta dello Spirito, dopo la tragedia della II Guerra Mondiale.

La ricerca dell’unità si oppone alle derive centrifughe che lacerano i cristiani e i popoli. Oggi, in un tempo di rinascenti nazionalismi, appare necessario un sussulto di audacia, per porre la questione dell’unità in un mondo globalizzato e drammaticamente diviso. L’indifferenza o la disunione tra le Chiese suonano troppo simili alle chiusure nazionali di fronte alle migrazioni, ai conflitti, carestie, disastri ambientali.

Per questo i cristiani non possono condividere – anche se dolorosamente accade – il cinismo e il rifiuto opposto da populismi e paura.

Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, ha offerto un antidoto alla separazione e alla cultura dello scarto: la fraternità universale, sola medicina per le grandi piaghe dell’umanità.

Le stesse confessioni cristiane, «insieme», sono invitate a non conformarsi al pensiero corrente e a lavorare per un’umanità riconciliata e inclusiva, di cui loro stesse siano segno. Per questo, il tema dei rifugiati e dei migranti, del superamento delle barriere, dell’integrazione e dell’accoglienza, incrocia e provoca il cammino ecumenico per una risposta profonda e contagiosa alla «globalizzazione dell’indifferenza».

Il 6 marzo 2016, all’Angelus, papa Francesco citava come segno concreto di impegno per la pace e la vita, proprio «l’iniziativa dei Corridoi umanitari per i profughi, avviata ultimamente in Italia. Questo progetto pilota, che unisce la solidarietà e la sicurezza – diceva -, consente di aiutare persone che fuggono dalla guerra e dalla violenza, come i cento profughi già trasferiti in Italia, tra cui bambini malati, persone disabili, vedove di guerra con figli, e anziani». E concludeva: «Mi rallegro anche perché questa iniziativa è ecumenica, essendo sostenuta da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche italiane, Chiese valdesi e metodiste».

Si sarebbe aggiunta in seguito, tramite un accordo con la Comunità di Sant’Egidio, la Cei per un Corridoio dal Corno d’Africa.

Tutta l’esperienza dei Corridoi umanitari rappresenta un esempio evangelico e di ecumenismo della solidarietà e della giustizia. Un esempio per le persone di buona volontà, per non abbassare la soglia del nostro «rimanere umani», in un tempo difficile.

È l’immaginazione evangelica nella storia.

Conosco, con le sorelle e i fratelli valdesi, la fatica costruttiva di aprire varchi di disponibilità nella compagine delle Chiese in Europa.

Oltre all’Italia, la Francia ha visto la collaborazione della Chiesa riformata, mentre partner in Europa sono anche diversi vescovi luterani tedeschi.

A Lesbo, un protocollo di collaborazione è stato siglato con la Metropolia ortodossa di
Mitilene.

Si prosegue l’impegno perché in modo creativo e efficace, si possa ecumenicamente offrire il diritto al futuro e alla pace ai profughi siriani, eritrei, sud sudanesi, e a tutti coloro che soffrono violenza, persecuzione e tortura, e all’Europa una opportunità per non allontanarsi dall’umanesimo che è alle sue fondamenta.

mons. Marco Gnavi,
parroco di Santa Maria in Trastevere

foto Marco Pavani


Hanno firmato il dossier:

Mario Marazziti
Giornalista e scrittore, è stato editorialista per il «Corriere della Sera», «Avvenire», «Famiglia Cristiana», «Huffington Post» e portavoce della Comunità di Sant’Egidio. Presidente del Comitato per i diritti umani e poi della Commissione affari sociali della Camera dei deputati dal 2013 al 2018, è stato promotore e primo firmatario della legge di cittadinanza per i bambini immigrati (ius soli e ius culturae) e ha portato a termine la riforma delle professioni sanitarie, la legge di sostegno ai disabili gravi «Dopo di noi», e quella sul recupero degli sprechi alimentari. È cofondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte.

Monsignor Marco Gnavi
Parroco della parrocchia di Santa Maria in Trastevere e direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo, il dialogo interreligioso e i nuovi culti del Vicariato di Roma, tra i responsabili internazionali della Comunità di sant’Egidio.

Luca Lorusso
Giornalista redazione MC curatore del dossier.

Archivio MC sui corridoi umanitari:
Enrico Casale, Per vincere il traffico (di migranti), MC novembre 2018.
Enrico Casale, Ecumenismo per le migrazioni, MC marzo 2019.

foto Luca Lorusso