Prestiti e ricatti

Testo sui ricatti dei prestiti di Francesco Gesualdi |


Qualcuno li aveva definiti «maiali» (Piigs). Erano i paesi comunitari dell’area mediterranea – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – più l’Irlanda, che tra il 2008 e il 2013 si erano trovati in grave difficoltà a causa del loro debito. Intervenne la «Troika» che, in cambio di prestiti (onerosi), pretese una serie di pesanti impegni. Oggi la situazione finanziaria pare più stabile, i governi più deboli, la gente più povera.

Fra il 2008 e il 2013, un precipitare di eventi, non tutti collegati fra loro, rese particolarmente difficile la situazione debitoria di vari paesi dell’eurozona. E a indicare quelli più in difficoltà venne creato l’acronimo Piigs («maiali», in inglese), comprendente Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

Dall’Irlanda alla Grecia

L’Irlanda fu il primo paese a mostrarsi pesantemente inguaiato, e non per mala amministrazione o per avere voluto garantire ai cittadini chissà quali lussi, ma per aver salvato le proprie banche. L’eccesso di azzardo aveva portato le principali banche irlandesi sull’orlo della bancarotta e, per evitare il loro fallimento, il governo irlandese le foraggiò con 64 miliardi di euro. Un’operazione fatta a debito che in cinque anni portò il debito pubblico irlandese da un minuscolo 25% del Pil nel 2007, a uno spaventoso 120% nel 2012.

Il secondo paese a lanciare l’Sos fu la Grecia che, per la verità, già da anni si portava dietro un pesante fardello. Fin dal suo ingresso nell’euro aveva un debito pubblico pari al 100% del Pil, ma la situazione sembrava stabilizzata. Senonché dal 2004 il debito aveva ripreso a crescere un po’ per fare fronte alle spese connesse alle Olimpiadi, un po’ per garantire ai cittadini pensioni e salari più alti, oltre che servizi migliori. La situazione precipitò nel 2010 quando si seppe che lo scoperto annuale superava il 15% del Pil, mentre il limite imposto dai trattati europei era (ed è) al 3%. Nell’aprile del 2010 la Grecia venne dichiarata inaffidabile dalle agenzie di rating e di colpo non ottenne più un centesimo di prestito dal sistema bancario e finanziario privato. Senza nuovi prestiti, la Grecia non avrebbe potuto pagare né interessi né rate in scadenza: di fatto sarebbe stato come dichiarare fallimento. Una vera sciagura per i creditori, al 70% stranieri, e per l’euro che poteva subire una grave svalutazione per perdita di fiducia. Fu così che, per evitare la catastrofe, il 2 maggio 2010 l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, la famosa «Troika», misero a disposizione della Grecia 110 miliardi di euro per le scadenze più urgenti. Questi non bastarono e in seguito vennero accordati altri prestiti: 172 miliardi nel 2012 e 86 miliardi nel 2015. Oggi vediamo che il debito pubblico greco ha continuato a crescere, fino a raggiungere, nel marzo 2018, 330 miliardi, il 180% del Pil, detenuto per l’80% da soggetti pubblici: governi europei, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e greca. Soggetti che, pur essendo pubblici, non si sono mostrati più magnanimi dei creditori privati. Anzi si sono dimostrati peggiori perché hanno approfittato della loro posizione di potere per mettere il parlamento e il governo greco sotto ricatto. Per prima cosa hanno chiarito che non regalavano, ma prestavano con tanto di interessi e di scadenze prefissate per la restituzione del capitale. Poi però hanno fatto di peggio: hanno condizionato l’esborso dei prestiti alla sottoscrizione di una serie di impegni.

Christine Lagarde, IMF Managing Director. © Simone D. McCourtie / World Bank

Le «riforme» della Troika

È successo alla Grecia esattamente come successe, negli anni Ottanta del secolo scorso, nei confronti dei paesi del Sud del mondo, quando il Fondo monetario internazionale si dichiarò disponibile a venire in loro soccorso purché accettassero di introdurre una serie di riforme che avevano come obiettivo la trasformazione delle loro economie in sistemi neoliberisti. E con la scusa di aiutarla a ritrovare la propria sostenibilità economica e a riprendere la strada della crescita, anche la Grecia venne obbligata ad adottare una serie di misure, «riforme» come dice la Troika, cheavevano come obiettivo la riduzione del peso dello stato e la crescita del potere del mercato e, per converso, la riduzione della sicurezza sociale, dei salari e dei diritti dei lavoratori. Con conseguenze disastrose su tutti i piani. Dal 2008 al 2015 in Grecia la spesa sanitaria pro capite fu tagliata di un terzo tanto che oggi un quarto dei greci si ritrova senza copertura sanitaria. Negli ospedali mancano lenzuola, garze e medicinali. Le infezioni ospedaliere sono sempre più frequenti, gli interventi non riusciti si moltiplicano, i medici migliori fuggono all’estero. Salari e pensioni hanno subito tagli dal 30 al 50% mentre la disoccupazione è salita al 25% con i giovani colpiti in maniera particolare. La povertà estrema è passata dal 9% nel 2011 al 15% nel 2015 e, se includiamo anchei greci in povertà relativa, scopriamo che la percentuale complessiva dei poveri al 2015 si colloca al 23% della popolazione. Dal 2009 al 2016 il numero dei senza tetto è quadruplicato a causa dell’abolizione del sostegno all’alloggio. Mezzo milione di greci, su un totale di 10 milioni, vivono grazie ai pasti messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie. Una vera tragedia umana che molti non hanno retto facendo raddoppiare il numero dei suicidi passati da 373 nel 2009, a 616 nel 2015.

Il turno dell’Italia

Anche l’Italia venne inclusa fra i Piigs. Non tanto per un peggioramento repentino del suo debito pubblico, quanto per il suo stato di indebitamento cronico. Con un debito strutturalmente al di sopra del 100% del Pil, gli occhi dei mercati erano puntati sull’Italia per cogliere il benché minimo segnale di peggioramento da sfruttare per organizzare un attacco speculativo contro di essa e magari anche contro l’euro (come avvenuto anche a maggio-giugno 2018, ndr). L’Unione europea sudava freddo e avrebbe tanto desiderato poter entrare a gamba tesa nella politica interna italiana per imporle l’adozione di misure d’austerità che avrebbero rassicurato i mercati e quindi ridotto i rischi di ritorsioni da parte del mondo della finanza. Ma a differenza della Grecia, l’Italia non aveva chiesto prestiti all’Europa, per cui mancava l’appiglio su cui esercitare il ricatto. Alla fine l’Unione europea trovò il modo di fare passare dalla finestra ciò che non riusciva a fare entrare dalla porta e lo fece appellandosi all’intervento di due strutture tecniche: la Banca d’Italia e la Banca centrale europea. Fu così che il 4 agosto 2011, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, si vide recapitare una lettera a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet (riquadro), in cui si segnalava che dopo aver discusso la situazione dei titoli di stato italiani, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea aveva giudicato necessario sollecitare le autorità italiane a «un’azione pressante per ristabilire la fiducia degli investitori». E, per non rimanere nel generico, la lettera elencava dettagliatamente le riforme che dovevano essere intraprese dal governo italiano, compresa l’abolizione delle Province, passando per la piena liberalizzazione dei servizi pubblici, la riforma delle pensioni, la revisione della legge sui licenziamenti e molto altro ancora.

Berlusconi non riuscì a realizzare le riforme auspicate e il 12 novembre del 2011 fu sollecitato a dimettersi per lasciare la poltrona a Mario Monti. Un cambio di guardia voluto dall’Europa che molti non hanno esitato a definire un colpo di stato.

Il gendarme dei conti pubblici

Come richiesto da Draghi e Trichet, il compito di Mario Monti era di «ristabilire la fiducia degli investitori» che, tradotto, significava due cose. La prima: dimostrare che la priorità dell’Italia è servire l’interesse dei creditori. La seconda: dimostrare che la fede dell’Italia è nel mercato. Di qui le operazioni che Monti e i governi successivi compirono: inasprimenti fiscali per garantire maggiori entrate allo stato, taglio alle spese per garantire un avanzo quanto più ampio possibile da destinare agli interessi, privatizzazioni per trasferire al mercato quante più attività possibili, riforme del lavoro per accrescere il potere delle imprese. Il tutto suggellato dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione (legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, approvata con maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento, ndr), in ossequio al Fiscal compact, che ha introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio a significare che lo stato ha rinunciato a qualsiasi ruolo di orientamento dell’economia. E naturalmente disponibilità a controlli preventivi da parte della Commissione europea che ha il diritto di verificare i programmi di bilancio prima di mandarli all’approvazione del parlamento italiano. E se, per caso, vi trova dei numeri fuori posto ha il diritto di imporre dei correttivi.

Da quando l’Unione europea ha assunto il ruolo di gendarme dei conti pubblici, il percorso che porta all’approvazione dei bilanci nazionali si è fatto lungo e complesso.

Volendo, la procedura inizia a Bruxelles piuttosto che nelle varie capitali europee secondo un cronoprogramma scandito in cinque tempi:

1) Gennaio-marzo: gli organi dell’Unione europea analizzano la situazione di ciascun paese della zona euro e formulano indicazioni di programma per ciascuno di essi.

2) Aprile-luglio: sulla base delle indicazione ricevute da Bruxelles, ogni governo elabora un programma finanziario di medio periodo, corrispondente almeno a un triennio. In Italia il documento, denominato «Documento di economia e finanza» (Def), deve essere approvato dal Parlamento entro il 10 aprile e subito inviato a Bruxelles per un giudizio di merito. L’Unione europea si prende tre mesi di tempo per esaminarlo e formulare le proprie raccomandazioni.

3) Settembre: tramite un apposito documento denominato «Nota di aggiornamento al Def», il governo italiano recepisce le raccomandazioni dell’Unione europea e le sottopone all’approvazione del parlamento.

4) Ottobre: il governo elabora due documenti distinti: il primo, denominato «Documento programmatico di bilancio», descrive le spese previste per l’anno a venire e come saranno coperte; il secondo, denominato «Legge di bilancio», definisce nel dettaglio tutte le misure da assumere per raggiungere gli obiettivi previsti. Il primo documento è mandato a Bruxelles per un parere rapido. 5) Novembre-dicembre: il parlamento discute e approva il «Documento programmatico di bilancio» e la «Legge di bilancio».

Al servizio di pochi

Visto il potere delegato agli organi di controllo europeo, rimane difficile definire i nostri parlamenti strutture sovrane. Ma lo scandalo non è la perdita di sovranità a favore di una struttura sovrannazionale. Lo scandalo è che la struttura sovrannazionale non ha come fine la costruzione di un’Europa più equa, più solidale, più sostenibile al servizio dei diritti di tutti, ma un’Europa al servizio dei mercati affinché i padroni della finanza possano arricchirsi sempre di più alle spalle di tutti.

Francesco Gesualdi

 




Grecia: Ripresa economica sulla pelle dei poveri


Il governo di Alexis Tsipras promette la fine della durissima politica di austerità che da anni mantiene la Grecia dentro l’Ue a costi altissimi per i greci. La fine dell’emergenza e degli «aiuti» della Troika è probabile, grazie al miglioramento dell’economia, ma la popolazione vive oggi livelli di povertà, disparità, esclusione sociale che non si vedevano da decenni.

Conto alla rovescia per il debito greco. Dopo sette anni di dure politiche di austerità, entro la fine dell’estate Atene potrebbe dire addio ai programmi finanziari europei di salvataggio. «L’accordo con i creditori è dietro l’angolo, presto riprenderemo a camminare sulle nostre gambe», ripetono da mesi fonti governative.

La data è quella del 20 agosto prossimo, giorno nel quale scadrà il piano di bailout (salvataggio del paese insolvente, ndr) in corso. Tra maggio e giugno però la Grecia dovrà sottoporsi agli ultimi e determinanti test sui progressi fatti in materia di riforme strutturali interne, così come stabilito negli accordi con la Troika. E, benché una rondine non faccia primavera, le premesse lasciano ben sperare.

La kolotoumba di Tsipras

L’esecutivo di Alexis Tsipras si presenterà alle verifiche decisive della primavera forte del parere favorevole incassato a Bruxelles il 22 gennaio scorso. «Atene sta facendo bene», è stato il giudizio positivo dei ministri dell’Economia riuniti in eurosummit, tale da permettere lo sblocco della terza tranche di aiuti – pari a 5,5 miliardi di euro – accordata al paese nell’estate del 2015.

Il lungo braccio di ferro con i falchi della finanza internazionale che si consumò proprio in quel 2015 sembra oggi solo un ricordo lontano.

Dalla mirabolante kolotoumba (capriola, ndr) di Tsipras in poi, in effetti, i rapporti tra la Grecia e il resto dell’Europa si sono fatti via via più distesi. E non poteva essere altrimenti, visto che sotto i ponti della minacciata Grexit sono passate finora tutte quelle misure di austerità cui il leader di Syriza – ricevendo espresso mandato da parte del suo popolo – aveva giurato ferma resistenza.

Di fatto, la capitolazione del premier ellenico punta dritto a un altro traguardo, ossia la ristrutturazione generale del debito greco accordata già nel 2012. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha lasciato uno spiraglio aperto, a patto che la Grecia continui a rispettare tutte le condizioni date.

Shock economy senza opposizione

Esauritosi il ciclo dell’opposizione sociale e delle grandi manifestazioni di piazza che aveva fatto seguito al primo periodo di applicazione della shock economy, la strada per il governo di Atene si presenta ora meno in salita. Basti pensare che persino il fronte compatto e combattivo della «nessuna negoziazione» sulle privatizzazioni si è sgretolato come un muro di sabbia, lasciando dietro di sé frustrazione, delusione e malumori. Sotto la scure dell’addio ai monopoli statali, nel dicembre scorso sono finite infatti la Deh, il colosso pubblico dell’energia elettrica, la Hellenic Petroleum, la società di raffinazione e distribuzione petrolifera pubblica, e la Depa che gestisce il trasporto del gas naturale oltreché la sua vendita all’ingrosso e la distribuzione.

Il plauso dei mercati non si è fatto attendere: i tassi decennali sui bond greci sono calati fino al 4,8% (a luglio 2015 erano schizzati al 18%); «il graduale miglioramento della liquidità» a disposizione delle banche elleniche ha fatto sì che la Commissione europea prorogasse, per una volta senza quasi battere ciglio, il regime di garanzie pubbliche fino a marzo 2018; altrettanti segnali di ripresa economica, lenti ma significativi, sono arrivati la scorsa estate dal settore del turismo, con un +7% rispetto all’anno precedente.

Una nuova stretta allo stato sociale in vista

L’esecutivo guidato da Alexis Tsipras difficilmente riesce a nascondere un certo ottimismo, e assicura «un’uscita pulita» del paese dall’austerity entro la data stabilita.

Senza troppo frenare gli entusiasmi, dal canto suo, la Troika continua a ribadire che, per completare con successo la revisione finale del programma di aiuti, Atene deve provvedere entro giugno all’implementazione di ulteriori «difficili misure». Ottantadue, per l’esattezza, divise tra provvedimenti di natura fiscale e nuovi tagli al welfare.

All’uscita dal tunnel mancano ancora importanti tasselli quali l’adeguamento di una legislazione fiscale favorevole all’industria marittima, una nuova normativa sul valore degli immobili che assegni loro l’effettivo prezzo di mercato e non quello stabilito in maniera autonoma dalle autorità fiscali locali (con un conseguente aumento dei tassi e/o della base imponibile per i proprietari in sede di dichiarazione dei redditi annuale), la riduzione – e l’anticipazione al 2019 anziché al 2020 – della soglia del reddito esentasse, un nuovo taglio alle pensioni, la revisione dei benefici sociali, degli assegni familiari e delle prestazioni di invalidità, la riforma della contrattazione collettiva, la definizione di criteri più severi in materia di pignoramenti e di confische per i debitori insolventi. Vale a dire, un altro giro di vite allo stato sociale per una popolazione già stremata e stritolata da sette anni di sacrifici.

E i greci se la passano male

Se in termini di disavanzo primario la Grecia comincia a stare meglio, i greci invece non se la passano affatto bene. Un recente rapporto della Caritas locale parla di «una fase molto buia» e di «un paese vulnerabile», e i dati sono impietosi a riguardo: a causa della recessione negli ultimi quattro anni i salari hanno subito una contrazione tra il 10% e il 40%, perdendo fino al 24,9% del loro potere d’acquisto per i lavoratori adulti e del 34,5% per i giovani fino a 25 anni. Nonostante un lieve calo negli ultimi due anni, il tasso di disoccupazione continua a essere il più alto in Europa (21%), mentre la metà dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni non risulta essere impiegata. Questi ultimi, assieme ai lavoratori sopra i 50 anni, costituiscono la fascia di popolazione che ha risentito maggiormente della crisi, a fronte della mancanza di misure sociali di supporto e di politiche dedicate al loro inserimento nel mondo del lavoro.

Si calcola inoltre che nel 2015 solo un greco su cinque abbia lavorato per più di dodici mesi e questo spiega in parte perché almeno mezzo milione di persone – su 10 milioni di abitanti totali – negli ultimi anni ha preferito lasciare il paese e tentare fortuna altrove. Per la maggior parte si tratta di professionisti e di personale ad alta formazione – dottori, ingegneri e scienziati -, con almeno un titolo postuniversitario, master o dottorato, nel proprio curriculum.

© Kohlmann Sascha

Povertà ed esclusione sociale

La fotografia scattata dalla Caritas locale trova pieno riscontro in un altro studio recentemente condotto dall’Unione europea, secondo il quale il 22,2% della popolazione greca si trova in «una situazione di grave povertà» (nel 2010 era stimata al 18%), ossia non è in grado di pagare un mutuo o un prestito, di stare al passo con le bollette, di permettersi il riscaldamento e di far fronte a spese inattese. Circa 3,8 milioni di persone, pari al 36% della popolazione, è invece severamente a rischio esclusione sociale. In Europa riescono a fare peggio solo Romania e Bulgaria. Piuttosto allarmante anche il numero di bambini che vive sotto la soglia di povertà (40%). Non meno preoccupante la condizione degli anziani, le cui pensioni hanno subito una riduzione del 50-60%, raggiungendo la cifra media di circa 665 euro mensili, spesso utilizzate per mantenere un intero nucleo familiare. In generale, le criticità maggiori provengono da problemi di lavoro (60,9%), dalla mancanza di soluzioni abitative adeguate (36,7%) e dai bisogni legati allo stato di salute (il 39,9% dei greci, ossia una persona su tre, ha dichiarato di avere difficoltà nel sostenere le cure mediche necessarie).

L’ipoteca sul futuro rimane

Non solo numeri. La conferma di quanto la sofferenza sociale nel paese abbia raggiunto un livello di esasperazione si ha dalle immagini arrivate lo scorso novembre dal tribunale di Atene, dove, durante la prima giornata di vendita all’asta delle case dei greci morosi nei confronti delle banche – per inciso, altra condizione richiesta al governo di Tsipras nell’imminente revisione – si sono verificati scontri con la polizia all’interno dell’edificio che hanno costretto i notai alla fuga attraverso un’uscita laterale.

Che il debito ellenico abbia tecnicamente i giorni contati è dunque uno scenario verosimile e auspicabile. Che la Grecia sia invece in procinto di liberarsi definitivamente dalla morsa dell’austerità è più facile a dirsi che a farsi. La fine degli aiuti comunitari non significherà difatti il ritorno alla normalità per un paese che ha pagato caro il prezzo della crisi e che, con ogni probabilità, continuerà a farlo anche nei prossimi anni, quasi fosse un’ipoteca sul presente e sul futuro del paese.

Monia Cappuccini

© Jan Wellman

 


Le tappe della crisi greca

2009 A ottobre il neoesecutivo socialista di Georges Papandreu rivela che il governo precedente ha falsificato i bilanci e che il deficit della Grecia supera di quattro volte il limite Ue. Vengono declassate le banche elleniche.

2010 L’Ue, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale (Fmi), cioè la cosiddetta Troika, accordano il primo programma di salvataggio: 110 miliardi di euro per l’attuazione di un piano di austerità che provoca una violenta opposizione sociale.

2011 Titoli declassati a livello «spazzatura», vola lo spread. L’esecutivo dimissionario di Papandreu sostituito dal governo di unità nazionale del tecnocrate Lucas Papademos, già vicepresidente della Bce. Varata altra finanziaria «lacrime e sangue».

2012 Approvate nuove misure di austerity in vista del secondo piano di aiuti di 130 miliardi di euro. Piazze in subbuglio, guerriglia nelle strade. A marzo arriva l’ok per la ristrutturazione del debito. Dal voto di maggio non esce nessuna maggioranza, si torna alle urne a giugno, il leader di Nuova Democratia, Antonis Samaras, diventa Primo ministro. Nella finanziaria tagli per 10 miliardi di euro.

2013 Crollo del 23% del Pil dal 2008, disoccupazione record al 28% e giovanile al 60%, altri 15mila posti di lavoro tagliati nel settore pubblico. Antonis Samaras chiude nottetempo la tv di stato Ert e licenzia 2.700 dipendenti. Uccisione di Pavlos Fyssas: il leader di Alba Dorata, Nikolaos Michaloliakos, assieme ad altri 17 deputati, sono trasferiti in carcere con l’accusa di appartenere a un’organizzazione criminale. Era dalla caduta del regime dei Colonnelli che non si verificava l’arresto di parlamentari.

2014 Atene torna sui mercati finanziari e incassa quasi 4 miliardi dalla vendita di titoli di stato. I creditori esigono nuove misure di austerità per l’ultima tranche di aiuti. Il partito Syriza di Alexis Tsipras vince le elezioni europee e guadagna terreno nei sondaggi. Crisi di governo dopo la nomina del presidente della Repubblica, si torna alle urne.

2015 Il leader della sinistra radicale, Tsipras, vince le elezioni promettendo di rinegoziare il piano di salvataggio e di porre fine all’austerità. I conti peggiorano: indebitamento per 330 miliardi di euro, debito pubblico al 180% del Pil, insolvenza del prestito Fmi di 1,5 miliardi. Tsipras accusa i creditori di «saccheggio» e annuncia un referendum sulle nuove misure di austerità. Il 5 luglio il 61,3% vota oxi (no). L’Europa lancia l’ultimatum per evitare la Grexit. Riprendono i negoziati con un braccio di ferro di 17 ore: Atene capitola e riceve un terzo piano di aiuti.

2016 La Banca greca annuncia la ripresa dell’economia entro l’estate. L’Ue eroga altri 7,5 miliardi di euro utilizzati per pagare gli interessi sul debito. Il Parlamento annuncia un largo piano di privatizzazioni e vota la riforma delle pensioni e del sistema fiscale.

2017 Nonostante i segnali incoraggianti, il paese è ancora a rischio inadempienza. Atene prosegue sulla strada dell’austerity e approva la riforma del lavoro e nuovi tagli al welfare. La Germania si oppone alla rinegoziazione dei debiti esistenti avanzata da Alexis Tsipras.

2018 Potrebbe essere l’anno della fine dei programmi di aiuti ma non del controllo sul debito greco e sui piani di austerità da parte dei creditori internazionali. Atene prevede un rimborso di almeno il 75% entro il 2060.

M.C.


Intervista al professor Vassilis Arapoglou

Tra emarginati e poveri invisibili

«Parliamoci chiaro, l’austerità accompagnerà la Grecia ancora a lungo per una semplice ragione: il debito deve essere ripagato, pena l’applicazione di sanzioni disciplinari. Tra due anni il paese sarà chiamato a saldare enormi tassi d’interesse e le politiche di austerità serviranno a fare cassa. Probabilmente assumerà forme diverse e non sarà più così dura, una sorta di austerità postsalvataggio».

Una previsione nient’affatto rosea quella di Vassilis Arapoglou, professore di sociologia all’Università di Creta e autore, assieme a Kostas Gounis, del volume Contested Landscape of Poverty and Homelessness in Southern Europe, pubblicato di recente per Palgrave (pp. 149, euro 54,99).

Professor Arapoglou, qual è stato l’impatto della crisi finanziaria in Grecia?

«Il drammatico deterioramento delle condizioni di vita iniziato nel 2010 ha subito un’interruzione solo due anni fa ma, di fatto, siamo di fronte a un arretramento sociale di dimensioni epocali. Ovviamente non si tratta di una situazione sanabile, almeno per com’è organizzato il capitalismo europeo oggi. Nel 2016 il tasso di povertà era calcolato in base agli standard del 2008 e si avvicinava al 50% della popolazione. Volendo utilizzare i criteri attuali, il quadro non cambia: soprattutto la fascia sotto i 25 anni risulta per metà disoccupata o precaria. Sostanzialmente la Grecia ha conosciuto un aumento impressionante della disuguaglianza sociale. Ad Atene, ad esempio, sono cresciuti sia i “poveri invisibili”, ossia gente già tagliata fuori dai diritti basilari e da un adeguato sostegno pubblico, sia la divisione tra “nuovi poveri invisibili”, il cittadino appartenente alla classe media, e gli altri emarginati (tossicodipendenti, malati mentali, migranti illegali e in transito). Seppur nelle differenze, tutti condividono il rischio di un comune destino di miseria».

Come si posiziona la Grecia nella mappa delle povertà nel Sud Europa?

«Il caso greco è più unico che raro. Oltre all’improvvisa riduzione del reddito disponibile, alla disoccupazione, all’espansione della precarietà e dei posti di lavoro a basso reddito, si è verificata un’escalation del costo delle case, su cui hanno pesato l’aumento dell’energia, la tassazione sulle proprietà e le difficoltà nel garantire un’adeguata manutenzione. Tali fattori, ad esempio, differenziano le città greche da quelle spagnole, colpite dallo scoppio della bolla speculativa immobiliare, o da quelle italiane, parimenti impoverite dalla crisi. Penalizzati dal mercato del lavoro e dal caro alloggi, nonché da una politica europea sull’accoglienza piuttosto ostile, i migranti in particolare hanno potuto fare affidamento su iniziative di solidarietà locale, che in linea generale hanno contribuito a drenare e a impedire lo scoppio delle marginalità sociali. Ciò deve essere un motivo di orgoglio per i popoli del Sud Europa, nonché una risposta concreta al tentativo di stigmatizzare i loro comportamenti come irresponsabili».

A proposito di queste iniziative, in che modo la crisi ha rimodellato il panorama locale dell’assistenza sociale?

«Dopo aver smantellato ogni forma di welfare, i programmi di austerità hanno indirizzato nuovi canali di supporto verso la privatizzazione delle disposizioni pubbliche e la promozione della beneficenza. Paradossalmente Atene è oggi un esempio di “importazione” in Grecia di un inedito modello di assistenzialismo, in cui le agenzie locali istituzionali giocano un ruolo importantissimo non solo in termini organizzativi e di coordinamento, ma anche di orientamento delle misure da implementare fino al coinvolgimento di filantropi internazionali per la loro realizzazione. Le iniziative di solidarietà dal basso rischiano così di finire strozzate da questo meccanismo. Bisognerebbe invece affrontare lo stato di necessità attraverso un sistema di misure che garantiscano nell’insieme un adeguato sostegno al reddito, un’occupazione stabile, alloggi sociali e una copertura sanitaria. In pratica, l’esatto contrario del progetto di devoluzione sociale perseguito dal neoliberismo».

M.C.