Guatemaltechi trascinati a casa


Gli stranieri senza documenti validi fermati negli Usa sono immediatamente arrestati, e poi rimpatriati su voli speciali. Alcuni di loro sono presi subito alla frontiera, mentre altri dopo anni vissuti nel Paese. La loro vita cambia bruscamente e in poche ore si ritrovano nella terra di origine. Senza risorse.

Città del Guatemala. È mezzogiorno di un mercoledì qualsiasi davanti al cancello principale della Forza aerea guatemalteca, l’aeroporto militare della capitale, alle spalle di quello civile. Un gruppo di persone è seduto su alcune panchine e sta chiacchierando animatamente, mentre una musica ripetitiva e riconoscibile annuncia l’arrivo del carretto dei gelati. Un bambino implora la madre di dargli una moneta per comprarsi un ghiacciolo, intanto la sorella lo osserva seduta ai piedi della nonna, che le intreccia i capelli.

Bambini, anziani e donne si affollano sull’avenida Hincapié, una delle arterie principali che attraversano la capitale, in attesa del volo charter dell’Ice (Immigration and customs enforcement), l’agenzia statunitense di controllo delle frontiere e dell’immigrazione, con circa 120 persone guatemalteche appena espulse dagli Usa.

Improvvisamente la porta si apre e una folla si riversa nella strada con in mano un sacchetto contenente pochi effetti personali, tra cui scarpe, libri, acqua e snack. Vengono consegnati dagli agenti dei centri di detenzione per migranti il giorno dell’espulsione. Negli sguardi di chi esce si percepisce spaesamento, ma anche la mobilità di chi cerca di intercettare il sorriso di qualcuno conosciuto e amato. Risate e lacrime si mischiano e riflettono emozioni contrastanti, perché se la gioia di rivedersi dopo tanto tempo è palpabile, è altrettanto forte il dolore per un incontro non programmato ha poco a che fare con un ritorno volontario.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

«Ho fallito»

Un ragazzo appena deportato vede suo padre da lontano e gli si butta tra le braccia piangendo. «Perdonami. Ho fallito», gli dice con vergogna, mentre il padre gli asciuga le lacrime e risponde: «L’importante è che tu sia vivo. Ora vedremo cosa fare con il debito, ma prima ci prenderemo cura della tua salute per essere sicuri che tu stia bene». Poi attraversano la strada, salgono su un taxi e spariscono nel traffico, come quasi tutti gli altri, mentre la polizia guatemalteca fa salire su un pick-up gli ultimi quattro deportati, i quali a differenza degli altri, hanno crimini in sospeso nel Paese di origine che ora dovranno scontare.

Questa è una scena molto più che quotidiana. Infatti, ogni settimana atterrano in Guatemala tra gli otto e i nove voli di deportazione dagli Stati Uniti, per un totale di circa mille persone espulse. Dal primo gennaio al 13 di novembre sono state trasferite 45.022 persone in 386 voli, secondo l’Istituto guatemalteco per le migrazioni. Circa l’85% di esse è stato sorpreso dalla polizia statunitense quando provava ad attraversare il confine, mentre il restante 15% è costituito da guatemaltechi che avevano costruito una vita negli Stati Uniti dove vivevano da tempo, secondo i dati della «Casa del migrante», gestita dai missionari scalabriniani a Città del Guatemala, che fornisce assistenza alla popolazione mobile.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Giardiniere in Florida

Pedro (nome fittizio) è appena stato rimpatriato ed è in piedi di fronte al cancello della Forza aerea con lo sguardo fisso di fronte a sé. Sta aspettando che sua cugina lo vada a prendere per riportarlo nella comunità in cui è nato. Originario di San Marcos, nel sud ovest del Guatemala, Pedro ha 28 anni, otto dei quali trascorsi negli Stati Uniti: «In Florida lavoravo come giardiniere e questi che indosso oggi sono gli stivali che avevo quando la polizia mi ha fermato mentre tornavo a casa con un collega in macchina. Ci hanno chiesto i documenti e visto che non li avevo, mi hanno immediatamente portato in prigione, senza darmi neppure il permesso di andare a casa per cambiarmi. Dopo nove mesi, rinchiuso in carcere, sono stato espulso. Negli Stati Uniti avevo il mio lavoro, i miei amici e la mia ragazza. Cosa farò ora? Sono sotto shock. Non ho fatto nulla di male. Non me la sento di dire altro». Poi si gira, ritorna con lo sguardo verso un punto immaginario di fronte a sé e sprofonda in silenzio.

Secondo la Transactional records access clearinghouse dell’Università di Syracuse (stato di New York), il 62,2% delle persone detenute dall’Ice a luglio 2023 non aveva nessun tipo di precedente penale, proprio come Pedro. Questo significa che sono state espulse solamente per la mancanza del permesso di soggiorno. In realtà, in alcuni stati degli Usa questo è illegale, in quanto è necessario che la persona trovata senza documento abbia commesso un reato per avviare la pratica di deportazione. Il 37,8% delle restanti persone invece ha un crimine a suo carico, nella maggior parte considerato minore, come per esempio un’infrazione del codice della strada.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Straniero in patria

Proprio per il fatto di aver guidato senza patente, è stato espulso Bernabé Andrés Martin, 31 anni, di San Antonio Huista, Huehuetenango, Guatemala occidentale. Dopo il rimpatrio forzato, si è presentato alla Casa del migrante, dove chi come lui è stato appena espulso può ricevere assistenza medica, psicologica, materiale e orientamento per provare a reintegrarsi nel suo paese di origine. «Sono andato negli Stati Uniti a 18 anni. Prima vivevo in Messico, dove la mia famiglia mi ha portato quando avevo 2 anni. A 10 anni ho iniziato a lavorare vendendo cibo per la strada, mentre i miei genitori sono tornati in Guatemala dopo la morte di una delle mie sorelline. Sono emigrato negli Stati Uniti perché la mia famiglia era poverissima. I miei fratelli non avevano neppure le scarpe e io volevo aiutarli a studiare e vivere meglio – ricorda Bernabé – Se negli Stati Uniti inizi a lavorare a cottimo, nessuno ti chiede i documenti e riesci a guadagnare abbastanza. Io ho fatto un po’ di tutto, dal raccogliere di blueberries (mirtilli) al roofing (costruzione di tetti). So che non avrei dovuto guidare, ma le distanze negli Stati Uniti sono enormi e senza un’auto non riuscivo neanche ad andare al lavoro. Ho comprato un’auto per tremila dollari. Lì tutto è business e nessuno ti chiede la patente prima di vendertela».

Bernabé parla uno spagnolo tutto suo, mischiato a parole inglesi. Si sente più messicano che guatemalteco e, dopo una vita senza documenti, solamente ora, per la prima volta, ha la possibilità di richiederli.

«Quando la polizia statunitense mi ha portato in carcere, mi ha chiesto la nazionalità e mi ha deportato qui. Però anche le autorità guatemalteche hanno fatto fatica a trovarmi nel database dell’anagrafe perché io non ho mai vissuto in questo Paese. Ho appena richiesto la carta di identità e quando me l’avranno fatta, andrò a Huehuetenango da mia madre, dove sono nato, anche se non mi ricordo nulla di quella città. Per me è un luogo nuovo e sconosciuto», racconta Bernabé, disorientato.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Espulsioni di massa

Nella prima metà dell’anno fiscale 2023, il Dipartimento di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha espulso dai suoi confini nazionali oltre 1,2 milioni di persone straniere senza documenti regolari.

Bernabé e Pedro sono stati deportati secondo il «titolo 8» del codice degli Stati Uniti, così come tutte le persone espulse a partire dall’11 maggio, data in cui è stato abrogato il «titolo 42», una disposizione sanitaria reintrodotta dall’ex presidente Donald Trump nel marzo 2020 che autorizzava le espulsioni immediate dal confine in teoria per ridurre il contagio del covid 19, ma di fatto per non permettere ai richiedenti asilo di fare domanda nel Paese.

Da maggio, gli Stati Uniti sono ritornati ad applicare il titolo 8 che, da ben prima della pandemia, ha sempre normato la materia dell’immigrazione. Il titolo 8, pur consentendo le richieste di asilo politico, permette le famose «espulsioni express», che possono avvenire in appena 48 ore, e inasprisce le sanzioni penali verso chi prova ripetutamente ad attraversare il confine in maniera irregolare.

Lo sa bene Edwin Omar Rabanales Ochoa, 26 anni, originario di un villaggio della regione di Quetzaltenango, nella zona ovest del Guatemala. Seduto accanto a Bernabé, inizia a parlare: «Sono andato negli Stati Uniti a tredici anni con mio zio. Volevo raggiungere mia madre, che era già lì con i miei fratelli. Nel 2018 l’Ice mi ha fermato a causa di un incidente stradale in cui sono stato coinvolto. Il mio amico che guidava è scappato e quando è arrivata la polizia sono stato incolpato del reato. Sono stato in prigione due anni e l’ultimo giorno di detenzione mi hanno deportato. Sono tornato in Guatemala nel 2020 e ho lavorato nei campi con mia nonna, ma a fare questo lavoro non si guadagna davvero niente qui. Nel 2021 ho provato a tornare negli Stati Uniti, pagando circa 8mila dollari a un coyote. Ma la polizia mi ha arrestato mentre cercavo di superare la frontiera e mi ha condannato ad altri due anni di carcere, perché era la seconda volta che mi fermavano senza documenti. Ora mia madre vorrebbe che emigrassi di nuovo, ma se la polizia mi ferma, mi possono dare anche quattro anni di prigione, perché sarebbe la terza volta», conclude Edwin.

Secondo le nuove disposizioni del titolo 8 a partire da maggio 2023, attraversare irregolarmente la frontiera comporta un divieto di ingresso negli Stati Uniti per cinque anni. A questo veto si aggiunge la detenzione che un migrante dovrà sempre affrontare prima dell’espulsione, con una durata che varia da caso a caso. «Quando la polizia statunitense mi ha fermato in frontiera, mi ha portato in un luogo che chiamiamo la hielera (ghiacciaia). È una stanza fredda con l’aria condizionata al massimo dove bisogna aspettare prima delle pratiche di identificazione.  Lì dentro si muore di freddo e sembra una tortura. Anche la mia prima detenzione negli Stati Uniti è stata difficile. Ero in una enorme gabbia di metallo con altri prigionieri che avevano commesso ogni tipo di reato. In estate il caldo è terribile perché non c’è un buon sistema di ventilazione e mi sentivo soffocare».

«Stai zitto…»

Per chi vive negli Stati Uniti da molti anni senza documenti, essere catturati dalla polizia migratoria è un momento terribilmente drammatico, perché spesso avviene quando meno se lo aspetta, per esempio all’uscita dal lavoro, o mentre si guida per tornare a casa o si beve qualcosa in un bar. La vita cambia improvvisamente.

«Quando sono andato in tribunale, il giudice mi ha detto che avevo violato la legge statunitense e che sarei stato espulso. Il processo è durato circa un’ora e poi la polizia migratoria mi ha portato in prigione. Non sono mai tornato a casa. Ho lasciato tutto lì, vestiti, cibo, mobili. Chissà che fine avranno fatto – racconta Bernabé -. È tutto molto veloce, sono arrivato qui con gli stessi pantaloni che avevo il giorno del processo. Inoltre, le autorità di immigrazione ti maltrattano e ti insultano tutto il tempo. Ti dicono: “Stai zitto, messicano di merda [Cállate fucking mexican]”. Dopo un mese di detenzione, mi hanno messo le manette, caricato sull’aereo e deportato. Questa situazione mi ha ferito parecchio, perché mi sono sentito un criminale. La polizia ti toglie le manette cinque minuti prima di arrivare in Guatemala. Inoltre, ti prendono tutto. Sono arrivato qui senza telefono né soldi».

Il senso di fallimento, la paura provata durante la cattura, l’angoscia per dover ricominciare da capo, la depressione e la tristezza di fronte ai sogni non realizzati sono alcune delle emozioni riportate dalla maggior parte delle persone espulse dagli Stati Uniti.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Senza speranza

«L’esperienza della deportazione cancella la speranza – spiega Francisco Pellizzari, missionario scalabriniano e direttore della Casa del migrante -. E senza speranza, ricostruirsi un futuro è impossibile. Dopo aver vissuto 20 o 25 anni negli Stati Uniti, guadagnando tra i 20 e i 30 dollari all’ora, le persone deportate non vogliono stare in un Paese dove per lo stesso lavoro si viene pagati a malapena un dollaro all’ora. A volte hanno sulle proprie spalle anche il peso del debito con il coyote che ora si fa pagare 15mila dollari per un viaggio. Quindi, la maggior parte dei deportati in realtà aspetta un’opportunità per ritornare negli Stati Uniti».

Nel 2023, il salario minimo non agricolo in Guatemala è di 434 dollari al mese. Sebbene il Pil sia cresciuto del 4% nel 2022, il Paese presenta alcuni dei più alti livelli di disuguaglianza dell’America Latina. Il Guatemala sta vivendo una grave crisi istituzionale e un ritorno all’autoritarismo capitanato dai grandi interessi economici e dai partiti sostenuti dal potere militare che stanno provando a ostacolare in ogni modo il presidente Bernardo Arévalo del partito social democratico Semilla, eletto con una grande maggioranza di voti il 20 agosto e che dovrebbe iniziare il suo mandato il 14 gennaio 2024.

«Negli Stati Uniti guadagnavo tra i 300 e i 400 dollari a settimana. Ho lavorato duramente per dodici anni della mia vita e con i miei risparmi mia madre è riuscita a costruirsi una piccola casa. Se non guadagnerò abbastanza qui, dovrò ripartire», conclude Bernabé con tristezza.

Simona Carnino




L’attesa infinita. Migranti venezuelani (in Guatemala)


Vivono per le strade della capitale guatemalteca aspettando di trovare i soldi o l’opportunità per tentare (o ritentare) l’entrata negli Stati Uniti. Sono i migranti venezuelani le cui storie vengono raccontate in queste pagine.

Città del Guatemala. Josué cammina lentamente tra un semaforo e l’altro dell’incrocio tra la sesta e la decima avenida, nella zona pedonale del centro storico della capitale guatemalteca. Sta lì tutto il giorno e, quando il sole picchia forte nelle ore più calde cerca un po’ di riparo all’ombra di qualche edificio.

Ha 22 anni e la sua maglietta rossa, gialla e blu, con otto stelle sulla manica, non lascia spazio a dubbi sulle sue radici venezuelane. Sulla schiena, a caratteri cubitali, c’è scritto il suo nome. «Josuè» spicca sul tessuto come una tacita affermazione di identità che il giovane non intende nascondere.

I suoi occhi chiari tra le folte ciglia fissano la terra per la maggior parte del tempo. Di tanto in tanto, quando allunga la mano verso qualche passante, Josué solleva il volto mostrando uno sguardo un po’ imbarazzato.

Il ragazzo trascorre le sue giornate a chiedere l’elemosina. Ogni tanto qualcuno gli dà un quetzal (circa undici centesimi di euro), ma la maggior parte dei passanti lo evita, spesso con espressioni disgustate sul volto.

Josue, che non nasconde né il proprio nome né la provenienza, è uno dei protagonisti di questo reportage; qui tiene in braccio il figlioletto davanti alla vetrina di Burger King, a Città del Guatemala. Foto Simona Carnino.

Il wi-fi di Burger King

Carolina ha 18 anni da poco ed è la moglie di Josué. Ogni tanto gli dà il cambio all’incrocio della strada, ma per la maggior parte del tempo si ripara dal sole seduta sul gradino della vetrina di un Burger King della sesta avenida con il loro bambino di un anno e mezzo seduto sulle gambe.

È impegnata a intercettare il wi-fi gratuito della grande catena di fast food perché è tanto che non parla con sua madre e vorrebbe salutarla e raccontarle come sta.

A pochi metri di distanza ci sono Alonso, 29 anni, ex grafico, e Jona, 27 anni, ex studente di ingegneria petrolifera. Parlano della loro vita al passato remoto e aggiungono il prefisso «ex» prima di tutti i lavori e gli studi che hanno fatto, come se le esperienze precedenti, che dovrebbero essere la base per costruire il loro futuro, non esistessero più.

Poco più avanti, una ragazza che ha deciso di non parlare della sua storia, è in piedi all’angolo tra la sesta e la nona avenida e regge un cartello in mano che dice così: «Ho bisogno di aiuto per tornare in Venezuela».

Un mondo nella valigia

Da Josué a Carolina, passando per Alonso e la ragazza con il cartello, tutti condividono lo stesso destino.

Sono giovani migranti venezuelani, bloccati in Guatemala perché senza soldi per continuare il viaggio verso gli Stati Uniti o, eventualmente, tornare a sud, in Venezuela o in altri paesi dell’America Latina.

Dopo mesi trascorsi a viaggiare per raggiungere la meta si fermano per racimolare le risorse economiche necessarie ad andare avanti, o, come la ragazza che non ha più le forze né fisiche né mentali, per tornare indietro.

Sono senza permesso di soggiorno, senza casa e di solito viaggiano con una valigia a testa in cui racchiudono tutto il loro mondo.

Nella situazione di irregolarità migratoria, non hanno la possibilità di ottenere un lavoro né regolare né decorosamente pagato, per cui alcuni provano a vendere caramelle, accendini, braccialetti e bevande in strada, ma la maggior parte di loro chiede l’elemosina in varie parti della città, sul sagrato delle chiese o di fronte alle stazioni dei bus che portano fino alla frontiera con il Messico. Sperano di raccogliere abbastanza denaro per continuare il loro viaggio, perché l’idea di chiedere asilo in Guatemala, uno dei paesi da cui parte il maggior numero di migranti verso gli Stati Uniti, non li sfiora nemmeno.

«Viviamo per strada, ma una volta a settimana ci concediamo una notte in una piccola pensione, qui in centro. Chiedendo l’elemosina riusciamo a fare circa 100 quetzales al giorno (11 euro, ndr) e non bastano per l’alloggio, il cibo, i pannolini per il bambino o per pagare il coyote per passare la frontiera tra Guatemala e il Messico – spiega Josué -. Attraversare il fiume al confine con il Guatemala costa 50 dollari a persona e ne servono molti di più per arrivarci. Siamo qui da un mese e abbiamo appena messo da parte i primi 50 dollari. Ne mancano altri 100».

Josué e Carolina si sono conosciuti in Ecuador, quando dal loro punto di vista non c’erano più motivi per restare in Venezuela. «I nostri genitori non riuscivano a mantenere la famiglia – racconta Josué -. E io stesso non andavo né a scuola né riuscivo a trovare un lavoro che mi permettesse di guadagnare a sufficienza. L’inflazione là è altissima e anche se lavori, ti sembra di non guadagnare nulla».

Più di 7,7 milioni di venezuelani sono fuggiti dal loro paese negli ultimi anni a causa dell’instabilità economica e politica che, di fatto, ha costretto molte persone in una spirale di povertà estrema. La maggior parte dei migranti si è rifugiata in Colombia, Perù, Ecuador o Cile, ma negli ultimi anni, a causa della pandemia e della crisi economica che ha colpito anche questi paesi, molti venezuelani hanno deciso di lasciarsi alle spalle la vita precaria che conducevano nei paesi latinoamericani per provare la fortuna negli Stati Uniti (riquadro a pag. 54).

Carolina mostra sul cellulare la foto della propria famiglia dopo l’attraversamento della foresta del Darién. Foto Simona Carnino.

Il ricordo del Darién

Improvvisamente Carolina intercetta il segnale wi-fi del Burger King e mostra con orgoglio la foto che si sono scattati all’uscire vivi dalla giungla del Darién dopo giorni di cammino tra fango e burroni.

Quel punto del percorso migratorio è tra i più pericolosi di tutto il viaggio, a causa sia delle difficoltà naturali come le paludi, che rendono faticoso e spesso mortale il cammino, sia della presenza di bande criminali che assaltano i migranti derubandoli di tutti i loro averi.

Carolina ora sorride perché, proprio ricordando l’interminabile fatica che hanno vissuto sulla propria pelle nel Darién, è convinta che la parte più difficile del loro viaggio sia passata.

Non hanno più soldi né forze, ma nessuno è riuscito a privarli della speranza.

Sono partiti dall’Ecuador nel dicembre 2022, hanno attraversato la Colombia, la giungla del Darién, Panama, Costa Rica (dove sono rimasti alcuni mesi a lavorare), Nicaragua, Honduras e alla fine sono arrivati in Guatemala a maggio del 2023.

«Abbiamo visto persone annegare nel fango del Darién perché non avevano più forze per andare avanti, altre sono scivolate nei dirupi e sono sparite per sempre. Noi siamo stati fortunati e siamo sopravvissuti – racconta Carolina -. So che il Messico è pericoloso, perché i narcos e la polizia cercano sempre di derubarti, ma sono sicura che noi riusciremo ad arrivare negli Stati Uniti».

I muri da superare

Carolina parla con l’entusiasmo di chi forse non sa che il Guatemala, così come il Messico, gioca il ruolo di muro per i migranti diretti negli Stati Uniti senza visto, via terra. Da molti anni, il Messico viene considerato un’estensione della frontiera degli Stati Uniti, e le oltre cinquanta stazioni migratorie sparse sul territorio nazionale sono un ostacolo che i migranti conoscono bene e provano a evitare. Si avventurano in percorsi più precari dove spesso vengono intercettati da gruppi criminali che li derubano o li sequestrano.

Il Guatemala, invece, era stato elevato a «terzo paese sicuro» da un accordo firmato nel 2019 tra l’ex presidente Trump e l’ex presidente guatemalteco Jimmy Morales.

L’accordo permetteva di deportare nel paese centroamericano le persone salvadoregne e honduregne che si presentavano alla frontiera degli Stati Uniti e che non avevano richiesto asilo politico in Guatemala, considerato – appunto – abbastanza sicuro per accogliere richiedenti asilo. Di fatto l’accordo estendeva ancora di più le frontiere degli Stati Uniti che, in questo modo, riuscivano a delegare al Guatemala la gestione di un immenso numero di migranti, creando un enorme primo posto di blocco.

L’accordo è stato revocato nel 2021, ma il Guatemala continua a gestire una politica migratoria di contenimento.

Nel 2022, il paese centroamericano ha respinto 15.593 venezuelani e 2.555 nicaraguensi, cubani e haitiani. Ogni giorno la polizia nazionale guatemalteca detiene ed espelle decine di migranti, per lo più venezuelani.

Deportazioni

Muro dopo muro, deportazione dopo deportazione, gli Stati Uniti sono diventati un miraggio per Alonso e Jona che condividono l’incrocio tra la sesta avenida e la decima strada con la famiglia di Carolina e Josué. «Ho perso il conto di quante volte siamo stati deportati – ridono nervosamente Alonso e Jona -.

Un anno e mezzo fa abbiamo lasciato il Cile dove stavamo vivendo da alcuni anni. Arrivati fino alla frontiera Usa, la polizia statunitense ci ha beccati e deportati a Panama. Da lì siamo andati in Costa Rica e abbiamo provato a lavorare, ma non guadagnavamo abbastanza, così abbiamo deciso di migrare nuovamente. La polizia guatemalteca ci ha intercettato una prima volta e portati in Honduras. È la seconda volta che siamo qui e speriamo che non ci deportino di nuovo. Tornare in Venezuela è fuori discussione, per cui, se tutto va bene, resteremo in Guatemala finché non riusciremo a racimolare i soldi che ci servono per andare avanti».

La Casa del migrante

Dall’altra parte del centro storico, Leidy (nome di fantasia), 41 anni e madre single di un bambino di otto anni con disabilità mentale, è appena arrivata alla «Casa del migrante» dei missionari scalabriniani. Prevede di attraversare il Messico in poche ore. Lei ha ancora qualche soldo per finanziare il viaggio verso il Nord America e non pensa di rimanere in Guatemala neanche un giorno in più.

«Appena arriveremo alla frontiera degli Stati Uniti, farò richiesta per entrare nel programma di accoglienza speciale dedicato alle persone venezuelane», dice Leidy, dimenticandosi, o forse ignorando, che non ha i requisiti necessari per fare domanda.

Infatti, l’iscrizione al programma di accoglienza rivolto ai nicaraguensi, haitiani, cubani e venezuelani è aperto solamente a trentamila persone al mese che hanno negli Stati Uniti uno sponsor in grado di garantire loro un lavoro, una volta raggiunto il Paese per via aerea.

Non sono ammessi al programma coloro che si presentano alla frontiera terrestre, né tantomeno chi viene sorpreso dalla Border patrol (la polizia di frontiera statunitense), mentre cerca di attraversare il confine in modo irregolare.

«Non ho uno sponsor negli Stati Uniti, ma mio figlio è malato e sono certa che ci accetteranno», dice Leidy, che per mesi ha attraversato una frontiera dopo l’altra a piedi, a volte con l’aiuto di un coyote pagato ad alto prezzo, ma di certo mai con un regolare visto d’ingresso.

«Il Venezuela è bellissimo»

Come Leidy, centinaia di venezuelani, soprattutto famiglie, arrivano a Città del Guatemala di sera. Molti chiedono di poter avere un pasto caldo e un letto alla Casa del migrante.

Alcuni arrivano con evidenti ferite ai piedi e vesciche, altri con la febbre e la bronchite, tutti hanno bisogno dei servizi dell’infermeria del rifugio.

All’alba svaniscono come un sogno. Perché vogliono proseguire il viaggio; con i bambini che possono camminare al loro fianco e i più piccoli avvolti in una coperta legata sulla schiena.

«Il flusso migratorio in transito proviene principalmente dal Venezuela – spiega Elena Zamin, volontaria della Casa del migrante -. Riceviamo una media di tremila persone al mese e il 75% di loro sono venezuelane, ma questa è solo una piccola percentuale di tutti quelli che arrivano giornalmente a Città del Guatemala. Molti dormono per strada, vicino al mercato La Terminal. La maggior parte di loro è senza soldi perché, prima di arrivare qui, sono stati assaliti numerose volte anche dalla polizia guatemalteca».

Più di 250mila persone hanno attraversato il Darién tra gennaio e luglio 2023, un numero superiore a quello dell’intero 2022. Il 55% di loro sono venezuelani diretti negli Stati Uniti per i quali l’America Centrale e il Guatemala sono un passaggio obbligato.

Intanto, mentre Leidy si assicura che il suo bambino riposi tranquillamente in un letto della Casa del migrante prima di riprendere il viaggio all’alba, Josué abbraccia suo figlio e si siede vicino a Carolina davanti Burger King.  Poco più avanti, Alonso tiene la bandiera venezuelana sulle spalle, con l’aria fiera di chi, nonostante tutto, non riesce ad abbandonare l’orgoglio nazionale: «Il Venezuela è bellissimo. Ci sono spiagge, le Ande, Maracaibo e il páramo. Non siamo scappati da questo, ma da chi ci ha governato o ci vuole governare. Queste persone ci hanno condannato alla fame ed è questo il motivo per cui ora siamo qui in strada in un paese straniero».

Poi ci lascia il suo numero di telefono guatemalteco per metterci in contatto con lui prima di legarsi la bandiera e scompare dietro un angolo.

Diventare invisibili

Settimane dopo il telefono di Alonso suona a vuoto. Sembra sparito o, forse, ha semplicemente lasciato il Guatemala, dopo aver risparmiato i soldi sufficienti a pagarsi un bus verso la frontiera con il Messico e un coyote per attraversare il fiume. O forse, come nei suoi peggiori incubi, è stato deportato nuovamente verso sud. L’unica cosa certa è che, nell’invisibilità in cui sono costretti i migranti in tutto il mondo, di lui, così come di Carolina e tutti gli altri, non c’è più traccia.

Simona Carnino


Stati Uniti / Migranti sul confine meridionale

Pressione continua, soluzioni difficili

Nel solo mese di settembre, sul confine sud degli Stati Uniti, sono stati oltre 210mila i migranti senza permesso fermati dalle autorità statunitensi. Per comprendere meglio il dato e avere un termine di paragone: in più di dieci mesi (da gennaio al 9 novembre), gli sbarchi di migranti in Italia sono stati pari a 144.889 persone. Tra quei 210mila si sono contati oltre 50mila venezuelani. In precedenza, questi preferivano trovare riparo nei paesi più vicini (Colombia, Perù, Ecuador, Brasile), anche per evitare il pericoloso attraversamento del Darién. D’altra parte, la fuga dal Venezuela ha assunto connotati biblici: secondo R4V (una piattaforma di coordinamento), sarebbero addirittura 7,7 milioni le persone espatriate (rifugiati, migranti e richiedenti asilo).

La condizione dei migranti venezuelani è particolare, a causa della mancanza dal 2019 di relazioni diplomatiche ufficiali tra il governo di Caracas e quello di Washington. Pertanto, mentre gli Stati Uniti possono rimpatriare migranti illegali (300mila tra maggio e ottobre 2023, secondo fonti ufficiali) verso paesi dell’America Centrale e di altre parti del mondo, il Venezuela non accettava deportazioni ufficiali. La situazione è cambiata dallo scorso ottobre, dopo un accordo tra i governi dei due paesi. In base ad esso, il 18 dello stesso mese dal piccolo aeroporto di Harlingen, in Texas, è partito per Caracas un primo aereo con a bordo 131 venezuelani espulsi dagli Stati Uniti.

A settembre, per alleggerire la pressione sulle casse delle città che accolgono i migranti (New York, Chicago e Denver, in primis), il presidente Biden aveva offerto lo status di protezione temporanea (Temporary protected status, Tps) a circa 472mila venezuelani negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali entrata dal confine meridionale. La mossa consentirà ai venezuelani arrivati prima del 31 luglio di richiedere permessi di lavoro e protezione contro l’espulsione.

Peraltro, il governo di Nicolás Maduro rifiuta la definizione di «rifugiati» per i migranti venezuelani, come ha spiegato in una riunione della Unhcr il viceministro Rubén Dario Molina. I venezuelani usciti dal paese lo hanno fatto per cause economiche e queste sono state prodotte dalle oltre 900 misure coercitive unilaterali adottate contro il Venezuela. La questione dei migranti non può essere utilizzata per fini politici e mediatici (Correo del Orinoco, 10 ottobre 2023). Anche le cifre sono molto diverse: secondo il governo latinoamericano, i venezuelani emigrati (per ragioni economiche) sarebbero due milioni e di questi la metà sarebbe già rientrata usufruendo del programma Vuelta a la patria («Ritorno in patria»).

Per quanto riguarda gli Usa, nel corso del 2023 sono state anche ampliate le funzioni di una app per cellulari sviluppata dalle autorità della Customs and border protection (Cbp) e denominata «Cbp One» attraverso la quale i migranti senza documenti d’entrata negli Usa possono ottenere informazioni e soprattutto chiedere un appuntamento con le autorità statunitensi presso posti di frontiera prestabiliti sul confine meridionale. Sul sistema sono piovute svariate critiche, non ultima quella secondo la quale gli appuntamenti sono appannaggio di coloro che hanno i telefoni migliori o una connessione adeguata.

Al momento la cosa certa è che l’arrivo in massa di migranti dal confine sud del paese sta mettendo in gravi difficoltà Joe Biden, che su questo tema si giocherà la possibile rielezione nel novembre del 2024.

Paolo Moiola

Con la bandiera venezuelana sulle spalle, Alonso chiede l’elemosina per continuare il suo viaggio.. Foto Simona Carnino.




La rivoluzione pacifica (o quasi)

Da una settimana il Guatemala è in sciopero. Lo sono gli studenti, i docenti universitari, il personale sanitario, i commercianti, i popoli indigeni e, a partire da lunedì 9 ottobre, anche i venditori ambulanti dei mercati comunitari. Le strade e i ponti che conducono al centro di Ciudad de Guatemala sono bloccati così come oltre 50 strade che dalla capitale portano in provincia. A guidare una rivoluzione, che nelle ultime ore ha visto l’inizio di tensioni per le strade, ci sono i popoli indigeni organizzati e in particolare l’organizzazione indigena dei 48 Cantoni del dipartimento di Totonicapán che chiede, a voce e con presenza fisica, le dimissioni della procuratrice generale Consuelo Porras e la destituzione immediata di Rafael Curruchiche, attuale direttore della Fiscalia Especial contra la Impunidad (organo della giustizia che dovrebbe indagare sui crimini di corruzione), e con loro tutti i giudici che hanno contribuito al tentativo di annullare il risultato delle elezioni democratiche dello scorso 28 agosto.

All’indomani della vittoria del candidato di sinistra Bernardo Arévalo, Consuelo Porras, che insieme a Curruchiche è stata segnalata nella lista di persone straniere «impegnate in azioni che minano processi o istituzioni democratiche, in atti di significativa corruzione o di ostruzione delle indagini su di essi» dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti, ha ordinato il ricalcolo delle schede e ha accusato il partito vincitore Movimiento Semilla di irregolarità nella raccolta delle firme all’atto di costituzione. Al rifiuto del Tribunale elettorale supremo di eseguire l’ordine, in quanto le elezioni sono state ritenute regolari, Porras ha risposto disponendo l’occupazione dell’istituzione da parte della polizia, di fatto orchestrando un colpo di stato soft, più procedurale che militare ma ugualmente illegittimo, contro il neoeletto presidente Bernardo Arévalo.

Il leader progressista del Movimento Semilla rappresenta infatti una spina nel fianco per l’élite di oligarchica di destra, di cui Porras e Curruchiche sono parte e strumento, che da quattro decenni governa il Paese a suo uso e consumo perpetrando un sistema di disuguaglianza e di povertà in cui vive oltre il 50% della popolazione.

Proprio in quest’ultima settimana in Guatemala si respira un’aria nuova e pare che la voglia di cambiamento che da anni si sentiva ribollire nelle fasce più escluse della società sia matura. Per la prima volta nella storia vede un’alleanza tra la minoranza intellettuale di sinistra blanco mestiza (bianca e meticcia) composta da docenti universitari, studenti e piccoli imprenditori e la maggioranza indigena rappresentata da 22 popoli maya, il popolo Garifuna e Xincá. Sono infatti proprio i popoli originari a guidare la protesta stufi di essere esclusi dalle scelte politiche di un paese che per oltre il 60% è indigeno. Se fino a lunedì le manifestazioni sono state pacifiche, da martedì si è verificata un’escalation di tensione culminata in scontri tra manifestanti e polizia, distruzione di vetri e incendi a esercizi commerciali. Le responsabilità non sono state ancora chiarite, nonostante si vociferi che il gruppo di persone incappucciate che hanno dato inizio ai disordini potrebbero essere degli infiltrati assoldati per minare le manifestazioni pacifiche e far ricadere le responsabilità sui popoli indigeni.

Manifestazione a Città del Guatemala. Scritta: Lotta per la democrazia. Foto di Liliana Villatoro.

Nonostante la violenza che in questo momento ha preso piede in città, i tempi sembrano maturi per un cambio di sistema politico e di giustizia che invece negli anni ha mietuto teste e voci democratiche. Sono oltre 20 gli operatori di giustizia del pool anticorruzione rifugiatisi all’estero per evitare una persecuzione politica e giudiziaria a cui si aggiungono decine di giornalisti che hanno dovuto lasciare il paese per le loro dichiarazioni scomode o sono incarcerate, come il sessantaseienne Chepe Zamora, storico direttore del quotidiano el Periódico che a maggio scorso ha dovuto chiudere i battenti per il collasso economico causato dalla persecuzione politica portata del governo di destra del presidente uscente Alejandro Giammattei, oggetto di numerosi scandali per corruzione.

Migliaia di persone indigene che dormono in giacigli precari per la strada e che ricordano, non a caso, le proteste dei popoli indigeni aymara e quechua del Perù dell’inverno scorso, quando manifestavano per la stessa cosa: il diritto di essere ascoltati e di vivere in uno stato basato su un sistema di giustizia trasparente dove anche le loro istanze siano incluse nel dibattito politico.

Mentre il Guatemala si risveglia dal suo settimo giorno di proteste, Porras ha dichiarato che non si dimetterà. Dall’altra parte migliaia di persone dicono che non lasceranno libere le strade fino alle dimissioni della procuratrice generale.

In questo tira e molla tra democrazia e oligarchia, tra il grido identitario dei popoli indigeni e uno status quo che vorrebbe escluderli, i prossimi giorni saranno decisivi.

Simona Carnino




Guatemala. Democrazia in affanno


Il paese è andato al voto senza troppe speranze dicambiamento. Le possibili candidature innovative sono state bloccate da cavilli. La stampa è sempre più imbavagliata e il sistema di lotta alla corruzione è stato smantellato. I guatemaltechi sono in fuga da miseria e violenza verso gli Stati Uniti. Eppure, dal primo turno elettorale, è arrivata una sorpresa.

Città del Guatemala. Passeggiare per la capitale del Guatemala nel giugno 2023 non lascia spazio a dubbi. Si è chiaramente in uno Stato alla soglia del suo Election Day. Non è necessario essere appassionati di politica per rendersene conto. A ogni passo ci si imbatte in enormi cartelloni elettorali che rivestono pali della luce, spartitraffico, piazzali e attraversano le superstrade che dalle periferie portano verso il centro. Fotografie di candidati sorridenti e nomi di partiti si ammucchiano uno sull’altro senza un ordine preciso, alle fermate dei bus, di fronte ai mercati e in tutti gli angoli, anche dei quartieri più marginali della città, dove le facce in carne e ossa delle persone raffigurate in quei cartelloni probabilmente non sono mai state. O meglio, si fanno vedere proprio adesso, all’ultima ora, per fare proseliti, cercare voti e convincere a votare anche chi dalla politica si è sempre sentito escluso.

Il 25 giugno 2023 i cittadini del paese più a nord del Centroamerica sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente. La campagna elettorale, iniziata a marzo, non ha lasciato spazio a grandi novità, anzi è stata il riflesso di un sistema antico e consolidato dove a fare da padrona, in un Paese che al 60% è indigeno, è una ridotta oligarchia bianca di destra, incarnata in grandi proprietari di impresa e veterani di guerra, ancora oggi discendenti direttamente dai coloni spagnoli.

Gli esclusi

Le novità, in teoria, ci sarebbero anche potute essere, ma sono state messe fuorigioco fin dall’inizio. All’appello dei 23 candidati in lizza per le elezioni è mancato la coppia presidenziale formata dal sodalizio tra la leader del Comité de desarrollo campesino (Codeca), di origine maya mam, Thelma Cabrera, e l’ex procuratore per i diritti umani, famoso per la sua lotta contro la corruzione, Jordán Rodas, entrambi candidati per il partito di sinistra Movimiento de liberación de los pueblos (Mlp). Il Tribunale supremo elettorale ha bocciato la candidatura di Rodas e, di conseguenza, anche quella di Cabrera, a causa di un’indagine aperta contro di lui per presunte irregolarità avvenute durante il suo incarico come procuratore, che però non gli era mai stata notificata. Una secchiata d’acqua fredda per i due candidati che ha rappresentato uno stop per Thelma Cabrera che, con il 10,9% dei voti, si era piazzata al quarto posto già nelle precedenti elezioni e, di fatto, avrebbe avuto la possibilità di raggiungere buoni risultati anche in questa tornata. All’esclusione dei due candidati del Mlp, si è affiancato anche quella del candidato di destra Roberto Arzú, figlio dell’ex presidente Alvaro Arzú e, all’ultima ora, del favorito da tutti i sondaggi, il leader de partito Prosperidad ciudadana, Carlos Pineda, per supposte irregolarità avvenute durante l’assemblea del partito.

L’elemento che più colpisce in questa vicenda è il ruolo di «tagliatore di teste» giocato dal Tribunale elettorale supremo che (anche alla conclusione del primo turno, ndr), invece di garantire l’iscrizione dei candidati presidenziali in un contesto democratico, ha abusato del proprio potere per escludere le candidature che sarebbero potute essere d’ostacolo al potere attuale, rappresentato da Alejandro Giammattei, presidente uscente (che non si è potuto ricandidare perché il mandato è unico), conservatore di destra, che da sempre rappresenta gli interessi dell’oligarchia. Human rights watch e numerose organizzazioni internazionali, già a gennaio, avevano espresso inquietudine di fronte alle frodi elettorali, dichiarando che «queste elezioni si sarebbero svolte in un contesto di deterioramento dello stato di diritto, in cui le istituzioni incaricate di monitorare le elezioni hanno poca indipendenza e credibilità. La decisione del Tribunale elettorale supremo del Guatemala di impedire ad alcuni candidati di partecipare alle elezioni presidenziali del 2023 si basa su motivazioni dubbie, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale».

Chi comanda il paese

Frode, corruzione e fragile democrazia sono parole chiave per comprendere le elezioni in Guatemala dove l’astensionismo rimane sempre il protagonista, attestandosi intorno al 40% (come nel 2019), un dato che riflette lo scoraggiamento e la sensazione che nulla possa cambiare di fronte agli interessi di una élite economica e militare che favorisce senza mezze misure i suoi candidati di punta.

Tra questi ultimi c’è Zury Ríos Sosa, figlia minore dell’ex dittatore del Guatemala Efraín Ríos Montt, condannato nel 2013 a 50 anni di carcere per il crimine di genocidio durante il conflitto armato interno durato 30 anni e conclusosi nel 1996. Sebbene la sentenza sia stata annullata per cavilli burocratici, la Costituzione del Guatemala proibisce ai consanguinei dei dittatori, fino al quarto grado di parentela, di potersi presentare come presidente o vice. Tuttavia, la candidatura della figlia di Ríos Montt è stata accettata, permettendole di presentarsi alle elezioni percorrendo una strada spianata grazie all’esclusione di tre candidati che avrebbero potuto darle filo da torcere.

In pole position dei sondaggi, oltre a Zury Ríos Sosa, c’erano Edmond Mulet, 72 anni, del partito Cabal (Esatto, in italiano), e Sandra Torres, 67 anni, moglie dell’ex presidente Álvaro Colom, e candidata di Unidad nacional de la esperanza (Une).

Entrambi hanno un profilo che, seppure differente, è offuscato da presunti scandali e macchie difficili da cancellare.

La prima dama di Une, sconfitta proprio da Giammattei nelle elezioni precedenti, è stata arrestata nel 2019, poi prosciolta, per il reato di associazione illecita e finanziamento elettorale non registrato del suo stesso partito.

Traffico di adozioni

Edmond Mulet, nonostante abbia sempre respinto le accuse e sia stato assolto in un processo, è legato alle adozioni illegali di minori guatemaltechi avvenute nella decade inclusa tra gli anni Ottanta e Novanta, durante il conflitto armato interno. A partire dal 1977 il Guatemala aprì le porte alle adozioni internazionali e, l’allora avvocato trentenne Mulet, partecipò come legale a una organizzazione che facilitava le pratiche di adozioni per motivi che, lui stesso, ha sempre dichiarato essere umanitari. Proprio in quegli anni le richieste di bambini in adozione da parte di Europa, Stati Uniti e Canada aumentarono a dismisura e si creò una redditizia rete di traffico. Migliaia di bambini, dati in adozione e dichiarati in stato di abbandono, in realtà venivano prelevati dalle comunità distrutte dal conflitto armato, rapiti nelle strade e nei parchi, o direttamente dagli ospedali, in assenza del consenso dei genitori o dietro un misero pagamento che a volte le famiglie più povere si vedevano costrette ad accettare. Molti avvocati coinvolti nelle reti di traffico si occupavano di falsificare documenti, velocizzando le procedure di adozione.

Come riportato dalla Corte interamericana dei diritti umani, in quegli anni il Guatemala si è distinto per essere il terzo paese al mondo per numero di adozioni internazionali, dopo Russia e Cina, realizzate in maniera irregolare «senza un ufficio notarile e senza alcun coinvolgimento degli organi statali». Nel 1981, Mulet è stato arrestato con l’accusa di essere coinvolto nelle reti di traffico e successivamente scagionato dall’organismo giudiziale di competenza «per mancanza di sufficienti motivi per portare il processo alla fase pubblica».

A giugno, il collettivo Aquí Estamos formato da alcuni dei bambini, oggi adulti, adottati tra Canada e Stati Uniti, e tornati in Guatemala per cercare le proprie famiglie biologiche, hanno organizzato una conferenza stampa per denunciare la candidatura a presidente di persone coinvolte con il traffico di bambini, tra cui Mulet, ma anche Zury Ríos Sosa, in quanto figlia del dittatore che, con la violenza scatenata negli anni della guerra, ha distrutto o ridotto in povertà molte famiglie.

Oggi, invece, Mulet è un diplomatico apprezzato all’estero per la sua carriera internazionale come ex ambasciatore del Guatemala negli Stati Uniti e presso l’Unione europea, ex direttore della Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah) e sottosegretario generale dell’Onu per le operazioni di pace nel 2007. Il candidato di Cabal, inoltre, è un intellettuale vicino al mondo giornalistico che ha dichiarato, diversamente da altri candidati, l’importanza della libertà di espressione severamente a rischio nel Paese e ha dimostrato vicinanza al pool anticorruzione attivo in Guatemala fino al 2018.

Farsa elettorale

Di fronte a questo panorama politico, il Paese, in buona parte, ha la sensazione che le elezioni siano una farsa, una porta falsamente democratica da cui entrerà in scena un governo autoritario che non farà altro che rappresentare gli interessi delle lobby economiche e militari da sempre al governo. Si ripeterà una gestione arbitraria delle istituzioni, che adatterà la legge alle proprie necessità e colpirà duramente tutti gli oppositori, così come fino a oggi è stato fatto dal presidente Alejandro Giammattei. Due esempi su tutti sono la persecuzione degli operatori di giustizia che, negli scorsi anni, si sono dedicati a sradicare la corruzione nel Paese e, di riflesso, il bavaglio stretto intorno ai giornalisti che si sono distinti per inchieste scomode sul governo.

Il caso Zamora

Caso paradigmatico è quello del processo contro José Rubén Zamora Marroquín, detto Chepe, 66 anni, giornalista riconosciuto a livello nazionale e internazionale per centinaia di inchieste contro la corruzione nel Paese, direttore del secondo quotidiano più diffuso del Guatemala, «El Periódico». Il giornalista, da quasi un anno, è in carcere accusato per riciclaggio di denaro, ricatto e traffico di influenze, nonostante non ci siano prove determinanti della sua colpevolezza.

A metà giugno è stato condannato a sei anni. Il suo giornale ha chiuso i battenti il 15 maggio scorso a causa del collasso finanziario dovuto al sequestro dei conti correnti stabilito dal pubblico ministero dopo l’incarcerazione di Zamora il 29 luglio 2022. Erano passati cinque giorni dall’uscita di un reportage incentrato sulla corruzione del presidente del Guatemala, che è stato al centro di centinaia di altre inchieste de El Periódico, tra le quali quella che rivelava lo scandalo dell’acquisto di vaccini a prezzi gonfiati di cui avrebbero beneficiato persone vicine all’esecutivo.

Zamora ha affermato più volte di sentirsi un prigioniero politico, in uno stato in cui il potere giudiziario, legislativo e governativo sono cooptati dalle oligarchie economiche in sodalizio con politici, giuristi corrotti e bande criminali che, di fatto, stanno riportando il Paese a una condizione simile a quella antecedente il 1996, quando ci fu il ritorno della democrazia.

L’attacco a Zamora e, di conseguenza, la chiusura del suo quotidiano, è un avvertimento a tutta la stampa nazionale. Annichilire il famoso giornalista significa mandare a tutti i suoi colleghi il messaggio che a esprimersi liberamente si rischia il carcere.

Contro i giudici

Questa minaccia si trasforma in una vera e propria vendetta nel caso della persecuzione del pool di giudici, molti dei quali operativi nella Fiscalía especial contra la impunidad (Feci), che lavorava a fianco della Comisión internacional contra la impunidad en Guatemala (Cicig), organismo dell’Onu istituito nel paese nel 2006 per indagare sui gravi casi di corruzione. La Cicig è stata smantellata nel 2018 dall’allora presidente Jimmy Morales, che ha pure dichiarato Iván Velásquez, direttore della commissione, «persona non gradita» e lo ha cacciato dal Paese. Famosa è l’immagine in cui l’esercito scorta il funzionario in aeroporto.

Da quel momento, uno dopo l’altro, tutti gli operatori di giustizia scomodi al governo e allo status quo sono stati perseguitati in differenti forme, a partire dal rinomato magistrato anticorruzione Juan Francisco Sandoval, direttore della Feci, che è stato sollevato dall’incarico e sostituito da Rafael Curruchiche, segnalato dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti come persona «impegnata in azioni che minano processi o istituzioni democratiche, in atti di significativa corruzione o di ostruzione delle indagini su di essi».

Sandoval è stato costretto a fuggire all’estero, così come altri ventiquattro operatori di giustizia all’epoca attivi nelle indagini anticorruzione, per sfuggire alla caccia alle streghe lanciata dal nuovo gruppo di giudici della Feci scelto dai settori politici più conservatori del Guatemala.

Che fa il popolo

A fare da pubblico alla lenta morte dello stato di diritto in Guatemala ci sono circa 17 milioni di cittadini, per lo più esclusi dalle logiche di potere e da qualsiasi scelta politica. Secondo la Banca mondiale, il 59% della popolazione vive in condizione di povertà e i numeri, come è successo in tutto il mondo, sono aumentati con la pandemia. Oggi meno di un chilo di pomodori al mercato costa 1,2 euro e in qualsiasi supermercato non si trova un prodotto di base, neppure mezzo chilo di fagioli, a meno di un euro.

Molte persone decidono di migrare verso gli Stati Uniti in condizioni precarie, in viaggi nei quali mettono a rischio la propria vita, ma che diventano quasi un obbligo quando si vive in condizione di precarietà economica.

Oggi nel paese nordamericano è presente una comunità guatemalteca, regolarmente residente, di circa un milione e mezzo di persone a cui si aggiunge un numero, difficile da quantificare, di lavoratori che vivono nel paese senza documenti.

Nonostante le rimesse siano la prima voce del prodotto interno lordo guatemalteco, solo tre candidati alla presidenza, tra cui Mulet, hanno fatto campagna elettorale per intercettare gli elettori all’estero, che, come riporta il giornale Los Angeles Times, hanno fatto arrivare dalla California un chiaro messaggio alla dirigenza del paese: «ristabilite lo stato di diritto».

Nonostante petizioni per il ritorno a una democrazia reale, e non solo di facciata, arrivino da più voci nazionali e internazionali, bisognerà aspettare il 20 agosto per sapere chi sarà il o la presidente del Guatemala, e capire se davvero esiste la volontà da parte di chi verrà eletto di sfidare lo status quo e dare una svolta a un sistema in cancrena che lascia poca immaginazione per il futuro.

Simona Carnino


Al primo turno del 25 giugno è arrivata in testa Sandra Torres, con circa il 15,8%, mentre la sorpresa è stato il secondo posto di Bernardo Arévalo, del movimento Semilla (semente) di centro sinistra. Dato all’ottavo posto dei sondaggi, ha invece sfiorato il 12%. Il 20 agosto si terrà il ballottaggio tra i due. A meno di eventuali, nuovi interventi del Tribunale elettorale, il solo vero protagonista delle elezioni guatemalteche.




Guatemala: Da vittime a protagoniste


Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Sono due modi diversi di osservare il mondo, ma entrambi rivelano la serenità e la consapevolezza di chi, non senza difficoltà, è riuscita a prendere in mano la propria vita e a decidere per se stessa. Sono gli sguardi di chi è stata capace di sottrarsi alle botte di un marito ubriaco, o di chi rifiuta di rimanere intrappolata in una relazione familiare di dipendenza economica o, ancora, di chi vuole studiare per migliorare le proprie opportunità future. Sono gli sguardi tipici di chi è riuscita ad affrancarsi dalla violenza di genere con il proprio corpo e le proprie parole. E dopo averlo fatto, è determinata ad aiutare altre donne a seguire i suoi passi.

Donne indigene portano croci con i nomi di vittime del conflitto armato guatemalteco durante una manifestazione per il 22° anniversario della pubblicazione (avvenuta nel 1999) del rapporto della «Commissione per la verità» (Città del Guatemala, 25 febbraio 2021). Foto Johan Ordonez – AFP.

Elena e Cristina

Elena Guzaro e Cristina Raymundo sono due donne indigene di origine maya ixil, vivono a Nebaj, a duemila metri d’altezza nella regione del Quiché, zona Nord Ovest del Guatemala. Sono ex vittime di violenza. Ex, perché oggi non lo sono più.  Nel presento sono, e lo saranno nel futuro, due defensoras dei diritti umani che, forti della loro esperienza dolorosa, aiutano le loro concittadine, così come le donne provenienti da tutta la regione maya ixil, a riconoscere la violenza e, in questo modo, a liberarsene.

Da anni, Elena e Cristina sono parte integrante dell’Associacion red de mujeres ixiles (Asoremi), un’organizzazione di donne che si batte proprio per richiedere giustizia in nome delle vittime di abusi fisici e sessuali, di discriminazione e di minacce psicologiche. Nel corso del tempo, la Defensoría de la mujer I’x (dove in lingua maya ixil «I’x» vuol dire «donna»), la sede di Asoremi, è diventata un punto di riferimento per bambine, giovani e donne di tutte le età che, in caso di violenza, preferiscono rivolgersi a loro invece di dirigersi da sole alla polizia, che in molti casi non prende in esame le loro denunce.

1960-1996: La guerra civile

Elena Guzaro è la presidentessa di Asoremi e sa bene cosa significa essere incastrata in un contesto di violenza. Lei stessa ha vissuto l’esperienza sulla sua pelle. È nata nel 1980, nel pieno del conflitto armato interno che ha causato oltre 200mila vittime e 45mila desaparecidos, tra il 1960 e il 1996, anno in cui sono stati firmati gli accordi di pace. La guerra civile, giocata nel contesto della Guerra fredda, ha visto contrapporsi l’esercito, sostenuto e armato dagli Stati Uniti, a una guerrilla partecipata da contadini, studenti, sindacalisti e alcune organizzazioni di sinistra, tra cui il Movimiento revolucionario 13 de noviembre.

Tra il 1981 e il 1983, il conflitto conobbe una svolta drammatica con una fase genocida, guidata dall’allora dittatore Efraín Ríos Montt, nei confronti della popolazione maya ixil. Il piano elaborato per lo sterminio del popolo indigeno portò all’esecuzione di migliaia di persone, tra adulti e minori. Oltre alle morti e alle sparizioni forzate, si aggiunge alle atrocità di quel periodo anche lo stupro, arma di guerra ripetutamente utilizzata nei confronti delle donne maya ixil.

A oggi, il genocidio è rimasto impunito, pur essendo evidenti le responsabilità dell’ex dittatore. Il report realizzato dalla «Commissione per il chiarimento storico», voluta dalle Nazioni Unite, ha infatti evidenziato che il 93% delle violenze avvenute durante l’intero conflitto armato è stato perpetrato dall’esercito.

Donne indigene in cammino. Foto Simona Carnino.

La violenza Inizia in famiglia

Allora Elena Guzaro era una bambina di pochi anni ed è riuscita a sopravvivere alla prima violenza della sua vita, a cui, nel tempo, se ne sono sommate altre. «Mio padre è morto nel 1982, durante la guerra, e fin da bambina ho dovuto lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nella zona della costa Sud – racconta Elena -. Ho avuto il mio primo figlio a 18 anni. Mio marito non mi aiutava, anzi, mi picchiava quando partecipavo alle attività di Asoremi, perché voleva che rimanessi a casa. Era violento, ma io pensavo che fosse normale perché anche mia madre mi diceva che se lui mi picchiava era per colpa mia, perché uscivo per andare a lavorare alla Red con le altre donne. Ora non sto più con lui. Ci siamo lasciati cinque anni fa, ma è stato difficile prendere questa decisione nonostante le botte, perché da quel momento lui ha smesso di sostenere economicamente la famiglia. Io ho sei figli ed è dura mantenerli da sola».

Un problema radicato

La violenza contro le donne in Guatemala, così come nel Nord dell’America Centrale, Messico e in numerosi paesi dell’America Latina, è un problema radicato.  Come in quasi tutto il mondo, la violenza si presenta sotto molteplici forme, a partire da quella fisica, sessuale, psicologica, economica, fino ad arrivare agli abusi dello stato, di cui, per esempio, è stata vittima Elena Guzaro quando, durante il conflitto armato, ha dovuto abbandonare la sua casa per sfuggire al genocidio perpetrato dall’esercito guatemalteco ai danni della sua comunità.

In America Latina è alta l’incidenza del femminicidio, che nel 2020 ha generato oltre 4mila vittime, uccise principalmente per mano di un familiare prossimo, in particolare del compagno o dell’ex.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’«Osservatorio sull’uguaglianza di genere» delle Nazioni Unite, con un tasso di 4,7 donne uccise su 100mila abitanti è l’Honduras ad aggiudicarsi il primato di paese più mortale per le donne, seguito da Repubblica Dominicana e da El Salvador.

In Guatemala, i femminicidi sono attualmente in rapida ascesa dopo una lieve riduzione nel 2020. Secondo il recente report sulla «Violenza omicida», prodotto dal «Gruppo di supporto mutuo» (Gam) del Guatemala, solamente nel mese di gennaio 2022 sono state uccise 52 donne, con una media di quasi due al giorno, a cui si aggiungono ulteriori cinque denunce quotidiane di scomparsa. Il tasso di impunità dei femminicidi sfiora il 98% secondo i dati della «Commissione internazionale contro l’impunità» (Cicig).

In America Latina persiste anche un’elevata violenza patrimoniale, che si verifica quando il padre di famiglia decide di abbandonare il nucleo familiare rifiutandosi di passare gli alimenti ai figli, forzando, di fatto, la donna a sobbarcarsi da sola i costi della famiglia, spesso molto numerosa. Questo tipo di violenza ha un impatto molto forte in particolare sulle donne che, soprattutto in America Centrale, vivono già in una condizione di povertà, a volte anche estrema.

Un evento organizzato dalla «Red» a Nebaj, comune del dipartimento del Quiché. Foto Simona Carnino.

Anche le bambine

Le donne indigene sono maggiormente esposte a discriminazione e violenza «intersezionale» (legata cioè non soltanto al genere, ma anche ad altri aspetti) su base etnica, economica e sociale. Questo significa che una donna maya ixil rischia di essere vittima di violenza non solo perché donna, ma anche per il fatto di appartenere a uno dei 22 popoli maya che, in Guatemala, sono spesso discriminati ed esclusi da investimenti statali in ambito educativo, sanitario ed economico.

Durante il lockdown del 2020, nell’area maya ixil è aumentata in maniera esponenziale la violenza fisica e sessuale ai danni anche di bambine e giovani donne che sono dovute rimanere a casa, costantemente a fianco del proprio aguzzino.

«Durante la pandemia abbiamo ricevuto molte segnalazioni di violenza – racconta Cristina Raymundo -. In quel periodo abbiamo provato a dare assistenza telefonica, ma il servizio non ha funzionato, perché le donne non potevano parlare apertamente di fronte ai loro mariti o alla famiglia violenta. In quel periodo è aumentata la violenza sessuale e il numero di incesti. Abbiamo aiutato alcune donne a scappare di casa, pagando loro un taxi, e le abbiamo ospitate presso la Defensoría, tanto che alcuni bambini sono nati lì. In quel periodo abbiamo provato a insegnare alle giovani madri a prendersi cura dei neonati e di loro stesse».

Una vista della chiesa e del centro di Nebaj, nel Quiché. Foto SImona Carnino.

La Rete delle donne

La Red de mujeres ixiles ha un unico e fondamentale obiettivo: lottare contro qualsiasi forma di violenza sulle donne, attraverso un sostegno concreto, che può essere l’assistenza psicologica, legale, educativa e anche un supporto economico.

La storia della Red, una rete che unisce circa 360 donne impegnate in nove associazioni di base nel comune di Nebaj (Quiché), è iniziata nel 1999 grazie a un capitale di microcredito erogato dal «Fondo di investimento sociale» dello stato guatemalteco, che ha permesso di finanziare le piccole attività economiche delle socie, come, ad esempio, sartorie, allevamenti di polli e coltivazioni della terra. Nel 2005, le nove associazioni hanno fondato ufficialmente la Red de mujeres ixiles.

Elena Guzaro ha iniziato la sua esperienza in una delle organizzazioni di base proprio nel 1999. «Avevo 19 anni. Volevo provare ad accedere al microcredito e imparare anche a leggere e scrivere. Ancora oggi organizziamo corsi di alfabetizzazione per dare alle donne la possibilità di studiare. Io avrei sempre voluto farlo, però da piccola ho dovuto lavorare, per cui ho iniziato tardi, ma ora ho il titolo di maestra. Lavorare alla Red è stato un modo per imparare da donne più grandi di me a riconoscere la violenza e, allo stesso tempo, le ho aiutate a superare gli abusi che vivevano nelle loro case, simili a quelli che subivo io».

Tutte le socie di Asoremi hanno vissuto qualche forma di violenza e in maggioranza vivono in condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati della «Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi», il Guatemala si situa al quinto posto nell’area per disuguaglianza nella distribuzione del reddito, particolarmente evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando spesso come tessitrici informali, guadagnano circa 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350 dollari mensili.

Panoramica su un barrio vulnerabile a Città del Guatemala, capitale del paese centroamericano. Foto Simona Carnino.

Persecuzioni e minacce

La volontà di aiutare le donne a diventare indipendenti mentalmente ed economicamente da partner violenti è alla base del lavoro della Red de mujeres ixiles. E proprio per questo, molte delle socie sono state vittime di persecuzioni e minacce da parte di uomini o, in alcuni casi, di persone anonime.

Nel 2018, una socia è stata uccisa mentre camminava per tornare a casa e molte compañeras della Red sono state derubate e attaccate verbalmente e fisicamente.

Ma le violenze e la paura non le annichilisce. Anzi, le donne della Red continuano a portare avanti il loro lavoro. Ogni anno danno assistenza psicologica e legale a circa 500 donne e promuovono pubblicamente, attraverso eventi pubblici e la radio, la necessità di ridurre la violenza sulle donne e le bambine per creare una società meno conflittuale e più giusta per tutti.

Un lavoro per il quale le socie di Asoremi hanno ottenuto molti riconoscimenti, tra cui il «Premio per i diritti umani» lanciato dall’associazione di Bolzano Operation Daywork Onlus (operationdaywork.org) che Elena e Cristina hanno ritirato durante un recente viaggio in Italia, nel marzo di quest’anno. Il legame di Asoremi con l’Italia è rafforzato anche dalla collaborazione con la Ong torinese Cisv
(cisvto.org), che dal 2009 affianca Asoremi nell’accompagnamento delle vittime di violenza e nella risoluzione dei conflitti nell’area maya ixil.

Curare le ferite

Nel libro Tus pasos y mis pasos, prodotto da Asoremi, le socie dicono di se stesse: «Abbiamo sperimentato violenza domestica, economica, fisica, politica (durante il conflitto armato interno), abusi psicologici e furti. La maggior parte di noi si è formata per poter gestire le proprie attività commerciali e i propri soldi […]. Abbiamo capito l’importanza di essere parte di un’organizzazione e di sanare le nostre ferite».

Le socie della Red de mujeres ixiles sono convinte che una donna sopravvissuta alla violenza possa guarire dal dolore e recuperarsi, se aiutata a farlo.

Cristina Raymundo si occupa proprio di «sanación», un percorso di risanamento delle ferite subite, e da anni aiuta le donne a riprendere in mano la propria vita, a riconoscere e, di conseguenza, evitare per quanto possibile la violenza di genere.

«Sono entrata nella Red nel 2013 e da allora ho sostenuto molte donne nel loro percorso di guarigione – spiega Cristina -. La prima cosa che faccio è ascoltarle, quando arrivano dopo essere state malmenate o abusate psicologicamente. Poi facciamo alcuni esercizi di respirazione e provo a spiegare loro che non devono sentirsi in colpa se si sentono senza forze o spaventate. È normale dopo una violenza. Spesso disegniamo per connetterci mentalmente con la persona che le ha danneggiate, nel tentativo di perdonarla e superare il dolore. Alla fine, le accompagno da altre donne della Red dove possono ascoltare storie simili ed essere ispirate a trovare soluzioni».

Donne indigene alla messa della Domenica delle Palme (10 aprile 2022) a San Pedro Sacatepequez, a 25 chilometri dalla capitale guatemalteca. Foto Johan Ordonez – AFP.

Il contesto familiare e sociale

Il processo di guarigione è un percorso collettivo di mutuo aiuto, che permette alle sopravvissute alla violenza di sentirsi accolte e capite, senza giudizi.

Molte donne, indipendentemente dal paese di provenienza, o dal ceto sociale e dal livello educativo, fanno fatica a riconoscere di essere state vittime di violenza. Di fatto, la continua colpevolizzazione che la società attuale fa della vittima alimenta quello storico cortocircuito che impedisce a molte donne, ancora oggi, di ammettere, e quindi di denunciare, gli abusi subiti in prima persona.

«Io arrivo da un contesto patriarcale, dove anche mia madre era vittima di violenza, ma non l’ha mai voluto accettare e riconoscere – continua Cristina -. Per cui ho iniziato io a educare le mie sorelle a essere libere, così come le donne della Red hanno fatto con me. Il supporto e la fiducia che trasmettiamo alle donne è ciò che le ispira a fare la stessa cosa con le altre. Quando una sopravvissuta alla violenza usa la propria esperienza per aiutare una sorella o un’amica a riconoscere e difendersi dalla violenza, smette di essere una vittima e diventa una defensora dei diritti umani, come tutte noi».

Simona Carnino

Il libro pubblicato nel 2022 su Don Piero Nota, sacerdote della diocesi di Torino, che ha dedicato la sua vita al Guatemala.




Guatemala: Cuore maya, contro l’impunità


Testo di Marco Bello e Francesca Rosa; foto Archivio CISV


Il conflitto armato in Guatemala (1960-1996) è stato uno dei più cruenti e con più vittime civili. Oggi, i responsabili cercano di proteggersi con leggi ad hoc. Ma negli ultimi 10 anni la presa di coscienza della società civile ha fatto molti progressi. E per questo si registra un aumento della violenza contro i militanti per i diritti umani. Storia di una rete di associazioni di donne maya per la giustizia.

«Mi avvicinai alle donne che oggi fanno parte della Red (Rete, ndr) nel 2002. All’inizio fu un avvicinamento tecnico, perché dovetti fare per loro un lavoro che portai avanti nei due anni successivi. Offrivo assistenza e formazione per l’utilizzo del microcredito, perché stavano beneficiando di un fondo. A quell’epoca studiavo “lavoro sociale”».

Juana Bacá Velasco è un’attivista per i diritti umani guatemalteca. Nata nel 1974 a Nebaj, nel dipartimento del Quiché è maya ixil. Juana è entrata in contatto con alcune associazioni che si occupano di difesa dei diritti della donna tramite la sua professione, per poi aderire alla causa, fino a fare diventare la lotta per la giustizia la sua vita. Dal 2009 è direttrice dell’Asoremi (Asociación Red de Mujeres Ixhiles, associazione rete di donne ixil, abbreviato Red, ndr), che lei stessa ha contribuito a creare. Non senza rischi. Infatti è scampata a un attentato alla propria vita nel 2004 e oggi vive sotto scorta.

La incontriamo a Torino, di passaggio per andare a Ginevra, invitata al Festival internazionale dei film sui diritti umani. Juana è pure al vertice della Defensoria de la Mujer I’x, centro di appoggio per donne vittime di violenza di genere e punto di riferimento per la lotta contro l’impunità.

Juana si racconta: «A causa di un caso di violazione che affrontammo nel 2004, mi sentii molto coinvolta, e capii l’importanza della nostra partecipazione come cittadine e anche del fatto di fare valere i nostri diritti. Così iniziai a separare il mio impegno tecnico da quello militante, che andava crescendo. Cominciammo a costruire questa rete per necessità, perché iniziammo a essere vittime di una persecuzione politica molto forte da parte di attori importanti e potenti nel comune. E questo ci portò a verificare fino a che punto noi donne potevamo unirci e reagire a queste persecuzioni.

Tentavano di ucciderci anche a livello organizzativo, perché ci opponevamo e resistevamo di fronte a questa situazione di violenza e impunità. Eravamo oltre 300 donne maya e prendemmo una decisione molto forte, ma con molta paura, perché c’era oppressione, persecuzione. Ci dicemmo: venga quello che deve venire ma stiamo insieme e affrontiamo questa situazione attraverso la denuncia, ma anche la solidarietà e l’integrazione tra noi, perché vedevamo che era meglio affrontare i problemi tutte insieme e con molto cuore. Volevamo dire cosa stavamo subendo e meritavamo che ci rispettassero».

Juana e le compagne hanno iniziato a creare la Red, un modo di unire le associazioni di donne di Nebaj per fare massa critica e portare avanti la battaglia per i diritti.

Una rete per le donne

«Iniziammo un cammino a livello organizzativo, ma anche di grande impegno come donne per poter essere soggetti dei nostri diritti. Iniziammo a costruire la Red nel 2005, fino a legalizzarla nel 2010.

Questo processo ci ha segnate fortemente. Nel 2007 ci fu una tappa importante per decidere cosa fare: proseguire la lotta, ponendo così a rischio le nostre vite, e quella delle nostre famiglie, oppure ignorare le persecuzioni, come se non fosse successo nulla. Anche grazie all’accompagnamento internazionale da parte della Ong Cisv, non ci siamo sentite sole, ma supportate e aiutate a fare il lavoro organizzativo».

I dubbi erano forti: cosa avrebbe implicato questo impegno? «Occorreva affrontare il sistema di giustizia: che conseguenze avrebbe avuto nella vita di una donna indigena maya, povera, il fatto di denunciare una violenza subita? E fino a dove questo sistema ci escludeva dal diritto di accedere alla giustizia? Queste domande ci spinsero a conoscere meglio il sistema. Avevamo diritto che la nostra denuncia fosse ascoltata». Juana nel frattempo ha proseguito gli studi laureandosi in Legge e in Scienze sociali. In questo modo si è dotata anche di strumenti, come l’interpretazione legislativa, che il «nemico», chi sta al potere, sa maneggiare bene.

Il percorso con l’Ong Cisv di Torino si è rivelato fondamentale per la Red. «Con Cisv abbiamo iniziato lavorando sui diritti umani e, in particolare, i diritti della donna. Il lavoro è stato orientato a promuovere i diritti, difenderli e proteggerli. Ma è stato pure fatto un lavoro integrato per l’empowerment (acquisire competenze per migliorare l’equità e la qualità della vita, ndr) delle donne e per invitarle a denunciare la violenza quotidiana che subiscono, per avere la propria autonomia».

Juana ripercorre quelle fasi: «Si è rivelato importante il lavoro con operatori di giustizia, autorità comunitarie, società civile, autorità educative. Perché vediamo che già a questi livelli si iniziano a violare i diritti. Occorre lavorare affinché le donne denuncino le violazioni dei loro diritti, e non le vedano come qualcosa di normale. Un lavoro che abbiamo fatto fino dal 2007. Nel 2009 abbiamo avuto dei fondi dal programma di emergenza della Cooperazione italiana in Guatemala, con i quali abbiamo finanziato la costruzione di una “Defensoria”. Questa, nel 2010, è stata messa a disposizione delle donne ixil, ma anche di altre donne nei municipi vicini, e pure sulla costa, perché molte donne ixil si sono spostate dalla loro terra di origine. Abbiamo mantenuto la comunicazione con loro per appoggiarle là dove vivono.

Il lavoro che fa la Defensoria è dare appoggio psicologico, legale, di orientamento e accompagnamento a chi subisce violenza di genere. In seguito a una ricerca che abbiamo realizzato sulle violazioni dei diritti umani a livello della regione ixil, abbiamo visto che è importante allargare l’intervento ai diritti umani generali, evitando di rimanere solo sui diritti della donna e su come appoggiare le donne per farle uscire dalla violenza. Si è allargato lo spettro per coinvolgere diversi settori della società civile e verificare la conflittualità che si ha nel comune».

Verso le elezioni

Il presidente guatemalteco Jimmy Morales / Photo by ORLANDO ESTRADA / AFP)

Oggi il Guatemala vive un periodo storico particolarmente delicato. Con le elezioni alle porte (previste a giugno, vedi box) sono aumentati gli assassinii di attivisti mentre regna l’impunità. Nel settembre scorso la popolazione ha manifestato pacificamente per cacciare il presidente della repubblica, l’attore comico Jimmy Morales, retto dalla casta militare.

Juana ci racconta: «Negli ultimi otto mesi in Guatemala c’è una situazione politica molto grave, pericolosa, in particolare per la vita degli attivisti dei diritti umani. Grazie a un percorso durato molti anni si è arrivati a unire la società civile organizzata.

Nei tribunali si stanno realizzando processi sulle responsabilità storiche per quello che il popolo del Guatemala, e in particolare il popolo ixil, ha vissuto nei 36 anni di conflitto armato.

Nello scorso autunno è stato evidente questo risultato: una presa di coscienza della popolazione che ha manifestato per esigere giustizia e il rispetto dei propri diritti. Per questo motivo c’è una reazione molto forte degli attori e dei responsabili coinvolti nei massacri durante la guerra. Ad esempio, nel 2013, il 10 maggio, c’è stata una sentenza di condanna con giudizio di genocidio, e poi una seconda sentenza nel settembre 2018 sui responsabili esecutori.

Nel percorso di ricerca della giustizia e di uscita dal silenzio, le donne hanno giocato un ruolo da protagoniste. Sono le donne che hanno testimoniato, donne che sono state torturate, violentate e sottomesse ad azioni di interesse dell’esercito. E quelli che governano oggi il nostro paese sono ex militari. Questo ha complicato la situazione, e in Guatemala, l’anno scorso, come riporta il rapporto dell’Udefegua (Unidad de proteccion a defensores y defensoras de derechos humanos, Guatemala) ci sono stati 25 assassinii di difensores e difensoras di diritti umani. E ci sono state anche denunce e campagne di criminalizzazione (accuse, ndr) contro gli attivisti allo scopo di spaventarli e zittirli e di proteggere chi è sotto giudizio per questi crimini».

Dove regna l’impunità

Anche a Nebaj la questione delle responsabilità dei massacri è molto sentita e per coprirle sono in atto assassinii selettivi di attivisti: «A livello locale il tema dell’impunità è stato molto forte e i colpevoli cercano di ostacolare i processi penali finalizzati a chiarire i fatti e i responsabili.

Ad esempio, a Nebaj, ci sono stati quattro femminicidi e un omicidio di attivisti ixil. Una di loro era Juana Ramirez Santiago che faceva parte del consiglio di amministrazione della Red. C’è anche stato l’assassinio di Juana Rivera, una dirigente di Codeca (Comitato di sviluppo contadino, associazione locale e ora anche partito politico, ndr), e quello del giovane Jacinto di Cotzal, un altro attivista per i diritti umani. Tutti nel 2018, tra giugno e settembre.

Questi fatti ci mostrano il sentimento dello stato e delle autorità, di quelle persone che si meritano un processo penale, una condanna per le loro responsabilità storiche, sia come mandanti intellettuali che come esecutori».

Juana continua in tono pacato, quasi parlasse di cose semplici: «Tutto ciò ha obbligato la popolazione a reagire e pronunciarsi per respingere la politica che lo stato sta portando avanti, contraria ai diritti umani e contraria al chiarimento storico per arrivare alla giustizia. La maggioranza della popolazione si è resa conto che i propri diritti sono violati, e ha capito che il fine ultimo dello stato è proteggere se stesso. Questo perché coloro che governano oggi hanno delle responsabilità nei confronti dei fatti che sono stati denunciati e che si vogliono chiarire, e che, a causa dell’impunità in Guatemala, si è sempre evitato di perseguire.

Ma ora noi guatemaltechi abbiamo capito chi sono i corrotti e chi sono i protagonisti di quelle azioni. Non si tratta di una persona singola ma della struttura dello stato del Guatemala: è un’attitudine che complica e destabilizza la governabilità nel paese. Perché uno stato non può esigere giustizia, trasparenza rispetto dei diritti umani, se è lui stesso che li sta violando, come persone e come autorità.

Siamo in una situazione frustrante, preoccupante e vergognosa, perché stanno facendo di tutto affinché non siano visibili le responsabilità che hanno verso il popolo.

Adesso la gente vuole che Morales lasci il potere, perché sta lavorando sotto l’influenza e l’interesse dei militari che hanno avuto gravi responsabilità nella storia del Guatemala».

Pensando agli ultimi 10 anni

Negli ultimi 10 anni la situazione dei diritti umani non è migliorata, ma la società civile si è dotata di strumenti di denuncia: «In passato non si vedeva l’entità del problema, perché non si alzava la voce e non si denunciava, però grazie a tutto il lavoro di diverse persone e organizzazioni, si è ottenuto che oggi si possa parlare, denunciare, senza troppo terrore. Ci possiamo lamentare che lo stato non compia il suo dovere di fare giustizia. Questa è infatti una sua responsabilità. Ma ringraziamo anche per l’appoggio di interventi internazionali. Per esempio si è ottenuto che la Commissione interamericana per i diritti umani sia intervenuta su queste norme a protezione dei colpevoli dei delitti del passato. Parliamo della legge di amnistia, che vuole ostacolare le organizzazioni della società civile e il processo di denuncia. Sono progetti di legge in corso di definizione, con l’obiettivo di proteggere giuridicamente questi grandi responsabili, violando norme costituzionali e diritti umani».

Cosa fa la Red

In questo contesto, la Red, che raggruppa nove associazioni locali per un totale di 365 donne maya ixil, è molto attiva. Continua Juana: «Per la Red l’appoggio politico e sociale è stato importante. È parte dell’appoggio al processo delle organizzazioni nella loro lotta sui temi di giustizia, prevenzione, formazione, sensibilizzazione.

Cisv ci sta accompagnando e ha condiviso, anche con la propria presenza a Nebaj, questo processo che la Red e la società civile sta portando avanti. I progetti della Red perseguono la ricerca della giustizia, attraverso le denunce delle donne, per cercare una trasformazione nella loro vita, affinché la violenza non sia più tollerata. La Red inoltre è molto impegnata nell’appoggio offerto alle sopravvissute alle violenze, e anche in interventi sul territorio comunale per ridurre la conflittualità. Appoggiamo le vittime in ambito legale, psicosociale, dando accompagnamento, ma anche incidendo in alcuni temi e spazi più politici, perché se si vuole generare qualche cambiamento occorre partire dalle autorità e dalle comunità».

Chiediamo a Juana cosa possiamo fare in Italia per appoggiare il lavoro di protezione e difesa dei diritti umani in Guatemala.

«Vi ringraziamo per tutto l’appoggio dato. È importante continuare questa relazione e ampliarla a livello internazionale perché è una forma per proteggere il lavoro, la dinamica in corso e la lotta dei guatemaltechi e guatemalteche che portiamo avanti da lunghi anni, anche grazie al sacrificio di vite. È un intervento molto politico, di protezione e di appoggio».

Marco Bello


Situazione sociale turbolenta nel paese centroamericano

Verso le elezioni… con violenza

Il presidente attore Jimmy Morales ha bloccato i lavori della commissione Onu contro l’impunità. La gente si è rivoltata manifestando pacificamente nelle città. Le tensioni
sociali e politiche sono in aumento e con esse la violenza nei confronti di leader e attivisti per i diritti umani. Un gruppo della società civile decide di candidarsi alle elezioni.

A 23 anni dalla firma degli accordi di pace che hanno messo fine a un conflitto armato interno durato oltre tre decadi (1960-1996), in Guatemala si registrano ancora gravi violazioni dei diritti umani, alti livelli di povertà, disuguaglianza, discriminazione e impunità. Secondo le Nazioni Unite (Undp 2018), il Guatemala è oggi al 127° posto dell’Indice di sviluppo umano, in discesa a causa della totale assenza di politiche che promuovano l’uguaglianza di genere e la lotta alle disuguaglianze sociali ed economiche. Inoltre, registra uno dei coefficienti di Gini (che misura la disparità economica tra poveri e ricchi) peggiori al mondo (0,63), e circa il 60% della popolazione continua a vivere sotto la soglia della povertà, percentuale che raggiunge il 76,1% nelle zone rurali, il 79,2% tra le popolazioni indigene.

Questa situazione di violenza strutturale è strettamente legata all’impianto razzista e discriminatorio dello stato che da sempre esclude le popolazioni maya, agli alti livelli d’impunità e di corruzione che caratterizzano l’attuale governo di Jimmy Morales, eletto nel 2015 con il sostegno dell’ala più reazionaria dell’esercito. La sua politica, come quella del predecessore Otto Perez Molina, è caratterizzata da corruzione, militarizzazione dei territori e repressione.

Diritti sempre più negati

Negli ultimi tre anni il Congresso non ha registrato progressi nella legislazione relativa alla promozione dei diritti economici, sociali e culturali della popolazione e ha invece adottato posizioni e proposte legislative che favoriscono l’impunità, limitano la partecipazione politica e violano i diritti delle fasce più deboli della popolazione, ovvero popoli indigeni, donne e minoranze (ad esempio la proposta di legge 5377 per riformare la Legge di riconciliazione nazionale, che concederebbe l’amnistia per tutti i crimini commessi durante il conflitto armato).

L’apice della politica governativa a favore d’impunità e corruzione si è toccato nel cosiddetto «Caso Cicig», la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala, un’entità finanziata dall’Onu, che dal 2007 appoggia la procura e altre istituzioni statali nelle indagini sui reati commessi da reti criminali. Tra i casi più emblematici coadiuvati dalla Cicig, si ricorda il «Caso della Linea», che ha portato all’arresto di molti funzionari governativi e dell’ex presidente Peréz Molina insieme all’ex vice Roxana Baldetti. Dopo aver aperto, insieme alla procura di stato, un’indagine su presunti finanziamenti illeciti elettorali che coinvolge l’attuale presidente e il suo partito, Jimmy Morales ha dichiarato non gradito il coordinatore in loco della Cicig, Iván Velasquez, e ha sciolto unilateralmente la commissione, violando gli accordi internazionali ratificati dallo stesso stato guatemalteco, e le sentenze della Corte Costituzionale guatemalteca, la quale ha reiteratamente affermato l’illegittimità di tale decisione.

Cresce la società civile

L’attivismo a favore dei diritti umani e della lotta all’impunità della società civile organizzata guatemalteca ha registrato un progressivo incremento nel corso dell’ultima decade, soprattutto nelle aree rurali del paese. Un’importante organizzazione di base, la Codeca (Comitato di sviluppo contadino), con un alto numero di affiliati tra le popolazioni indigene e contadine, ha deciso di costituire un partito politico per partecipare alle prossime elezioni, previste a giugno 2019. Questa forza della società civile organizzata nelle aree rurali ha provocato un incremento delle tensioni sociali e politiche, cui è seguito un forte aumento dei casi di criminalizzazione e aggressione contro militanti dei diritti umani: nel 2018 si sono registrati 391 attacchi a difensori dei diritti, 26 omicidi, tra i quali anche quello di Juana Ramirez, socia fondatrice di Asoremi, il 21 settembre e 147 casi di criminalizzazione. Un incremento del 136% rispetto al 2017, una situazione che richiama i periodi oscuri della recente storia del paese, incluso il conflitto armato interno, e che ha portato il Guatemala al quarto posto a livello mondiale per numero assoluto di militanti assassinati. Le vittime sono principalmente uomini e donne indigeni che lottano per la difesa dei diritti alla terra e dei diritti umani, e molte di queste, tra cui due dall’inizio del 2019, erano attivisti o candidati del partito di Codeca. Il livello d’impunità per questo tipo di crimini è quasi totale.

L’apertura della campagna elettorale lo scorso marzo in vista delle elezioni di giugno ha, di fatto, incrementato le violenze e i conflitti sociali.

Francesca Rosa




America Latina: Scalare il potere

(con religione)


In?America Latina l’espansione delle nuove chiese evangeliche, pentecostali e neopentecostali, pare inarrestabile. Il loro proselitismo va soprattutto a scapito della Chiesa cattolica che vede ridursi i propri fedeli. Un tempo considerate movimenti esogeni (esportati dagli?Stati Uniti), da alcuni decenni queste chiese hanno assunto caratteri distinti e autoctoni. Anche la loro funzione sociale si è trasformata: da istituzioni che spingevano al  disimpegno sono spesso diventate attori politici influenti e ambiziosi.  Sempre però in un’ottica conservatrice e sovente fondamentalista. I casi del Guatemala e del Brasile.

«Pagare le bollette è una lotta tutti i mesi? I debiti sembrano non finire mai? […] Sapete che ogni 27 minuti un brasiliano entra nel club dei milionari? […] Molti hanno già preso una decisione per cambiare la propria vita finanziaria, raggiungere il successo e, principalmente, essere felici».

Queste parole eccitanti e piene di speranza per il futuro non sono tratte da un annuncio di una società finanziaria o di scommesse. No, sono le promesse di una chiesa. Per la precisione della «Igreja Universal do Reino de Deus» (Chiesa Universale del Regno di Dio), una chiesa evangelica neopentecostale nata in Brasile pochi anni fa (era il 1977). Siamo partiti da essa per tentare di dar conto di un fenomeno: la nascita e la diffusione di centinaia di chiese evangeliche in un continente, quello latinoamericano, dove – come ha scritto Pietro Canova nel suo noto saggio – «fin verso il 1930 la Chiesa cattolica si presenta come un blocco monolitico»1. Si tratta di chiese nate nella galassia del movimento protestante (quest’anno si celebrano i 500 anni dall’affissione delle «95 tesi» di Lutero sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, in Germania), eppure da esso ben distinte.

La genesi storica

Una delle tesi più sostenute (e dibattute) per spiegare il fenomeno delle chiese evangeliche in America Latina è quella dell’interesse degli Stati Uniti: quel paese aveva necessità di intervenire (anche) in ambito religioso per difendere la propria posizione egemonica sul continente.

Sono due gli elementi teorici quasi sempre ricordati per suffragare questa affermazione. Il primo è una semplice citazione, datata 1912, di Theodore Roosevelt, già presidente Usa e sostenitore della dottrina Monroe (quella che giustificava la supremazia statunitense sull’America Latina): «A mio giudizio, finché questi paesi (latinoamericani, ndr) rimarranno cattolici, la loro assimilazione agli Stati Uniti sarà un compito lungo e difficile». Il secondo elemento è il «Rapporto Rockefeller», presentato nel 1969 all’allora presidente Usa Richard Nixon. In esso, nel descrivere la situazione del continente latinoamericano, Nelson Rockefeller affermava tra l’altro che, dopo 400 anni, la Chiesa cattolica stava rompendo con il proprio passato, schierandosi in favore del cambio sociale e politico. Va ricordato che quelli erano gli anni della teologia della liberazione, nata e diffusasi proprio in America Latina e accusata (anche da una parte dello stesso mondo cattolico) di essere portatrice di un’ideologia filocomunista, contraria alla proprietà privata, al sistema capitalistico e agli Stati Uniti. La Chiesa cattolica – si legge ancora nel rapporto – si era trasformata «in una forza di cambiamento, cambiamento anche rivoluzionario, se sarà necessario». Per contrastare quelle idee era dunque necessario rafforzare tutti quei movimenti che si muovessero in un’ottica di conservazione sociale e di fondamentalismo religioso. Le chiese evangeliche rispondevano a quest’obiettivo.

Negli ultimi decenni, il fenomeno è continuato (e continua) a ritmi serrati, ma cambiando e precisamente assumendo connotati meno coloniali. «Mentre – scrive Pietro Canova nel suo saggio – prima potevano essere considerate movimenti “esogeni”, oggi esse (le nuove chiese evangeliche) si presentano profondamente inculturate e contano milioni di adepti. In varie nazioni costituiscono ampi settori della popolazione rurale e suburbana ed i loro dirigenti sono tutti autoctoni e profondamente incarnati nella realtà».

Il caso del Guatemala

Oltre al legame ombelicale con gli Stati Uniti, anche un’altra caratteristica di queste chiese è mutata nel tempo: l’approccio alla realtà e il disinteresse verso il mondo politico.

«La chiesa (evangelica) – ha scritto il pastore valdese Giorgio Bouchard – dialoga con la realtà storica, predica, annunzia, testimonia del messaggio evangelico, però non “crea” la società civile, non la cristianizza. La sintesi della posizione comune a tutti gli evangelici è l’autonomia del politico rispetto al religioso»2. Un’affermazione questa che forse vale (o valeva) per le chiese evangeliche storiche, ma non per le nuove denominazioni.

Rese forti dal crescente numero di seguaci, le nuove chiese non soltanto non sono neutrali verso la realtà politica, ma intervengono attivamente per indirizzarla o – lo spiegheremo – diventano esse stesse strumenti di pressione politica.

Uno dei primi a usare per fini elettorali e di potere i nuovi movimenti religiosi fu il generale guatemalteco Ríos Montt che nel 1978 lasciò la Chiesa cattolica per entrare nella «Iglesia Cristiana del Verbo», una chiesa pentecostale legata alla californiana «Christian Church of the Word» e alla destra religiosa statunitense. Nel 1982 egli assunse la presidenza del paese con un golpe militare. In seguito ricoprì varie cariche prima di finire sotto processo per genocidio. Nel 1991 divenne presidente un suo collaboratore, Jorge Serrano Elías, anche lui evangelico. Di nuovo, nell’ottobre 2015, è stato eletto presidente l’evangelico Jimmy Morales. La conclamata appartenenza religiosa di questi leader non ha portato benefici (meno corruzione, più moralità, ecc.) al Guatemala. Al contrario, il paese centroamericano continua ad essere tra i più poveri e ingiusti del continente.

Il caso del Brasile

E poi c’è il caso del Brasile, il più grande paese cattolico del mondo (circa 123,2 milioni di persone, pari al 64,2% della popolazione nel 2010)3 e allo stesso tempo uno dei paesi dove l’avanzata evangelica è più evidente e densa di conseguenze.

Attenendoci ai dati del Censimento 2010 realizzato dall’Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge), in Brasile esistono venti chiese evangeliche ufficiali, conteggiando le nuove (pentecostali e neopentecostali) e quelle storiche (luterana, battista, presbiteriana, metodista). Stando a queste statistiche, in totale esse raccolgono 42.275.438 persone. Tuttavia, dal 2010 al 2016 la crescita delle chiese evangeliche è continuata: secondo un’inchiesta dell’istituto Datafolha4, gli evangelici sono oggi il 29% dei fedeli brasiliani, sette punti percentuali in più del censimento del 2010, quasi totalmente ascrivibili alle nuove chiese. La stessa inchiesta segnala che il 44% degli evangelici si dichiara ex cattolico.

Questa rapidissima avanzata delle nuove chiese ha avuto ed ha conseguenze importanti sulla politica del paese. A Brasilia i parlamentari evangelici sono 90 (su 594), di cui 87 deputati e tre senatori (dato del settembre 2016). Tra le nuove chiese evangeliche emergono la Assembleia de Deus con 19 deputati, la Universal con 7 e la Evangelho Quadrangular con 4.

A conferma della visione conservatrice che le caratterizza, va detto che al Congresso i politici evangelici sono alleati con i latifondisti e con i fautori dell’ordine («bandido bom é bandido morto», il solo delinquente buono è quello morto), formando il cosiddetto schieramento BBB («bancada Bíblia, Boi e Bala», gruppo Bibbia, vacca e pallottola). Uno schieramento che, tra maggio e agosto del 2016, ha votato compatto per destituire la presidenta eletta Dilma Rousseff ed eleggere al suo posto Michel Temer. Questi ha poi trovato in Marcos Pereira, vescovo della Chiesa Universale, il suo ministro dello sviluppo, industria e commercio. Un altro vescovo dell’Universale, Marcelo Crivella, già senatore, è il nuovo sindaco di Rio de Janeiro dal 1 gennaio 2017.

Edir Macedo, fondatore e capo indiscusso della Chiesa Universale, sa come muoversi nel mondo dei media. Non soltanto egli controlla il colosso Rede Record, il secondo network televisivo del Brasile, ma sforna anche libri di successo. La sua autobiografia in tre volumi, «Nada a perder» (Niente da perdere), ha venduto milioni di copie. In essa, tra l’altro, il vescovo Macedo non nasconde il proprio astio verso la Chiesa cattolica: «Il destino della Chiesa Universale è di fermare quella cattolica» (A sina da Universal é barrar a Igreja Católica). Ancora più interessante è «Plano de poder», un suo libro del 2008, in cui spiega che la conquista del potere e l’instaurazione di una repubblica evangelica in Brasile sono un passo inevitabile. Anzi, l’ascesa degli evangelici è – secondo Macedo – qualcosa di determinato dalla Bibbia e una nazione evangelica risponde a un piano divino.

Successo, salute, felicità

Fatto questo breve excursus sul fenomeno, va ora affrontata una domanda chiave: a cosa si deve il successo delle nuove chiese evangeliche e la contemporanea perdita di consensi della Chiesa cattolica?

I motivi sono molteplici. Si può iniziare ricordando un proselitismo fondato su un uso molto efficace dei media (si pensi al «televangelismo» d’importazione statunitense). C’è poi una disponibilità economica che spesso è considerevole. Essa deriva dalle entrate per gli eventi speciali, dalla vendita di prodotti (musica, libri) e soprattutto dalla raccolta del «dizimo» (la decima ovvero l’offerta che dovrebbe corrispondere a un decimo delle entrate del fedele), considerato indispensabile per ottenere la benevolenza divina. Né vanno taciuti gli scandali di ordine sessuale che, in vari paesi, hanno coinvolto preti cattolici, allontanando i fedeli.

C’è poi la cosiddetta «teologia della prosperità» che attrae. E se ne capisce facilmente il motivo: essa promette – ne abbiamo parlato all’inizio – successo, salute, felicità.

A San Paolo, in Avenida Celso Garcia 605, sorge il Templo de Salomão della Chiesa Universale. Costruito a somiglianza dell’antico Tempio di Salomone a Gerusalemme, può ospitare 10.000 persone. Il giorno dell’inaugurazione, il 31 luglio del 2014, tra le decine di autorità, in prima fila accanto a Edir Macedo, c’era anche l’allora presidente Dilma Rousseff e il suo vice Michel Temer, presidente attuale.

Impossibile sapere quanti dei due milioni di fedeli della Chiesa Universale (che sarebbero 9 secondo fonti dell’organizzazione) siano stati baciati dal successo. Di certo lo è stato il suo fondatore e proprietario. Edir Macedo è infatti uno degli uomini più ricchi del Brasile. Secondo la rivista statunitense Forbes, specialista in tema di finanza, Macedo si situava al 1.638° posto nella lista mondiale dei miliardari del 2015.

A dirla tutta, egli non è l’unico pastore brasiliano ad essersi arricchito con una chiesa. Altri quattro vantano patrimoni multimilionari: Valdemiro Santiago della «Igreja Mundial do Poder de Deus», Silas Malafaia della «Assembleia de Deus Vitória em Cristo», Romildo Ribeiro Soares della «Igreja Internacional da Graça de Deus», Estevam Hernandes Filho della «Igreja Apostólica Renascer em Cristo». L’inchiesta di Forbes5 si conclude così: «Come dice la Bibbia, la fede muove le montagne. E anche il denaro» (As the Bible says, faith moves mountains. And money, too). Parlando in maniera un po’ meno irriverente della rivista nordamericana, possiamo dire che la teologia della prosperità funziona. Soprattutto per chi la predica.

Paolo Moiola
(prima puntata – continua)

Note

1- Pietro Canova, Un vulcano in eruzione. Le sètte in America Latina, Emi, Bologna 1987, pag. 23.
2- Giorgio Bouchard, Chiese e movimenti evangelici del nostro tempo, Claudiana, Torino 2003, pag. 10.
3- Questo dato è del censimento Ibge del 2010. Adesso i numeri sono più bassi, anche se sulle cifre non c’è accordo.
4- Instituto Datafolha, Perfil e opinião dos evangélicos no Brasil, dicembre 2016.
5- Anderson Antunes, The Richest Pastors In Brazil, Forbes, 17 gennaio 2013.

Siti internet

  • www.universal.org -Il sito della Chiesa Universale (Iurd), la maggiore chiesa neopentecostale del Brasile.

Archivio MC




Guatemala: La pace è una chimera


In un paese di solida tradizione machista, confermata anche dal nuovo presidente Jimmy Morales, le donne che riescono a emergere sono una forza della natura. Come Claudia Samayoa, cornordinatrice di Udefegua, un’organizzazione che protegge i difensori dei diritti umani. Perché in Guatemala la guerra è finita da tempo, ma la pace non è mai arrivata. Lo sperimentano sulla propria pelle non soltanto le donne, ma anche gli indigeni che pure costituiscono la metà della popolazione totale.

Sono trascorsi venti anni. La guerra civile è infatti ufficialmente terminata nel dicembre del 1996. Eppure, in Guatemala la pace rimane una chimera. La violenza, la povertà, le ingiustizie sono la quotidianità. Il paese conta 16,5 milioni di abitanti (stime 2016). Circa il 45 per cento di essi sono indigeni (Xinka, Garifuna e soprattutto Maya, questi ultimi divisi in una ventina di gruppi). Secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Ine), il 59,3 per cento della popolazione vive in povertà. In particolare, ogni 5 indigeni 4 sono poveri, in maggioranza nelle aree rurali (2014).

Esasperati da una classe politica corrotta e malavitosa, nell’ottobre del 2015 i cittadini guatemaltechi hanno ritenuto di individuare una soluzione eleggendo presidente un personaggio sui generis, Jimmy Morales, noto attore comico e membro di una chiesa evangelica. Come quasi sempre accade, il nuovo è però diventato vecchio in brevissimo tempo.

In un contesto tanto complicato chiedere il rispetto dei diritti umani è un’impresa difficile e spesso molto pericolosa. Un dato per capire meglio: tra gennaio e novembre 2016 in Guatemala ci sono state 223 aggressioni contro difensori dei diritti umani, 14 dei quali sono stati assassinati. Si trattava di persone che difendevano l’ambiente, il diritto alla verità e alla giustizia, il diritto alla terra e quello al lavoro.

Per proteggere e aiutare i difensori dei diritti umani o – come recita lo slogan – «per il diritto a difendere i diritti» (por el derecho a defender derechos), dal 2000 nel paese centroamericano opera l’organizzazione «Unità di protezione per le difensore e i difensori dei diritti umani in Guatemala» (Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos Guatemala), in sigla Udefegua.

Di tutto questo abbiamo parlato con la fondatrice e responsabile dell’organizzazione, Claudia Samayoa, che lo scorso novembre per la sua attività è stata premiata dal Procuratore nazionale per i diritti umani (Pdh), Jorge Eduardo De León Duque.

Dopo la guerra, nessuna pace

Claudia, due parole per auto presentarti.

«Sono guatemalteca. Ho il privilegio di avere 3 figli e un compagno di vita che mi ha accompagnato in questa mia esistenza tutta dedicata ai diritti umani. Sono laureata in filosofia ma il mio paese mi ha costretto, fin dagli anni Ottanta, a occuparmi di diritti. Diritti alla verità e alla giustizia, all’educazione, diritti degli indigeni».

Chiusi 36 anni di sanguinosa guerra civile, per il Guatemala la strada pareva in discesa. Invece, a 20 anni dagli accordi di pace, il paese pare pacificato soltanto formalmente. Come mai?

«Dopo la firma della pace, ingenuamente credevamo di essere finalmente liberi. Invece, tra il 1998 e il 2000 – all’epoca io ero direttrice della Fondazione Rigoberta Menchú – il controllo del paese è stato ripreso da quella che io chiamo la mafia militare. Si tratta di un’organizzazione che include militari della contro-insurrezione guatemalteca e uomini del crimine organizzato (quello che si occupa di narcotraffico, contrabbando, traffico di esseri umani). Assunto il potere, costoro hanno iniziato a combattere tutti coloro che lavoravano per la pace e i diritti. Giovani e donne, in primo luogo».

La nascita di Udefegua

Davanti a questo potere intollerante avete deciso di reagire. In che modo, esattamente? 

«Assieme a varie entità abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: non lasciare solo chi lotta per i diritti. È così nata l’“Unità di protezione dei difensori dei diritti umani”, Udefegua, con un solo obiettivo: tutti – indipendentemente dalla propria ideologia, non importa se sono giovani o anziani, indigeni o non indigeni – hanno il diritto di lavorare per la difesa dei diritti umani. Perché non occorre essere un avvocato o appartenere a un’organizzazione per farlo».

In concreto, cosa fa Udefegua per coloro che lottano per i diritti umani?

«Noi li affianchiamo. Ci prendiamo carico di loro e delle loro investigazioni affinché possano svolgere il loro lavoro in sicurezza. Facciamo opera di informazione producendo bollettini (El Acompañante) con analisi, grafici e statistiche. In Guatemala abbiamo seguito più di 5.200 casi. Oggi lavoriamo non soltanto qui da noi, ma anche in molti altri paesi, dal Messico a Panama».

Sul corpo delle donne

Voi lavorate per la protezione dei difensori dei diritti umani, ma la violenza si manifesta già tra le mura domestiche. Si ritiene che nel paese 8 donne su 10 subiscano violenza fisica, psicologica, sessuale e patrimoniale da parte del proprio marito o compagno.

«Sì, c’è tanta violenza. La violenza sessuale ha raggiunto livelli mai visti prima. In soli due mesi ci sono state quasi 1.000 violenze sessuali denunciate. Questo significa che nella realtà sono state molte ma molte di più. In tutta la regione stiamo vivendo una guerra sul corpo delle donne. Come dimostra l’assassinio di Berta Caceres».

Di presidente in presidente: da un corrotto a un comico

Nel settembre 2015 i guatemaltechi hanno cacciato il presidente Otto Fernando Pérez Molina, eletto nel 2012 e coinvolto in un grave scandalo. Due mesi dopo hanno eletto presidente, a grande maggioranza, Jimmy Morales, di professione attore comico. Com’è accaduto?

«Non aveva nessuna possibilità, poi – a partire da giugno 2015 – i pastori evangelici hanno iniziato a dire di votare per lui, perché Jimmy era la soluzione. Ad essi si sono presto uniti i militari e gli ex paramilitari (appartenenti alle Pac, le Patrullas de autodefensa civil, nate nel 1981 e formalmente sciolte nel 1996, ndr). Morales non aveva alcuna proposta, però ha vinto con una grande partecipazione popolare».

In campagna elettorale il suo slogan è stato: «Ni corrupto, ni ladrón». Che presidente è Jimmy Morales?

«È machista, razzista, autoritario. Per Jimmy Morales i popoli indigeni sono soltanto dei guatemaltechi e non capisce perché debbano essere trattati diversamente. Lui sta promuovendo visioni vecchie di stampo nazionalista: tutti siamo Guatemala, dice. Però il suo Guatemala è il Guatemala che parla soltanto spagnolo e che non riconosce modi diversi di fare politica. La sua concezione è molto machista: le donne non possono fare politica se non dopo aver chiesto il permesso ai loro mariti. Sono posizioni molto antiche che hanno a che vedere con la sua appartenenza a una chiesa evangelica fondamentalista di matrice statunitense».

Nonostante i disastri perpetrati dalla destra, i partiti di sinistra – da Urng-Maiz a Winaq, dal Frente Amplio a Encuentro por Guatemala – non hanno mai ottenuto un consenso significativo. Come si spiega?

«Il Guatemala è un paese molto conservatore e di destra. La sinistra è sempre stata assolutamente minoritaria: in parlamento oggi ci sono pochissimi deputati di sinistra e centrosinistra. Per la gente è difficile votare diversamente, considerando valido il detto “meglio il vecchio conosciuto, che il nuovo sconosciuto”».

La condizione indigena

Circa metà della popolazione del Guatemala è indigena. La sua condizione continua a essere drammatica.

«Negli ultimi anni la popolazione indigena si è impoverita. Nelle comunità indigene la miseria è aumentata del 12 per cento. Nel paese c’è denutrizione cronica: uno ogni due bambini è denutrito e questa percentuale sale tra i bambini indigeni. Sono cifre ufficiali. In Guatemala tutto si manipola, ma in questo caso neppure il governo può nascondere la realtà. Purtroppo, non abbiamo ottenuto quanto sognavamo negli anni Ottanta, eppure c’è stata una mobilitazione importante dei popoli indigeni».

Intende dire che, nonostante le oggettive difficoltà, c’è stato un cambio in positivo?

«Quando io lavoravo per la Fondazione Menchú, l’enfasi era sull’educazione bilingue. Oggi questo è stato superato. Oggi i popoli indigeni lottano come comunità e non più come singoli soggetti. Lottano per i loro diritti (incluso il diritto allo sviluppo e quello a essere consultati). Hanno anche iniziato a costruire ponti con la popolazione non-indigena. In questo modo si riducono le barriere del razzismo e quelle nate durante la guerra armata. È un modo per arrivare a una conciliazione».

L’avanzata evangelica

Anche in Guatemala le chiese evangeliche sono in continua crescita a scapito della chiesa cattolica. Come vede la situazione?

«Gli evangelici sono ormai il 35 per cento della popolazione. Quanto alla chiesa cattolica, è divisa in due correnti, come accade in molti paesi. Una è quella della gente, quella che lotta per l’ambiente e contro il crimine organizzato. Una chiesa che fa molto arrabbiare la destra, che l’accusa di promuovere la guerra, di essere marxista e comunista (come si diceva un tempo). Con l’arrivo di Francesco questa chiesa è stata rafforzata. Poi c’è la chiesa tradizionale che non appoggia i poveri, che dice di voler mantenere una posizione distaccata. Questa è rappresentata dalla Nunziatura, per esempio. Come cattolica io spero che, presto o tardi, il messaggio di Francesco arrivi a tutta la struttura. Già oggi abbiamo vescovi molto compromessi con la realtà. Mons. Ramazzini e mons. Cabrera sono i più rappresentativi, ma non sono più soli».

Il Guatemala cambierà

Claudia, passano i decenni ma sembra che il Guatemala abbia sempre gli stessi problemi e qualsiasi soluzione, alla fine, sia destinata al fallimento. C’è troppo pessimismo in questa visione?

«Secondo me, il nostro presente e il nostro futuro stanno nel diritto a difendere i diritti umani. In questi anni mi ha mantenuta viva la visione di tanta gente. Se riusciremo a liberarci delle forze intolleranti, il Guatemala cambierà e non soltanto esso, ma l’intera regione. Assieme abbiamo un grande potere e questa è la mia speranza».

Paolo Moiola




Guatemala misericordia e new media


Dopo gli anni dell’orrore e dei massacri, padre Rigoberto si impegna nel recupero della memoria storica. Per una pace effettiva. Aperto sul fronte della comunicazione, utilizza la radio e i social media. Fino a essere chiamato a capo del dipartimento di comunicazione delle conferenze episcopali latinoamericane.

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Ordinato 22 anni fa, padre Rigoberto Pérez Garrido, guatemalteco, ha lavorato a lungo nella diocesi del Quiché, nel Nord Ovest del suo paese. Una delle regioni più martoriate dal conflitto armato durato 36 anni (1960-’96). La guerra civile guatemalteca ha visto il confronto tra diversi governi militari e la guerriglia. È stata particolarmente sanguinosa per la popolazione civile, causando 200.000 morti e almeno 450.000 rifugiati in Messico.

Parroco di piccole comunità, come quella di Nebaj, padre Rigoberto si è integrato nella pastorale dei diritti umani, partecipando al progetto di Recupero della memoria storica cornordinato da monsignor Juan Gerardi.

«La diocesi del Quiché fu militarizzata, e soffrì tutti i problemi tipici di una guerra. Restò senza guida, perché il vescovo, monsignor Juan Gerardi dovette andare in esilio in Costarica, e pure diversi missionari dovettero partire a causa della repressione crudele che la Chiesa stava vivendo negli anni ’80. Le chiese parrocchiali e le cappelle furono chiuse o distrutte da squadristi e militari.

Nel 1987 fu nominato vescovo monsignor Julio Cabrera Valle. Questi iniziò un lavoro di recupero della Chiesa e lo fece a partire dalla ricostruzione umana e sociale delle comunità. Invitò esperti di pastorale, sacerdoti, religiose e religiosi da diversi paesi del mondo, che si integrarono nella missione. In questo modo fu possibile essere presenti, nei diversi luoghi della diocesi.

Durante il periodo più duro, era rimasto solo un sacerdote guatemalteco, originario del Quiché, che sopravvisse perché protetto dalle comunità. La guerra si intensificò, con costi sociali molto alti e pesanti limitazioni ai diritti umani della gente.

Il processo di costruzione della pace iniziò nel 1986 con il primo “governo civile”, e la creazione della Costituzione della Repubblica, che voleva superare la dittatura iniziata negli anni ’40».

E qui la Chiesa assunse un ruolo molto importante.

«La Chiesa fece mediazione tra le parti, per assistenza, appoggio al processo di pace, che stava nascendo. Monsignor Juan Gerardi toò nel paese. Era partito perché aveva subito tre attentati e le squadre della morte dello stato lo avevano sequestrato. Si inserì nella diocesi di Città del Guatemala e creò l’ufficio dei Diritti umani dell’arcivescovato. Lavorò con mons. Pròspero Penado del Barrio e fu parte della commissione di vescovi, con il cardinal Rodolfo Quezada Toruño, come delegati della Conferenza episcopale al processo di pace».

E arrivò la pace

Monsignor
Padre Rigoberto Pérez Garrido durante l’intervista con Paolo Moiola.

Quindi nello specifico si trattava di aiutare le vittime della guerra. Ma non solo.

«Fin dal 1994 si intensificò una pastorale di difesa dei diritti umani – prosegue padre Rigoberto -. Nel 1996 furono firmati gli accordi di pace. Monsignor Gerardi guidava questo settore in quanto era un conoscitore speciale, diretto, delle preoccupazioni di tutta la gente che aveva vissuto la repressione.

Il lavoro consisteva nell’accompagnamento di rifugiati, sfollati interni, ritornati, nel contatto con rifugiati all’estero, soprattutto in Centro America. Facendo tutto questo dal punto di vista dell’impegno della Chiesa per il Vangelo, come attività pastorale.

Alla fine del 1994 si propose che la Chiesa creasse la Commissione per il chiarimento storico, con mons. Gerardi alla testa, iniziò così il Progetto del recupero della memoria storica (Remhi, Recuperaciòn de la memoria històrica). Voleva essere uno studio, un’analisi, sulla situazione reale che il paese aveva vissuto per valutare quale potesse essere la via per la pace, e per aprire il cammino al processo di riconciliazione, che era necessario.

Dal ‘95 al ‘98, si aggiunse anche il lavoro della commissione ufficiale di chiarimento storico delle Nazioni unite che riprendeva il lavoro di quella di Gerardi. Il 24 aprile 1998 fu pubblicato il risultato della ricerca Guatemala nuca mas (Guatemala mai più). Cinque tomi su impatto, meccanismo dell’orrore, storia, nomi delle vittime. Furono il prodotto del lavoro realizzato da 700 animatori della riconciliazione, che raccolsero testimonianze e interviste. Monsignor Gerardi fu assassinato il 26 aprile, appena due giorni dopo».

Un sacrificio importante, che fa di questo vescovo un martire.

«Mons. Gerardi, alla presentazione del lavoro aveva detto: “Conoscere la verità fa male ma senza dubbio è un’azione salutare e liberatrice”. Lui conosceva i pericoli e i rischi, ma tutti ne vedevamo la necessità. I vescovi impegnati in questo lavoro continuarono a essere convinti che non era stato un cammino sbagliato, e neanche un sacrificio senza senso. Quel lavoro apriva un percorso per le nuove generazioni in Guatemala. Fu un lavoro profondamente evangelico.

Da lì continuammo con altri impegni, come il processo di recupero di resti dei morti durante la guerra. E ancora si incrociavano testimonianze arrivate da diversi luoghi del paese e dall’estero. Potemmo accedere agli archivi Usa. Si fecero anche altri studi, sulla militarizzazione, sui cimiteri clandestini. Fu una cosa che realizzai io con una squadra. I risultati furono impressionanti. Monsignor Cabrera disse che il Guatemala, e il Quiché in particolare, sono un unico enorme cimitero clandestino. Vivevamo su un territorio pieno di fosse comuni e resti di vittime del conflitto armato».

Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)
Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)

Un lavoro difficile ma necessario

«Creammo squadre tecniche di esumazione, per restituire i resti alle famiglie e favorire una riconciliazione che portasse a una pace reale. Era la richiesta della popolazione ed era l’aspetto centrale della nostra azione pastorale. Difficile da soddisfare, perché richiedeva strumenti tecnici e legali.

Le squadre erano composte da membri della società civile. Le prime esumazioni furono paradigmatiche perché mostrarono la dimensione delle violazioni dei diritti umani. Volontari giunti da Europa, Usa, Messico e Centro America, furono parte di queste équipe, insieme a gente indigena delle comunità. Io stesso andavo con loro scavando nelle fosse, recuperando i resti, le ossa. Ma avevamo molta paura di fare questo lavoro, perché si lavorava su braci ancora accese.

Infatti, nel 2002, a Nebaj, mi incendiarono la casa parrocchiale e, nello stesso periodo, monsignor Cabrera fu trasferito. Lui era quello che aveva sposato maggiormente la teologia indigena. Tutto questo ci indebolì. Ma cercammo di reagire in modo positivo. Realizzammo una marcia e una consultazione a livello delle comunità, per valutare se avevamo fatto male qualcosa e cambiare. La popolazione ci confermò il cammino che stavamo facendo».

Cotzal - memoriale (© JuanjoSagiPhoto)
Cotzal – memoriale (© JuanjoSagiPhoto)

La potenza della comunicazione

E da lì nacque in padre Rigoberto l’idea di utilizzare i mezzi di comunicazione per promuovere la pacificazione.

«Con l’appoggio di un gesuita esperto nei media realizzammo una prima radio comunitaria, allo scopo di parlare di riconciliazione, costruzione della pace, evangelizzazione e accompagnamento.

Iniziammo la ricostruzione della casa parrocchiale, che fu molto più grande, con uffici di servizio, e una biblioteca. E pure la costruzione di cappelle, che erano state bruciate durante la guerra per castigare le comunità cristiane e mettere in crisi la loro fede. Costruimmo circa 70 cappelle.

Nel 2008 il nuovo vescovo mi chiese di tornare a Santa Cruz (capoluogo del Quiché), in una piccola parrocchia, e mi incaricò della radio diocesana.

In seguito abbiamo creato la rete di radio cattoliche del Quiché, con l’idea dell’unificazione per avere più forza. Iniziai a dare un appoggio alla comunicazione a livello nazionale. Poi mi incaricarono dell’ufficio comunicazione sociale della Conferenza episcopale guatemalteca. Ero parroco a San Antonio Ilotenango. Cominciai a partecipare agli incontri centro americani sui media, dove insistevo sulla questione dell’integrazione o “comunione” delle piattaforme delle diverse conferenze episcopali, per avere direttrici chiare di comunicazione che aiutassero alla costruzione della vita, come aveva fatto monsignor Romero».

Così nell’estate del 2015 lo hanno chiamato come segretario esecutivo del dipartimento di comunicazione e stampa del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), e si è trasferito a Bogotá.

«Il Celam è un organismo di comunione delle Chiese latinoamericane attraverso le conferenze episcopali. Ci occupiamo di comunicazione intea, divulgazione di quello che il Celam fa. Comunicazione istituzionale, ma anche su quello che la Chiesa vive in ogni paese, al servizio del popolo».

Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)
Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)

L’importanza dei new media

A livello di America Latina c’è una grande diffusione dei nuovi media. Le nuove tecnologie, gli smarthphone, i social network, sono entrati nell’uso comune della gente. Il loro ruolo si affianca a quello dei media tradizionali, come la radio, molto seguita in queste latitudini.

«Le nuove tecnologie facilitano molto, rendono un poco “pazza” la vita perché fanno aumentare il numero di cose da fare, però permettono di lavorare superando gli spazi.

Questi sono strumenti di comunicazione, ma l’importante è cosa e come le persone comunicano. Non si può dimenticare che è tutto un processo di sviluppo.

È importante che i media “tradizionali” abbiano uno spazio in quelli nuovi, come radio, tv e giornali sono presenti in internet.

Ci dobbiamo chiedere: come i media possono servire al mondo, alle società, ai paesi? Quale efficacia hanno nella costruzione o distruzione della vita? Per scatenare guerre o costruire la pace, per promuovere uno sviluppo degno o per rafforzare il sistema di disuguaglianza che produce sofferenza?

Quelli della comunicazione sono gli strumenti privilegiati con i quali possiamo costruire un mondo migliore, la società sognata da tutti noi che abbiamo un cuore umanitario.

Sulle nuove tecnologie, che rendono possibile la comunicazione immediata, dobbiamo contare e dobbiamo imparare a utilizzarle al meglio, nel tentativo di costruire i migliori contenuti, necessari per ogni ambito umano.

Per l’America Latina, questi media sono importanti. Producono un risveglio enorme. C’è una riflessione profonda che sta accompagnando lo sviluppo dei new media. Perché essi possono prendere direzioni che invece di aiutare, attaccano la vita. Per questo è importante analizzare il loro sviluppo e prendere coscienza che stiamo comunicando, ma anche come questi media devono intervenire in politica, società, economia. È una realtà da valutare costantemente.

Facebook e Twitter e altri social network sono potenti in America Latina. Si può dire che la rivoluzione tecnologica sta generando una democratizzazione dei media. Arrivano a un numero sempre maggiore di persone e inoltre generano una comunicazione a doppia via. Le reti sociali, danno spazio a ogni persona, che può uscire dall’anonimato. È evidente che i media non devono considerare la popolazione solo come consumatori, per questo parliamo di umanizzazione dei media».

Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)
Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)

L’attenzione del Papa

«I media possono creare comunione. La Chiesa cerca di andare al loro ritmo, affinché il Vangelo sia annunciato anche attraverso di essi.

Il messaggio per la giornata mondiale della comunicazione, intitolato quest’anno “Comunicazione e misericordia”, affronta un tema centrale e attuale rispetto alla situazione mondiale.

Il Papa parla dell’importanza dei media digitali, che si stanno sviluppando sempre di più, e ha invitato ad abitare la strada digitale, il mondo digitale, che è ormai un nuovo mondo di interrelazioni e comunicazione, anche molto complesso. Sono già milioni i bambini, giovani e adulti che sono costantemente connessi tra loro senza conoscersi, magari solo attraverso un’immagine. Sono nuove realtà, che ci sfidano. Dobbiamo entrare nelle questioni, tenendo conto del fatto che possono trasformarsi in incontri pericolosi, ma anche in spazi in cui il Vangelo può essere la notizia che ci umanizza, ci permette di relazionarci con i valori di comunione, frateità, solidarietà e dignità umana».

Anche in Guatemala, il mondo digitale è «abitato».

«Sì, sempre di più. Abbiamo molti vescovi che usano Facebook. Per ora in modo spontaneo e per fare esperienza. Inizialmente abbiamo paura di tutto quanto è nuovo, che ci costringe a relazionarci in una maniera distinta rispetto a prima. Pian piano però impariamo questo nuovo modo di vita.

In Guatemala i bambini e i giovani comunicano con questi mezzi.

A Nebaj, fino a pochi anni fa, non c’erano neppure i telefoni fissi: solo poche case lo avevano. Poi iniziarono i telefoni pubblici. I bambini che scendevano dai villaggi della montagna, non avevano mai vito un apparecchio, e quando scorgevano qualcuno parlare in un telefono pubblico ridevano, perché sembrava che parlasse con un pezzo di ferro. Poi apparirono i cellulari e le comunicazioni si moltiplicarono.

In seguito abbiamo aperto uno spazio internet, e da quel momento la comunicazione è diventata sorprendente. Per la gente questo spazio è stato importante. Ad esempio pensando alla questione delle migrazioni, esso ha ravvicinato coloro che sono andati a lavorare negli Usa con chi è rimasto. La gente piangeva quando, tramite Skype, facevamo vedere loro i parenti lontani. Tenendo conto che queste persone stanno via anni senza poter ritornare. Ecco come questi sistemi hanno una valenza umana».

Guatemalan new President Jimmy Morales (L) waves next to his wife Hilda Marroquin during his inauguration ceremony in Guatemala City, on January 14, 2016. Morales, a former TV comic elected Guatemala's new president on a wave of public revulsion against widespread graft, took office in a ceremony attended by leaders from the Americas. AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA / AFP / LUIS ECHEVERRIA
Guatemalan il nuovo presidente Jimmy Morales (L) con sua moglia Hilda Marroquin durante la cerimonia di inaugurazione in Guatemala City, il 14/01/2016. / AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA

Guatemala il presidente attore

Il Guatemala vive un periodo politico particolare. Il presidente Otto Perez Molina è stato arrestato con gravi accuse di frodi. E questo anche in seguito a grandi manifestazioni pacifiche dei movimenti sociali guatemaltechi.

Si sono poi tenute le elezioni a settembre 2015 e, a sorpresa, è stato eletto l’attore comico Jimmy Morales, che si è insediato il 14 gennaio scorso.

«A inizio 2015 ci si rese conto che il presidente e la sua vice erano a capo di una struttura, chiamata “la linea”, che frodava tra il 50 e il 60% delle entrate tributarie della nazione e lo ripartivano tra di loro, creando un forte impatto negativo sul paese. Grazie al valore del direttore della Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig) dell’Onu e di un pubblico ministero colombiano si sono potuti smascherare.

Il processo fu appoggiato dalla cittadinanza, che iniziò a scendere in piazza, ad aprile, in modo pacifico e costante. Fino a ottenere un fatto unico nella storia del Guatemala, ovvero il cambio di queste figure e il processo giudiziario. Le manifestazioni sono state convocate dai giovani, attraverso le reti sociali e appoggiate dalle università, diversi settori civili e dalla Chiesa.

La cittadinanza che manifestava stabilì criteri chiari, e si applicarono meccanismi per assicurare manifestazioni pacifiche e attive, nel senso gandhiano, per non dare pretesti alla violenza e quindi alla repressione. C’era un servizio d’ordine di persone che giravano in bicicletta per vedere se tutto era a posto.

All’inizio la partecipazione fu timida, ma poi fu crescente. Fu utilizzata musica, arte, poesia, creatività.

Furono convocate le elezioni e la cittadinanza, cercava un cittadino retto, corretto e onesto, che occupasse temporaneamente la carica di presidente, affinché ci fosse tempo per costruire strutture politiche. Ma il rischio era rompere lo stato di diritto. La gente non sapeva chi eleggere e Jimmy Morales, attore senza alcuna esperienza nel settore, è il risultato di un contesto di delusione profonda della gente per la politica.

C’è una coscienza della popolazione, che è cresciuta, ha superato la paura e sta cercando nuovi percorsi per la ricostruzione del sistema nazionale. Ma c’è ancora molto da camminare».

Marco Bello

 

MC e il Guatemala:

gennaio 2013, Simona Rovelli;
maggio 2011, Paolo Moiola;
luglio 2009, Ermina Martini;
– marzo 2004, Paolo Moiola (un precedente incontro con padre Rigoberto).




Guatemala: Non è arrivata, la fine del mondo


Cosa
porterà la fine del 13mo b’aqtun.
Pace, armonia, giustizia, equilibrio
interiore. Tutto questo, dicono le guide spirituali, dovrebbe portare con sé
la fine dell’era prevista dal calendario Maya. Dipenderà però dalla nostra
coscienza.Perché il cambiamento deve essere dentro di
noi
.
(foto Simona Rovelli)

Mentre
gran parte del mondo attendeva con curiosità, trepidazione, speranza o terrore
(a seconda delle differenti visioni), il
21 dicembre 2012, in Guatemala – cuore pulsante dell’universo Maya, dove ancora
una maggioranza della popolazione, in particolare gli Ajq’ijab (le guide
spirituali, in lingua Maya K’iché) mantengono viva la millenaria
tradizione spirituale originaria – in realtà tutto taceva.

Ha
fatto eccezione l’industria del turismo che, in un paese splendido ma
zoppicante sotto moltissimi aspetti, ha cercato di sfruttare al meglio, in
termini di immagine e di business, il bonus piovuto dal cielo,
organizzando eventi in tema e sfoando i più disparati pacchetti turistici,
essenzialmente per stranieri e spesso escludendo dall’organizzazione e
partecipazione la stessa popolazione di etnia maya.

Si
è scritto e detto ormai di tutto circa questa fatidica data, citata come la
fine del «tredicesimo b’aqtun» del calendario Maya, a partire dalla
distruzione del mondo con o senza giorno del giudizio, passando per il
profetico arrivo di un fantomatico «Pianeta X», la caduta di una cometa o
asteroide che sia, il ritorno degli alieni, l’inversione dei poli magnetici e
svariati – nefasti o benefici a seconda delle interpretazioni – allineamenti
tra centro della galassia, Sole, Terra e alcuni pianeti. Ognuna di queste
teorie si basa, nella migliore delle ipotesi, su libere interpretazioni e
connessioni un po’ fantasiose e forzose tra gli elementi più disparati e, nella
peggiore, su un intenzionale desiderio di creare confusione e panico, per
trae svariati benefici.

La profezia

Ma cos’è un b’aqtun ed esiste davvero una profezia maya a
riguardo del tredicesimo?

I Maya nei secoli hanno sviluppato grandi doti di astronomi e,
studiando il movimento di diversi corpi celesti tra cui ad esempio Marte e
Venere, idearono almeno venti calendari che regolavano ciascuno diversi aspetti
della vita, dalla semina alla nascita di un essere umano. Il parallelismo tra «Cielo»
e «Terra» deriva dalla loro peculiare «cosmovisione» (ovvero come concepiscono,
percepiscono e vivono il senso dell’esistenza dell’intero universo, ne spiegano
la creazione e il funzionamento), per cui le energie che governano i corpi
stellari devono trovare il loro riscontro negli eventi terrestri.

Il b’aqtun è un periodo di tempo riferito a uno di questi
calendari, nella fattispecie quello denominato della Cuenta Larga,
ovvero il calendario che stabilisce il computo di tempi estremamente lunghi e
che sarebbe vigente, senza interruzioni, dai tempi della Creazione
(originatasi, come indicato nella stele 1 di Cobá, Messico, milioni di anni
fa). Per l’esattezza il b’aqtun è un multiplo di 20 (numero sacro per i
Maya, corrispondente al ciclo minimo del calendario Cholq’ij, che regge
il susseguirsi delle energie umane) secondo questo semplice schema:

-1 giorno è detto kin,
– 20 kines fanno un winaq (20 giorni),

– 18 winales sono un tun (che significa «pietra»:
360 giorni),

– 20 tunes corrispondono a un k’atun (7.200 giorni),

– 20 k’atunes un b’aqtun (144.000 giorni),

– 20 b’aqtunes un piktun (2.880.000 giorni). E così
via…

La prima osservazione è che il calendario maya, così come alcuni
erroneamente affermano, non termina affatto con il tredicesimo b’aqtun,
(periodo di 1.872.000 giorni), ma prosegue, ipoteticamente fino all’infinito.
Esiste per esempio una data scolpita nel tempio delle Iscrizioni di Palenque,
Messico, che daterebbe il 13 Ottobre 4.772 d.C., così come esistono date
antecedenti al b’aqtun 1 di questa era, come per esempio indicato in
Quiriguá, Guatemala, dove tra le tante date si può individuare l’8.238 a.C.

Termina un’era

Perché dunque tanto clamore rispetto al tredicesimo b’aqtun
e alla data del 21 dicembre 2012?

La data (4 Ajpu / 3 Kank’in, secondo il calendario
della Cuenta Larga) viene indicata in differenti steli di
svariati siti archeologici del Guatemala e del Messico, semplicemente come fine
di un’era, venendo maliziosamente strumentalizzata come data della fine del
mondo. Infatti, seppur considerando che i b’aqtunes arrivano fino a 20
formando un piktun, è doveroso ricordare che secondo i Maya ogni 13 di
essi si concluderebbe un ciclo completo, corrispondente a un’era del mondo, e
questo passaggio sarebbe segnato normalmente da un sostanziale cambiamento,
preceduto da eventi più o meno significativi. In questo caso si tratterebbe
propriamente della chiusura del terzo ciclo dall’inizio della creazione che,
stabilendo un parallelismo con il calendario Gregoriano, andrebbe dal 6
Settembre 3.114 a.C. (inizio del nuovo ciclo, con il primo giorno del primo b’aqtun),
al 21 dicembre 2012 d.C., ultimo giorno dell’attuale b’aqtun, appunto il
tredicesimo, iniziato nel 1.618. 
Inoltre, secondo vari studi compiuti in Guatemala da antropologi e Ajq’ijab,
la data indicherebbe sia la fine dell’era precedente che l’inizio della nuova,
indicando infatti il giorno 0 (zero) – concetto non contemplato nel calendario
gregoriano – del nuovo ciclo.

Evidenziamo che in nessun caso si parla di fine del mondo, ma di
alcuni eventuali cambiamenti importanti.

Altri citano erroneamente il Chilam Balam (uno dei
pochi testi profetici maya salvatisi dalla furia colonizzatrice), il quale però
descriverebbe alcune catastrofi durante il 13 k’atun Ajaw (e non
13 b’aqtun!). Per approfondimento, secondo la nomenclatura della tavola
degli Ajpú, definita dal missionario Diego de Landa nel libro «Relaciones
de las cosas de Yucatán» agli inizi dell’epoca coloniale, il 13 k’atun Ajaw
si sarebbe concluso il 2 novembre 1.539. Quale catastrofe peggiore, per i Maya,
della conquista spagnola? Attualmente, secondo la suddetta tavola staremmo tra
l’altro vivendo il b’aqtun 6, in numero cardinale, che sarebbe il
tredicesimo in numero ordinale. Il «nome» del b’aqtun (in questo caso
sei) viene infatti definito dall’energia iniziale (che accompagna sempre un Ajpú),
la quale di ciclo in ciclo non segue un ordine crescente. Per capire questo
concetto è necessario addentrarsi profondamente nella cosmovisione Maya e in
calcoli complicati, uscendo inoltre dalla logica calendarica occidentale.

La spiritualità viva

Ma una volta stabilito cosa indicano le steli
e i testi sacri Maya, è estremamente importante analizzare la spiritualità viva
e pulsante attraverso le parole delle guide spirituali (Ajq’ijab),
coloro che hanno la responsabilità di tramandarsi, per lo più oralmente, le
antichissime tradizioni.

Non esiste un consenso generalizzato a riguardo, se non nel deciso
rifiuto delle infondate posizioni catastrofiste. Molte «abuelas y abuelos»
Maya (nonne e nonni letteralmente, così come poeticamente vengono definite le
persone che hanno acquisito una certa saggezza) ritengono che energeticamente
si entrerà in una nuova era che favorirà pace, armonia, unione, giustizia,
equilibrio tra gli esseri umani e tra questi e Madre Natura (così come
profetizza anche il Chilam Balam, per il 4 k’atun che
inizierà questo dicembre). Il tutto si raggiungerà attraverso il ritrovamento
di un vero equilibrio interiore, che nella cosmovisione maya è fondamentale per
poter concretizzare i passi successivi. Alcuni si spingono a dichiarare che
tanta sarà l’armonia da permettere la comunicazione attraverso la trasmissione
del pensiero. Altri invece pensano che, nonostante l’energia propizia, il
cambiamento sarà molto più lento e graduale e dipenderà molto dal grado di
risveglio delle nostre coscienze. Per altri ancora, tutto risiede nel nostro
libero arbitrio e il destino del pianeta Terra, con i suoi equilibri e i suoi
abitanti, non è prestabilito.

Il cambiamento sta dentro di
noi

Cosa ne è della speranza nell’arrivo di alieni che spazzino via la
feccia dell’umanità, facendo piazza pulita delle negatività? Una visione troppo
comoda, che affida a un «miracolo» esterno e senza impegno il cambiamento che
ciascuno di noi, con coscienza e sforzo, dovrebbe intraprendere nel suo piccolo
per mutare radicalmente il corso della storia umana, piagata da tante
ingiustizie e prossima a subire e far subire, in particolare ai più deboli e
alle generazioni future, le conseguenze del cambio climatico. Tra quelli che
seguono la spiritualità maya, non vi è attenzione, né tantomeno preoccupazione
rispetto a una eventuale venuta, e piuttosto ci si concentra sulla propria
crescita personale e comunitaria.

E la paura di catastrofi naturali e dell’eventualità che la
popolazione umana possa essere decimata da eventi disastrosi (o dagli alieni
stessi)? Solo chi ha paura di vivere tutte le sfumature dell’esistenza, chi
sente di non aver tentato in ogni istante tutto il possibile per offrire il
meglio di sé, chi non accetta che vita e morte sono parte di una necessaria e
utile ciclicità, chi si attacca al proprio ego senza ricordare il senso del
passaggio sulla Terra, ha una profonda paura di morire, che sia in una
catastrofe o per mano degli alieni.

Nelle terre maya, dove si vive in ogni istante la precarietà della
vita, ci si concentra sul presente con umiltà, semplicità, intensità e
determinazione, consci di essere una goccia di Infinito nell’Universo.

Simona Rovelli

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Simona Rovelli