Storia del giubileo 12: dal mercato delle indulgenze

Nel 1510, appena dieci anni dopo il giubileo del ‘500, un monaco tedesco di nome Martin Luther, un uomo religioso senza alcuna velleità rivoluzionaria, fece un pellegrinaggio a Roma, desideroso di arrivare per la prima volta nella città santa, il cuore della cristianità, la sede del successore di Pietro. Entrando in città, non fu particolarmente scandalizzato dall’immoralità del clero romano, né dalla vitalità espressa da una città trasformata in un immenso cantiere. Al contrario rimase colpito dallo splendore e dall’arte, lo stesso stupore che coglie, anche oggi, chiunque ammiri la bellezza di Roma, di San Pietro e delle grandi basiliche, costruite nei secoli con grande magnificenza e dovizia, anche se, quasi nessuno si ferma a considerae i costi umani in corruzione, versamento di sangue dei poveri, sfruttamento.

Luther in quei giorni celebrò la messa in San Pietro e non poté fare a meno di riflettere sul fatto che, mentre lui celebrava la sua, nella cappella accanto non meno di dieci preti si erano avvicendati per altrettante messe, unicamente perché ogni celebrazione veniva «retribuita».

Ritornando in Germania, si dedicò all’insegnamento, maturando sul piano teologico la sua coscienza di cristianesimo. Ridurre Luther a esempi esteriori o motivare la sua predicazione con fatti episodici, significherebbe sminuie la portata. La questione delle indulgenze è occasionale, ma la sua teologia va ben oltre il mercato che pure ci fu e fu indegno, corrotto, simoniaco e peccaminoso.

Le indulgenze

Il sistema delle indulgenze si era consolidato nel corso degli otto giubilei celebrati fino al 1500 e costituiva una fonte economica di grande portata perché il popolo vi ricorreva con l’ansia e il desiderio di commutare le pene post mortem per sé e per i propri defunti. L’amministrazione vaticana e anche locale se ne serviva come uno scrigno sempre aperto per finanziare opere pubbliche, guerre e interessi privati. Giulio II (1503-1513) nel 1507 e Leone X (1513-1521) nel 1514 avevano concesso l’indulgenza plenaria a chi, confessato e comunicato, avesse donato una somma di denaro per la costruzione della nuova basilica di San Pietro. In Germania, il commissario papale, Alberto di Brandeburgo, usò la metà del denaro raccolto con le indulgenze per sanare un debito personale con i banchieri Fugger di Augusta. Gli aneddoti potrebbero moltiplicarsi all’infinito, ma resterebbero comunque solo una piccola parte delle conseguenze che si potrebbero elencare dell’idea di salvezza presente nella teologia del tempo. Le indulgenze non possono trasformarsi in una trattativa a buon mercato per «comprare» la gratuità con cui Dio dona se stesso all’umanità. Con la «scoperta» del nuovo mondo, non può non nascere anche una «nuova Chiesa» che transita dal Medio Evo monolitico alla modeità pluralista.

Le famose tesi di Wittemberg (31 ottobre 1517) formulate da Luther altro non sono che la formalizzazione di questi interrogativi. Se Roma avesse avuto papi che, invece di dedicarsi alla caccia al cinghiale, avessero ascoltato il grido di dolore che saliva da tutta la Chiesa per una purificazione e riforma generali, lo scisma d’Occidente, forse, non si sarebbe consumato. Lo prova la stessa convocazione del concilio di Trento da parte di papa Paolo III (1534-1549) nel 1545. Il concilio, proprio con la condanna di Luther, di fatto gli dà ragione, perché risponde con la riforma della dottrina delle indulgenze e, sul piano strettamente teologico, s’interroga sulla «giustificazione», contrapponendosi a Luther più per motivi circostanziali ed estei che per contenuto dottrinale, come dimostreranno gli eventi di quattro secoli dopo, quando, rasserenati gli spiriti e fatto discernimento con intelligenza e sapienza storica, il 31 ottobre 1999 ad Augsburg in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa cattolica romana sarà firmata una «Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione1».

Dal concilio di Trento una lenta ripresa

Cinque anni dopo l’inizio del concilio di Trento, che durò diciotto anni fra altee vicende, nel 1550 ci fu il decimo giubileo della storia della Chiesa indetto da Paolo III. Papa rinascimentale, padre di molti figli naturali e nepotista non meno osceno di Alessandro VI, egli aveva capito la necessità di una riforma della Chiesa, ormai slabbrata da ogni parte, e a questo scopo nel 1542 aveva riorganizzato l’Inquisizione a difesa della purezza della fede che invece sarebbe riuscita solo a macchiarla ancora di più con le sue nefandezze e i suoi soprusi. Contemporaneamente aveva sostenuto i nuovi ordini religiosi: Teatini, Cappuccini, Baabiti, Somaschi, Orsoline e approvato l’ordine di Ignazio di Loyola, la Compagnia di Gesù, che avrebbe assunto il compito non facile di traghettare la religiosità dal livello della devozione emotiva a quello dell’intelligenza e del «discernimento spirituale». Durante questo giubileo, Filippo Neri inaugurò a Roma l’Ospizio di Trinità dei pellegrini. Intanto in Spagna, Teresa d’Avila fondava monasteri di clausura, femminili e maschili per riformare il monachesimo, ormai moralmente degenerato. Lei e Giovanni della Croce sarebbero stati vittime dell’Inquisizione che non avrebbe più distinto il grano dal loglio perché, accecata dall’ossessione dell’eresia e dal fatto di essere diventata strumento di epurazione nelle mani del potere politico di re e regine, vedeva fantasmi ed eretici in ogni dove.

Il fiammifero acceso da Luther dilagò in incendio in tutta Europa, dalla Germania, alla Svizzera, all’Inghilterra, ai paesi Scandinavi e fino al cuore del Regno pontificio, in città come Lucca, Viterbo, Modena e Ferrara, dove i libri dei «Riformati» circolavano ampiamente, nonostante l’ordine papale di consegnarli pena la morte. Nell’anno del giubileo del 1550, il 3 giugno, Roma visse per la prima volta il rogo di opere considerate eretiche. Se si arriva a bruciare un libro, pensando di eliminare un’idea o estirpare un sentimento, si può arrivare senza problemi di coscienza a bruciare le persone che quelle idee e quei sentimenti custodiscono nel loro cuore. Fece così l’Inquisizione. Faranno allo stesso modo tutti i totalitarismi seguenti fino al comunismo, al nazismo e al fascismo recenti. In questo giubileo, il papa Giulio III (1550-1555) si diede anche a manifestazioni goderecce, che amava particolarmente, come combattimenti di tori, carnevale sguaiato, banchetti, giochi, compreso quello d’azzardo. Nel mese di novembre del 1550, quasi alla chiusura del giubileo, il papa volle assistere a Castel Sant’Angelo alla rappresentazione di «Cassaria» di Ludovico Ariosto. Michelangelo Buonarroti, ormai ultrasettantenne, partecipò al giubileo, insieme al Vasari, con un’intensa spiritualità, visitando le basiliche prescritte con grande raccoglimento e devozione.

Gregorio XIII: il nuovo calendario

Il primo giubileo che possiamo definire, in qualche modo, «moderno», fu quello del 1575, aperto e chiuso dal papa bolognese e riformatore Gregorio XIII (1572-1585), il papa che introdusse il calendario «gregoriano» in sostituzione di quello «giuliano» in uso fino ad allora. A questo giubileo prese parte anche Carlo Borromeo, vescovo di Milano, forse il più grande fautore ed esecutore della riforma del concilio di Trento. Papa Gregorio diede una svolta al giubileo e alla vita della curia. Fu esempio non solo di austerità, ma specialmente di coerenza, cornordinando di persona il giubileo che volle «spirituale», senza distrazioni: proibì carnevale, feste e giochi pagani, volle che anche cardinali e preti fossero modello di vita per i fedeli, si curò dell’accoglienza dei pellegrini, preoccupandosi che avessero cibo e alloggio, vietando speculazione e aumento di prezzi.

La fine del concilio di Trento dodici anni prima (1563) e la nascita del Protestantesimo costrinsero la gerarchia cattolica più avveduta a mettere in atto una profonda riforma, ormai non più dilazionabile, che portasse i cuori e le strutture dal paganesimo cristianeggiante alla spiritualità evangelica. Avvenimenti come quelli accaduti nella notte tra il 23 e 24 agosto del 1572 – passata alla storia come la notte o il macello di San Bartolomeo -, quando a Parigi i cattolici, in nome di Dio e a sua gloria, macellarono gli Ugonotti protestanti, non sarebbero dovuti mai più accadere. Dal macello si salvò solo chi aveva al collo o sulla berretta una piccola croce d’argento, usata in passato dai pellegrini romei. Ciò dimostra come i simboli giubilari fossero diventati di uso comune nella vita quotidiana.

Se iniziava la riforma, questa non poteva che essere restaurazione sistematica del cattolicesimo latino che in quel momento storico si contrapponeva al Protestantesimo. Si misero in atto i decreti e la volontà del concilio di Trento, con strumenti pratici ed efficaci come l’obbligo del Breviario e del Messale per il clero, il Catechismo come testo di catechesi per sacerdoti diffusamente impreparati e incolti, l’istituzione dei seminari per la formazione dei futuri preti. Nel 1600 Clemente VIII (1592-1605), protagonista della pace di Versailles fra il re di Spagna, Filippo II, ed Enrico IV, re di Francia, indisse il giubileo senza arretrare minimamente nell’azione repressiva di cui fu prova la condanna di Giordano Bruno il 17 febbraio del 1600, quasi una inaugurazione dell’apertura della porta santa. Con il sec. XVII si entrò in una visione e cultura nuove, segnate dallo spirito del barocco con il senso del solenne, del maestoso e delle manifestazioni pompose come processioni e rappresentazioni teatrali tratte da esperienze di vita. Contro il Protestantesimo «comunitario», Roma diventò il centro sempre più «accentrato» della cristianità, esaltando la figura del papa fino a una sorta di culto della personalità. Se nel secolo dell’umanesimo, il XV, il papa era stato prevalentemente l’«Uomo Nuovo», attorniato da cortigiani e cortigiane di ogni specie, nel secolo della modeità egli diventò il successore di Pietro, il Vicario di Cristo, il «fondamento» dell’unità della Chiesa cattolica. S’intensificarono le «opere» anche per contrastare il «quietismo» che si era diffuso specialmente in Spagna come disposizione passiva dell’anima davanti a Dio, disposta a lasciarsi possedere dallo Spirito; s’incentivò la preghiera vocale per la «conquista» della grazia, e si contrastò l’orazione mentale e la mistica per paura di non poterle controllare. Miguel Molinos, esponente di una spiritualità in cui la grazia è vista come dono gratuito, dopo essere stato messo all’indice, sarebbe morto nelle carceri dell’Inquisizione nel 1696.

Una lenta e ordinaria decadenza

I successivi otto giubilei, dal 1625 (Urbano VIII, 1623-1644) al 1825 (Leone XII, 1823-1829), rientrarono in una routine ormai consolidata che vide l’affinarsi dell’aspetto spirituale e la diminuzione di quello politico, anche perché il papato entrò in una fase di lunga transizione che si sarebbe perfezionato con la perdita del potere temporale pontificio nel 1870, regnante Pio IX (1846-1878). La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 segnò la data ideale e ufficiale di annessione di Roma al Regno di Sardegna e di Piemonte, realizzando il sogno dell’unità d’Italia del Risorgimento. L’ultimo giubileo regolamentare fu quello del 1775 convocato da Clemente XIV (1769-1774) ma celebrato da Pio VI (1775-1799) con grande spreco di giochi pirotecnici e «macchine abbruciate davanti immenso pubblico», un carnevale più che un anno santo. Nel 1800, in pieno impero napoleonico, il giubileo non fu celebrato, a causa della sede vacante: il conclave riunito a Venezia, infatti, fu lungo e faticoso. Una volta eletto, Pio VII (1800-1823) rientrò in una Roma deserta di prelati e, per il 1801, concesse l’indulgenza giubilare senza l’obbligo di recarsi a Roma. Il 9 aprile del 1802 la concesse ai Francesi per commemorare il concordato tra Francia e Santa Sede, siglato dall’imperatore Bonaparte e dal cardinale Consalvi.

Leone XII (1823-1829) convocò il giubileo del 1825, iniziando una lotta impari contro «l’indifferentismo» religioso e le nuove idee, socialiste e liberali, che si assestavano in tutta Europa e ponevano il papa tra gli ultimi epigoni reazionari della storia, incapaci di leggere i «segni dei tempi» e di interpretarli alla luce del Vangelo. Nel corso dell’anno furono giustiziati Angelo Targhini e Leonida Montanari accusati di «carboneria». Di fronte al volgere della storia che travolgeva qualsiasi resistenza, i papi furono in grado solo di frenare il cammino della Chiesa per paura di perdere autorità e controllo sulle masse. Pio IX proseguì l’opera miope e oscurantista del suo predecessore, Gregorio XVI (1831-1846), che nell’enciclica Mirari Vos del 15 agosto 1832 aveva scritto:

«Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentirnero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione».

Povero papa, come poteva immaginare che appena 133 dopo, addirittura un concilio, il Vaticano II, lo avrebbe solennemente smentito, elogiando la libertà di coscienza dichiarata «incoercibile» da parte di qualsiasi potere? Il Vaticano II, con le firme dell’episcopato di tutto il mondo insieme al Papa, Paolo VI (1963-1976), il 7 dicembre 1965, con 2308 voti favorevoli e 70 contrari, approvando il decreto Dignitatis Humanae, solennemente avrebbe proclamato:

«Il Concilio Vaticano II dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà comporta che tutti gli uomini devono essere immuni da ogni costrizione da parte di individui, o gruppi sociali o di qualsiasi altro potere umano, di modo che nessuno sia costretto ad agire contro la propria coscienza» (Dignitatis Humanae, 2).

Pio IX, l’ultimo papa re

Ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere dal giorno che vide anche Pio IX fuggire da Roma verso Gaeta, nel 1850, anno in cui avrebbe dovuto indire il giubileo regolare. Il Papa aveva altro cui pensare e ripiegò concedendo l’indulgenza all’Italia e alla cattolicità, rinnovate in vari modi e tempi fino al 1869, quando con una solenne celebrazione, corredata da indulgenza plenaria, avrebbe voluto concludere il concilio Vaticano I che, su sua imposizione, doveva dichiarare il dogma dell’infallibilità pontificia. La scelta di non celebrare un giubileo specifico fu motivata dal fatto che Roma era occupata e non voleva ratificare, attraverso l’afflusso di eventuali pellegrini, l’atto di «usurpazione» da parte di Vittorio Emanuele e Cavour che egli scomunicò.

Nel 1875, Pio IX indisse il giubileo alla scadenza dei 25 anni, ma non aprì la porta santa in segno di lutto per la presa di Roma. Si limitò a concedere indulgenze e concessioni varie, espressioni più del terrore di sentirsi prigioniero in Vaticano che dell’evento giubilare. Impotente, dovette assistere alla demolizione della cappella del Colosseo da parte degli anticlericali risorgimentali. Se papa Lambertini (Benedetto XIV, 1740-1758) aveva incluso il Colosseo nel circuito giubilare come luogo dei martiri, ora lo stesso luogo era diventato il simbolo dell’insignificanza del papato che aveva intorno a sé solo nemici. Sarebbe stato un papa non italiano, il polacco Giovanni Paolo II (1978-2005), che nell’anno giubilare millenario del 2000, avrebbe preso di nuovo possesso del Colosseo, per fae il luogo della richiesta di perdono da parte della Chiesa davanti alla Storia per tutte le ingiustizie che nel corso dei secoli ella, per mezzo dei suoi figli e figlie, aveva compiuto. Questo però è un altro millennio e un’altra storia.

Paolo Farinella, prete
12, continua.

Note:

1- Per una informativa esauriente, cf. A. Maffeis, Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta cattolicoluterana, commento e dibattito teologico, Queriniana, Brescia 2000; A. Birmelé, Uniti sulla giustificazione, in Regno–Documenti 45 [2000] 127-136.




Storia del giubileo 11: santi putridume


Papa Sisto IV determinò una svolta nel papato e nella Chiesa per diversi motivi. Per la cronaca fu uno dei papi più nepotisti che la storia conosca, perché si circondò della numerosa sua famiglia alla quale concesse privilegi e cariche senza ritegno e misura. La sua elezione avvenne in odore di simonia a opera principalmente del nipote, Pietro Riario, figlio della sorella, che si prodigò con ogni mezzo affinché i voti dei cardinali si convogliassero sullo zio che, riconoscente, lo gratificò con il cardinalato, già nel primo concistoro, subito dopo l’elezione, insieme a diversi altri nipoti che ne condizionarono la vita e le scelte. Il giorno dell’incoronazione, fu assistito e intronizzato dal protodiacono Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, che l’avrebbe superato non solo in fatto di nepotismo, ma in ogni forma d’immoralità e indecenza.

Attese disattese

Sisto IV confermò il giubileo del 1475 con la cadenza dei 25 anni, in vista del quale intraprese grandi opere di ristrutturazione della città di Roma, trasformando in cantiere l’intero colle Vaticano. Fece costruire la Cappella più famosa del mondo, che, anni dopo, sarebbe stata affrescata da Botticelli e da Michelangelo, detta in suo onore «Cappella Sistina». Ripristinò il vecchio ponte romano, detto «ponte rotto» sul Tevere che da allora fu chiamato «Ponte Sisto»; rase al suolo e ricostruì più grande ed efficiente l’ospedale di Santo Spirito, fece costruire innumerevoli chiese e riorganizzò il sistema viario, anche per governare meglio i tumulti. Era diffidente di tutti e si narra che, non fidandosi di coloro che lo circondavano, per rendersi conto di quello che il popolo pensava realmente di lui, non poche notti si travestiva «da prete» per recarsi nelle tavee ad ascoltare dicerie e giudizi.

Il giubileo fu un completo fiasco perché, per le troppe guerre che infestavano l’Europa del Nord, non era affatto agevole muoversi e i pellegrini affollarono Roma solo in occasione della Pasqua. Tutte le derrate alimentari e i servizi approntati rimasero inutilizzati e furono una manna per il popolo romano perché i prezzi si abbassarono e la logica del «compri uno e porti (via) tre» divenne obbligatoria per potere almeno recuperare parte del denaro. Per ovviare a queste difficoltà il papa protrasse di un anno il giubileo, ma le condizioni di Roma si aggravarono a causa di piogge torrenziali che fecero straripare il Tevere. Roma fu così gravemente allagata e impraticabile da costringere il papa a trasferire alla città di Bologna le prerogative giubilari di Roma, dando un ulteriore colpo all’economia della città eterna. Concesse, inoltre, ai principi che erano in guerra la possibilità di lucrare le indulgenze del giubileo standosene a casa loro, ma a condizione che le offerte raccolte in quella occasione fossero tutte impiegate per finanziare la guerra contro i Turchi.

Alla fine, come ciliegia sulla torta, quasi a sancire una sfortuna senza fine, scoppiò ancora una volta la peste. Il papa, per paura del contagio, scappò con tutta la sua corte di nipoti e familiari da Roma che rimase con grandi opere in parte finite, in parte incompiute, ma senza giubileo di fatto, senza pellegrini e per giunta allagata e con la peste.

Ponte Sisto a Roma
Ponte Sisto a Roma

Dall’Immacolata all’Inquisizione

Sul piano religioso, Sisto IV fu il papa che con la bolla «Cum prœexcelsa» del 27 Febbraio 1477, istituì la festa dell’Immacolata Concezione, fissandola all’8 Dicembre; promosse la recita del Rosario e consacrò la Cappella Sistina a Maria Assunta. Sul piano storico, fu l’iniziatore, sebbene a malincuore, dell’Inquisizione spagnola, voluta a tutti i costi da Ferdinando II di Aragona che, avendo le casse vuote, cercava un modo indolore (per sé) per depredare il denaro degli Ebrei. La condanna, infatti, dell’Inquisizione per motivi di eresia, comportava anche la requisizione di tutti gli averi.

Uccidere in nome di Dio
Quando oggi si accusano i Musulmani di «usare il nome di Dio» per fare le guerre o utilizzare la religione per alimentare il terrorismo, sarebbe bene che ci fermassimo un poco e facessimo un esame di coscienza «storico» perché questo uso peccaminoso e blasfemo lo abbiamo praticato anche noi cattolici. Diciassette anni dopo il giubileo di Sisto IV, nel nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo si sarebbe imposto il battesimo con la spada: o l’acqua o la morte, sistema che dal 1507, anno della sua ordinazione e fino alla morte nel 1566, vide l’opposizione ferma del vescovo spagnolo Bartolomé de Las Casas, uno dei pochi che difese strenuamente, in nome del vangelo, i nativi delle colonie. I cattolicissimi regnanti di Spagna, Ferdinando e Isabella (costei si confessava ogni giorno), usarono la religione per ammazzare, trucidare e depredare gli Ebrei dichiarando guerra al popolo di Abramo solo per avidità di denaro. La Spagna per tutto il 1500 e 1600 – e successivamente anche l’Europa – sarebbe stata segnata da quella piaga purulenta che fu l’Inquisizione, la quale agì, condannò e uccise in nome di Dio, ma senza Dio e contro Dio. Non basta dire che bisogna leggere i fatti nel contesto del loro tempo perché ciò vale per le valutazioni ordinarie, ma di fronte all’uso del nome di Dio e della religione per giustificare la decisione di rubare le ricchezze altrui, c’è una scelta chiara, lucida e determinata di volere compiere un delitto immorale. Anche costoro nel 1500 leggevano il vangelo che è limpido e chiaro, come acqua di sorgente, allora come oggi.

Vittima di questa malvagità cattolica, macchia peccaminosa approvata da papi e vescovi che resterà indelebile fino alla fine della storia, furono anche san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila, nipote di un ebreo, costretto a convertirsi per salvare la vita della propria famiglia. Teresa d’Avila disprezzerà l’Inquisizione, da cui per altro fu sfiorata, e difenderà il suo compagno di fede e padre spirituale, Giovanni della Croce, usando un linguaggio cifrato, come si evince dai suoi scritti, per esprimere tutto il suo disprezzo e la sua amarezza. Alcuni suoi manoscritti furono bruciati.

Sisto IV, sostenuto dal suo vice cancelliere, Rodrigo Borgia (futuro Alessandro VI), non voleva l’Inquisizione, ma cedette al ricatto del re «cattolicissimo» di Spagna, e il 1 Novembre 1478 emanò una bolla con cui istituiva un inquisitore non in tutta la Spagna, ma solo nella regione di Siviglia, cioè la regione che interessava i cattolicissimi sovrani. Una volta aperto, il vaso di Pandora non può più essere richiuso. Forti di questa licenza, Re Ferdinando e Isabella di Castiglia, ottennero l’autorizzazione di nominare inquisitori di loro fiducia. Il temibile Torquemada fu da loro nominato inquisitore generale e Sisto IV dovette pure lui riconoscerlo e approvarlo.

Papa Borgia e l’invenzione delle «Porte Sante»

sala_dei_misteri_resurrezione_con_alessandro_vi_02Frattanto, sulla scena della chiesa si affacciavano due tragiche figure che avrebbero condizionato la Chiesa in modo che l’eco arriva fino a noi. Da una parte la figura triste e nevrotica di Girolamo Savonarola (1452-1498), che, ubriaco di un modello teocratico di città, predicava solo sventure e distruzione in chiave apocalittica; dall’altra quella comica e immorale di Rodrigo Borgia, catalano trapiantato a Roma ed eletto papa nel 1492, l’anno che con l’avventura di Cristoforo Colombo avrebbe cambiato non solo il volto ma anche il modo di pensarsi del mondo intero.

Egli assunse il nome di Alessandro VI (1431-1503), passato alla storia come uno dei papi più lascivi e corrotti, a cominciare dalla sua elezione al soglio di Pietro che fu contrattata dai suoi scherani, manovrati dal figlio Cesare, con emissari di cardinali greci e francesi «apud latrinas». Il conclave che lo elesse fu il primo ad essere celebrato nella Cappella Sistina, già affrescata da Botticelli, Perugino e Ghirlandaio. Papa Alessandro VI, tra i suoi innumerevoli figli, ne riconobbe ufficialmente almeno due, Cesare e Lucrezia, avuti da Vannozza Cattanei, locandiera romana, sua amante per quasi venti anni. Stanco di lei, l’abbandonò sostituendola con Giulia Faese, sorella del futuro papa Paolo III. Poiché era disdicevole dire pubblicamente che il papa avesse dei figli, la curia romana che ne sa sempre una più del diavolo, escogitò il sistema di presentare Cesare o Lucrezia Borgia ai diplomatici e nelle udienze pubbliche come «nipoti di un fratello del papa»: il papa aveva veramente un fratello e così salvata la capra della verità, si potevano tranquillamente salvare anche i cavoli della formalità, mandando in malora ogni residua moralità.

Il Giubileo del 1500, che apriva un nuovo secolo e si apriva anche sul nuovo mondo (scoperto solo otto anni prima da Cristoforo Colombo, «raddoppiando» il mondo esistente), fu carico di grande significato simbolico e Alessandro VI, da fine diplomatico e oculato amministratore qual era, vi prestò la massima attenzione e lo curò con particolare dedizione. Intanto per la prima volta il papa approvò un rituale scritto che prevedeva l’apertura di quattro porte sante nelle quattro Basiliche papali: San Pietro (che era ancora un cantiere), San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura. Ancora oggi, mutatis mutandis, è il rituale in uso. Il mondano Papa Borgia non poteva non pensare il giubileo come un teatro, in cui l’elemento spirituale passava in seconda linea per diventare una rappresentazione «visiva» del papato e del suo splendore. Il punto centrale dell’inaugurazione giubilare fu l’apertura della porta, accompagnata da fuochi di artificio, da giochi, da feste e da ogni forma di divertimento perfino dentro il palazzo apostolico, avendo bandito ogni forma di austerità e penitenza.

Il Giubileo del sollazzo

Papa Borgia inventò anche il recupero del Colosseo che da allora divenne letteralmente teatro di manifestazioni spettacolari. Per il 1500 egli incaricò l’arciconfrateita del Gonfalone di rappresentarvi la passione del Signore e le passioni dei martiri, permettendo contemporaneamente al figlio Cesare di organizzare una spettacolare festa di carnevale, in pieno anno santo, arricchita da una grandiosa parata militare. Nella quaresima del 1500, papa Alessandro VI dovette recarsi a Piombino e per l’occasione radunò tutte le donne e le ragazze più belle della cittadina toscana per fare baldoria e mangiare carne, con disprezzo delle regole liturgiche che regolavano in modo rigoroso il digiuno quaresimale, verso il quale il popolo era molto sensibile. Lo scandalo fu grande.

Probabilmente nello stesso anno santo del 1500, presente il papa e quindi questi consenziente, Cesare Borgia diede uno spettacolo che sarebbe rimasto come un marchio indelebile sull’abisso di abiezione che distinse non solo il papa catalano, ma anche tutta la sua disonorevole famiglia, anche per la data scelta.

«… A saggio della profonda sua immoralità e del suo cinismo, basti dire che una volta (era il dì di Ognissanti) Cesare Borgia convittò nel palazzo pontificio cinquanta meretrices honestae, cortigianae nuncupatae [prostittute oneste (in possesso di permesso di esercizio), dette cortigiane], come dice monsignor Burcardo; poi le fece danzare ignude co’ servitori e con altre persone; poi altri osceni spettacoli, che furono rappresentati alla presenza del papa e della Lucrezia sua figlia … E si può conchiudere che la corte del vicario di Dio non era meno laida di quella di Nerone» (Bianchi-Giovini, 1860, 32-33.42).

Le innovazioni giubilari introdotte da Alessandro VI non ebbero nulla di spirituale, ma furono tutte esteriori, superficiali e immorali come i suoi comportamenti e in quelli della sua corte. Forse queste mondanità avevano lo scopo di distrarre le popolazioni dalla guerra con i Turchi che, in lotta con Venezia, scorrazzavano in Friuli, giungendo a lambire Vicenza, anticamera della Repubblica veneta. Tra il 1415 e il 1500 vi furono non meno di nove incursioni che diffusero il panico non solo in quelle regioni, ma in tutta l’Italia del Nord. Nel 1503 Papa Borgia morì. Il suo cerimoniere annota che «morì con i sacramenti». La sua salma gonfiò così tanto che la bara non riusciva a contenerlo: i necrofori furono costretti a chiuderlo dentro a forza.

Lutero alle porte

Se, da una parte, il sec. XVI è il secolo del Rinascimento che nella letteratura, nelle arti, nella scoperta degli autori greci e nella scienza appena agli esordi (medicina, astronomia, architettura, navigazione, ecc.) trova il massimo del suo splendore, dando inizio veramente «a un nuovo mondo» anche in Europa, dall’altra parte per la Chiesa fu una catastrofe perché fu il secolo delle maggiori nefandezze, con Papi che avevano sostituito il senso del vangelo con lo spirito del mondo, incarnando «quel mondo» per cui Cristo stesso non aveva voluto pregare (cf Gv 17,9).

Cosa era successo? La Chiesa di Cristo, la sposa senza macchia, fu oscenamente mostrata agli occhi lubrichi del mondo immersa nella corruzione di ogni livello, nelle trame più oscure finalizzate al mantenimento del potere. I papi furono solo mecenati per la loro vanagloria e l’interesse delle loro famiglie, crocifiggendo  il Cristo non una, ma dieci, cento, mille volte. I rappresentanti di colui che, scalzo, portò la croce per essere scannato come agnello per i peccati del mondo, scelsero la mondanità, incuranti del popolo e della fede. Essi furono papi miscredenti perché di tutto si curavano tranne che di essere fedeli al loro mandato.

I giubilei persero il loro senso spirituale e divennero occasione per «grandi affari», funzionali al papa di tuo che li usò come arma di potere e sollazzo della corte. Non a caso la Chiesa e il mondo si trovavano alla vigilia della reazione di Martìn Lutero, che, fattosi voce della necessità di una «rifondazione» della Chiesa, avrebbe acceso la miccia di una deflagrazione senza pari: nel 2017 ricorrono i 500 anni dell’affissione delle «95 tesi sulle indulgenze» di Lutero, avvenuta il 31 Ottobre 1517 alla porta della Chiesa del castello di Wittemberg. Fu l’inizio della Riforma Luterana (Protestantesimo) e il principio del fallimento del papato.

Paolo Farinella, prete
(11, continua)

 




Storia del Giubileo 10. Reliquie e corruzione


Nella puntata precedente abbiamo descritto come l’istituto del giubileo da evento eccezionale, pensato a cadenza secolare da Bonifacio VIII, fosse diventato una tradizione elastica che ogni papa decideva di cadenzare secondo la sua personale esigenza o visione teologica.

La giostra dei Papi

Dopo la morte di Bonifacio IX (1404) e il breve ma turbolento pontificato di Innocenzo VII (Cosimo de’ Migliorati), durato appena due anni (1404-06), fu eletto papa di Roma Gregorio XII (Angelo Correr, 1335-1417). Per risolvere lo scisma che era fonte di confusione (basti pensare che Santa Caterina da Siena era fedele a Roma, mentre San Vincenzo Ferrer riconosceva il papa di Avignone), molti cardinali sia fedeli a Roma, sia fedeli ad Avignone, si riunirono a Pisa nel 1409, deposero il papa Gregorio XII e l’antipapa Benedetto XIII con l’accusa di scisma ed elessero un nuovo papa che assunse il nome di Alessandro V (Pietro Filargo, 1339-1410), che, come prima mossa papale, promise un nuovo giubileo per l’anno 1413, ma non visse abbastanza per realizzarlo.

Morto Alessandro, elessero Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa, 1370-1419) che a tutti gli effetti fu considerato antipapa, perché eletto essendo ancora vivo il papa legittimo, Gregorio XII, che era stato deposto in modo illegittimo. Si creò una situazione paradossale: i papi eletti da quella che passò alla storia come «l’obbedienza di Pisa», invece di risolvere lo scisma, lo aggravarono così tanto da sprofondare la Chiesa per sei anni dalla padella della sventurata «dualità» alla brace della «maledetta triplicità». Non più due, ma tre papi si contendevano la successione di Pietro. Gregorio XII rinunciò al pontificato nel 1415, sperando che anche l’antipapa Benedetto XIII di Avignone facesse lo stesso, ma questi si rifiutò, anzi sul letto di morte costrinse i pochi cardinali a eleggere il successore, Clemente VIII. Questi accortosi di essere diventato ormai ridicolo, rassegnò le dimissioni, riconoscendo il papa di Roma. Nel frattempo non un conclave, ma direttamente il concilio di Costanza, nel 1417 all’unanimità scelse Martino V (Oddone Colonna 1368-1431), il quale toò a Roma e in omaggio alla norma della memoria dei 33 anni di Cristo, indisse il giubileo per l’anno 1423.

Giubilei della redenzione ballerini.
Il giubileo di Martino V sarà l’ultimo della serie dei «33 anni», perché Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455, nato a Sarzana, Genova), il suo secondo successore, riportò l’anno santo alla scadenza del cinquantesimo anno, abolendo quella dei 33 anni. Il giubileo di Martino V sarà così l’ultimo della serie della «redenzione», fino al 1933, quando un nuovo anno santo sarà indetto da Pio XI (Achille Ratti, 1857-1939) per celebrare la ricorrenza centenaria della redenzione; questo evento, con la stessa motivazione, si ripeterà ancora una volta, nel 1983, anno giubilare indetto da Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a, 1920-2005) in omaggio al 1950° anniversario della redenzione di Cristo.

Curiosità e dimissioni.
Dopo l’antipapa Giovanni XXIII, per cinque secoli, nessun nuovo papa assunse quel nome, come se fosse un nome maledetto. Fu il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, che, eletto papa (28 ottobre 1958), da fine storico, non si lasciò impressionare, ma decise di assumere il nome di Giovanni XXIII, ponendo fine definitivamente alla discussione sugli antipapi. Eletto come papa di transizione per fare decantare il lungo e ingombrante pontificato di Pio XII, Roncalli smentì le attese di tutti e, volando alto sulle ali dello Spirito, diede inizio al concilio Vaticano II che cambiò il volto e il cuore della Chiesa.
Nella serie dei papi, Gregorio XII (Angelo Correr), fu il settimo papa ad avere rinunciato o ad essere stato costretto a rinunciare. Prima di lui rinunciarono Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI e, ultimo e più famoso tra tutti, Celestino V, predecessore di Bonifacio VIII. Dopo di lui, si ebbe solo la linea ufficiale e legittima dei papi di Roma e occorrerà aspettare 598 anni per vedere un papa rassegnare le dimissioni, questa volta non costretto da altri, ma liberamente per sua scelta, come fece Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger.

Clero alla berlina

Il giubileo del 1423, il primo di una chiesa riunita dopo lo scisma, porta un flusso straordinario di pellegrini a Roma da fare dire ai cronisti dell’epoca che Roma viene invasa «da sterco, sporcizia e pidocchi», conditi da una forte speculazione, se è vero che il papa emana un editto con cui vieta di far pagare più di 25 fiorini per la pigione nel quartiere di Parione «in occasione del giubileo oppure di un concilio celebrato a Roma o in occasione dell’arrivo dell’imperatore». In questo giubileo per la prima volta si apre «una porta santa» al Laterano (per la cronaca questa porta non è mai stata identificata), come varco apposito per il passaggio dei pellegrini. Finito l’anno santo, esso viene murato con dentro un bricco d’oro (a futura memoria).

La mancata riforma della Chiesa, voluta dal concilio di Costanza e non riuscita, specialmente quella attinente il clero che aveva una vita morale indecente, oltre alla sporcizia e ai pidocchi, alimentò un sentimento anticlericale e uno scollamento profondo tra popolo e clero. Della decadenza del clero si occupò anche la letteratura: le «Trecento novelle» di Franco Sacchetti (+ 1400ca.) portano al parossismo l’immoralità del clero e del mondo religioso. In forma più contenuta, questa feroce satira era stata iniziata una cinquantina di anni prima da Boccaccio con il «Decameron».

Se per i pellegrini del popolo, per lo più sentimentali e analfabeti, i giubilei erano l’occasione per fare incetta d’indulgenze allo scopo di evitare l’inferno dopo la morte, per il clero e le istituzioni, essi erano anche un grande fattore economico perché portavano a Roma un grande flusso di denaro e si sa bene che dove c’è la carogna i corvi abbondano. Il popolo di Dio, in ogni tempo, sarà pure ignorante, ma ha fiuto e giudica quello che vede e valuta comportamenti e atteggiamenti, e quasi sempre non sbaglia. Facendo le debite proporzioni, si può applicare qui il principio teologico tanto caro a Papa Francesco: «L’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina» (Antonio Spadaro, S.I., a cura di, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, n. 3918 [15 settembre 2013], 459). Il popolo dei giubilei, è un popolo caricato dai preti con mille paure, ma anche un popolo semplice, di una elementare religiosità, capace di distinguere il messaggio dagli strumenti inadeguati.

Una testimonianza agghiacciante.
«L’umanista Poggio Bracciolini, inorridito delle devianze morali del clero romano, scrisse al cardinale Giuliano Cesarini (+1444) che lo esortava a prendere gli ordini sacri: “Non voglio divenire sacerdote, non voglio benefici; ne vidi già moltissimi, che ritenevo uomini buoni… divenire, dopo aver assunto il sacerdozio, avari, non più dediti alla virtù, ma all’inerzia, all’ozio, al piacere. Timoroso che qualcosa del genere accada anche a me, ho deciso di concludere lontano dal vostro ordine ciò che mi rimane di vita terrena; vedo chiaro infatti, dalla tonsura dei sacerdoti che non sono solo i capelli a venir loro rasi ma anche la coscienza e la virtù”. Poggio Bracciolini era un intellettuale laico» (Mezzadri, 79).

Reliquie a gogò e fanatismo

Papa Martino V favorì il culto delle reliquie che fece esporre in tutte le chiese come mezzo per alimentare il desiderio del popolo per una chiesa più spirituale, scavalcando così il clero che, forse, lo stesso papa considerava un impedimento e quasi mettendosi direttamente in contatto con la chiesa dei semplici. Questo processo di spiritualizzazione culminò nel 1430, sette anni dopo il giubileo, quando la pietà popolare trovò una grande spinta nella traslazione a Roma delle reliquie di santa Monica, madre di sant’Agostino, durante la quale il papa tenne un sermone commovente. Purtroppo però, quando il desiderio di purificazione è abbandonato solo alla pietà popolare, è inevitabile che si creino mostri e si dia inizio a un irrigidimento moralistico che porta anche i santi a commettere delitti in nome della purezza della religione. Chiuso il giubileo della redenzione, che avrebbe dovuto imporre pensieri di misericordia e di perdono, sorse un movimento spontaneo assetato di «segni» visibili come armi per combattere il male che deve essere estirpato alla radice, senza più la logica della parabola del grano e della zizzania che mette a fuoco la pazienza come intrinseca caratteristica di Dio (cf Mt 13,24-30). Per istigazione di san Beardino prese vita e struttura «il rogo delle vanità» sulla piazza del Campidoglio, dove non si esitò nemmeno a bruciare viva una certa Finicella, accusata di essere strega:

«In quell’anno [1424] frate Beardino (di Siena, ch’era un buon frate) fece ardere tavolieri, canti, brevi, sorti, capelli che fucavano le donne, et fu fatto uno talamo di legname in Campituoglio, et tutte queste cose ce foro appiccate, et fu a 21 di iuglio.
Et dopo fu arsa Finicella strega, a di 8 del ditto mese di iuglio, perché essa diabolicamente occise de molte criature et affattucchiava di molte persone, et tutta Roma ce andò a vedere. Et fece frate Beardino in Roma de molte paci, et de molti abbracciamenti; et benchè ce fusse stato homicidio… et fece fare altre opere buone, sicchè da tutti era tenuto per sant’uomo». (Istituto storico Italiano, Fonti per la storia d’Italia, a cura di  Oreste Tommasini, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, Forzani e C. tipografi del Senato, Roma 1890).

Il papa mecenate

Dopo Martino V, papa della potente famiglia Colonna, venne eletto il veneziano Eugenio IV (Gabriele Condulmer, 1383-1447) che fu costretto a fuggire a Firenze, perché scacciato dai romani aizzati dalla famiglia Colonna. Dopo di lui salì al soglio pontificio Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455) che fu il vero primo papa mecenate, immerso, corpo e anima, nei nuovi tempi, diventando egli stesso non solo un protagonista, ma addirittura promotore di quell’umanesimo che Martino V di fatto detestava. Con il suo temperamento condiscendente e mai pungente, seppe guadagnarsi la stima e la simpatia di tutte le nazioni europee che gli riconobbero un’autorità morale e politica che prima di lui nessun papa ebbe in così alto grado.

Di fatto, il pontificato di Niccolò V risultò il collo d’imbuto del passaggio definitivo nel «nuovo mondo», chiudendo per sempre il Medio Evo ed entrando nel Rinascimento. Come ogni periodo di transizione, questo passaggio fu attraversato da una serie di problemi gravi e profondi come la corruzione, l’ipocrisia elevata a sistema di governo. Il clero ignorante e avaro, era inadatto alla propria missione, con una simonia diffusa in modo nauseante oltre ogni misura. Pullulavano eresie in ogni dove, come espressione di libertà e occasione d’inganno; era anche un modo per affermare la propria indipendenza non solo dal clero, ma anche dal concetto stesso di società teocratica che si dissolveva di fronte all’ideale «homo novus» che tutti sentivano e percepivano sia psicologicamente sia culturalmente e chi ne pagava le spese inevitabili fu il senso religioso che apparve come ostacolo al nuovo perché rappresentativo del vecchio.

Signori, le corti…

Le alte gerarchie come i cardinali si circondavano di corti personali pullulanti di letterati, filosofi, pittori in cerca di protettori paganti, ma anche come portatori dello spirito del nuovo mondo che era già iniziato. Nel 1449 il papa emanò una bolla con cui indisse per il Natale dello stesso anno l’inizio del giubileo del 1450. Si mise in moto un vero cantiere in tutta Roma per abbellire palazzi, chiese e ristrutturare quartieri, dando impulso a un entusiasmo collettivo contagioso. L’afflusso di pellegrini fu immenso, da ogni parte d’Europa e anche di fuori, convenivano a Roma pellegrini e ciascuno cantava e pregava nella propria lingua, dando l’impressione plastica di rivivere la Pentecoste narrata nel libro degli Atti al capitolo 2. Questa folla era ansiosa di partecipare all’apertura della porta santa di quello che fu definito «l’anno d’oro», anche perché in tutto il mondo cristiano Niccolò V era l’unico papa riconosciuto universalmente e non solo perché era rimasto senza più antipapi (l’ultimo fu Felice V, morto nel 1449), ma perché la sua autorevolezza morale era di dominio pubblico.

Poiché la folla era tanta da non potere essere gestita, il Papa concesse che la reliquia del Volto Santo della Veronica fosse esposta ogni domenica, le teste dei santi apostoli Pietro e Paolo, ogni sabato e, per permettere ai pellegrini di andarsene prima da Roma, perché veniva a mancare il pane, ridusse a soli tre giorni le visite alle chiese giubilari così che, lucrata l’indulgenza plenaria, molti potessero ripartire, avendo soddisfatte le esigenze del giubileo e alleggerendo i problemi di Roma.

Era inevitabile che nelle condizioni igieniche impossibili e senza controllo, scoppiasse la peste che fece molte vittime, anche tra i parenti del papa, il quale, terrorizzato, scappò da Roma per stabilirsi a Fabriano. Riferisce Vespasiano da Bisticci, un umanista e bibliofilo fiorentino, che «La corte di Roma è miseramente sparita e dispersa… Cardinali, vescovi, abati, monaci, ogni sesso, niuno eccettuato, tutti fuggono da Roma come Apostoli da nostro Signore durante la sua passione» (Mezzadri, 94-95).

Il successivo giubileo si celebrò nel 1475 perché il veneziano Pietro Barbo eletto papa col nome di Paolo II (1417-1471) portò la cadenza giubilare a venticinque anni, senza poterlo nemmeno inaugurare: a causa di una scorpacciata di meloni morì di apoplessia e il giubileo restò solo annunciato. Gli succedette il Francesco della Rovere, francescano dell’ordine dei Minori, che assunse il nome di Sisto IV (1414-1484) che determinò una svolta nella vita del papato e nella geografia della città di Roma, divenuta un cantiere a cielo aperto che ne trasformerà definitivamente la struttura e l’impianto.

Paolo Farinella, prete
(10, continua)

 

 




Storia del Giubileo 9. Il giubileo dei papi di Avignone


Se consideriamo complessivamente il suo pontificato nel contesto reale del suo tempo e liberi dai condizionamenti danteschi e dalle esemplificazioni superficiali, Bonifacio VIII (1235-1303, pontefice dal 1294, ndr) fu un papa di grande spessore politico e, dal suo punto di vista, anche religioso. Affrontò la modeità, che ormai si apriva inesorabile, con una visione della propria funzione molto teocratica, e questo, probabilmente, gl’impedì di essere l’anello di passaggio tra il Medio Evo e l’era modea. Ci vorranno quasi due secoli di transizione e di assestamento fragile e complesso prima di entrare nel vortice del secolo d’oro che darà sfogo e splendore all’umanesimo come oscuramento della teocrazia. Il papato, dopo Bonifacio, ridusse sempre di più la propria autorità e la propria sfera d’influenza, con altee vicende, ma inesorabilmente.


Chi volesse approfondire la conoscenza di Bonifacio VIII, anche in rapporto a Dante e Petrarca, al di là delle valutazioni stereotipe e scontate imparate sui banchi di scuola, basate sul giudizio superficiale di Francesco De Sanctis, può ascoltare in mp3 le due conferenze del prof. Enrico Fenzi, tenute, appositamente in vista di questa ricerca, nella chiesa di San Torpete in Genova, con i seguenti titoli e date: 1. «Petrarca alle origini dell’Europa» (08-03-2016) e 2. «Dante e Bonifacio VIII, Religione e potere, ieri e oggi» (22-03-2016), reperibili nel sito www.paolofarinella.eu, cliccando su Blog e poi su Audio, scorrendo la pagina fino al titolo interessato.


L’esilio dei papi: Avignone

A Bonifacio VIII, succedette Benedetto XI che campò solo nove mesi da papa, per cui non lasciò traccia. Alla sua morte il conclave si riunì a Perugia e, dopo undici mesi di trattative serrate (quando si dice che è lo Spirito Santo a eleggere i Papi!), fu eletto il francese Bertrand de Got, col nome di Clemente V. Questi, succube del re di Francia, Filippo IV (detto il Bello), nel 1313 trasferì la sede del papato in Francia, nella cittadina di Carpentras, da cui nel 1316 il suo successore, Giovanni XXII, la trasferì definitivamente ad Avignone. Ebbe inizio così quella che Francesco Petrarca, fine diplomatico e per questo ambasciatore di Firenze ad Avignone, definì «la cattività avignonese», durata 70 anni e contro la quale si schierò, in modo particolare, Santa Caterina da Siena.

Per la cronaca, se Bonifacio VIII aveva trasformato il copricapo papale in «tiara», oandola con due corone regali, simbolo del potere spirituale e terreno, ambedue nelle mani del successore di Pietro per volontà divina. Clemente V, da parte sua, aggiunse le due infule posteriori, cioè le due strisce di stoffa pregiata poste dietro la nuca, cadenti dalla tiara sulle spalle, con l’effetto plastico di trasformare il papa in un faraone fuori tempo massimo.

Dal 1348 al 1353 in Europa imperversò la peste, dovuta al trasferimento della pulce da topo a uomo (Yersinia pistis), che fece in tutto il mondo 100 milioni di morti su un totale di 450. L’Europa si spopolò passando da un totale di 70 milioni di abitanti a 45 (ne morirono il 35,71%). Una delegazione romana, guidata da due delle più importanti famiglie, Colonna e Orsini, si recò ad Avignone per consegnare al papa l’omaggio della città eterna e le insegne cittadine. Nel comitato era presente anche un giovane romano, Cola di Rienzo, che fece impressione al pontefice per il modo formale di trattare, da vero diplomatico, ma anche per i contenuti e le ragioni addotte a favore di Roma.

Tra le richieste al papa vi era anche l’indizione di un Giubileo per il 1350. Clemente VI, che prese tutte le precauzioni del caso riguardo alla peste, si guardò bene dal mettersi in viaggio per ritornare a Roma, ma benevolmente concesse il Giubileo con la bolla «Unigenitus Dei Filius», accompagnandola con una lettera in cui spiegava perché avesse deciso di accorciare l’intervallo tra un giubileo e il successivo, portandone la scadenza da 100 anni a 50 e dilungandosi nella spiegazione del significato delle indulgenze, nel tentativo di giustificarle dal punto di vista teologico.

Nasce la devozione del Volto Santo della Veronica

Il Sacro Volto di Manoppello.
Il Sacro Volto di Manoppello.

Il 2° giubileo della Chiesa, svoltosi nel 1350, non fu inaugurato dal papa, ma da un suo delegato che non attraversò porte sante, ma impose di aprire, nel giorno stabilito, le porte delle chiese di Roma. Dicono le cronache dell’epoca che tra il popolo e i vari quartieri girassero «bolle papali false» per accreditare questa o quella chiesa, come Santa Maria Maggiore o San Lorenzo fuori le mura, che non erano nel circuito delle chiese giubilari. Nel 1349, quasi come un presagio nefasto sulla Chiesa, Roma fu colpita da un terremoto che però non impedì un afflusso di pellegrini tale da far dire a un testimone, il giullare Duccio (Jacobuccio da Ranallo), che vi era ressa «sanza romori o zuffe», quindi devota e ordinata. Come in ogni evento di massa, anche in occasione del giubileo, si mise in moto l’astuzia truffaldina dei romani che ne approfittarono spennando i pellegrini incauti, cui vendevano posti per dormire che avevano già venduto ad altri e gonfiavano i prezzi.

Vi furono pure tentativi di speculazione, anche simoniaca (vendere cose spirituali, sacramenti o assoluzioni in cambio di denaro), tanto che il papa arrivò a fare «assoluto divieto di esigere, chiedere o ricevere, per sé o per un altro, a motivo della confessione, dell’assoluzione o di qualsiasi altro officio, del denaro, anche se offerto spontaneamente, o sotto forma di elemosina o in qualsiasi altro modo» (Mezzadri, 52). Logicamente vi furono contrasti e resistenze che portarono a una dura repressione, con la revoca delle nomine anche a personaggi di rilievo e in alcuni casi arrivando all’arresto. Lo stesso capitolo dei canonici di San Pietro che avevano bisogno di denaro per riparare i danni del terremoto, si opposero al papa fino al punto di assaltare fisicamente «l’altarario» (tesoriere delle offerte lasciate all’altare dai fedeli) della Basilica, Giovanni Castellani, ferendolo gravemente. Da quel momento, per impedire altri episodi di questo genere, il papa emanò un decreto con cui riformò minuziosamente tutta la pratica delle offerte lasciate dai pellegrini e dai fedeli.

Durante giubileo del 1350 iniziò una «tradizione giubilare» che proseguì con enorme successo nei giubilei successivi: l’esposizione del sudario del Santo Volto della Veronica, con l’effige del Signore durante la via crucis. Questa esposizione diventò quasi un «sigillo» giubilare, perché invitò i pellegrini a rispecchiarsi nel volto sofferente di Cristo (cf Dante, Par. 31,108), come magistralmente illustrò Petrarca nel celebre sonetto sedicesimo del Canzoniere dal titolo «Movesi il vecchierel canuto et bianco», dedicato al pellegrino tipo che «viene a Roma, seguendo ‘l desio, / per mirar la sembianza di Colui / ch’ancor lassù nel ciel vedere spera». Una testimone d’eccezione di questo giubileo fu Brigida di Svezia (canonizzata nel 1391, ndr) che giunse a Roma nel 1349 con un numeroso seguito, ricevendo un’immagine negativa della città, e in modo particolare del clero romano. Ella fondò una congregazione religiosa, detta delle Brigidine, con l’obbiettivo di accogliere e dare ospitalità ai pellegrini svedesi giunti a Roma.

Come in ogni evento importante, anche in questo giubileo si crearono le condizioni per fare «figli e figliastri», e, infatti, il papa concesse a sovrani, politici e ordini religiosi il privilegio di lucrare le indulgenze senza doversi mettere in viaggio per Roma, e quindi senza fatica e, cosa più importante, senza rischi di viaggi pericolosi nelle condizioni del tempo. Per tacitare le proteste contrarie, il papa escogitò il sistema dell’indulgenza «ex post»: coloro che non avevano potuto partecipare al pellegrinaggio, potevano averla «a posteriori» con gli stessi effetti di quella ricevuta nella città di Pietro.

Il ritorno del Papa a Roma con papi e antipapi

Tra il 2° e il 3° giubileo, avvenne un fatto determinante per la vita della Chiesa, dietro impulso non solo della popolazione romana, ma particolarmente di Caterina da Siena. Il 13 settembre 1376 papa Gregorio XI attraversò il ponte sul Rodano per tornare a Roma ponendo fine definitivamente alla «cattività avignonese». Da Marsiglia fece scalo a Genova, dove per poco non si pentì, tentato e istigato dai cardinali del sacro collegio che non avevano alcuna intenzione di tornare a Roma, anche a causa delle notizie di disordini che giungevano da quella città e della notizia della sconfitta delle truppe pontificie da parte dei fiorentini. Caterina seppe convincere il papa, rassicurandolo che ritornare nelle sede di Pietro fosse la volontà di Dio che lo avrebbe assistito con certezza e preservato da ogni pericolo.

Alla morte di Gregorio XI, il conclave del 27 marzo del 1378 fu assediato dal popolo romano che gridava: «Romano lo volemo, o almanco italiano». Il collegio dei cardinali, temendo per la propria incolumità, elesse il cardinale Bartolomeo Prignano che prese il nome di Urbano VI. I cardinali francesi, però, il 20 settembre dello stesso anno, ci ripensarono e dichiararono non legittima l’elezione di Urbano. Riunitisi a Fondi, presso Latina, elessero un altro papa col nome di Clemente VII che però, con i cardinali suoi elettori, fu costretto a fuggire ad Avignone, dando origine allo «scisma d’occidente» con due papi. Caterina da Siena si schierò con Urbano VI.

In questo clima giunse il giubileo del 1390 che nell’intenzione di papa Urbano avrebbe dovuto favorire la fine dello scisma e l’unità della Chiesa. Egli introdusse una novità di rilievo: ridusse ancora gli anni che intercorrevano tra un giubileo e l’altro. Con la bolla «Salvator noster unigenitus» (aprile 1389), in memoria degli anni di Cristo Signore, portò il tempo a 33 anni. Partendo, però, dal 2° giubileo del 1350, l’anno computato con il nuovo sistema sarebbe stato il già passato 1383. Il papa, in via eccezionale, concesse che si celebrasse nel 1390, confermando l’inclusione della Basilica di S. Maria Maggiore tra le Basiliche giubilari. Urbano VI non fece in tempo a celebrare il suo giubileo perché morì il 15 ottobre 1389.

Gli succedette Pietro Tomacelli che, assumendo il nome di Bonifacio IX, volle proseguire nella stessa linea del papa del 1° giubileo per affermare l’autorità della Chiesa e la sua totale indipendenza dal regno di Francia. Bonifacio fu l’unico papa che celebrò ben due giubilei: quello indetto dal suo predecessore, nel quale introdusse un’innovazione che avrà successivamente molto successo: la canonizzazione di santa Brigida, la pellegrina del giubileo del 1350, e il «suo», perché egli, smentendo la bolla di Urbano VI che cadenzava i giubilei ogni 33 anni, non volle rinunciare a celebrare quello secolare del 1400.

Questo gesto fu fortemente «politico» perché con esso il papa intese mostrare al mondo intero la pienezza della sua potestà in contrapposizione con l’antipapa avignonese che però non desistette e non intense rinunciare alla sua nomina, per altro discussa. Bonifacio IX, che pure fu accusato di simonia e nepotismo, favorì la nascita e lo sviluppo di molte opere di assistenza per i pellegrini, come l’Ospizio Boemo e quello tedesco di Santa Maria dell’Anima, approvata personalmente dal papa.

Avanti, si entra nella modeità

Con il sec. XIV, come abbiamo già accennato, ci si avviò velocemente all’uscita dal Medio Evo per entrare nell’età modea, il cui apice fu l’umanesimo del sec. XV, detto per questo «secolo d’oro». Dopo meno di cento anni, nel 1492, Colombo sarebbe salpato da Palos in Portogallo, e la scia delle sue tre piccole navi avrebbe formato uno spartiacque straordinario tra «il prima» (medio Evo) e «il dopo» (la modeità) oltrepassando per la prima volta e per sempre i confini dell’Europa che già era entrata in un lungo processo di transizione e di secolarizzazione. Quasi a fare da contraltare, come avviene sempre nei tempi di passaggio e d’instabilità, in genere tra un secolo e un altro e, a maggior ragione, tra un millennio e un altro, si realizzarono due eventi: da una parte la Chiesa assunse una struttura «statale» nel tentativo di gestire il nuovo che avanzava con velocità impressionante, e dall’altra si formarono gruppi devozionali e penitenziali spontanei, non rassegnati a cedere il passato, la cui fine veniva interpretata, in chiave millenaristica, come fine del mondo.

Nacquero «i penitenti flagellanti» che si diffusero come il vento per l’esigenza di una profonda purificazione presente tra il popolo cristiano e avvertita anche da qualche membro della gerarchia. Nel 1399, alla vigilia del nuovo giubileo secolare del 1400, un gruppo di flagellanti partì da Genova col nome di «Bianchi», perché vestivano una tunica di quel colore, pellegrinando verso Roma per il perdono dei peccati. Si diffusero in Toscana, in Umbria e nel Lazio, riscuotendo enorme successo.

Il giubileo del 1400, segnando il passaggio tra due secoli e la transizione tra due mondi, dal Medio Evo all’Età Modea con tutto quello che comportava d’insicurezza e di trapasso culturale, assunse i contorni del «millenarismo» che esprime sempre connotazioni apocalittiche, accettati dalle nuove confrateite come caratteristiche proprie. La corsa alla penitenza e alle indulgenze era assicurata. Lo stesso Bonifacio IX fu molto impressionato dalla devozione dei flagellanti e – si dice – anche dai miracoli che accompagnavano il loro passaggio, tanto da partecipare personalmente ad alcune loro manifestazioni.

Come si evince da queste notizie molto approssimative e frammentarie, con il 1400 il giubileo diventò «un’altra cosa» da quelli descritti nella Bibbia. Si perse del tutto lo spirito e la prospettiva biblica, mai per altro realizzati anche presso gli Ebrei, e prese forma una celebrazione nemmeno evocativa di qualche evento, ma divenne una celebrazione programmatica funzionale al momento storico o all’ideologia, non tanto del papato in sé, quanto di ciascun papa che si serviva dell’evento per rafforzare se stesso e la propria visione di «potestas».

Paolo Farinella, prete
[Storia del Giubileo-9, continua].




Storia del Giubileo 8. Il giubileo snaturato

Messaggio giubilare per oggi

È chiaro che il Giubileo, com’è descritto nella Bibbia, non ha più senso se preso alla lettera, ma diventa un eccezionale strumento di fede e di vita se si cala nella condizione del tempo di oggi, sia nella dimensione dello spazio (terra) sia in quella del tempo (relazioni). Esso, infatti, non è l’occasione per una conversione morale intimistica, basata sull’accumulo di qualche «chilogrammo d’indulgenze» da riscuotere alla cassa della fine-vita, ma il «kairòs – occasione propizia» per prendere coscienza definitiva della responsabilità che abbiamo sia sul versante della distruzione annunciata della terra sia sul versante delle relazioni umane con l’estensione della povertà a livello planetario per colpa di processi economici e sociali perversi, cioè senza Dio, perciò disumani.

Non è un caso che a ridosso del Giubileo della Misericordia, papa Francesco abbia voluto pubblicare l’enciclica «Laudato si’» sull’urgenza di salvare la Madre Terra, la «casa comune», mai come adesso in pericolo per le scelte scellerate di progresso aggressivo e omicida che il capitalismo di mercato o di stato ha sviluppato perseguendo solo il profitto di pochi a danno del benessere di molti.

Il Giubileo esige in primo luogo un esame di coscienza profondo e radicale, poi una conoscenza di tutte le responsabilità individuali e collettive degli stili di vita che generano morte o distruzione, infine il proposito di convertirsi con azioni operative di segno opposto. Non basta recitare qualche preghiera per tranquillizzarsi la coscienza, è necessario sentire e scegliere di stare dalla parte di Dio che, per conto suo, sta sempre dalla parte di chi è più fragile ed emarginato.

Oggi sarebbe più che mai opportuno che almeno la Chiesa proponesse il condono dei debiti dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi che continuano a dilapidare ciò che non producono, ciò che non hanno. Occorrerebbe dichiarare forte la necessità di restituire la libertà a tutti i prigionieri per idee, religione, politica. Nessuno dovrebbe essere imprigionato per le proprie idee. Entrare dalla porta della Misericordia comporta un cammino da un modo di essere a un altro, passare da uno stato di autosufficienza (peccato di Àdam ed Eva) e di potere, a una volontà di scegliere «il bene comune» come orizzonte per le scelte in economia, in politica, nel sociale, nella vita di tutti i giorni, nelle piccole scelte come fare la spesa, usare l’automobile, evadere le tasse che sono condivisione della vita della comunità civile e così via.

Celebrare il Giubileo è la ripresa dell’invito di Gesù alla «conversione», in Mc 1,15 espresso con il verbo «metanoèite» che ha il significato profondo di «metànoia – cambiamento-di-pensiero». Graficamente si raffigura come un’inversione a U. Chi accetta di lasciarsi «convertire» mette in discussione il proprio «modo di pensare», cioè il nucleo più intimo di sé che presiede la coscienza e il comportamento. La conversione, infatti, non riguarda gli atteggiamenti o i comportamenti esteriori, ma il centro vitale e decisionale della persona, che la Bibbia chiama cuore, e noi coscienza: il fulcro da cui nascono le scelte di vita e i comportamenti

Convertirsi vuol dire modificare i criteri del pensiero per mettere in movimento un processo di relazione, descritto, sempre in Mc 1,15, con il termine: «pistèuete en t? euanghelì? – credete nel vangelo», dove «Vangelo» è sinonimo della persona di Cristo Gesù (cf Mc 1,1). Convertirsi e credere sono i due momenti dello stesso dono che sperimentiamo nella vita: entrare in comunione con Dio insieme a tutti i fratelli e le sorelle. Sia la conversione sia la fede non provengono dalla carne e dal sangue (cf Gv 1,13), ma dallo Spirito Santo che suscita in noi il desiderio di Dio e il modo di arrivarci. In questo senso, il Giubileo è non più il ristabilimento della proprietà della terra, ma del «principio» fondatore del nostro essere figli di Dio, sua immagine e somiglianza; ritornare al progetto iniziale di Dio che ha come mèta il suo regno, cioè un nuovo modo di relazionarsi lungo la storia per rigenerare una nuova umanità di uguali che viva in armonia con tutti e con Dio, specialmente con i poveri che sono i «beati» della nuova storia.

8. Il Giubileo snaturato

La prova di forza di Bonifacio VIII

Dedichiamo le terzultima e penultima puntata ad alcune pennellate sulla storia dei Giubilei «cristiani-cattolici» che non hanno niente in comune con l’idea del Giubileo biblico. Riserveremo l’ultima all’attualità cui ci richiama papa Francesco che ha indetto un anno straordinario nella cifra della «Misericordia» per celebrare i cinquant’anni della chiusura del concilio ecumenico Vaticano II. In questo modo il papa ha modificato la natura stessa del Giubileo, ma pochi se ne sono accorti.

Dalle crociate

Con l’avvento del Cristianesimo, cala il sipario sul Giubileo, non solo come cadenza periodica, ma anche come ideale. Dalla diaspora degli Ebrei dalla Palestina verso il mondo e dalla dispersione dei Cristiani nel mondo allora conosciuto, fino a Roma, divenuta il nuovo centro della nuova religione, bisogna aspettare il 1300 per sentire di nuovo la parola «Giubileo». Dodici secoli di silenzio non sono innocui e, infatti, quando Bonifacio VIII (Papa Benedetto Caetani) indice il primo Giubileo del II millennio cristiano, non c’è più alcun rapporto né con la Bibbia né con la tradizione giudaica.

Prima del giubileo del 1300 che apre la serie degli «Anni Santi», vi erano state alcune premesse significative, che accenniamo in poche battute. Nell’anno 1033, primo millennio della redenzione, si diffuse nel mondo cristiano la convinzione che, una volta completata la ricostruzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, verso cui si indirizzavano sempre più folle di pellegrini certe che la vicinanza al luogo supremo della cristianità avrebbe accordato la salvezza eterna, ci sarebbe stata la fine del mondo.

Papa Urbano II, da Avignone, nel 1095 bandì il primo pellegrinaggio armato, la «crociata», sia per proteggere i pellegrini verso Gerusalemme, sia per la riconquista del Sepolcro di Cristo, da circa venti anni caduto nelle mani dei Musulmani. La prima crociata, detta anche «dei Pezzenti» (1096), fu un totale fallimento. Già da quarant’anni (1054) si era consumato lo scisma d’Oriente con la scomunica di Papa Gregorio VII contro l’imperatore Bizantino Niceforo III e il Patriarca di Costantinopoli, Cerulario.

Il viaggio in «terra santa» diventò il pellegrinaggio per antonomasia per cui si misero per strada orde di delinquenti, assassini, ladri e falliti con il miraggio del «perdono totale», una volta giunti a toccare il Santo Sepolcro. Tutti furono invitati a partecipare «spontaneamente» alle crociate, liberando per un verso l’occidente della loro presenza, ma ponendo le premesse della violenza, del saccheggio, degli stupri e di ogni malefatta di cui le crociate furono portatrici. Il riformatore del monachesimo occidentale, Beardo di Chiaravalle (1090-1153), riteneva tranquillamente che la seconda crociata (1147-1149) fosse un «annus remissionis» e addirittura «annus vere jubilaeus», espressioni che lo stesso Papa Onorio III avrebbe poi fatte sue per la V e la VI crociata che sarebbero restate solo un pio desiderio.

… alla «Perdonanza»

Nel 1216 Papa Onorio III concesse un’indulgenza plenaria a Francesco di Assisi per tutti i fedeli che si fossero recati alla Porziuncola di Assisi il 2 agosto, equiparandola così a un pellegrinaggio capace di «lucrare» lo stesso beneficio (indulgenza plenaria) di chi partiva per la crociata, quasi a identificare la Porziuncola come una nuova Gerusalemme: «ad instar Sancti Sepulchri – a somiglianza del Santo Sepolcro». Lo stesso Onorio III nel 1220, nel cinquantesimo anniversario del martirio di Tommaso Becket (+ 29 dicembre 1170 a Canterbury), concesse l’indulgenza plenaria a quanti si recavano alla tomba del santo.

Circa settant’anni più tardi, Papa Celestino V (Pietro da Morrone), uomo spirituale e non avvezzo alle trame di palazzo e al mercato delle cose religiose, aveva avuto l’intuizione della «Perdonanza» con cui accordava la remissione dei peccati a tutti coloro che tra la sera del 28 e quella del 29 agosto di ogni anno (anniversario della sua elezione a papa) fossero entrati nella basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila, dove il Papa era stato incoronato e dove aveva fissato la propria residenza per essere lontano dalla curia di Roma, che egli giudicava luogo di perdizione.

Celestino, eletto nel 1294 dai cardinali che non riuscivano a trovare un compromesso tra le varie fazioni del patriziato romano, dopo appena quattro mesi, rassegnò le dimissioni, fuggendo verso Napoli e la Grecia, ma fu intercettato e fatto prigioniero dal suo successore (Caetani – Bonifacio VIII) che ne temeva i contraccolpi. Nel 1296 fu trovato morto nella sua cella, con grande sollievo di papa Caetani che così si liberò di una presenza ingombrante.

La novità della «Perdonanza» celestina consisteva nel fatto che fu concessa a tutti senza alcuna distinzione, purché fossero «veramente pentiti e confessati». In un tempo in cui spesso anche il perdono dei peccati e i riti religiosi erano oggetto di mercimonio e di tassazione in denaro, il gesto di Celestino fu rivoluzionario sul piano spirituale e il popolo, che comprese immediatamente, rispose. La «Perdonanza» celestina, ancora oggi, si pone al di fuori dei Giubilei «storici» sia per metodo che per contenuto, ma non può essere taciuta perché forse tra tutti, fino al Giubileo di Papa Paolo VI del 1975 (dopo ben sette secoli), fu l’unica che si pose un obiettivo esclusivamente spirituale e religioso senza altri fini di qualsiasi natura, specialmente di lucro.

Trenta Giubilei

Nella storia della Chiesa, dal 1300, giubileo di Papa Bonifacio VIII, fino al 2016, «Anno Santo della Misericordia» di Papa Francesco, si sono svolti trenta Giubilei, divisi in ordinari e straordinari. Papa Bonifacio VIII stabilì che il Giubileo fosse celebrato ogni 100 anni. Poi ci si accorse che un secolo era troppo e lo si portò a 50 anni, infine lo si ridusse a 25. Ecccone l’elenco cronologico come presentato da Alberto Melloni, Il Giubileo, una storia,
Editori Laterza, Roma-Bari 2015, 137-138.

1300  Bonifacio VIII (Benedetto Caetani)

1350  Clemente VI (Pierre Roger)

1390  indetto da Urbano VI (Bartolomeo Prignano),

aperto da Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1400  Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1423  Martino V (Oddone Colonna)

1450  Niccolò Quinto (Tommaso Parentucelli)

1475  indetto da Paolo II (Pietro Barbo), e aperto da Sisto IV (Francesco della Rovere)

1500  Alessandro VI (Rodrigo Borgia)

1525  Clemente VII (Giulio de’ Medici)

1550  indetto da Paolo III (Alessandro Faese, e aperto da Giulio III (Giovanni M. Ciocchi Dal Monte)

1575  Gregorio XIII (Ugo Boncompagni)

1600  Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini)

1625  Urbano VIII (Maffeo Barberini)

1650  Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili)

1675  Clemente X (Emilio Altieri)

1700  aperto da Innocenzo XII (Antonio Pignatelli), e concluso da Clemente XI (Giovanni F. Albani)

1725  Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini)

1750  Benedetto XIV (Prospero Lambertini)

1775  indetto da Clemente XIV (Gian Vincenzo Antonio Ganganelli), e aperto da Pio VI (Giovanni Angelo Braschi)

1825  Leone XII (Annibale Clemente Sermattei della Genga)

1875  Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti)

1900  Leone XIII (Gioacchino Pecci)

1925  Pio XI (Achille Ratti)

1933  Pio XI (Achille Ratti): anno santo della redenzione

1950  Pio XII (Eugenio Pacelli)

1966  Paolo VI (Giovanni Battista Montini): anno santo per la chiusura del concilio

1975  Paolo VI (Giovanni Battista Montini)

1983  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a): anno santo della redenzione

2000  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a)

2015-16 Francesco (Jorge Mario Bergoglio): anno santo della misericordia nel 50° del concilio.

L’invenzione del giubileo

Il vero inventore del Giubileo nella storia della Chiesa fu Bonifacio VIII, anche se in un primo momento fu riluttante fino al punto di tentare di abolire le concessioni date dai predecessori Onorio a Francesco e Celestino V alla cattedrale di Collemaggio (L’Aquila), ma senza riuscirci. Egli si dovette rassegnare all’uso ormai invalso e, da fine politico, lo trasformò in strumento prezioso per affermare il suo potere sia sul piano interno della Chiesa, sia su quello prettamente politico internazionale.

Eletto il 24 dicembre 1294 e insediatosi il 23 gennaio del 1295 emanò subito una bolla pontificia con cui concesse l’indulgenza plenaria ai crociati che partivano, ai francescani che andavano in missione presso i Tartari, e a chiunque si fosse armato per combattere i Siciliani di Carlo d’Angiò e la famiglia dei Colonna che osavano mettere in discussione la legittimità della sua elezione. In cambio, si poteva commutare l’indulgenza con 300 libbre di toesi (moneta d’argento, ufficiale nella Francia di Filippo IV il Bello e nella Sicilia dei d’Angiò).

Con la pubblicazione della bolla «Unam Sanctam», il papa affermò in modo solenne la superiorità del suo potere su quello di qualsiasi principe e imperatore in base al principio che lo spirituale è superiore al materiale. Uno degli strumenti usati a questo scopo, fu appunto il giubileo del 1300.

Avendo visto che il popolo romano, al compimento del secolo, spontaneamente si ammassava in san Pietro e nelle altre basiliche perché convinto che nell’anno «centesimo» (il 1300) vi fosse automaticamente la remissione dei peccati, Bonifacio VIII il 16 febbraio 1300 (quasi due mesi dopo l’inizio del nuovo secolo) indisse un giubileo con valore retroattivo, a partire dal 25 dicembre del 1299 ed esteso fino alla Pasqua successiva. La remissione fu concessa a tutti coloro che, pur avendone avuta l’intenzione, non erano potuti arrivare a Roma o erano morti lungo il viaggio. Per dare più importanza al documento, fece modificare la data d’indizione, portandola al 22 febbraio, ricorrenza della memoria della «Cattedra di san Pietro», sottolineando così l’autorità papale assoluta e indiscussa.

Per l’occasione il papa fece organizzare una processione che attraversò Roma con una fila interminabile di preti, vescovi e cardinali che lo precedevano. Il papa, assiso su un cavallo bianco, le cui briglie erano tenute da due chierici. Davanti a loro, due palafrenieri portavano su cuscino rosso, una spada e una tiara bipartita, simboli dell’unione del potere temporale e di quello spirituale. In questo modo il papa intendeva dire al mondo e specialmente a Filippo IV di Francia chi era il capo indiscusso. Il successo del Giubileo fu così grande che lo stesso Bonifacio VIII stabilì che ogni cento anni se ne celebrasse uno.

La questione delle indulgenze fu affrontata dal punto di vista teologico, attraverso una ricerca storica, arrivando alla conclusione che esse sono fondate sui meriti di Gesù Cristo, morto e risorto; questo tesoro prezioso, affidato all’amministrazione della Chiesa, è concesso dal papa, la massima autorità in terra. Vedremo nell’ultima puntata come papa Francesco ribalta questa concezione, non solo non parlando mai d’indulgenze nel senso tradizionale del termine, ma sempre di «indulgenza di Dio», mai di «Giubileo», ma di «Anno della Misericordia», concetti apparentemente simili, ma profondamente differenti dal punto di vista teologico.

Se Bonifacio VIII, quando, spinto dalla pietà popolare, si rese conto della forza del Giubileo, se ne servi come strumento politico nella geografia mondiale del potere del suo tempo, papa Francesco oggi afferma solo il primato di Dio e la sua natura di «Padre a perdere» che non si dà pace finché anche uno solo dei suoi figli resta fuori dal suo affetto e dal suo amore. Non si tratta di riscuotere «buoni» per la salvezza a buon mercato, ma favorire l’incontro con Dio attraverso l’unica via possibile che è la persona fisica di Gesù, venuto non solo a «fare l’esegeta del Padre» (Gv 1,18), ma anche a «cercare ciò che era perduto» (Lc 19,10) perché «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).

 Paolo Farinella, prete,
(8, continua)




Si trovavano insieme


Immersi nell’Anno giubilare della misericordia, con lo sguardo rivolto a Cracovia, Polonia, dove a luglio si celebrerà la Giornata mondiale della gioventù, leggiamo il brano di Luca che racconta la Pentecoste (At 2,1-11).

Una folla di persone di ogni nazione si mette a osservare, chi con partecipazione, chi con scetticismo, chi con ostilità, lo scompiglio creato da quel vento impetuoso, da quelle lingue «come di fuoco» che hanno abbattuto i muri del cenacolo. Immaginiamo quel medesimo vento sconvolgere i passi dei giovani in cammino verso Cracovia. E lo scompiglio che contagia anche chi osserva: «Come mai ciascuno di noi sente parlare delle grandi opere di Dio nella propria lingua? Com’è possibile che qualcuno conosca la grammatica del mio cuore? Che parli con il lessico della mia vita? Con la sintassi della mia storia?».

«Si trovavano tutti insieme nello stesso luogo», nella stessa città di Giovanni Paolo II, di santa Faustina (apostola della Divina Misericordia, il cui nome significa «felice»), per vivere la beatitudine di essere misericordiosi, e trovare misericordia. Si trovavano tutti insieme, benché venuti da ogni dove, ciascuno dalle proprie esperienze e ferite, dalle proprie giornie e fallimenti. Chiamati, dopo lo scompiglio, ad abituarsi ad altro scompiglio, quello ripetuto, ostinato, che colpisce senza risparmio per tutta la vita il discepolo divenuto apostolo, portatore di Parola, destinatario e strumento di misericordia.

Il nostro auspicio è che lo Spirito in forma di lingue, che dona la capacità di comprendere e parlare le lingue degli uomini del mondo, scompigli il cammino dei giovani che, anche dalle case dei missionari della Consolata, andranno a Cracovia nel prossimo luglio.

Da amico,
buona Pentecoste,
e buona missione.

Luca Lorusso




Storia del Giubileo 7. Il giubileo biblico incompiuto


Nel libro del Levitico si prescrive una contraddizione: da una parte il giubileo deve farsi ogni 49 anni e dall’altra, si dice di celebrarlo ogni 50.

«8Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. 10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi toerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. 11Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. 12Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Lv 25,10-12).

Queste espressioni sono la spia non solo di tradizioni diverse confluite nella redazione finale del testo giunto fino a noi, ma anche la prova della praticità della religione ebraica. In tutte e due le versioni, comunque, si afferma l’idealità teorica, non la concretezza storica del Giubileo perché dal sec. V a.C. al tempo di Gesù, cioè durante tutto il periodo del secondo tempio, ricostruito da Esdra e Neemia, il giubileo non fu mai praticato, come abbiamo già visto. Lo stesso capitolo 25 del libro del Levitico, pochi versetti prima, imponeva il riposo sabbatico per la terra ogni sette anni:

«2Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra» (Lv 25,2-5).

Se questa è la dimensione in cui bisogna muoversi, bisogna convenire che ogni «sette settimane di anni», cioè ogni quarantanove anni venivano a coincidere sia il riposo sabbatico (settennale) sia il giubileo (cinquantesimo), per cui sarebbe stato obbligatorio che la terra restasse incolta per due anni di seguito. Questa realtà era talmente presente e preoccupante che Alessandro Magno prima e Giulio Cesare poi esentarono gli Ebrei dal pagare le tasse negli anni giubilari; l’esenzione fu abolita nel sec. II d.C. dall’imperatore Adriano (117-138 d.C.) che odiava il popolo ebraico.

Dopo la seconda rivolta palestinese capeggiata da «Bar Kokba – figlio della stella», che molti identificarono come il Messia, l’imperatore Adriano nel 135 comminò l’espulsione definitiva degli Ebrei non solo da Gerusalemme, ma da tutta la Palestina, dando inizio alla transumanza perenne che fu il marchio d’infamia del popolo eletto. Scelto per possedere una terra «promessa», divenne il popolo senza terra, in balia di chiunque, reietti da tutti, fino ad arrivare all’apice dell’abiezione che fu l’orrore della «Shoàh». La quale non arrivò all’improvviso come un fulmine estivo, ma fu la logica conseguenza, preparata da venti secoli di emarginazione, persecuzione e disprezzo, alimentati teologicamente dalla Chiesa che ne aveva fatto un punto nevralgico della propria catechesi ordinaria fino all’arrivo del papa profeta, Giovanni XXIII, che volle modificare il Messale della liturgia, facendo togliere dalla preghiera del Venerdì Santo l’intercessione «pro pèrfidis Iudèis».

Se la terra è di Dio, nessuno è proprietario

Lo scopo di tutte queste prescrizioni dettagliate, oseremmo dire pignole, non è quello di creare un «istituto giuridico periodico», ma di sviluppare una teologia per la formazione del popolo: il concetto affermato dal Giubileo è che la terra, tutta la terra, è di Dio e l’uomo non ne può mai essere il proprietario, ma solo l’usufruttuario. In questo modo si svuotava di senso l’idea di «proprietà privata». Un esempio chiarirà meglio: se una donna era sposata a un uomo di una tribù diversa, l’eventuale eredità di una terra non poteva passare nella disponibilità proprietaria del marito, perché la terra doveva restare nella tribù di appartenenza. Per questo motivo si tentava di sposarsi solo tra membri delle rispettive tribù, o addirittura all’interno della stessa cerchia parentale con enormi problemi sul piano delle malattie ereditarie. In questo modo si affermava che solo Dio è il creatore e l’uomo, a cominciare da Àdam ed Eva, è perennemente ospite provvisorio della terra:

«Mia infatti è tutta la terra … al Signore, tuo Dio, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene … Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Es 19,5; Dt 10,14; Lv 25,23).

Questa teologia è sviluppata nel libro di Giobbe, scritto nel dopo l’esilio, in cui si narra di un israelita cui Dio ha tolto tutto. Il pio Giobbe formula il principio dei riformatori e cioè che nessuno è proprietario di nulla in questo mondo: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritoerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,10). Si è fatto passare questo povero Giobbe come l’uomo della pazienza, svilendo così il senso del libro, di grande portata sociale e religiosa: la relativizzazione della proprietà privata.

Siamo forestieri e ospiti, non proprietari o, peggio, dominatori, ritornando così «al principio» di Genesi, quando Dio «pose Àdam nel giardino di Eden perché gli ubbidisse e lo ascoltasse» (Gen 1,15, testo ebraico): l’uomo è al servizio della terra, come se questa fosse sua figlia. Non ci troviamo davanti a una norma civile, ma di fronte a una professione di fede che deve stabilire il rapporto dell’uomo con il creato e la sudditanza del primo al secondo, non il contrario. È ciò che afferma Papa Francesco nell’enciclica «Laudato si’» con un grido di allerta all’umanità tutta, alla politica, all’economia perché tornino alla coscienza del «principio» e si aprano alla consapevolezza del limite che è il contrario del delirio di onnipotenza che sta devastando tutto il creato.

Dio creatore aveva dato consistenza al creato e all’umanità in sette giorni, simbolici della totalità della perfezione. Ora l’Ebreo deve contare il tempo di sette anni in sette anni, poi in sette settimane di anni «perché mia è la terra», simboleggiando così che lo scorrere della storia è guidato da Dio. In questo modo si stabilisce un rapporto molto stretto tra Dio e il tempo: se il tempo della vita che dipende dal nutrimento della terra è scandito da Dio, si afferma l’antropologia teologica che l’uomo non è Dio e quindi non può pretendere di essere «onnipotente» come fece Àdam che, infatti, trasformò il giardino di Eden in un inferno di spine e sofferenze.

Il Giubileo tutela i poveri senza riuscirvi

Come abbiamo visto nelle puntate 5a e 6a, la differenza tra Anno Sabbatico e Giubileo era questa: nel primo era prescritto il condono dei debiti di qualsiasi natura e la restituzione della libertà agli schiavi; col secondo si doveva, teoricamente, rientrare in possesso della terra data in pegno per qualsiasi motivo, affinché si potesse ricostituire il patrimonio preesistente e quindi ristabilire l’assetto proprietario tra le tribù: ciò valeva solo nelle campagne, ma non nelle città, dove il principio non poteva essere applicato alle abitazioni.

Comunque sia, la pratica ha fatto sì che gli ideali dell’Anno Sabbatico (condono) e del Giubileo (proprietà) fossero in un certo senso intercambiabili, considerata la loro natura di fondamento per una maggiore equità sociale e comunitaria che si attribuiva direttamente alla volontà di Dio. In altri termini più modei, si direbbe una più equa distribuzione della ricchezza e l’affermazione solenne dell’uguaglianza di tutti davanti a Dio.

Dal Giubileo è estranea ogni idea d’indulgenza, concetto assente nella Bibbia, e qualsiasi pratica di pellegrinaggio come spostamento verso un luogo privilegiato perché Giubileo e Anno Sabbatico si compiono dovunque vi sono due Ebrei in relazione tra loro. Il pellegrinaggio, invece, ha preso il sopravvento nel Cristianesimo, e successivamente nel Islam, con il viaggio a Gerusalemme per Cristiani e Musulmani, poi trasferito dal sultano alla Mecca per quest’ultimi. Gli Ebrei non hanno il senso del pellegrinaggio come visita, ma l’idea del ritorno annuale a Gerusalemme, come simbolo escatologico della ricostruzione del popolo d’Israele attorno al tempio del Signore ricostruito e quindi come fine dell’esilio e della diaspora. Ancora oggi, la sera di Pasqua, gli Ebrei, ovunque sono nel mondo, concludono la cena, con un sospiro di desiderio che si fa preghiera e anche augurio: «Hashanàh haba’à beYerushallàyim – l’anno prossimo a Gerusalemme», auspicando la ricostruzione del tempio e la ricomposizione di Israele come popolo di Dio nell’unica terra che è la terra d’Israele, terra di Dio.

Durante il Giubileo, dunque, si doveva fare riposare la terra: non si doveva seminare, né potare o vendemmiare la vigna; i frutti dovevano restare sugli alberi e sulla vite; chi aveva riserve in cantina, poteva usarle fino a che gli stessi frutti restavano naturalmente sull’albero, ma quando cessava la stagione, dovevano essere distrutte anche le riserve nei depositi, che di solito erano appannaggio dei ricchi. Con ciò si affermava la parità assoluta tra ricchi e poveri e si ristabiliva un criterio di giustizia che metteva un freno alle prevaricazioni.

Nell’anno del Giubileo, infine, non si doveva pretendere la restituzione del debito. Quest’ultima norma ha avuto effetti micidiali, perché, all’approssimarsi del Giubileo, nessuno faceva più prestiti ai poveri con la conseguenza di aumentare la povertà, vanificando così il dettato divino, anzi capovolgendolo. Alla luce di questa tragica situazione, alcuni anni prima di Gesù, il grande rabbì Hillèl, di cui fu discepolo l’apostolo Paolo di Tarso, stabilì la norma che i debiti fossero trasferiti al tribunale che ne garantiva il riscatto, venendo in aiuto ai poveri. Si potrebbe dire che, come in tutte le culture e in tutti i tempi, fatta la legge, si è trovato l’inganno.

Ritrovare il senso del tempo e dello spazio

Da un punto di vista teologico, poiché il Giubileo riguardava un determinato periodo di anni in relazione a un determinato territorio fisico, è coerente pensare che esso sia il primo germe di una Teologia della Storia perché pone al centro della riflessione due elementi costitutivi della fede cristiana: il tempo e lo spazio, cioè l’ambito «umano» in cui si svolge l’esperienza dell’alleanza e quindi si vive la salvezza  (in campo cattolico, indichiamo a modo di esempio solo due autori: H. Urs Von Balthasar, Teologia della storia. Abbozzo, Morcelliana, Brescia 1969; W. Kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1985).

Il tempo biblico non è la ruota ciclica (O) dei Greci che s’identifica con il destino, in quale si attua indipendentemente dalla volontà dell’individuo che soggiace al volere degli dèi. Non è nemmeno la linea retta (?) dei Romani che avanzano senza mai fermarsi come una legione a testuggine, verso un progresso senza limiti. Il tempo biblico è la sintesi del cerchio greco e della retta romana che si trasforma in una spirale, cioè non un semplice ritorno (Greci) né un inesorabile progresso lineare (Romani), ma una ripresa costante di ciò che precede, amalgamato con quello che segue, salendo di un gradino verso l’alto: la spirale appunto, un cerchio aperto che procede in avanti perché sale.

Questa immagine ridefinisce il concetto di tempo che non è più una dimensione cronologica (una cosa dopo l’altra), cioè una successione anonima di fatti che capitano per essere subìti in una rassegnazione sistematica. La spirale porta in sé l’idea di una circolarità arricchita da occasioni coscienti, messe in atto dagli eventi, ma specialmente dalle persone, capaci di dare una svolta all’anonimato, e quindi anche di cambiare il senso e la direzione della storia. È il concetto di «kairòs – occasione» che mette in evidenza l’aspetto di qualità del tempo. Vi sono fatti indifferenti e fatti che cambiano il corso della storia. È questo il caso dell’Anno santo della Misericordia di Papa Francesco.

In altre parole l’uomo biblico non subisce meccanicamente il susseguirsi della cronologia, ma con le sue scelte può influire, nel bene e nel male, inducendo la storia ad andare in una direzione o in un’altra. È il concetto di responsabilità che si richiama direttamente alla coscienza. In rapporto a Dio, il tempo dell’uomo diventa «liturgico», in quanto «regalato» al rapporto con il divino attraverso riti e atti stabiliti da un protocollo (rituale). Ciò esige per sua natura anche la riserva di uno spazio dove il tempo celebrato possa trovare espressione e dimensione: nascono il tempio, i santuari, le chiese, le moschee come simboli della sintesi tra tempo e spazio.

L’uomo tende a sacralizzare perché nel consacrare o nel separare ambiti (spazio) e dimensioni (tempo), definendoli «sacri» in quanto distinti dal «profano», trova una garanzia e una sicurezza garantita dalla ripetitività dei gesti, delle liturgie e delle parole (rubriche) che offrono un certo grado di inamovibilità e perennità, quasi a volere lambire così il mondo di Dio. Per questo, nella vita di ciascuno si individuano cinque tappe «storiche» da consacrare come appuntamenti quasi «giubilari»: la nascita (battesimo), la crescita (cresima), la fecondità (matrimonio), la sofferenza (unzione infermi), la morte (esequie).

Paolo Farinella, prete
(7, continua)

 




Storia del Giubileo 6. Il Giubileo


Abbiamo già visto che tutto ruota attorno alla questione della proprietà della terra, dopo l’editto di liberazione del re Ciro (538 a.C.), contesa tra i possessori di fatto che non erano stati deportati e gli esiliati rientrati che vantavano il diritto legale alla proprietà.

Schiavi per debiti

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Il rientro dall’esilio, quindi, non è stato quel trionfale e giornioso ritorno descritto dai testi sacri, ma un doloroso incidente che ha portato quasi a una guerra civile. Da un lato, per i residenti che non erano stati deportati, i nuovi arrivati erano intrusi, anzi «stranieri», venuti a scombussolare la loro tranquilla, anche se povera, esistenza. Erano passati cinquant’anni da quei fatti dolorosi e l’esilio era un ricordo nella memoria. Da parte loro, gli immigrati ritornati, pretendevano di rientrare in possesso di tutte le proprietà che erano stati costretti a lasciare per la violenza dell’invasore di allora. Si erano dunque creati due partiti contrapposti, di cui abbiamo un indizio forte nel capitolo 5 del libro di Neemia.

Quando una famiglia povera faceva un debito gravoso, dava in pegno un figlio o una figlia «come schiavo» che poteva essere trattenuto per sei anni, ma non oltre (cf Dt 15,12). Nella situazione di estrema povertà di quel tempo, i ricchi erano arrivati a prendere come ostaggi-schiavi molti ebrei, cioè fratelli dello stesso popolo e della stessa religione. Neemia aveva imposto il condono dei debiti e la libertà delle persone, proibendo in nome di Dio che un ebreo potesse essere schiavo di un ebreo. Qui troviamo già il primo nucleo di quello che si svilupperà in seguito e che prenderà il nome «Giubileo», che è dunque un istituto giuridico per rispondere ai problemi sorti con il ritorno degli esiliati nella terra d’Israele.

Il Giubileo è la risposta che Israele produce per la soluzione di questi problemi che apparivano senza apparente sbocco: due contendenti avanzavano diritti sulla stessa proprietà. Districare la matassa dopo cinquant’anni non era facile. Solo una scelta drastica poteva imporsi e allo stesso tempo essere stimolo per un progetto futuro. Nasce così il Giubileo che è lo sviluppo naturale dell’Anno Sabatico. Mentre questo riguardava un periodo relativamente corto (sette anni), per il Giubileo si prende la misura «cinquantenaria» che era il periodo di tempo che interessava nella disputa tra residenti e rientrati.

A circostanze nuove, nuova teologia

Oltre che ricostruire il tempio, Esdra e Neemia dovettero riorganizzare la religione, il culto annesso e le leggi che regolavano la vita cultuale del santuario, dimora di Dio. In questa prospettiva si raccolsero testi e tradizioni del passato, specialmente della tribù di Giuda, ma anche di alcune delle dieci tribù del regno del Nord, facendo una straordinaria opera di redazione finale della raccolta di «scritture» che divennero poi quello che oggi conosciamo come «Toràh» (ebraica) o «Pentateuco» (greco). Ciò avvenne intorno al 444 a.C. Si ripensò anche la cosmogonia, cioè l’origine dell’universo, inventato da Dio per creare lo scenario nel quale si sarebbe svolta la storia dell’alleanza tra il «Dio Onnipotente e Creatore» e il «più piccolo tra tutti i popoli» esistenti sulla terra.

La narrazione della creazione, che non è un racconto storico (anche il più sprovveduto se ne rende conto), ha anche uno scopo pedagogico perché l’autore vuole fare un’analogia: come Adamo è stato posto nel giardino di Eden in qualità di custode e servo, così, allo stesso modo, il popolo eletto è stato collocato nella terra promessa d’Israele perché la abiti, la coltivi e la custodisca come corpo prolungato dei Patriarchi e come segno della fedeltà di Dio. Anzi come corpo esteso di Dio perché la terra è «lo sgabello» del trono della sua gloria: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi» (Is 66,1). Questo testo è la conclusione del libro del Terzo Isaia, vissuto in esilio con i deportati. Egli, sviluppando la teologia universalistica del profeta Isaia storico, quello vissuto nel sec. VIII, consola gli esiliati e li incita al ritorno, facendo rivivere la loro storia attuale come una ripetizione di eventi antichi, come l’esodo e la creazione che vengono «ingigantiti» per motivi di natura teologica.

Nuovo concetto  di «proprietà»

Il concetto di «popolo eletto» come «proprietà [di Dio] fra tutti i popoli» (Es 19,5), diventa una chiave teologica con la quale s’interpreta presente, passato e futuro. Tra il VI e il IV secolo in Babilonia e a Gerusalemme nasce un laboratorio in cui tutto si rinnova. Dalla storia passata, che viene riletta e ingigantita, nasce l’istituto del «sabato» come cuore della vita d’Israele e del culto, in sostituzione dei sacrifici; si crea il canone della Bibbia (intorno al 444 a.C.) nella forma dell’attuale Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). E la storia «sacra», essendo «scritta», diventa «Sacra Scrittura», cioè testo normativo e immutabile della volontà di Dio.

Per dare «peso» alla« ricostruzione del futuro», fondato sulla religione e sull’appartenenza al «popolo eletto», tutto è ripensato e riformulato: i riti e i culti, la circoncisione, il sabato, le leggi di purità, i sacrifici, la Pasqua, il calendario e l’uso della terra. Tutto è proiettato «alle origini», trasformando una normale storia di tribù, spesso banale, in una grande epopea, una saga di natura «storica» rivisitata come in un fantasmagorico «kolossal» proiettato nella notte dei tempi. Esso legge la storia contemporanea (ritorno dall’esilio) come un processo che parte dall’iniziativa di Dio sul Sinai, e prima ancora dalla liberazione dalla schiavitù d’Egitto (assonanza con la schiavitù in Babilonia).

Nel primo racconto della creazione (Gen 1), scritto in ambienti sacerdotali, si afferma con chiarezza che nell’atto di creare Adamo ed Eva, Dio stesso li pose nel «giardino di Eden perché gli ubbidissero e lo custodissero» (Gen 2,15). Si ribalta il concetto di «proprietà»: non è l’uomo proprietario della terra, ma è la terra che indica come deve essere ascoltata e custodita. L’uomo diventa il custode, il servo del creato sul quale solo Dio esercita la sua autorità, mediata certamente dall’uomo che è «immagine di Dio» (Gen 1,27). Lo stesso concetto di «sottomettere la terra» (Gen 1,28) non è assoluto, perché è connesso alla luogotenenza esercitata da Adamo in nome di Dio di cui è plenipotenziario e da cui dipende. È Dio che controlla il comportamento dell’uomo.

L’esodo però è la risposta alla promessa fatta ai Patriarchi, che a loro volta sono l’esito della fedeltà che è il contrario della ribellione di Adamo ed Eva che a loro volta erano stati i protagonisti e i signori della creazione regalata loro da Dio come premessa e promessa della terra d’Israele, la terra dell’Alleanza e del tempio del Signore. Il raccordo tra i Patriarchi e la terra d’Israele è la figura di Mosè che ha il compito di dare compimento alla volontà di Dio. Mettendo l’istituto dell’anno sabatico tra le norme di Esodo e Levitico, facendolo risalire addirittura a Mosè, i redattori del Pentateuco stabiliscono il criterio «teologico» per risolvere il contenzioso sorto tra residenti e rimpatriati dall’esilio sul possesso della terra.

Nei libri di Levitico s’inseriscono le regole che riguardano il Giubileo, dando loro il valore di una norma antica proveniente direttamente da Dio, in base al principio, formulato in questo periodo, che la terra d’Israele è «esclusiva proprietà di Dio». Se la terra è di Dio nessuno può avanzare diritti e ciascuno deve avere la coscienza di essere solo un usufruttuario temporaneo. La terra di Palestina è per Israele «terra promessa» ai patriarchi, quindi terra di ospitalità su cui nessuno può avanzare diritti.

Il nome «Giubileo»

18/12/2015 Papa Francesco apre la Porta santa presso la sede della Caritas a Roma, vicino a Stazione Termini. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO/HO RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / OSSERVATORE ROMANO / HO
18/12/2015 Papa Francesco apre la Porta Santa presso la sede della Caritas vicino alla Stazione Termini a Roma. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

In ebraico l’anno giubilare si chiama «Shenàt jòbel» che tradotto alla lettera significa «Anno dell’Ariete» perché l’inizio e la fine dell’anno giubilare erano annunciati dal suono del «qéren jobèl – corno di ariete» che richiama uno degli eventi più importanti della Toràh e successivamente della tradizione giudaica: il sacrificio di Isacco sul monte Moria (Gen 18,1-19). Poiché il racconto è conosciuto, non ci attardiamo su di esso, ma rileviamo solo gli elementi che interessano il nostro discorso sul «Giubileo».

Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio unigenito. Abramo, uomo dalla fede indiscussa, non mette in dubbio l’intenzione di Dio e ubbidisce, perché Dio sa quello che fa, e si appresta a sacrificare il figlio, sebbene il suo cuore sanguini e le sue lacrime si mescolino a quelle del figlio. Secondo la tradizione giudaica, Isacco incoraggia il padre Abramo a ucciderlo rispettando tutte le regole prescritte per i sacrifici offerti a Dio per non rendere invalida, anche involontariamente, l’offerta della sua vita. Abramo quindi supplica Dio, in nome della fede di Isacco, che ha accettato liberamente l’aqedàh-legatura alla legna del sacrificio, che in futuro, quando i suoi discendenti, pregando, chiederanno qualunque cosa in nome dei meriti di Isacco, Dio li esaudisca in ogni loro richiesta. La tradizione cristiana ha visto in Isacco una prefigurazione di Cristo «legato al legno della croce»: come Isacco stava per essere immolato all’età di 37 anni (Gen R 55,4), così Gesù fu legato e sacrificato sulla croce alla stessa età (cf L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei, II. Da Abramo a Giacobbe, Adelfi Edizioni, Milano 1997, 97-102).

Il racconto ha un valore di contestazione dell’usanza diffusa dei sacrifici umani per motivi religiosi: infatti il Dio che apparentemente chiede la morte sacrificale del primogenito di Abramo, sospende la mano del padre obbediente che non osa discutere l’ordine di Dio e lo sostituisce con un «ariete» che Abramo scorge impigliato tra i rami. Il messaggio è chiaro: il Dio d’Israele non vuole la vita umana, lui che la crea e Abramo e Isacco, padre e figlio, ringraziano Dio con un olocausto che Dio stesso «ha provveduto sul monte».

Qui sta la ragione per cui si suona il «corno dell’ariete – qèren yobèl» sia per il Giubileo sia l’Anno Sabatico, sia al tramonto del venerdì per annunciare l’arrivo dello Shabàt, sia in tutte le feste importanti della vita d’Israele. Dio ha salvato Isacco, e il suono del corno di ariete ricorda a Israele che Dio salva il suo popolo, anche quando non lo merita. Il suono del corno diventa il simbolo, il segno della liberazione di Dio e viene proiettato indietro, fino alle pendici del Sinai, dove Dio parlava a Mosè al suono del corno di ariete (cf Es 19,13.19). Il suono del corno precede l’arca dell’alleanza e guida alla battaglia della presa di Gerico (Gs 6,4-6.13).

Il suono del corno squillerà ogni 49 anni per dare inizio al giubileo del cinquantesimo anno, anno di grazia e di liberazione, di salvezza e di perdono totale:

«10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi toerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. 11Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. 12Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. 13In quest’anno del giubileo ciascuno toerà nella sua proprietà. 14Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quando acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. 15Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di raccolto. 16Quanti più anni resteranno, tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei raccolti. 17Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio. 23Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. 24Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni» (Lv 25, 10-17.23-24).

Questo è il punto di partenza dell’istituto del Giubileo che, in una fase di riforma religiosa e sociale, è codificato nella tradizione posteriore che però viene addirittura fatta risalire a Mosè, agli eventi del Sinai per dare a questa norma un peso di notevole importanza e coagulare attorno ad essa l’unità di tutto il popolo nuovo di Israele, composto dai residenti che mai lasciarono la terra di Palestina, ma anche dai rimpatriati che, liberati da Ciro, rientravano come stranieri nella «loro» terra che non avevano mai visto né conosciuto perché spesso erano nati e vissuti solo in terra d’esilio. La riforma non riguarda solo la terra, ma si presenta come una legge complessa che concee le persone, l’economia, il latifondo, la redistribuzione della ricchezza e il concetto di proprietà «privata», la quale nell’insegnamento biblico non ha mai attecchito.

In un tempo di crisi socio-religiosa (post esilio) nulla di più spontaneo che ritornare indietro, alle proprie origini, ripensarle alla luce dei nuovi eventi e «riscrivere» la storia come premessa per un nuova avventura, incastonata dentro un contesto ampio, antropologico, cosmico che si perde nella notte dei tempi e che raggiunge il cuore di Dio creatore che come all’inizio creò l’universo, ora crea di nuovo il suo popolo. Sacerdoti e classi dirigenti si servono della religione che ripensano e riformulano rivisitando narrazioni, tradizioni, epopee e preghiere del passato per dare risposta ai nuovi problemi che la Storia di «oggi» pone, imponendo una soluzione. Il Giubileo è un momento di questo processo che appartiene a un passaggio cruciale, una svolta decisiva che bisogna cogliere, se non si vuole perdere l’appuntamento con se stessi e il futuro.

Paolo Farinella, prete
(6, continua)




Storia del Giubileo 5. L’anno sabatico


Abbiamo chiuso la puntata precedente (cfr. MC 01-2/2016, p. 28) affermando che l’AT parla di due istituzioni, l’Anno Sabatico e il Giubileo. Abbiamo anche aggiunto che non bisogna confonderli, come spesso si fa, perché sono distinti tra di loro pur essendo connessi dal fatto che il Giubileo è uno sviluppo dell’Anno Sabatico. Precisiamo subito che Anno Sabatico e Giubileo, su cui tanto s’infioretta in commenti estemporanei, sono solo una «teoria» (sabatica e giubilare). Pur essendo descritto con rigorose norme dettagliate, assolutamente nulla ci garantisce che «la legge sia mai stata applicata» prima del ritorno dall’esilio di Babilonia (sec. V a.C.; cfr. R. de Vaux o.p., Les institutions de l’Ancien Testament, vol. I, 264-270, Paris, Les éditions du Cerf, 1958, qui 268).

Quest’affermazione molto impegnativa di uno dei più grandi biblisti del ‘900, che cercheremo di illustrare, è un motivo in più per evitare di leggere la Bibbia «alla lettera», che è il modo migliore per rovinarci la salute: occorre approfondire sempre i testi nel loro contesto storico e sociale. La Bibbia – non lo ripeteremo mai abbastanza – ha una storia travagliata e non è un libro scritto a tavolino, né una raccolta di codici e norme studiate in una biblioteca asettica, ma è il frutto di una lenta riflessione che nasce dalla vita per dare un senso all’esistenza, motivandola con ragioni di fede che per loro natura sono universali. Il punto di partenza deve essere la condizione socio-economica di quei tempi, cioè tutto quello che oggi chiameremmo «lo stato del welfare».

L’anno sabatico tra debiti e pegni

L’istituto «Anno Sabatico» riflette la predicazione sociale dei profeti Amos, Osea, Primo Isaia (sec. VIII-VII a.C.), specialmente nella Palestina del Sud, cioè nel regno di Giuda che ha il suo epicentro attorno al tempio di Gerusalemme. Le norme riguardanti il Giubileo invece sono codificate un paio di secoli più tardi, non prima del sec. VI-V a.C., e riflettono la situazione socio-economica del dopo esilio, quando ci fu non solo la ricostruzione del tempio e di Gerusalemme, ma anche la ristrutturazione e la riorganizzazione della società nei suoi assetti economici, politici, religiosi e sociali.

 Nel NT non si parla mai né di Anno Sabatico né di Giubileo, tranne forse che in un fugace cenno in Lc 4,17-19, quando Gesù, iniziando il suo ministero, si presenta come il profeta della Misericordia di Dio, citando un passo del Terzo Isaia (61,1-2), del V sec. a.C., modificandone il senso:
«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore».
Gesù annunciando la «liberazione degli oppressi» che è «l’anno di grazia del Signore», tralascia l’espressione seguente del profeta: «Gioo di vendetta per il nostro Dio». Oltre a questo testo, in tutto il NT non c’è nessun altro cenno al Giubileo o all’Anno Sabatico. Nella prossima puntata parleremo dell’istituzione dell’Anno Sabatico che viene fatta prima del Giubileo biblico.

Il Deuteronomio al capitolo 15 (sec. VII-V a.C. ca.) descrive l’Anno Sabatico in relazione alle persone che sono coinvolte in una delicata e complessa questione di debiti e pegni. Per un debito contratto, uno poteva dare in pegno di garanzia la sua stessa libertà o il figlio, più spesso la figlia. Ogni sette anni, tutto questo doveva essere azzerato, ricostruendo la «status quo ante».

«1Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione (shemittàh). 2Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il Signore. 3Potrai esigerlo dallo straniero (Nokrì]); ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere. 4Del resto non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà in possesso ereditario, 5purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore, tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do» (Dt 15,1-5).

La questione era tanto complessa che si arrivò a valutare il valore delle proprietà fondiarie e patrimoniali in base agli anni che separavano dal settimo, l’anno sabatico. L’Anno Sabatico è un vero e proprio editto «di liberazione» dalla schiavitù. Nessuno che facesse debiti per necessità poteva essere ridotto in schiavitù per sempre. È la relativizzazione sia del denaro sia dei vincoli economici che devono sempre e comunque essere subordinati alla persona.

Viene spontaneo pensare – e così è – che durante l’esilio di Babilonia e specialmente dopo, al momento del rientro in patria, la norma dell’Anno Sabatico conceente gli schiavi, venisse estesa alla terra e agli animali per dare forza a una legge difficile da digerire da parte dei residenti che si trovavano di fronte i rimpatriati, i quali esigevano la restituzione delle terre che erano stati costretti ad abbandonare cinquant’anni prima, senza loro colpa.

Da parte loro, i residenti consideravano i nuovi arrivati come importuni e «forestieri» per cui la tensione sociale era alle stelle. Bisognava porre un rimedio e il legislatore ricorse all’istituto dell’Anno Sabatico che venne addirittura collocato al tempo della legislazione sinaitica, come «volontà espressa del Dio liberatore» per farla accettare da tutto il popolo.

La legislazione di Esodo e Levitico

Nel libro dell’Esodo leggiamo:

«9Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto. 10Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, 11ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. 12Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno farai riposo, perché possano godere quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,9-12).

Il libro del Levitico dice le stesse cose, ma in modo più dettagliato:

«2Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. 6Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; 7anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà”» (Lv 25,2-7).

I testi appartengono al «codice dell’alleanza» e contengono due indicazioni, una relativa alla terra (Lv 25,2-4; Es 23,10-11) e l’altra, solo nel testo di Esodo, al riposo settimanale (Es 23,12). Tutto è racchiuso dentro un precetto che riguarda «il forestiero», assunto come misura sia della propria identità (anche voi siete stati forestieri – Es 23,9) sia del riposo che deve essere riconosciuto (è un diritto!) a tutte le categorie «fragili» esistenti in natura (animali e persone, Es 23,12).

La preoccupazione sociale di salvaguardia non concee solo le persone giuridicamente abilitate, ma anche quelle che non hanno diritti e non hanno da mangiare, come i poveri, quelle sottomesse come gli schiavi e il forestiero, ma anche gli animali domestici e selvatici. È facile dedurre che qui si afferma il principio che «Dio è padre di tutte le cose», cioè della terra nel suo insieme.

In ebraico l’espressione «non la sfrutterai» (Es 23,11) è «tishmetennàh» dal verbo «shamàt – lasciare cadere/abbandonare/rimettere»; in altre parole: quello che la terra produce nel settimo anno deve essere «lasciato cadere» cioè essere «proprietà» dei poveri e degli animali selvatici. Si afferma anche l’attenzione particolare che si deve al «forestiero» (ebraico «ghèr»; greco «prosêlytos»), citato due volte all’inizio e alla fine del testo di Esodo, quasi a volee sottolineare l’importanza, perché gli stessi Ebrei che ritornavano o che erano nati a Babilonia erano dai residenti trattati come «forestieri».

 Ghèr: lo straniero integrato e residente

Tre termini si usano nella Bibbia ebraica per definire lo «straniero»:
1. Zar/straniero oltre confine, con cui non si hanno rapporti. Siccome «nemico» in ebraico si dice «zar» (stessa radice), qui straniero e nemico sono sinonimi.
2. Nockrì/straniero nomade. È lo straniero temporaneo, quello che si ferma il tempo necessario per una sosta. È questa figura che diventa segno di Dio «che passa» e mette alla prova.
3. Ghèr è lo straniero residente che è integrato e fa parte del popolo; costui è «straniero» solo di nascita (origine). Egli è protetto giuridicamente e socialmente perché la sua presenza in terra d’Israele richiama alla coscienza del popolo di Dio di essere stato «straniero» in Egitto, oppresso e molestato dal faraone: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto» (Es 22,20).
In questo atteggiamento è già anticipata la radice dell’amore del prossimo come sarà formulata dal libro del Levitico per cui l’esperienza personale diventa misura dell’accoglienza dell’altro, posta anche come fondamento dell’identità di Dio stesso: «Amerai il prossimo tuo come te stesso: Io-Sono il Signore» (Lv 19,18) che Gesù assumerà come criterio centrale di tutta la Legge e della morale del suo Regno di Dio: «Ama il Signore… ama il prossimo tuo» (Lc 10,27). Non più «due amori», uno per Dio e uno per il prossimo, ma un unico amore a perdere senza chiedere in cambio nulla: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua vita e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso [ton pl?sìon h?s seautôn»] (Lc 10,27; cf Mc 12,30-31).

Una legislazione «impossibile» da applicare

Occorre domandarci, però, se una norma del genere fosse concretamente praticabile; se, infatti, si si fosse attuata in modo rigoroso, non solo si sarebbero fermate l’economia agricola e pastorale (senza nutrimento, anche gli animali morirebbero), ma si sarebbe prodotto l’effetto di distruggere l’esistenza del popolo. Gli antichi popoli che circondavano Israele, con la terra avevano un rapporto di natura «sacrale», e il riposo settennale, tramandato nella memoria collettiva fin dalla notte dei tempi, poteva essere vissuto come un atto religioso «di restituzione» alla divinità della sua proprietà: ogni sette anni si faceva riposare la terra per affermare che l’uomo non ha diritto assoluto sulla terra, ma possiede solo un usufrutto. Tutto questo è un’ipotesi perché, nella Bibbia, solo dopo l’esilio comincia a fare capolino, mentre prima non v’è alcun testo che ne parli.

Nei tempi antichi non esisteva un metodo di concimazione integrato come lo sperimentiamo oggi, per cui era necessario fare riposare la terra al fine di farle recuperare i sali e le sostanze necessarie alla coltivazione. È certo che gli Assiri e i Cananei (prima degli Israeliti), usassero sistemi di alternanza della coltivazione, per cui dove si coltivava orzo, l’anno successivo di seminavano legumi e così via. Non è strano pensare che durante l’esilio gli Ebrei ne avessero appreso l’uso insieme alle tecniche che al rientro dall’esilio introdussero in Israele.

Il metodo delle coltivazioni a rotazione, cioè a raccolti alternati, s’impose e si perfezionò in vista dell’Anno Sabatico. La proprietà terriera venne divisa in sette lotti, rendendo non solo possibile l’attuazione dell’Anno Sabatico, ma anche redditizia la programmazione del riposo sabatico: ogni sette anni, solo un lotto restava incolto mentre gli altri sei erano coltivabili.

In tempi di crisi

In questo sistema socio-economico che si è sviluppò nei secoli, si aggiunse la teologia elaborata durante lo stesso periodo. I profeti del sec. VIII, prima dell’esilio, avevano centrato la loro predicazione sulla giustizia sociale come espressione compiuta della religiosità autentica. Basta leggere Isaia, Amos e Osea per rendersi conto degli strali che venivano lanciati contro le classi agiate che sfruttavano i poveri per capire che la condanna di Dio era assoluta perché non poteva darsi alcuna religione che non si facesse carico dei problemi sociali che si affrontano solo nella «giustizia sociale», che oggi definiremmo con termine moderno «equa redistribuzione della ricchezza».

La predicazione dei profeti fu ripresa durante l’esilio (II e III Isaia), dando sviluppo a quella teologia sociale che la casta sacerdotale codificò poi specialmente dopo l’esilio stesso. Durante l’esilio, il pericolo della «secolarizzazione» era stato grande perché con la distruzione di Gerusalemme e del tempio, erano crollate tutte le certezze del popolo, si era alimentata la depressione psicologica, la religione non era più un rifugio consolatorio e per di più, in terra straniera, mancavano gli strumenti per coltivare la propria identità e la stessa appartenenza religiosa. Non c’era il tempio, non vi erano più i sacrifici, non vi era più il culto; mancava tutto ciò che dava senso e vita al popolo quando viveva nella terra promessa. Terra promessa? Davvero Dio aveva fatto promesse? Dov’è Dio? Chi è Dio?

Nei tempi di crisi tutto si mette in discussione, anche le certezze che prima sembravano granitiche. Bisognava reagire, e ricostruire il cuore e la mentalità del popolo e non permettere che si rassegnasse alla disfatta. Compito della teologia sacerdotale era ricreare le condizioni per riorganizzare la religione non più attorno al tempio, che non c’era più, e alle sue attività cultuali, ma attorno alla «Parola» che sostituiva il «Santuario». Nasceva a Babilonia la «Sinagoga», cioè la casa della convocazione dell’assemblea, che si riuniva per leggere il proprio presente alla luce del proprio passato. Si ricostruirono le tradizioni e le s’inventarono anche, s’ingigantirono contenuti e portata di eventi passati che storicamente erano stati fatti appena significativi come l’esodo, come le figure dei patriarchi Giacobbe, Isacco e Abramo, ma questo appartiene alla prossima puntata.

Paolo Farinella, prete
(5, continua)




Una porta santa nel deserto

 

Quando il vescovo di Inhambane ha annunciato che anche Guiúa sarebbe stata meta del pellegrinaggio giubilare, ci siamo sentiti più che imbarazzati. Certo il titolo di «Santuario di Maria Regina dei Martiri» era stato conferito con tanto di decreto vescovile tre anni fa. Ma il Santuario è appena il cimitero dei nostri catechisti martirizzati nel 1992 con una cappella che ci riunisce ogni 22 del mese per venerae la memoria e il 22 di marzo per il grande pellegrinaggio diocesano.

Essere meta del giubileo vuol dire pellegrinaggio, indulgenza e anche «porta santa». Dove troviamo una porta santa nel deserto di Guiúa?

Padre Gabriele Casadei, uomo di grandi idee e realizzazioni, ha fatto due colonne di mattoni all’entrata del Cimitero dei Martiri, in fondo al grande viale. Ma le porte? In un container spedito anni fa da amici di Lissone (Lecco), c’erano giunte delle grandi lastre di lamiera che erano rimaste nel magazzino perché non avevamo la più pallida idea di come utilizzarle. Ecco, finalmente realizzato il loro destino: diventare la porta santa. Una volta poste una accanto all’altra, appoggiate ai due pilastri, chiudono bene il passaggio al santuario e fanno un figurone. Non è la bellezza della porta, abbiamo spiegato ai fedeli, ma è l’atto di entrare da quella porta nel santuario, come pellegrini bisognosi della misericordia del Signore, che conta. E così abbiamo iniziato la celebrazione.

Ci siamo radunati attorno alla fontana con la statua della Madonna benedicente, e abbiamo iniziato: lettura del Vangelo e della Bolla del papa. Erano tanti i nostri cristiani: la maggior parte proveniente dai villaggi lontani fino a 30 Km. Albertina, anziana catechista di Ngala, era partita alle tre del mattino, assieme a quasi tutto il villaggio. Così pure Filomena, Jacinto, Felizmeta si erano messi in viaggio a piedi sulle dune della nostra terra, per arrivare presto alla missione. Bambini, giovani, adulti e anziani. Vedendo donna Simplícia che, curva su se stessa, reggendosi appena col suo bastone, camminava lentissimamente, ultima nella processione, mi sono chiesto: «Chi glielo ha fatto fare?». La risposta mi è subito venuta: «Solo il Signore e la sua Misericordia, Lui solo». Poi la processione è iniziata con tutta la solennità del caso. Non avevo un piviale viola, ma uno bianco, donato da qualche sacerdote lombardo, arrivato anch’esso con un container: bellissimo. Avevo pensato di indossarlo il giorno del Corpus Domini per la processione, ma aveva piovuto così tanto che non avevo voluto bagnarlo. Questa è stata la sua occasione. Croce, incenso, Vangelo, come il papa in san Pietro, e la processione si è snodata lungo i viali della missione verso il Cimitero dei Martiri. I fedeli cantavano con fervore e gioia, senza stancarsi: le litanie dei santi, canti di giubilo, canti di misericordia… non sentivamo i raggi violenti del sole, né il freno della sabbia.

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Davanti alla porta santa un profondo silenzio. Il tamburo, quello che si usa per gli annunci importanti, rullava lungamente. «Io sono la Porta», dice Gesù nel Vangelo. Io ho pregato: «Aprite la porta della giustizia», e il popolo ha risposto: «I giusti entreranno in essa». Per tre volte ho battuto col martello, e la porta finalmente si è aperta. Applauso, canto, poi in ginocchio in silenzio. Silenzio profondo di preghiera. «Il Signore ci doni la sua Misericordia». Davanti a noi, un bellissimo quadro del Gesù Misericordioso che tutti accoglie col suo cuore che emana luce e calore. Quindi, bagnando la mano nell’acqua benedetta e segnandosi col segno della croce, i fedeli entravano nel santuario, ordinatamente con devozione, preghiera e canto. Nella cappella non ci stavamo tutti. Il sole di dicembre era davvero cocente, ma alcune nuvole e brezza leggera alleviavano la calura, e così, seduti attorno alla cappella, tutti con tanta devozione hanno partecipato alla santa messa.

«Il Dio di misericordia ci perdona e ci accoglie. Adesso, attraversata ancora questa porta, torniamo alle nostre case e portiamo a tutti, in casa e nel villaggio, compassione e misericordia».

Sandro Faedi

DA GUIÚA PER LA MISSIONE

Un altro gruppo di 14 famiglie, formate nel Centro Catechistico Nazionale di Guiúa, ha ricevuto il mandato missionario, per le diocesi del Mozambico.

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«Ricevete la Bibbia, annunciate con la parola e la vita il nome del Signore Gesù». Con queste parole il vescovo di Inhambane, mons. Adriano Langa, durante la Messa del 26 novembre scorso ha inviato 14 famiglie di catechisti alle proprie comunità di origine, dopo il corso realizzato in Guiúa.

Guiúa, è un piccolo villaggio a 12 km dalla città di Inhambane, in Mozambico, sede della omonima diocesi, dove nel 1970 si aprì il Centro di Promozione Umana per formare alla leadership sociale e religiosa i laici più dinamici e inviarli nei villaggi più lontani e remoti della regione. Il centro fu attivo fino al 1987, quando un gruppo di guerriglieri lo assaltarono uccidendo il catechista Peres Manuel e rapendo molti altri, rilasciati solo dopo alcuni mesi. Era la lunga guerra civile.

Nel 1992, quando già il dialogo tra le parti in conflitto era ben avanzato, il centro fu riaperto. Ma nella notte tra il 21 e 22 marzo dello stesso anno ci fu un altro attacco. I guerriglieri sequestrarono tutti, grandi e piccoli, e li radunarono in una radura a 3 km dal centro. Là, furono interrogati, maltrattati e infine barbaramente trucidati. I morti furono 23. Sono i Catechisti Martiri di Guiúa, le cui tombe sono meta di pellegrinaggi e venerazione. Dodici anni dopo, nel 2004, il Centro Catechistico riaprì con 17 famiglie, segnando l’inizio di una nuova tappa nella vita della chiesa del Mozambico.

Al corso appena terminato hanno partecipato 14 famiglie da tre diocesi, per un totale di 70 persone. I catechisti hanno studiato teologia, pastorale, storia, politica e legge al mattino, mentre al pomeriggio hanno fatto pratica di agricoltura, falegnameria, meccanica, informatica per prepararsi a essere animatori della vita sociale e cristiana dei loro villaggi. Le signore, oltre che in teologia e catechesi, hanno migliorato le loro conoscenze di cucina, puericultura, cucito, infermieristica. I bambini si sono sistemati nelle varie scuole secondo l’età. La chiesa missionaria che ha portato a maturità la giovane chiesa africana, può stare tranquilla. Questi fratelli e sorelle, neo catechisti, continueranno con buon spirito evangelico il lavoro che Gesù ha lasciato ai suoi, con dinamismo e creatività, per annunciare a tutti che Lui è il Signore.

S. F.