La vita sospesa di Fukushima

testo di Piergiorgio Pescali |


Oltre alle radiazioni scaturite dall’incidente nucleare del 2011, la popolazione e il territorio di Fukushima hanno dovuto sopportare alte dosi di disinformazione. Anche per questo la rinascita è difficile.

Quest’anno il Giappone ricorda il decimo anniversario di tre eventi che hanno condizionato la politica e l’assetto sociale dell’intera nazione. Alle 14.46 dell’11 marzo 2011, un terremoto di magnitudo 9.0 sconvolse le regioni orientali affacciate sull’Oceano Pacifico. Una cinquantina di minuti dopo, una serie di ondate alte tra i tre e i quattordici metri, raggiunse le coste del Tohoku penetrando per diversi chilometri nell’entroterra, e devastando ciò che il sisma non era riuscito a distruggere. Le vittime furono ventimila, il 92% delle quali causate dallo tsunami.

Le due centrali nucleari di Fukushima gestite dalla Tepco (Tokyo electric power company), la più grande compagnia elettrica della nazione, furono inondate dalla marea che invase le stanze dove erano collocati i generatori di emergenza.  Senza elettricità, le pompe non riuscirono a immettere l’acqua di raffreddamento nei reattori i quali iniziarono a surriscaldarsi. La situazione fu riportata sotto controllo a Fukushima Daini (Fukushima 2), ma a Fukushima Daiichi (Fukushima 1) tre dei sei reattori subirono una parziale fusione del nocciolo liberando radioisotopi, in particolare xeno-133, iodio-131, cesio-134, cesio-137, tellurio-132, stronzio-90 che si sparsero nell’ambiente.

I venti trasportarono tra il 70 e l’80% della radioattività sulle acque dell’oceano antistanti la centrale, mentre il restante 20-30% si depositò su una lingua di terra che si incuneò per circa quaranta chilometri nell’entroterra.

Un accumulo di sacchi contenenti terreno contaminato dalle radiazioni della centrale di Fukushima. Foto Piergiorgio Pescali.

Troppe falsità

Migliaia fra artigiani, agricoltori, pescatori rimasero senza lavoro e l’agricoltura della zona, settima tra le prefetture del Giappone in termini di produzione totale, ma seconda per prodotti biologici, si afflosciò.

Il riso e le pesche «made in Fukushima», un tempo vanto della provincia e famosi in tutto l’arcipelago, rimasero a marcire nei campi. Sebbene la radioattività controllata per ogni lotto di raccolto, dopo il primo anno di picco, fosse scesa sotto i livelli di guardia, i consumatori erano oramai sfiduciati, da una parte dalle troppe bugie e verità nascoste del governo e della dirigenza Tepco, dall’altra dalle campagne antinucleari e ambientaliste di alcune associazioni che lanciavano allarmi preoccupanti sullo stato della radioattività. C’era chi, inventando dati e interviste, descriveva una Tokyo deserta e terrorizzata, e chi preconizzava un Giappone per la maggior parte inabitabile, dove l’intera popolazione dell’arcipelago sarebbe stata costretta a trasferirsi nelle poche aree salvatesi dalla nube radioattiva.

Dalla parte opposta, le organizzazioni pro-nucleare e la Tepco, guidate dal governo di Naoto Kan, l’allora primo ministro giapponese del Partito democratico, cercavano di minimizzare i pericoli, assicurando che la popolazione non correva alcun rischio, e che la situazione era sotto controllo. Chi aveva ipotizzato il pericolo di fusione dei reattori (come realmente accadde) venne immediatamente destituito.

In questa guerra sull’informazione, nessuno dei due eserciti aveva la piena ragione dalla sua parte e, come spesso accade nei conflitti, la popolazione civile fu quella che subì le maggiori conseguenze.

Le divergenze non si limitavano a mettere a confronto chi era pro o contro il nucleare, ma si trasmettevano trasversalmente tra chi vedeva messo in pericolo il proprio lavoro di una vita e chi soffiava sul fuoco per meri interessi economici o ideologici. Agricoltori che avevano lottato in tempi non sospetti contro la presenza delle centrali atomiche, si trovarono all’improvviso a contestare gli stessi movimenti antinucleari che propagandavano la propria azione pubblicando rapporti allarmistici, raffazzonati e zeppi di dati privi di fondamento scientifico, illustrati con fotografie falsificate. In questo scenario surreale, Fukushima tentava di rimettersi in piedi.

Oggi, a distanza di dieci anni, si può dire che vi sia riuscita, almeno in parte.

La difficile rinascita

Dal 2014 le zone interdette alla popolazione sono state ristrette sempre più, ed oggi l’area di evacuazione totale si è ridotta a 337 km2 rispetto ai 1.653 km2 del 23 aprile 2011. Al contempo, la popolazione evacuata è scesa da 165mila (maggio 2012) a 37mila (novembre 2020). Le ultime zone riaperte, alla fine del 2020, sono quelle di Futaba, Tamioka e Okuma, tra le più colpite in quei tragici giorni del marzo di dieci anni fa.

Nonostante circa un milione di cittadini e 443mila imprese abbiano ottenuto o stiano ottenendo rimborsi per un totale equivalente a 76 miliardi di euro, le difficoltà a cui vittime e residenti devono far fronte sono ancora evidenti.

E sono problemi che non possono essere risolti con alcun tipo di indennizzo economico.

Anni e anni di sradicamento dalle proprie comunità, dalla terra natia, di convivenza con estranei in case di fortuna che impedivano una pur minima privacy, la consapevolezza di non potere più lavorare come prima, l’emigrazione verso altre prefetture con la conseguente frammentazione delle famiglie, hanno trasformato Fukushima in un baratro psicologico per molte delle vittime.

Un terremoto, uno tsunami, per quanto devastanti e terribili possano risultare, lasciano la speranza della ricostruzione. Al contrario, le invisibili particelle radioattive sprigionatesi da una centrale nucleare, spazzano anche questa eventualità. Non basta più solo ricostruire. Bisogna rivoltare il terreno, raschiare centinaia di chilometri quadrati di superficie, ripulire il suolo, filtrarlo, ridistribuirlo. E il sale marino, che ha impregnato i campi, li ha inariditi diminuendo la fertilità, sconvolgendo l’equilibrio chimico che rendeva così preziosi e unici i raccolti.

Radiazioni e tumori

Gli studi dell’Unscear – United Nations scientific committee on the effects of atomic radiation – confermati anche da altre ricerche scientifiche, affermano che la dose effettiva di radiazioni assorbita dalla popolazione che viveva nelle zone contaminate durante l’incidente è stata inferiore a 10 mSv (millisievert; il «sievert» misura gli effetti provocati dalla radiazione su un organismo), una quantità paragonabile alla dose radioattiva naturale annua assorbita in media dai giapponesi.

Tra i tipi di cancro sensibili alle radiazioni, solo quello riconducibile alla tiroide, causato dallo iodio-131, può essere imputabile con relativa certezza a Fukushima. Per tutte le altre insorgenze tumorali non possono essere tratte conclusioni certe sulla correlazione con le radiazioni rilasciate. Questa forte ambiguità causale aggiunge un altro elemento di scontro scientifico nell’ambito medico riguardante gli incidenti nucleari.

Nel giugno 2011 è iniziato un programma di monitoraggio sanitario trentennale a cui partecipano più di due milioni di cittadini giapponesi, 360mila dei quali di età inferiore a 18 anni. L’obiettivo è quello di monitorare l’andamento dei tumori tiroidali. Nel marzo 2020 la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato i primi risultati della ricerca stabilendo la bassa incidenza dei casi di cancro alla tiroide a Fukushima correlati al contenuto di iodio-131 nel suolo e nell’aria.

È comunque difficile convivere con l’incertezza di cosa riserverà il domani: le radiazioni possono manifestare i loro effetti anche a distanza di anni e questa «vita sospesa» influisce pesantemente nei rapporti interpersonali, sia in famiglia che in società.

Specialisti misurano le radiazioni attorno alla centrale di Fukushima. Foto Susanna Lööf / IAEA Imagebank.

Dalla terra al mare

Non sono solo gli agricoltori e gli artigiani a soffrire per l’incidente di Fukushima. I pescatori delle coste limitrofe alla centrale hanno subito perdite e devastazioni altrettanto pesanti. Il Grande terremoto del Giappone orientale e il successivo tsunami hanno danneggiato circa 29mila pescherecci, circa il 10% della flotta totale giapponese, e 319 porti. Nella sola prefettura di Fukushima sono state 873 le imbarcazioni danneggiate.

A causa dei venti, la maggior parte delle radiazioni fuoriuscite dalle Unità 1, 2, 3, 4 di Fukushima Daiichi sono state sospinte sull’oceano portando la Fukushima fisheries cooperative association a vietare la pesca nelle acque antistanti la centrale tra il marzo 2011 e il giugno 2012. Successivamente le attività sono state gradualmente riaperte, ma ancora oggi il pescato totale è il 10% di quello antecedente il disastro nucleare.

Anche in questo caso, come avviene per i prodotti agricoli e pastorizi, tutta la merce è analizzata per misurare la quantità di radionuclidi contenuta. La fetta di mercato nazionale (pari all’1% del totale) che occupavano i pescatori della prefettura prima dell’incidente nucleare è stata riempita da altre comunità e sarà difficile che possa essere riconsegnata alle cooperative di Fukushima. Per sopravvivere ci si è affidati al senso di comunità: come è successo tra i piccoli coltivatori, anche i pescatori hanno potuto contare sulla solidarietà dei concittadini che nei periodi più critici hanno acquistato i prodotti invenduti permettendo una difficile sopravvivenza.

Esperti raccolgono campioni d’acqua nelle acque di mare antistanti la centrale nucleare. Foto NRA / IAEA Imagebank.

Lo sversamento delle acque

Ora però un altro pericolo si sta profilando all’orizzonte. Un pericolo più concettuale che reale: l’annunciato sversamento delle acque di contenimento radioattivo nell’oceano. Per evitare che il «corium» (la massa altamente radioattiva di combustibile nucleare fusa durante l’incidente ed oggi solidificatasi) liberi radioisotopi nell’aria, viene insufflata acqua nei reattori 1, 2 e 3. Successivamente, questa acqua è filtrata e depurata da tutti i radioisotopi tranne per il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno difficile e costoso da eliminare. Ad oggi circa 1,24 milioni di tonnellate di acque sono immagazzinate in 1.061 serbatoi e ogni giorno se ne aggiungono 160 tonnellate. L’Iaea (International atomic energy agency) prevede che la capacità di stoccaggio si esaurirà nel 2022, ed entro tale data bisognerà decidere come smaltire se non tutta, almeno parte dell’acqua. Già nel 2013, dopo che le prove per eliminare il trizio erano fallite, il governo aveva avvisato che, tra le opzioni considerate, quella dello scarico in mare era la più probabile compatibilmente con la sicurezza ecologica e l’economicità dell’operazione. Nel 2020 la decisione finale è stata accolta con preoccupazione non solo dalle associazioni ambientaliste, che hanno riproposto la visione apocalittica di un oceano Pacifico radioattivo e privo di vita, ma anche dai pescatori locali, preoccupati più per l’impatto negativo di tanto clamore sui consumatori che per l’effettivo inquinamento provocato dal trizio.

Il rilascio programmato delle acque ha una tempistica che durerà tra i sette e i trentatré anni (la durata dipende dal limite di radioattività massimo che si vuole raggiungere e dall’anno in cui si inizierà a sversare l’acqua) e comunque è stata scaglionata in modo da non superare mai il limite imposto dalla legge giapponese. Tenendo conto che la contaminazione da trizio nelle acque da versare in mare è di circa 1 PBq (da 0,5 MBq/l a 4 MBq/l)  e che nei complessivi 1,3 milioni di metri cubi di acqua da scaricare sono presenti in totale circa tre grammi di trizio, è stato calcolato che, se l’intera quantità di acqua oggi presente nei serbatoi venisse scaricata nel giro di un solo anno, l’impatto nelle acque marine sarebbe di 0,00081 mSv/anno. Ben poco se paragonati ai 360 TBq/anno di trizio rilasciato tra il 2008 e il 2011 dalle sole centrali giapponesi o alla quantità di trizio scaricata nelle acque marine da altri impianti nucleari sparsi per il mondo.

Il futuro del nucleare in Giappone

Il disastro di Fukushima accese il dibattito sul futuro energetico del Giappone. L’autosufficienza energetica nazionale, che nel 2010 era pari al 20,3% di cui la quasi totalità proveniente dal settore nucleare, nel 2013, dopo la chiusura dei reattori, era scesa al 6,6% per risalire al 9,6% nel 2017 a causa della parziale ripresa dell’attività atomica e dell’aumento dell’utilizzo delle fonti rinnovabili, potenziate dai forti incentivi concessi dal governo e dal sensibile miglioramento delle tecnologie dedicate a questo campo di sviluppo.

Già alla fine del 2012, quando Shinzo Abe succedette a Yoshihiko Noda alla guida del governo del Giappone, fu chiaro che il nucleare avrebbe avuto ancora un futuro nella politica energetica giapponese. Un futuro incerto e di transizione, in linea con il modello descritto dall’Ipcc (International panel on climate change), ma che lasciava spazio all’energia atomica almeno fino al 2050 secondo i piani del primo ministro per ottemperare anche agli obiettivi di riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 che la nazione si è proposta di raggiungere entro quella data.

All’inizio del 2021, secondo l’Iaea, in Giappone sono di nuovo operativi trentatré reattori nucleari che generano una capacità totale di 31.679 MWe pari al 7,5% dell’energia totale prodotta nella nazione. Due reattori, che aggiungeranno un totale di altri 2.653 MWe, sono in fase di costruzione, mentre sono stati chiusi definitivamente ventisette reattori.

La disastrosa condotta dei governi che hanno gestito l’incidente nucleare di Fukushima (in particolare quello di Naoto Kan), si ripercuote ancora pesantemente nell’opinione pubblica giapponese: solo l’1,9% dà credito al governo e ancora meno (1,2%) all’industria nucleare. Il motivo è da ricercarsi nella reticenza da parte di queste due entità nazionali (governo e industria) nel dare notizie veritiere alla popolazione, nell’insufficiente preparazione del personale, nella condotta della dirigenza delle compagnie energetiche e nelle numerose bugie rilasciate sia dagli apparati governativi che dai vari protagonisti privati sul pericolo radioattivo e sul modo con cui è stata gestita l’emergenza.

Nel 2019 un grosso scandalo che ha coinvolto la Kansai electric power company (Kepco), membri della prefettura di Fukui, del Partito liberaldemocratico e dello stesso ex sindaco di Takahama, ha sconvolto, se mai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta l’industria nucleare nipponica.

Lo scandalo ha riportato alla ribalta i loschi interessi del «villaggio nucleare» nazionale, un problema già più volte sollevato da numerosi gruppi antinucleari e che viene spesso associato alla mancanza di controlli adeguati nel campo della sicurezza all’interno delle centrali.

Proprio questo sistema perverso e pericoloso avrebbe dovuto mettere in guardia i vari dicasteri preposti alla sorveglianza nucleare, cosa che in Giappone non è avvenuta ed è uno dei motivi per cui oggi molti cittadini si sentono defraudati della propria sicurezza.

È anche per questo che i giapponesi faranno fatica ad accettare un ritorno al nucleare che sembra oramai già deciso

Piergiorgio Pescali

Archivio MC

● Piergiorgio Pescali, Atomi di pace, atomi di guerra, dossier, agosto-settembre 2018;
● Piergiorgio Pescali-Mirco Elena-Tiziano Tosolini, Giappone. Viaggio nel disastro nucleare, dossier, dicembre 2015.

Esperti della IAEA in visita alla centrale di Fukushima. Foto Greg Webb / IAEA Imagebank. 




Il trono del crisantemo (da Akihito a Naruhito)

Testo e foto di Piergiorgio Pescali |


Lo scorso 30 aprile l’imperatore Akihito (85 anni) ha abdicato in favore del figlio Naruhito (59). Con il nuovo tenno (sovrano celeste) per 127 milioni di giapponesi si è aperta una nuova era (gengo), chiamata «Reiwa». Nel 2019 quanto contano ancora le tradizioni imperiali per una potenza mondiale come il Giappone? Nel frattempo, il primo ministro Shinzo Abe sta operando su vari fronti: dal progetto di un esercito nazionale alle Olimpiadi del 2020.

Il 1° maggio 2019 centoventisette milioni di giapponesi hanno cambiato, per la terza volta dal secondo dopoguerra, il loro gengo, il calendario nazionale legato al proprio imperatore, entrando in una nuova era, quella «Reiwa» (令和, «bella armonia»).

Il gengo, o nengo, è il calendario usato nei documenti ufficiali, nelle monete, nei giornali, nei calendari giapponesi e, secondo un sondaggio della Kyodo News Agency, utilizzato ancora oggi nella vita quotidiana dal 24,3% dei giapponesi (il 39,8% usa sia il gengo che il calendario occidentale e il 34,6% fa uso del solo calendario gregoriano). Un calo significativo rispetto all’82% dei giapponesi che nel 1975 usava il computo imperiale.

L’abdicazione di Akihito era stata annunciata sin dal 1° dicembre 2017 e l’incoronazione ufficiale del nuovo tenno (天皇, «sovrano celeste») avverrà solo il prossimo 22 ottobre, al termine di un lungo periodo di transizione che permetterà alla casa imperiale giapponese di illustrare al nuovo regnante le rigide etichette di un mondo che rischia di distanziarsi sempre più dalla vita politica e quotidiana della nazione.

L’imperatore

Da tempo la figura dell’imperatore è ininfluente nelle scelte e nelle vicende del Giappone, ma la struttura della società giapponese e l’attitudine del popolo a piegarsi all’autorità con assoluta obbedienza continua a dare forza morale al tenno. E questo nonostante la Costituzione del 1947, imposta dagli Stati Uniti a una nazione devastata e umiliata, abbia ridotto il suo ruolo, già storicamente marginale, a puro «simbolo dello Stato e dell’unità del popolo» spogliandolo anche di quell’ultima parvenza di aureola di divinità che lo caratterizzava. Sia chiaro, il sovrano celeste non ha mai rivestito alcuna posizione determinante nell’arcipelago, ma fino al 1947 la presunta discendenza divina era una costante che non era mai stata messa in seria discussione. Un lignaggio che le due più antiche cronache giapponesi, il Kojiki e il Nihonshoki (rispettivamente del 712 e 720 d.C.), fanno risalire ad Amaterasu, dea del Sole (nella religione shinotista), da cui discenderebbe il primo leggendario imperatore Jimmu che, in realtà, era solo il pro-pronipote della dea.

La retrodatazione mitologica che arriva fino al 660 a.C. è servita per millenni a giustificare un’origine autonoma della nazione svincolata dalle influenze coreane e cinesi chiaramente riscontrabili nella cultura, nella storia e nell’archeologia nazionale.

Poco importa, anche alla luce della scienza moderna, se il primo tenno di cui si hanno evidenze storiche accertate sia vissuto solo nel VI secolo d.C. (Kinmei, 539-571 d.C.): la divinizzazione della famiglia imperiale, nonostante la storia, la costituzione, la secolarizzazione continua a rappresentare un punto di riferimento inscindibile dalle tradizioni giapponesi.

L’imperatore emerito Akihito e l’imperatrice emerita Michiko / The Yomiuri Shimbun

Akihito e Michiko

Va dato merito ad Akihito, l’imperatore che ha abdicato e padre di Naruhito, di aver contribuito a riportare la figura del sovrano in una cornice più umana.

La sua insegnante di inglese, la bibliotecaria statunitense Elizabeth Gray Vining, riuscì a iniziarlo alla cultura occidentale e a presentargli i valori di uguaglianza e democrazia di cui il Giappone era a digiuno.

Fu la sorprendente cocciutaggine di Akihito a rompere la millenaria (e geneticamente pericolosa) prassi di trovare moglie tra i lignaggi della casa imperiale. Scelse Michiko Shoda che, oltre a non avere alcun sangue blu nelle vene, discendeva da una famiglia cattolica (anche se lei non era stata battezzata). Il matrimonio incontrò l’opposizione dell’imperatrice Kojun (moglie di Hirohito e madre di Akihito), degli ingessati funzionari della Casa imperiale e anche di ambienti culturali conservatori. Yukio Mishima (scrittore e artista giapponese di fama internazionale morto nel 1970, ndr) definì uno scandalo l’unione perché portava la «famiglia imperiale a perdere la sua dignità mischiandosi con il popolo». Il popolo, invece, approvò, così come approvò la classe politica del paese che vedeva nel matrimonio il biglietto da visita di una svolta sociale e economica che avrebbe contraddistinto la nazione nei decenni a venire.

Michiko dovette rinunciare alla fede cattolica, ma fu ancora Elizabeth Gray Vining, quacchera convinta e praticante, a convincere Akihito e Michiko a fare crescere i loro figli tra le mura della residenza imperiale anziché allontanarli dalla famiglia come era d’uso.

La coppia iniziò anche a viaggiare per il mondo, a «mischiarsi» tra la folla, a partecipare e condividere con i giapponesi gli eventi e i lutti che puntellarono l’era Heisei (平成 cioè «raggiungimento della pace») iniziata con l’ascesa al trono di Akihito nel 1989.

L’imperatore Naruhito e l’imperatrice Masako / Behrouz MEHRI / AFP

Naruhito e Masako, più forti delle maldicenze

L’imperatore attuale, Naruhito, non ha solo ereditato i tre tesori sacri che consacrano solennemente la figura del tenno, ma ha anche ripercorso, finora in modo sorprendentemente simile, le gesta del padre. Ha sposato Masako Owada la quale, forte della sua laurea ad Harvard e della perfetta conoscenza delle lingue inglese, tedesco e francese, era avviata ad una brillante carriera diplomatica. Masako ha resistito alle insistenti avancés di Naruhito fino al 1993. Intelligente, colta ed emancipata avrebbe di certo preferito dedicarsi al lavoro piuttosto che rinchiudersi nelle stanze imperiali sottoponendosi alle continue critiche che le venivano mosse dagli uffici di palazzo e alle tremende pressioni per garantire alla famiglia un erede maschio. Un’altra contraddizione della politica giapponese: nonostante Amaterasu fosse una dea femminile, solo otto donne hanno ricoperto la carica imperiale (l’ultima fu Go-Sakuramachi, che regnò dal 1762 al 1771) e dal 1889 la Costituzione Meiji ha escluso che sul «Trono del crisantemo» possa sedere una donna.

La coppia, però, è affiatata: Naruhito ha più volte rimbrottato la stampa e la stessa Casa imperiale per gli attacchi gratuiti lanciati contro la moglie, strali che hanno causato a Masako una profonda depressione da cui si è ripresa solo dopo la nascita della loro unica figlia. Lo stesso imperatore è interessato più a cose terrene che spirituali: appassionato tifoso di baseball, instancabile camminatore è anche un ambientalista esperto di controllo e di risparmio idrico, grazie ad un master conseguito ad Oxford. Come suo padre, ma a differenza dei suoi predecessori, Naruhito ha più volte mostrato empatia nei confronti dei suoi connazionali colpiti da catastrofi naturali e, assieme alla moglie, si è recato sui luoghi dei disastri per ascoltare le testimonianze delle vittime.

Noi lo abbiamo visto, piccolo e impacciato, accogliere le insegne regali il cui possesso caratterizza la linea imperiale e la discendenza divina.

Tra fantasia e realtà

Le regalie, infatti, sarebbero appartenute nientemeno che alla dea Amaterasu: uno specchio (Yata no kagami), simbolo della conoscenza e della verità, una spada (Kusanagi), simbolo della forza, e un gioiello (Yasakani no magatama), simbolo della salute. La loro storia è oscura quanto la sicurezza della loro stessa esistenza, e rappresenta efficacemente quanto labile sia il confine tra fantasia e realtà nel mondo giapponese, non per nulla patria di Godzilla, dei manga e delle anime. Amaterasu, dea del Sole, offesa dai continui dispetti di gelosia da parte del fratello Susano-O, dio delle tempeste, si rintanò in una caverna facendo piombare l’intero mondo nelle tenebre. Per convincerla ad uscire e ridare la luce, la dea Uzume piazzò uno specchio all’entrata della grotta iniziando una danza che venne accolta con clamore dagli altri kami (gli dei della religione shinto). Amaterasu si affacciò per vedere cosa accadesse e, vedendo il suo volto riflesso nello specchio rimase stupita per la propria bellezza (l’umiltà non è una caratteristica degli dèi). Fu allora che un altro kami la agganciò con un gioiello ricurvo trascinandola fuori dalla grotta. A quel punto Susano-O, in segno di pentimento, diede alla sorella la spada.

Sono questi tre sacri tesori che Amaterasu diede in consegna ai suoi discendenti per comprovare la parentela divina e reclamare il diritto di dominio sul Giappone.

In realtà, nessuno ha mai visto questi gioielli; anzi molti dubitano della loro stessa esistenza. Lo Yata no kagami sarebbe custodito nel santuario di Ise, nella prefettura di Mie; lo Yasakani no magatawa si troverebbe nel santuario del Palazzo imperiale di Tokyo, mentre la Kusanagi no tsurigi verrebbe conservata nel santuario di Atsuta a Nagoya. Nel Heike monogatari (1371), però, si racconta che la spada venne definitivamente perduta negli abissi dello stretto di Shimoinoseki quando l’imperatore bambino Antoku fu costretto al suicidio dalla madre che, sconfitta dal clan dei Minamoto, decise di darsi alla morte portando con sé la spada Kusanagi no tsurigi.

Il significato degli ideogrammi imperiali

È evidente, quindi, che il Giappone è un paese dove tradizione e progresso si intersecano continuamente per formare un tessuto inestricabile. Il gengo, il calendario imperiale, ne è un esempio. Introdotto nel 645 d.C. dall’imperatore Kotoku ad imitazione della dinastia Han cinese, indica che l’imperatore è dominatore non solo del regno, ma anche del tempo.

Il gengo veniva cambiato in occasione di eventi significativi (guerre, catastrofi, giubilei), quindi era possibile che un solo imperatore regnasse durante più gengo. Solo dall’era Meiji (明治 «legge o governo illuminato», 1868-1912) si passò ad identificare l’era con la durata di regno di un singolo tenno.

Così la Reiwa, l’era attuale iniziata il 1° maggio scorso, è il duecento quarantottesimo gengo che traccia la storia del Giappone mentre Naruhito è il centoventiseiesimo imperatore che succede sul «Trono del crisantemo».

Anche se il gengo caratterizza l’era imperiale ed è strettamente connesso all’istituzione monarchica, il suo nome viene scelto dal primo ministro. In questo caso Reiwa è stato selezionato da Shinzo Abe e il nome avanzato da Susumu Nakanishi, professore emerito di 89 anni della Osaka Women’s University ha prevalso su una rosa di sei candidati suggeriti da Tadahisa Ishikawa, 86 anni, della Nishogakusha University e On Ikeda, 87 anni, dell’Università di Tokyo.

Una serie di circostanze ha scatenato una ridda di polemiche che non si sono ancora placate sulla scelta operata dal primo ministro perché il gengo non è mai neutro o un semplice corollario folcloristico, ma getta le basi ideali della nazione e del corso politico che verrà intrapreso dal governo negli anni successivi.

Colpisce il fatto che, proprio in un periodo in cui il nazionalismo giapponese si sta rifacendo largo, sia stata violata la tradizione di scegliere i kanji (caratteri di origine cinese usati nella scrittura giapponese) che compongono l’ideogramma dell’era imperiale, dai classici cinesi. Nel corso della storia 36 gengo sono stati tratti dal Libro dei documenti, il libro più antico di storia cinese, 27 dall’I Ching, mentre tutte le ultime quattro ere moderne – Meiji, Taisho, Showa e Heisei – derivavano i loro nomi dai Cinque libri classici del confucianesimo.

Con Reiwa, per la prima volta si è voluto prendere spunto da una raccolta di poesie classiche giapponesi, il Manyoshu, una scelta vista da molti come un rafforzamento delle istanze nazionaliste propugnate da questo (e non solo questo) governo. Ciò che più ha colpito gli analisti, però, è l’ambiguità con cui gli ideogrammi di Reiwa posso essere interpretati.

Il primo carattere, «rei» (令), nell’uso corrente della lingua giapponese è utilizzato per indicare le parole «comando» (命令meirei), «ordine», «legge» (法令horei) mentre il secondo, «wa» (和), appare nei kanji di Yamato (大和), il nome antico del Giappone che ha connotazioni militariste, oltre che essere il nome della nave da guerra più grande della marina imperiale durante la Seconda guerra mondiale ed essere un kanji dell’era Showa (昭和 «pace splendente» o «pace illuminata», 1926-1989), il gengo che caratterizzò, nella sua prima parte l’ascesa militare e colonizzatrice del Giappone prima e durante il secondo conflitto mondiale.

Nazionalismo e militarismo

Queste circostanze, sommate al fatto che Shinzo Abe ha avviato un pericoloso processo di emendamento costituzionale che permetterebbe al Giappone di dotarsi di un esercito, hanno creato un senso di preoccupazione tra i paesi asiatici che più hanno sofferto il nazionalismo giapponese nella prima metà del XX secolo, in particolare Cina e Corea.

Proprio l’ambiguità del nome Reiwa ha costretto il governo di Tokyo a ribadire, tramite il portavoce del ministero degli Esteri Hiroatsu Satake, che il nome dato alla nuova era non ha alcuna connotazione nazionalista o di prevaricazione, indicando il significato ufficiale come quello di «bella armonia».

Lo stesso Shinzo Abe ha ritenuto opportuno intervenire nell’aspro dibattito specificando che il nome Reiwa ha voluto enfatizzare «la storia da tempo immemore, la nostra altissima e rispettata cultura, la bellezza unica della nostra natura in ognuna delle quattro stagioni. Noi passiamo queste caratteristiche nazionali del Giappone alla prossima era. Proprio come i boccioli di prugno annunciano l’arrivo della primavera dopo il duro e freddo inverno e sbocciano splendidi in tutta la loro gloria così tutti i giapponesi saranno capaci di far sbocciare i loro germogli in tutta la loro bellezza assieme alle loro speranze per il futuro».

L’inquietudine, però, rispetto alla politica di Shinzo Abe, permane nelle diplomazie straniere e in ampi strati delle forze politiche giapponesi, in particolare tra la sinistra (o quello che ne rimane).

Del resto la maggioranza dei giapponesi, appena ha visto il nome Reiwa mostrato dal Segretario di gabinetto Yoshihide Suga, ha subito collegato gli ideogrammi al senso di comando e sono in molti coloro che hanno ricordato che lo stesso kanji «rei» era presente in Reitoku (令徳), uno dei nomi del nuovo gengo proposto nel 1864 alla famiglia Tokugawa e da questa scartato perché presupponeva un senso di comando imperiale sullo shogun (comandante militare, ndr).

L’era Heisei iniziò nel 1989 quando il Giappone era la seconda economia del mondo dopo gli Usa e galoppava verso orizzonti che sembravano perfettamente limpidi e sereni.

Un anno dopo iniziò la crisi ed oggi il Giappone è in recessione, ha una crisi d’identità e la sua economia arranca superata da quella cinese.

Nel 1989 i giapponesi vivevano in condizioni poco invidiabili all’estero: appartamenti minuscoli, prezzi al consumo elevati, un sistema politico monopolizzato dal Partito liberaldemocratico (Pld), una corruzione altissima, una burocrazia che impediva gli investimenti stranieri nel paese e l’importazione di molti prodotti alimentari come riso e carne dall’estero. Durante l’era Heisei le condizioni di vita dei giapponesi sono migliorate: oggi vivono in appartamenti più grandi, i giovani si divertono di più, la vita politica ha visto il crollo del monopolio del Pld, gli agricoltori, ossatura del Pld, hanno perso parte dei sovvenzionamenti che rendevano i prodotti giapponesi carissimi, il mercato si è aperto all’estero e il Giappone si è inserito nella politica mondiale.

I piani di Shinzo Abe

Nel 1995 e nel 2011 la nazione è stata scossa da due terremoti e da uno tsunami che hanno lasciato in eredità il problema di Fukushima. Più dei disastri naturali in sé, però, queste catastrofi hanno minato la fiducia dei giapponesi verso un governo e un sistema che ha spudoratamente mentito sull’immediata gravità della situazione.

Shinzo Abe sta cercando di ridare fiducia ai suoi concittadini puntando tutto sul rilancio economico e su una maggiore presenza di Tokyo nelle scelte internazionali. Le Olimpiadi del 2020 e la Corea del Nord sono funzionali a questa politica di rilancio.

I test missilistici nordcoreani, in particolare i due Howasong-12 che hanno sorvolato Hokkaido nel 2017, hanno permesso a Tokyo di accelerare il processo di riforme iniziato già nel 2015 cementando il ruolo delle Forze di autodifesa nel paese.

Sebbene i 45 miliardi di dollari spesi nel 2017 in campo militare rappresentino solo lo 0,935% del Pil (contro l’1,3% italiano), il governo di Shinzo punta tutto sull’emendamento costituzionale dell’articolo 9 per permettere alla nazione di dotarsi di un esercito legittimato dalla Costituzione e in grado di intervenire in situazioni di potenziale pericolo per la sicurezza del paese anche in senso preventivo.

L’obiettivo di Shinzo Abe è quello di terminare il processo di revisione entro il 2020, anno in cui Tokyo ospiterà i Giochi Olimpici mostrati dal governo come un nuovo inizio della rinascita giapponese, esattamente come i «boccioli di prugno annunciano l’arrivo della primavera dopo il duro e freddo inverno e sbocciano splendidi in tutta la loro gloria». L’era Reiwa è iniziata.

Piergiorgio Pescali




I Perdenti 23. Il Samurai cristiano Justus Takayama Ukon


Con un profondo senso di fierezza la piccola e vivace comunità cattolica giapponese (ma si può dire dell’intera opinione pubblica della nazione del Sol Levante) ha vissuto lo scorso 7 febbraio nel palazzetto dello sport di Osaka la beatificazione di Giusto Takayama, primo samurai cristiano ad assurgere alla gloria degli altari. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con lui.

Innanzitutto, come devo chiamarti?

Chiamami Justus (Giusto), il nome che mi onoro di portare dal battesimo e che ha caratterizzato tutta la mia esistenza.

Raccontaci in breve la tua vita, origine, casato, stato sociale…

Sono nato con il nome Hikogoro Shigetomo tra il 1552 e il 1553 nel castello di Takayama, nei pressi di Nara, figlio di Takayama Zusho divenuto poi signore del castello di Sawa. Takayama è il nome di famiglia che deriva dal territorio di nostra proprietà feudale. Il mio casato era parte della classe dei nobili, ovvero  dei daimy?, signori di un castello e delle relative proprietà. Essi occupavano un posto importante nella scala sociale del Giappone di quel tempo. Venivano subito dopo gli shogun (signori di più territori ai cui i diversi daimy? erano fedeli alleati mettendo a loro disposizione un esercito e combattenti professionisti: i samurai). Il Giappone non era ancora uno stato unificato e i diversi shogun erano spesso in guerra tra loro per allargare le loro aree di influenza

Come avvenne la tua conversione al cristianesimo?

Mio padre nel 1563 era stato incaricato dal suo shogun di giudicare un missionario gesuita, padre Gaspar Videla, che stava annunciando il Vangelo proprio a Kyoto, la futura città imperiale. Ascoltandolo, rimase così impressionato che volle diventare cristiano, si fece battezzare e prese il nome di Dario. Non solo, mio padre convinse anche altri due giudici che divennero cristiani e, una volta tornato al suo castello accompagnato da un catechista, fece istruire e battezzare molti dei suoi soldati, sua moglie e i suoi figli, tra cui c’ero io, il primogenito. Era verso la fine del 1563 e avevo circa dodici anni. Da quel momento mio padre divenne un protettore dei cristiani.

Ma subito dopo scegliesti la vita militare.

Per me, figlio ed erede di un importante daimy?, era una vocazione naturale quella di diventare un samurai, un guerriero sempre pronto a difendere la famiglia, la legalità e il suo signore, lo shogun.

Hai partecipato a guerre e duelli? C’è qualche avvenimento che ricordi in modo particolare?

I daimy? erano spesso in conflitto tra loro. Sì, ho partecipato a guerre e combattimenti, distinguendomi per il mio valore. L’episodio che ha segnato la mia vita è stato il duello con il figlio di un amico di mio padre nel 1571. Avevo vent’anni. Dopo la morte di suo padre era venuto a contrasto col mio e, secondo la tradizione, dovetti accettare di battermi a duello per risolvere la questione. Fui ferito gravemente, ma uccisi il mio avversario. Nel periodo che seguì questo triste evento, approfittai della forzata convalescenza per riflettere a fondo sulla mia vita, e come fu per sant’Ignazio di Loyola così fu per me. Mi convinsi che pur rimanendo un samurai dovevo mettere la mia abilità nel maneggiare le armi al servizio dei più deboli, degli orfani e delle vedove.

È vero che giungesti anche alla conclusione che non dovevi più usare la forza per risolvere i conflitti?

Nel 1573 la mia famiglia ricevette un nuovo feudo e ne divenni il daimy?, perché mio padre era ormai troppo vecchio. Due anni dopo presi Giusta, una cristiana, in moglie ed ebbi tre figli (due morti ancora bambini) e una figlia. Una famiglia è una buona ragione per vivere in pace. Ma in quei tempi non era facile stare fuori dalle guerre.

Nel 1578 un daimy? nostro vicino si era ribellato al nostro shogun e si era accampato davanti al nostro castello, prendendo in ostaggio mia sorella e mio figlio e minacciando i cristiani. Feci allora un gesto impensabile per uno del mio rango: rinunciai ai miei diritti feudali e mi presentai disarmato nel campo del nostro nemico invitandolo a trovare un’intesa di pace invece di far scorrere inutilmente del sangue e gettare nel lutto e nello sconforto molte famiglie. Presentandomi disarmato all’avversario, rinunciai a ciò che ero e alle mie capacità guerriere, affidandomi completamente a Dio.

In questo modo mettevi in gioco la tua reputazione di samurai e il tuo onore.

È vero, ma cominciavo a dare testimonianza del Vangelo fra la mia gente, lasciando intravedere come fosse possibile vivere fino in fondo il messaggio di amore e di pace che Cristo era venuto a portare nel mondo e che dopo più di millecinquecento anni era finalmente approdato anche nella mia terra.

La questione fu risolta senza spargimento di sangue e il mio shogun mi riconfermò la sua fiducia e il feudo, permettendomi così di continuare a sostenere la nostra comunità cristiana.

Per questo cominciasti anche a impegnarti perché la fede cristiana attecchisse nel tuo paese in forma stabile.

Avevo la piena fiducia del mio shogun di cui ero diventato uno dei generali più importanti. Feci costruire una chiesa nella stessa città imperiale di Kyoto e un seminario ad Azuchi, sul lago Biwa, per la formazione di missionari e catechisti giapponesi. La maggioranza dei seminaristi provenivano dalle famiglie del mio feudo. Tra loro mi piace ricordare Paolo Miki e i suoi compagni che in seguito subirono il martirio nel 1597 (canonizzati poi nel 1862).

La tipica cerimonia giapponese del tè dove si rafforzano le relazioni fra i partecipanti e si approfondiscono i legami di amicizia fu da te utilizzata per fare evangelizzazione.

Per noi bere il tè non è un atto superficiale. È una cerimonia che con il suo rituale ha un fascino intrinseco che aiuta ad approfondire i legami di amicizia e di fraternità. Sulla dimensione orizzontale delle relazioni fra esseri umani, io inserii la dimensione verticale che aiutava a elevarsi a Dio e a vivere in amicizia e comunione in Lui.

Si può dire che l’attività che svolgesti come catechista e missionario fra la tua gente fu molto positiva per la fede cattolica in Giappone?

Grazie agli sforzi che mettemmo in atto in quegli anni, furono battezzate alcune migliaia di persone. La mia posizione di favore con lo shogun, continuata anche nel primo periodo di Toyotomi Hideyoshi, andato al potere nel 1583, aumentava la mia influenza tra i nobili, diversi dei quali accettarono di diventare cristiani. Ma Toyotomi, divenuto sempre più potente fino a riuscire a unificare tutto il Giappone sotto la sua autorità, cominciò a temere i cristiani e nel 1587 emise un editto che ne proibiva la religione nel paese e conteneva l’ordine di espulsione dei missionari stranieri e l’esilio per i catechisti nativi.

È vero che ti fu richiesto di abbandonare la fede cattolica?

Sì certo, ma contrariamente a quanto fecero altri nobili, preferii rinunciare al mio feudo e subire l’esilio piuttosto che abiurare. Dopo un periodo difficile di mendicità, trovai rifugio con la mia famiglia presso un amico nell’isola di Shodoshima. Toyotomi venne a saperlo e mi fece incarcerare. Furono tempi duri, ma nel 1592 volle riconciliarsi con me in una cerimonia pubblica. Non mi fu restituito il mio feudo, ma ero libero di muovermi e ne approfittai per continuare a sostenere le comunità cristiane sparse in varie parti del Giappone.

I governanti del Giappone vedendo la nuova fede conquistare sempre nuovi fedeli diventarono più ostili verso i cristiani e inasprirono la persecuzione.

Nel 1597 ci fu una nuova recrudescenza della persecuzione. A Nagasaki furono martirizzati in 26. Morto improvvisamente Toyotomi, il successore fu peggio di lui. La persecuzione verso i cristiani fu capillare e intensa. Si voleva sradicare quello che loro chiamavano «la mala pianta» o «la religione perversa». Imprigionare, condannare a morte o esiliare i cristiani era diventato un dovere patrio per chi era al potere in Giappone in quel tempo.


Il 14 febbraio del 1614, Justus Takayama e i suoi famigliari furono catturati e trasferiti a Nagasaki in attesa di essere giustiziati insieme ai missionari che erano stati radunati là. Dopo mesi di carcere, l’8 novembre 1614, Justus e 300 dei suoi compagni furono condannati all’esilio e caricati su una giunca diretta a Manila, nelle Filippine. L’espulsione e la lenta navigazione sulla nave carica all’inverosimile fecero ulteriormente progredire Justus nella fede. Proprio per tutte le sofferenze e le difficoltà patite, l’ultimo anno della sua vita fu decisivo per trasformarlo in un «vero martire», come lo venerano i cristiani giapponesi. Durante il periodo in carcere egli aveva nutrito la speranza di condividere la sorte dei martiri di Nagasaki. Era certo che sarebbe stato ucciso e aveva aspettato la fine con grande serenità. La navigazione verso le Filippine e l’esilio a Manila furono il tempo in cui Dio gli fece capire la differenza tra il desiderio attivo del martirio e l’essere esposto passivamente a condizioni che solo lentamente conducono alla morte. Justus comprese che Dio gli chiedeva l’offerta della vita, nella forma del «martirio prolungato» dell’esilio. Pur accolto con tutti gli onori dagli Spagnoli, sfinito dalla prigionia e dalla lunga navigazione morì a Manila il 3 febbraio 1615, quaranta giorni dopo il suo arrivo nelle Filippine.

La Chiesa lo ha elevato alla gloria degli altari riconoscendolo Beato e Martire il 7 febbraio 2017. Ho avuto la gioia di essere presente a quell’avvenimento di grazia con una piccola delegazione della chiesa di Novara.

Don Mario Bandera

La Chiesa in Giappone fa risplendere la luce della fede

La storia della Chiesa in Giappone inizia il 15 agosto 1551 quando san Francesco Saverio insieme ad altri due gesuiti mise piede nel paese. Immediatamente ne diede notizia a sant’Ignazio di Loiola con numerose lettere che iniziarono a far conoscere al continente europeo la complessa realtà del grande paese del Sol Levante. Per alcuni anni i missionari cattolici non furono più di quattro o cinque, il loro campo di apostolato abbastanza limitato, per cui i risultati furono piuttosto scarsi. Nel 1563 si ebbe un primo risultato importante della loro azione missionaria quando a Kyoto alcuni personaggi influenti della società giapponese di quel tempo (tra i quali il padre del samurai Giusto Takayama) si fecero battezzare diventando così il primo nucleo della nascente comunità cattolica del Giappone. Nello stesso anno si ebbe la conversione al cristianesimo di Omura Sumitada, signore del territorio di Kyushu, che portò al battesimo di gran parte dei suoi sudditi. Da quel momento iniziò un periodo intenso di conversioni in cui molti giapponesi chiedevano il battesimo e di entrare a far parte della Chiesa Cattolica.
In quegli anni il generale Hideyoshi portò a compimento l’unificazione del grande arcipelago giapponese composto da più di trecento isole, in un primo momento si mostrò ben disposto verso i missionari (che nel frattempo erano diventati una trentina tra gesuiti e francescani) ma cambiò idea subito dopo, quando una nave spagnola fece naufragio sulle coste del Giappone e il comandante del galeone alle autorità nipponiche intervenute al salvataggio, disse che il Re di Spagna quando voleva annettersi un territorio mandava avanti i missionari a preparare il terreno. Questa frase vera o falsa che fosse, mandò su tutte le furie Hideyoshi che diede ordine di distruggere le chiese, espellere i missionari stranieri e catturare e mettere a morte tutti i cristiani giapponesi ovunque essi fossero. Col passare degli anni le cose migliorarono, basti pensare che nel 1601 la città di Nagasaki contava circa quarantamila abitanti quasi tutti cattolici, ed era divenuta sede episcopale con il gesuita Luigi Cerqueira nominato primo vescovo residenziale del Giappone. Nel frattempo i cristiani avevano raggiunto il bel traguardo di trecentomila battezzati, si erano costruiti diversi collegi e due seminari che dopo pochi anni “sfornarono” i primi sette sacerdoti autoctoni. Ma su questa stupefacente primavera missionaria, si abbatté subito dopo una violenta persecuzione che segnò in modo indelebile la nascente comunità cristiana, venne infatti emesso un editto che proscriveva la religione cristiana da tutto il territorio nipponico; si misero in atto forme violenti e spettacolari di condanne a morte come le crocifissioni lungo le strade di maggior comunicazione. Di fronte a questa inaudita violenza tutti rimanevano meravigliata dalla forza d’animo e dal coraggio con cui i cristiani andavano incontro alla morte. Nel 1623 il Giappone si chiuse completamente al commercio estero isolandosi dal mondo, nessun straniero poteva vivere sul suolo giapponese e tutti i tentativi diplomatici che le potenze europee misero in atto per superare questa situazione andarono a vuoto. Questa situazione durò alcuni secoli fino al 1854 quando l’ammiraglio statunitense Perry, latore di una lettera del presidente degli Stati Uniti per le autorità giapponesi in cui si chiedeva di ampliare i commerci fra i due paesi, forzò il blocco ed approdò sul suolo giapponese. L’iniziativa ebbe successo e si stabilì che nel porto di Nagasaki potessero attraccare navi provenienti da ogni parte del mondo, riservando anche uno spazio per una “cittadella” aperta ai marinai delle diverse nazionalità. Su questo terreno venne edificata una piccola chiesa per il servizio spirituale ai marittimi cristiani, per questa incombenza pastorale venne incaricato il sacerdote francese Jean de la Petit, il quale fu protagonista e testimone di un avvenimento che ha del miracoloso. Infatti, un pomeriggio mentre era in chiesa a pregare venne raggiunto da un gruppo di giapponesi che gli posero tre domande: “Sei sposato? Il tuo capo è a Roma? La Mamma dov’è?”. Al che padre Jean, rispose: sono un prete cattolico per cui devo obbedienza ai miei superiori, primo fra tutti al Papa di Roma, non sono sposato e additando la statua della Madonna che gli era arrivata dalla Francia poche settimane prima disse loro: “ecco Maria, la mamma di Gesù”. In quel momento accadde qualcosa di inaspettato, i visitatori si inginocchiarono e dissero: “il nostro cuore batte come il tuo!”. Padre Jean li abbracciò ad uno ad uno, rendendosi conto che aveva di fronte il resto del piccolo gregge che aveva tramandato la fede cattolica di generazione in generazione, vivendo nelle catacombe per quasi duecentocinquant’anni senza l’assistenza di nessun sacerdote, sostenuti con la Grazia di un unico sacramento, il battesimo!
Oggi il Giappone che conta circa 125 milioni di abitanti, quasi tutti Shintornisti, va fiero della storia della sua Chiesa, costellata di tanti martiri e che pur nell’esiguità del numero attuale: i cristiani sono circa l’uno per cento della popolazione, ovvero un milione e duecentomila e di questi quanti si dichiarano cattolici sono circa ottocentomila persone. L’immagine evangelica del lievito nella pasta non può essere più calzante, l’essere in comunione con questa chiesa che ha tanto sofferto, dovrebbe rendere la nostra chiesa orgogliosa di questa cooperazione. (m.b.)




Giappone: Il prezzo del Mercato


Tra i grandi paradossi dell’era moderna non c’è solamente quello di un mondo diviso tra chi soffre la fame e chi invece ha fatto dello spreco una parte integrante del proprio stile di vita, c’è anche quello di un mondo in cui, mentre molti soffrono per la disoccupazione (il tasso in Grecia è del 28%, in Spagna del 26% e quella giovanile in Italia del 40%), altri soffrono (e muoiono) per troppo lavoro. Emblematico un caso di morte da troppo lavoro a Tokyo che ha scosso la coscienza dell’intero Giappone.

Lei aveva solo ventiquattro anni, lavorava presso una delle più grandi agenzie pubblicitarie del Giappone. A Natale del 2015 si è gettata dal terzo piano, dalla stanza del dormitorio nella quale viveva.

Seppure i morti sul lavoro in Giappone siano all’ordine del giorno, questo suicidio ha avuto una risonanza mediatica senza precedenti.

Matsuri, questo il nome della giovane donna, lavorava per la Dentsu, ovvero il gigante della pubblicità noto proprio per le troppe ore di lavoro a cui sottopone i sui dipendenti e per una gestione del personale spietata. Una delle prime morti per troppo lavoro nella stessa azienda risale addirittura al 1991 quando un uomo, anche lui di ventiquattro anni, si era impiccato in casa. Nel 2000 la più alta corte del Giappone aveva stabilito che quel suicidio era stato causato da insostenibili condizioni di lavoro. In quell’occasione l’azienda aveva concordato con la famiglia della vittima un risarcimento di quasi due milioni di dollari.

Il caso di Matsuri è diventato emblematico perché grazie ai social media su cui lei regolarmente comunicava possiamo ricostruirne passo per passo il lungo calvario: dalla grande euforia iniziale per essere stata assunta da una grande azienda, sino ai messaggi finali, quelli che in rete sono diventati virali. È da questi ultimi che si capisce distintamente lo strazio interiore della giovane: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita», si legge in uno dei suoi tweet.

Una storia di «successo»

Matsuri aveva ventitré anni quando è entrata nell’azienda dopo una laurea presso l’Università di Tokyo (una delle più importanti di tutto il Giappone). Era una ragazza piena di speranza e di ottimismo, così l’hanno descritta i suoi amici.

L’azienda Dentsu aveva ridotto il numero di dipendenti da 14 a sei all’interno della divisione nella quale Matsuri era impiegata. Ma il carico di lavoro non era diminuito. Matsuri aveva iniziato il suo primo lavoro accumulando la bellezza di 100 ore di straordinari al mese. Sul suo micro blog raccontava la crescente fatica di tenere il passo con quei ritmi forsennati: «Il mio capo mi ha detto che i documenti che ho scritto dopo il ritorno dalle vacanze erano spazzatura. Sono mentalmente e fisicamente devastata»; «Ho perso ogni sentimento, tranne il desiderio di dormire»; «Forse la morte è un’opzione molto più felice».

Moltissimi giapponesi si sono commossi quando questi tweet sono stati resi noti e hanno lasciato messaggi di solidarietà. In particolare, numerosi sono stati i messaggi da parte di donne infuriate nel sapere che a Matsuri, sul procinto di crollare mentalmente e fisicamente, veniva richiesto da parte del capo (di sesso maschile) di mostrare un maggior appeal femminile, e di mantenere un aspetto più attraente. Un tipo di richiesta che non è affatto un caso isolato: sono molte le lavoratrici in Giappone che prima o poi ricevono questo tipo di richiesta durante la loro carriera.

La mattina di Natale (2015) la ventiquattrenne ha inviato il suo ultimo messaggio, diretto alla madre che viveva a Shizuoka, non molto distante da Tokyo. Il testo era un laconico: «Grazie di tutto». La madre, presagendo la disgrazia, ha chiamato immediatamente la figlia pregandola di non uccidersi. Ma neppure la voce di sua madre è stata sufficiente a farla desistere.

Karoshi

Certamente il concetto di lavorare troppo non riguarda solo i giapponesi (in molti altri paesi, e non solo dell’Asia, lavoratori sono sottoposti a orari da schiavi senza neppure il beneficio di giusti salari), ma in Giappone la questione è presa molto più seriamente, al punto da coniare un termine ad hoc per parlarne.

Karoshi, (parola composta da tre caratteri kanji, ? ? ?, che significano letteralmente “eccessivo”, “lavoro”, “morte”), è il termine per definire appunto la morte da troppo lavoro.

Le cause di morte possono essere attacchi di cuore o ictus risultato di lunghi periodi di stress. Spesso però il super lavoro porta direttamente al suicidio, fenomeno per il quale esiste un’altra parola specifica, ? ? ??, karojisatsu. E mentre il Giappone sta tentando di aprire ai nuovi migranti (per lo più cinesi e filippini) per bilanciare il declino delle nascite e dunque delle nuove generazioni che si affacciano sul mondo del lavoro, anche gli stranieri cominciano a tremare per i trattamenti a cui potrebbero essere sottoposti, vedendo quanto è accaduto recentemente a una filippina di ventisette anni che ha fatto karoshi. I suoi straordinari avevano toccato il picco di 123 ore in un mese.

Un fenomeno diffuso

Il primo caso ufficialmente riconosciuto come suicidio per stress da lavoro nel Sol Levante fu registrato nel 1969, ma è solo un decennio più tardi (1978) che venne creato il vocabolo specifico karoshi e solo negli anni ’80 venne riconosciuto come un serio problema sociale, non a caso proprio durante il boom economico.

In quegli anni alcuni dirigenti aziendali di alto livello erano morti senza alcun accenno di malattia pregressa. Queste morti vennero riprese dai media suscitando una crescente preoccupazione. È a questo punto che il governo iniziò la raccolta e la pubblicazione di informazioni sul karoshi come possibile causa di morte.

In un recente sondaggio del governo giapponese – una ricerca mirata a circa 10.000 aziende e 20.000 lavoratori – si è dimostrato che un quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro.

Lo studio ha rilevato che circa il 22 per cento dei dipendenti giapponesi accumula più di 50 ore al mese di straordinari, mentre nel Regno Unito e in Francia le percentuali sono del 10-15 per cento.

Il 22,7 per cento delle imprese ha riferito che alcuni dei loro impiegati producono più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80 ore – circa quattro ore al giorno da aggiungere al normale orario di ufficio – sono ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di darsi la morte si intensifica in modo drammatico.

Il top delle aziende stacanoviste sarebbe però il 12% del totale, quelle i cui dipendenti toccano la vetta delle 100 ore di straordinari al mese. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore Information Technology e delle comunicazioni, come anche quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto.

Va aggiunto che il lavoro supplementare di ogni impiegato è composto anche da straordinari non dichiarati, detti furoshiki, (nome che deriva dalla tradizionale stoffa giapponese per avvolgere – dunque nascondere – scatole o regali). E tantissime sono le ore di straordinario che non vengono registrate e che quindi non vengono prese in considerazione dalle statistiche.

Ora l’obiettivo del governo giapponese è quello di abbassare la percentuale di dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana per arrivare a una soglia «salutare» del cinque per cento del totale dei lavoratori.

Super lavoro, storia antica

Il mondo del super lavoro in Giappone non è però una realtà recente, risale a prima della seconda guerra mondiale, in un periodo dove le leggi sul lavoro appena esistevano. Quel periodo è stato immortalato sia nel cinema che in letteratura. Su tutti spicca il saggio di Tsuneichi Miyamoto, Nihon zankoku Monogatari (Racconti crudeli dal Giappone). Miyamoto descrive nei minimi dettagli la situazione dei lavoratori sfruttati negli anni precedenti la guerra. In quelle storie ci troviamo di fronte a una realtà brutale in cui uomini e donne, giovani e vecchi, venivano spogliati dei loro diritti e costretti a turni massacranti di 15 ore al giorno.

Erano gli anni ’20, quando si lavorava gomito a gomito all’interno di fabbriche tessili improvvisate in spazi ridottissimi. Non erano rare le epidemie di colera e tubercolosi che decimavano in pochissimo tempo i lavoratori. Chi si ammalava veniva semplicemente abbandonato. In questo sistema di lavoro molti si suicidavano.

Ma il Giappone di oggi non ha apparentemente nulla a che fare con quello di un secolo fa, e i giovani giapponesi non fanno certo i lavori massacranti dei loro antenati, lavori oggi svolti quasi totalmente da immigrati stranieri.

In più il curriculum di Matsuri era invidiabile: laureata nella più importante università del paese, giovanissima, aveva trovato impiego nella più grande agenzia pubblicitaria del Giappone. Nonostante il clamore suscitato dalla sua morte e, conseguentemente, da tutto ciò che di torbido è emerso sulla compagnia per la quale lavorava, sono tantissimi i giovani che ancora oggi ambiscono lavorare per quell’azienda.

Vita e lavoro

Una possibile spiegazione di questo atteggiamento apparentemente irragionevole la si può ricavare da un recente sondaggio. Si è dimostrato come il 90% dei lavoratori giapponesi non comprenda affatto il concetto di equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla vita privata, in quanto per molti il lavoro coincide esattamente con la propria esistenza: quattro su cinque dipendenti sono pronti ad annullare tutti i propri impegni pregressi nel caso venisse chiesto loro di fare degli straordinari.

Lo sa bene Emiko Teranishi, 67 anni, a capo di una rete nazionale di familiari delle vittime di karoshi, la quale ha recentemente raccontato la vicenda di suo marito. Era un manager in un ristorante di soba noodle (tagliatelle giapponesi) nella prefettura di Kyoto, lavorava più di 4000 ore l’anno (oltre 10 ore al giorno nei 365 giorni dell’anno, ndr). Si è suicidato in seguito a una lunga depressione dovuta alla mancanza di sonno causata dal troppo lavoro.

Solo pochi giorni prima della sua morte il marito aveva avuto il coraggio di parlare con il proprio capo circa i propri disturbi di salute: non aveva più appetito, non riusciva a dormire ed era esausto.

Una società gerarchizzata

Ma perché i lavoratori si lasciano convincere così facilmente a compiere straordinari oltre le proprie forze fisiche e mentali? Solo dieci anni fa tutti gli analisti di questo fenomeno avrebbero risposto: per mostrare la fedeltà alla loro azienda. Ma oggi la flessibilità lavorativa è una realtà anche in Giappone, e un impiego a vita per la stessa azienda è un fatto più unico che raro, la risposta va cercata nel rispetto che i subalterni nutrono verso i propri superiori.

Basta pensare che già a partire dalle scuole medie, cioè ad appena 12 anni, si viene educati al valore e al rispetto assoluto della gerarchia sociale: ogni studente infatti deve rivolgersi al proprio compagno/a di età superiore (basta anche un solo anno) con un linguaggio formale (keigo) ovvero mostrando una riverenza implicita già a partire dalla scelta delle parole. Questa formalità viene abbandonata solo nel caso in cui la persona che si trova nella posizione gerarchica superiore ne concede la possibilità.

I giovani a rischio

E non c’è da meravigliarsi che a togliersi la vita siano i più giovani. In Giappone infatti i ragazzi già un anno prima della laurea iniziano a partecipare a dei colloqui di lavoro chiamati shukatsu. Lo shukatsu comporta intensi colloqui con decine di aziende. È un lavoro vero e proprio – ci sono decine di manuali su come prepararsi al meglio per lo shukatsu – che comporta stress elevatissimi.

Ragazzi appena laureati e già in recruit suit (uniforme nera standard che si indossa durante la ricerca di lavoro), affrontano decine di colloqui con la più grande paura: quella di non riuscire a trovare immediatamente un buon lavoro. Ed è per questo che partecipano al maggior numero di colloqui possibile (mediamente sono 60), così da assicurarsi un impiego anche al di là dei propri interessi di studio: ciò che conta è tornare a casa e mostrare ai propri genitori un posto sicuro sul quale poter costruire un futuro.

Un professore di una nota Università giapponese ha recentemente innescato una polemica ribadendo come quella dei ventenni di oggi sia una generazione di sfaticati che rispetto alle vecchie generazioni non avrebbe la stamina sufficiente per compiere il proprio dovere (vedi appunto le decine di ore di straordinari). Molti giovani hanno trovato il coraggio, anche grazie all’anonimato di cui godono nei social media, di far notare a quel professore come al giorno d’oggi è anche abbastanza normale che le ore di lavoro si riducano semplicemente perché gli strumenti tecnologici permettono a un impiegato di produrre molto di più di quanto non avvenisse trent’anni fa.

Riforma del lavoro

In ogni caso dopo l’ultimo scandaloso caso di suicidio per troppo lavoro il governo sembra aver finalmente preso atto della situazione, «La riforma del lavoro non è solo un problema sociale, è di tipo economico», ha detto recentemente il primo ministro Shinzo Abe ai giornalisti, «se rivediamo le regole del lavoro straordinario potremo migliorare l’equilibrio tra tempo dedicato alla vita e al lavoro, rendendo più facile per i dipendenti – tra cui donne e anziani – avere un lavoro sereno».

Cinquanta aziende, tra cui i grandi gruppi Daiwa Securities Group Inc. e Seven & I Holdings Co., hanno firmato un accordo per eliminare addirittura gli straordinari.

La Yahoo Japan Corp. sta prendendo in considerazione la possibilità di introdurre una settimana lavorativa di soli quattro giorni. Perfino il nuovo governatore di Tokyo, Yuriko Koike, ha recentemente messo per iscritto che il personale negli uffici governativi non può restare a lavoro oltre le otto di sera.

Questi sono tutti piccoli segnali ma se messi insieme dicono che forse, gradualmente, le cose in Giappone sul fronte del lavoro, possono davvero migliorare.

Cristian Martini Grimaldi*

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* Scrittore e giornalista. Ha vissuto negli Stati Uniti, India, Corea, Cina. Vive a Tokyo. Collabora con varie testate italiane ed estere, si occupa di cultura, religione, condizione delle minoranze e diritti umani in Asia ed Estremo Oriente (da www.huffingtonpost.com).




Giappone 1 / L’Eredità di Fukishima

Dopo il disastro dell’11 marzo 2011: l’incubo durerà a lungo.  Si dice che la bonifica durerà 40 anni. Intanto, nella centrale devastata dallo tsunami del marzo 2011, gli allarmi continuano. Acqua radioattiva è arrivata fino in Califoia. Nonostante gli evidenti problemi, il premier Abe ha confermato la scelta nucleare del paese. E l’ottimismo viene alimentato anche con l’assegnazione al Giappone delle Olimpiadi del 2020. A Fukushima abbiamo camminato tra le rovine e parlato con i sopravvissuti. Queste sono le loro storie.

Il semaforo giallo continua a lampeggiare ritmicamente. Incessantemente. È l’unico segnale di presenza umana rimasto nella cittadina di Futaba, meno di tre chilometri in linea d’aria dalla centrale di Fukushima Daiichi, l’impianto nucleare colpito dallo tsunami del marzo 2011 e da cui continuano a fuoriuscire notevoli quantità di isotopi radioattivi. La statale numero 6, l’importante arteria stradale che segue la costa verso nord, è improvvisamente interrotta: un cartello spiega che oltre è impossibile proseguire, ma non ne indica il motivo, del resto troppo facile da intuire. La ferrovia è completamente avvolta nella fiorente vegetazione.

Parcheggio l’auto lungo quella che era la via principale del nucleo abitato: il silenzio penetra fin dentro le ossa. Improvvisamente un grugnito: dietro me un maiale, a una decina di metri di distanza, mi scruta immobile e titubante prima di riprendere la sua strada e immergersi nel giardino incolto di una casa privata. A Minamisoma, l’ultima città prima di entrare nella zona proibita, mi avevano avvertito della presenza di animali domestici inselvatichiti: maiali, cani, gatti, mucche che si aggirano indisturbati tra i campi abbandonati alimentandosi di prodotti di un suolo dove il Cesio 137 è decine di volte superiore alla norma. Animali destinati a morire nel giro di qualche anno, uccisi da invisibili atomi che rilasciano particelle ad alta energia danneggiando il loro Dna.

Poco più avanti, a Tomioka, i segni dello tsunami sono ancora evidenti: la stazione del treno è distrutta e l’intero paese, anch’esso disabitato, è devastato. Qui il tempo si è fermato a quell’11 marzo del 2011. Nel piccolo ristorante di fronte al porticciolo i piatti sono impilati uno sull’altro in attesa di clienti che ormai non arriveranno più, mentre nelle case sventrate si intravedono giocattoli, quadri, giornali. Un calendario magnetico ha ancora il cerchietto centrato sulla casella dell’11 marzo. Da allora nessuno lo aggiorna, così come nessuno fa ripartire le lancette di un orologio fermo all’ora del disastro. Tutto intorno, per chilometri e chilometri, case distrutte, elettrodomestici accatastati, carcasse di auto, negozi sbarrati da fogli di compensato.

Della «Tepco», ovvero  del crollo del mito giapponese.

Se Chernobyl è stata una sciagura, Fukushima continua a essere un cataclisma. Gli incidenti nella centrale giapponese non sono mai cessati e la popolazione si è sentita ingannata da una compagnia elettrica – la Tepco, gestore dell’impianto – inetta e pasticciona appoggiata da un governo bugiardo e infingardo. A tutto questo si aggiunga anche l’incompetenza dei tecnici, e ci troviamo di fronte a un quadro assolutamente desolante e raccapricciante.

Per evitare la bancarotta, Tokyo ha deciso di nazionalizzare, almeno in parte, la Tepco: 22 miliardi di euro che andranno ad aggiungersi ai 190 miliardi di euro (rispetto ai 75 preventivati solo qualche mese fa) necessari per la bonifica dell’area che, secondo l’ultimo rapporto della Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese durerà all’incirca quarant’anni. Nonostante la centrale di Fukushima sia divenuta una divoratrice di denaro pubblico, i problemi che continuano a nascere uno dopo l’altro senza interruzione pongono una seria incognita sul futuro dell’intera regione e sulla sorte dei suoi abitanti.

Lo sversamento in mare di centinaia di tonnellate d’acqua radioattiva utilizzata per il raffreddamento dei reattori fusi è solo l’ultimo di una impressionante catena di incidenti causati, per la maggior parte, dall’imperizia e dalla superficialità con cui la Tepco e il governo hanno affrontato l’incidente. Ora si è aggiunta la paura del cedimento della struttura che ingloba il reattore numero 4, sprofondata per una ventina di centimetri nel terreno reso fradicio dalle perdite di acqua.

La situazione rischia di non essere più controllabile, come dimostra la continua oscillazione delle misure di radioattività che vengono continuamente monitorate nei vari punti della prefettura di Fukushima.

Il passaggio di consegne dello scettro di primo ministro da Yoshihiko Noda, esponente del Partito Democratico (Pd) a Shinzo Abe, del Partito Liberaldemocratico (Pld), avvenuto il 26 dicembre 2012, ha ulteriormente ingarbugliato la matassa politica ribaltando, per l’ennesima volta, l’agenda energetica del paese. Dopo lo tsunami del 2011, infatti, i democratici, allora al governo, avevano deciso di varare un programma che azzerasse, entro il 2040, la produzione di energia nucleare nell’arcipelago dando il via alla nascita di una serie di proposte per l’utilizzo di fonti energetiche alternative a quelle tradizionali. Il più prolifico e concreto tra gli scienziati è Tetsunari Iida, fondatore e direttore dell’Isep (Institute for Sustainable Energy Policies): «Il nostro obiettivo è quello di creare una società che possa essere alimentata per il 100% da energie rinnovabili» afferma il ricercatore con un passato da ingegnere nucleare alle spalle. L’idea, per raggiungere tale traguardo, è esattamente l’opposto di quello che è accaduto in Italia fino a qualche anno fa: anziché tappezzare vaste superfici di terreno con pannelli solari sottraendole alla produzione agricola o di creare megacentrali idroelettriche costruendo dighe ed enormi bacini artificiali, Iida, e con lui molti altri ricercatori giapponesi, propongono piccoli impianti a livello domestico e comunale. «In questo modo l’impatto ambientale sarebbe minimo e competerebbe alla stessa comunità provvedere al suo mantenimento, abbattendo i costi di gestione». Secondo uno studio del ministero dell’Ambiente giapponese, l’introduzione di piccole e medie centrali idroelettriche, l’energia eolica (da potenziarsi principalmente lungo le coste del Tohoku e di Hokkaido), l’energia geotermica potrebbero fornire un contributo energetico importante. Secondo un rapporto del Wwf, il divario tra energia prodotta e energia consumata potrebbe essere colmato entro il 2050 affiancando un aumento dell’efficienza e del risparmio energetico alle fonti rinnovabili (oggi solo il 3,79% dell’energia totale consumata in Giappone proviene da queste ultime).

 

Le certezze di Shinzo Abe

Di diverso avviso è, invece, l’attuale primo ministro Shinzo Abe il quale, dopo essere salito al governo ha confermato l’opzione nucleare adducendo come giustificazione il fatto che la tecnologia delle energie rinnovabili, con la loro stretta dipendenza dagli eventi naturali, non è ancora pronta a sostituire la continuità produttiva che garantisce la fissione dell’atomo.

Così, dopo anni di sospensione, è ripresa la costruzione di due nuove centrali: quella di Ohma-1, nella provincia settentrionale di Aomori, e Shimane-3, sulla costa meridionale del Mar del Giappone.

A Wakinosawa, nella penisola di Shimokita, Takayuki Isoyama oltre a gestire un ostello è anche membro della Commissione ambientale della Riserva naturale della regione. A lui chiedo se, dopo Fukushima, si sono levate voci contro il completamento della centrale di Ohma-1: «Ben poche» è la sua risposta; «La costruzione della centrale offre opportunità di lavoro a migliaia di locali e, visto che questa è una delle regioni più povere del Giappone, le opzioni sono due: o si emigra o si sfruttano le possibilità che si vengono a creare».

Questa scelta obbligata è uno dei principali motivi per cui il movimento antinucleare trova ostilità anche tra gli stessi abitanti della provincia di Fukushima. Nelle ultime elezioni, tenutesi nel luglio 2013, il Partito Liberaldemocratico ha ottenuto più del doppio dei voti del Partito Democratico. «Merito dei posti di lavoro che l’incidente della centrale ha creato» spiega Sachiko Goto, un membro del movimento antinucleare che, assieme alla sua famiglia, gestisce una tenuta agricola proprio alla periferia della città di Fukushima, ad una cinquantina di chilometri dalla centrale atomica. Ma non è solo questa la motivazione: un impiegato della prefettura (l’equivalente della nostra provincia), che si occupa di misurare la radioattività nel terreno, aggiunge che la vera ragione per cui le ue hanno decretato il trionfo del Pld «non è un premio alla sua politica pro-nucleare, ma un modo per spronare il premier, Shinzo Abe, a varare piani di recupero e di salvaguardia per far rientrare la situazione di emergenza creatasi dopo lo tsunami del 2011». Abe, infatti, ha sempre imputato la scarsa incisività del governo per risolvere la questione di Fukushima, alla divisione del parlamento giapponese. La camera bassa, a maggioranza liberaldemocratica, avrebbe varato leggi e decreti che sarebbero poi stati ostacolati nella loro attuazione dalla camera alta, in mano democratica. Tutti, in realtà, sanno che la vera spiegazione dell’indecisione politica è da ricercarsi nella divisione interna del Pld e nelle sue correnti, che fanno a gara per favorire questa o quella parte industriale nell’accaparramento dei lucrosi appalti. «Ora, però, che il Pld ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere, Abe non ha più scuse» conclude l’impiegato prefettizio.

Gli interessi sono enormi, non solo a livello locale, ma anche su scala nazionale e internazionale, visto che la Abeconomy deve passare necessariamente dallo sviluppo nucleare per poter decollare.

Il Giappone ha già concluso contratti miliardari per foiture di impianti e macchinari atomici con Turchia (17 miliardi di euro) ed Emirati Arabi, mentre sta siglando accordi con India, Brasile, Arabia Saudita, Vietnam per un totale di 200 miliardi di euro.

La stessa Keidanren, l’equivalente giapponese della Confindustria, si è apertamente schierata a favore del nucleare, bollando di irresponsabilità la proposta di chiusura definitiva delle centrali atomiche lanciata dall’Enecan, l’Energy & Environment Council giapponese recentemente sciolta dal governo. Gli stessi principali conglomerati nipponici sono pesantemente coinvolti nell’industria della fissione nucleare: la Mitsubishi e l’Hitachi hanno partecipazioni nell’Areva e nella General Electric, mentre la Westinghouse è stata assorbita dalla Toshiba.

Per dimostrare che Fukushima è stato un incidente isolato, i centri di pubbliche relazioni delle centrali nucleari più esposte a eventuali tsunami, hanno aggiunto nuovi pannelli che illustrano le misure di sicurezza intraprese per fronteggiare eventi simili a quelli accaduti nel marzo 2011. Con l’assegnazione delle Olimpiadi 2020 a Tokyo, anche la comunità internazionale ha voluto dare fiducia agli sforzi che si stanno conducendo per tamponare la critica situazione che si è venuta a creare in Giappone.

Nella sua tragedia umana e ambientale, l’incidente di Fukushima ha, però, avuto il merito da una parte di sollevare il problema della sicurezza e dall’altra di rinvigorire lo stremato movimento antinucleare dell’arcipelago.

Così, le stesse industrie impegnate nel nucleare come Mitsubishi e Toshiba, oggi stanno guardando con maggior interesse alle energie rinnovabili. Con un giro di affari che si aggira, nel 2013, sui 20 miliardi di euro, l’industria dell’energia «verde» è appena agli inizi ed è ancora poco competitiva, in fatto di prezzi e di tecnologie, rispetto alle fonti tradizionali, ma la ricerca sta continuamente implementando nuove soluzioni più redditizie.

È comunque la stessa Enecan (quella tacciata di irresponsabilità dalla Keidanren) ad aver indicato che l’attuale costo per kWh dell’energia nucleare in Giappone è di 8,9 yen (0,068 centesimi di euro; in questo conteggio sono compresi i costi di gestione per il rafforzamento della sicurezza), contro i 23-58 yen/kWh (0,176-0,441 Euro) delle energie rinnovabili, a seconda del tipo di energia utilizzata e della potenza dell’impianto.

Stili di vita insostenibili

«Se vogliamo dare un futuro ai nostri figli, dobbiamo deciderci ad abbandonare l’atomo» mi dice Iwasa Miko, accesa sostenitrice del movimento antinucleare che vive ad Hippo, nella prefettura di Miyagi.

Il problema è che, per riuscire a raggiungere l’obiettivo proposto dalle associazioni ambientaliste, non basta aumentare decisamente la produzione di energia «verde»; occorre convincere milioni di giapponesi a modificare radicalmente il loro stile di vita.

Le case, ad esempio, sono un insulto al risparmio energetico: caldissime d’estate e gelide d’inverno, sono estremamente energivore. Solo in questi ultimi anni si è cominciato a costruire appartamenti secondo criteri più consoni all’economia del risparmio. Gli stessi giapponesi hanno scoperto da poco che esiste, nel loro vocabolario, la parola setsuden, «risparmio di energia», ma ci vorrà del tempo per educare un’intera fetta di popolazione a rispettare anche le più elementari regole dell’avvedutezza.

E se, nella prefettura di Tokyo, rispetto agli anni precedenti, ho riscontrato un uso più oculato dell’aria condizionata nei luoghi pubblici, al di fuori delle cinture metropolitane si continuano ad utilizzare condizionatori a temperature inaccettabilmente basse.

«È possibile che il Giappone passi a energie alternative al nucleare, ma tutti dobbiamo impegnarci a raggiungere questo traguardo» mi dice Sachiko Goto.

Lei, assieme ad altri contadini, ha subito le conseguenze del fallout radioattivo perdendo circa il 20% dei suoi clienti: «Tra gli agricoltori della nostra zona siamo stati fortunati. La maggior parte ha subito contrazioni anche del 40%. Noi ci siamo salvati grazie alla scelta di vendere direttamente ai privati, senza passare attraverso cooperative o grandi catene alimentari».

La prospettiva di Sachiko è stata profetica, così come profetica (purtroppo) è stata la sua campagna antinucleare, pressoché solitaria, iniziata all’indomani dell’incidente di Cheobyl.

 

Problemi e paure di chi è rimasto

Oggi le aziende agricole, per dimostrare che i loro prodotti non contengono isotopi radioattivi, controllano i raccolti con un contatore Geiger. «È un lavoro lungo e faticoso, oltreché costoso, ma, anche se nessuna legge ci obbliga a farlo, preferiamo effettuare le analisi per una questione di sicurezza sociale» afferma Shigeki Oota, marito della già citata Iwasa Miko. Una ventina d’anni fa hanno lasciato Tokyo per trasferirsi tra le montagne di Hippo. Qui hanno iniziato a produrre miso, la salsa usata sulle tavole giapponesi per insaporire la verdura. A differenza degli agricoltori della prefettura di Fukushima, Shigeki e Miko, che vivono nella contigua prefettura di Miyagi, non hanno diritto ad alcun rimborso per le perdite subite a causa del fallout. Le strette vallate e le coltivazioni che si arrampicano sulle pendici dei monti, rendono la vita particolarmente difficile e dura, ma la famiglia Oota, assieme ai loro quattro figli, non si lamenta. «Molti se ne sono andati dopo l’incidente alla centrale nucleare» spiega Miko. «Noi, dopo qualche settimana di trasferimento a Tokyo aspettando che i livelli di radioattività si abbassassero, abbiamo preferito tornare». Una scelta coraggiosa, oltreché difficile, e non solo per l’asprezza della vita. L’impegno antinucleare di Shigeki e Miko non è stato accolto benevolmente dalla comunità montana: «Esiste sempre il timore che prendere precauzioni per controllare i livelli di radioattività, significhi ammettere che si ha un problema di inquinamento atomico, allontanando ancora più i consumatori e incancrenendo la crisi».

Naturalmente non è così, ma il costante martellamento dei media abbinato agli allarmi, molte volte scientificamente infondati, lanciati da alcune associazioni ambientaliste e antinucleari dell’ultima ora, non fanno altro che alzare il livello di guardia dell’opinione pubblica, aggravando le tensioni sociali. Così, la popolazione di Hippo si è divisa tra chi voleva monitorare costantemente il territorio e chi, invece, avrebbe preferito non intervenire. Alla fine molti abitanti antinucleari (per lo più famiglie di recente immigrazione provenienti dalla città), si sono arresi e hanno deciso di trasferirsi. Shigeki e Miko, invece, hanno continuato a combattere per le loro idee trovando, alla fine, un felice compromesso: «Tutti hanno capito che controllare il territorio e i suoi prodotti avrebbe confortato non solo i consumatori, ma gli abitanti stessi».

Meno conflittuale, ma altrettanto drammatica, è stata la vicenda di un altro piccolo produttore locale: Yasuhiko Niida, presidente della Kinpou, una ditta che, dal 1711 produce sake secondo il metodo tradizionale utilizzando solo riso coltivato biologicamente. La nube radioattiva è arrivata anche qui, nella regione di Koriyama, ad una sessantina di chilometri di distanza dalla centrale. «A causa della radioattività il fatturato è crollato del 30%» dichiara Yasuhido. Ma per la famiglia Niida, oltre al danno si è aggiunta anche la beffa: «Nel 2011 la Kinpou avrebbe compiuto trecento anni di vita ed eravamo tutti pronti a festeggiare il traguardo con un anno di eventi già organizzati. Invece ci siamo trovati a lottare per la sopravvivenza dell’azienda».

L’attaccamento alla tradizione famigliare abbinato al carattere tenace di Yasuhido, ha permesso alla ditta di superare il periodo più buio della sua lunga storia e a guardare, oggi, a un futuro più roseo: «Pur tra mille difficoltà siamo riusciti a non licenziare nessuno dei nostri venti dipendenti». Il segreto di tanta costanza sta nell’alta qualità dei prodotti: nel minuscolo ufficio condiviso con i suoi collaboratori più stretti, Yasuhido mostra orgoglioso la lista dei premi nazionali assegnati alla sua azienda. Mentre degustiamo il suo sake mi confida il suo ultimo sogno: «Convincere, entro il 2025, quando varcherò la soglia dei sessant’anni, tutti i contadini del villaggio in cui sorge la fabbrica a coltivare esclusivamente riso biologico». Un desiderio, questo, che manifesta la volontà di riscatto lasciandosi il passato alle spalle.

 


Quel che resta del mare

Non per tutti, però, è possibile dimenticare ciò che è successo quel terribile 11 marzo 2011. A Ishinomaki, un grosso centro peschereccio a nord della centrale di Fukushima, i pescatori continuano a lottare contro la radioattività. Questa volta proveniente dal mare.

Nonostante la ricostruzione abbia rinnovato la cittadina, le rovine ancora presenti lungo la costa continuano a ricordare agli abitanti che l’oceano è sempre lì, pronto a dare la vita, ma anche a riprendersela.

Prima del 2011 Ishinomaki era il principale punto di rifornimento di prodotti marini di Tokyo. Le perdite nelle acque costiere di sostanze radioattive dalla vicina centrale di Fukushima, hanno convinto gli acquirenti della capitale a rifoirsi più a nord, ad Hokkaido, mettendo in ginocchio l’intera industria ittica della regione. Alle cinque di mattina vado a osservare i primi pescherecci che scaricano il pescato sulle banchine del porto. Alle sei i compratori cominciano ad arrivare: sono tutti locali che riforniscono ristoranti o piccoli centri commerciali della zona. Nessuno di loro manderà i prodotti acquistati a Tokyo. «Una volta che il mercato ha segnato le proprie rotte commerciali, è pressoché impossibile cambiarle» spiega un ricercatore dell’Università di Tokyo che al problema di Ishinomaki ha dedicato uno studio approfondito. Ma forse il luogo che più di tutti rappresenta il dramma che stanno vivendo i giapponesi attorno alla centrale nucleare, è Iitate. Nonostante il paesino non sia stato colpito né dal terremoto né tantomeno dallo tsunami trovandosi ad una sessantina di chilometri dalla costa, nessuno dei suoi duemila abitanti è rimasto a risiedervi. I venti che soffiano dal mare continuano a trasportare atomi di Cesio 137 e Stronzio 90, assieme a finissime particelle di Uranio liberatisi dai tre reattori fusi, che si depositano sul terreno. Le montagne che delimitano le splendide vallate di questa regione sono state una delle cause della sua rovina, incanalando le correnti provenienti direttamente dalla centrale nucleare. Così, mentre attraverso le strade di Iitate, non vedo altro che desolazione ed abbandono: case chiuse, negozi vuoti, pali della luce arrugginiti, cartelloni pubblicitari avvolti nella vegetazione. E al posto delle mandrie di mucche la cui carne era famosa in tutto il Giappone, oggi vedo solo ruspe che scavano il suolo sino a venti centimetri di profondità nella speranza di estirpare la radioattività.

Tutta la terra dragata viene poi raccolta in grossi sacchi neri numerati e stoccata in appositi siti in attesa di trovare un modo sicuro per decontaminarla.

Questo immane lavoro dovrà essere fatto su tutta la superficie colpita dal fallout, vale a dire una striscia di territorio lunga una cinquantina di chilometri e larga dai cinque ai venti. È la lingua lungo la quale gli elementi che fuoriescono dalla centrale si disperdono nell’aria prima di depositarsi a terra. Migliaia di metri cubi di suolo sono già stati raschiati, ma è solo una piccolissima parte di ciò che si deve ancora completare.

Per snellire il lavoro ed evitare di saturare i centri di raccolta, nelle zone meno colpite ci si è limitati a sotterrare il terreno radioattivo coprendolo con suolo incontaminato. Nessuno, però, è in grado di promettere che l’emergenza sia terminata: il Cesio 137 potrebbe trovare il modo di giungere in superficie o, viceversa, penetrare più profondamente trasportato dalle piogge sino ad incontrare falde acquifere inquinandole.

 


Lontani da Fukushima

Al termine del mio viaggio visito uno dei tanti centri temporanei in cui sono stati smistati circa centocinquantamila abitanti della zona evacuata. Le abitazioni sono state ricavate in container ed ogni famiglia ha diritto ad una o due camere da letto, un minuscolo bagno, una cucina. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla totale mancanza di privacy: gli «appartamenti» sono separati da sottili pareti da cui trapela tutto, e la convivenza diviene molto difficile, specialmente per coloro erano abituati a vivere in grandi case coloniche separate le une dalle altre da distese di campi.
Così, per mitigare la disperazione, molti contadini, appena possono, durante il giorno ritornano nelle loro dimore con la scusa di dover accudire al giardino o di prendere qualche vestito.
Per aiutarli il Centro di Volontari per la Ricostruzione di Minamisoma, in collaborazione con la Caritas locale, organizza giornalmente alcuni campi lavoro. Partecipo a uno di questi: ripulire dalle sterpaglie il giardino di una casa appartenente a un vecchio contadino. Un lavoro «a perdita», nel senso che tutti i partecipanti sanno che la zona non sarà abitabile per anni (se non per decenni), ma «oltre all’aspetto pratico dobbiamo valutare quello psicologico», chiarisce il coordinatore del gruppo. «Il solo fatto di sapere che c’è gente che ti aiuta, che non sei solo a lottare, infonde quella speranza di cui molti hanno estrema necessità per poter continuare a vivere».
La speranza che molti giovani hanno già perduto, abbandonando una terra ormai sterile e cercando di rifarsi una vita. Lontani da Fukushima.

 


       Gli Eventi                           

  • 11 marzo 2011, ore 14.46: un forte terremoto fa tremare la terra della provincia del Tohoku, nel Nord del Giappone. Con l’interruzione di energia elettrica, i generatori di emergenza della centrale nucleare di Fukushima entrano in funzione.
  • Ore 15.27: arriva la prima onda dello tsunami causando lo spegnimento della pompa di raffreddamento del reattore numero 1.
  • Ore 15.46: la situazione si aggrava con l’arrivo della seconda onda, la cui altezza (circa 14 metri) supera il muro di sbarramento a difesa della centrale, costruito per fronteggiare tsunami di massimo 10 metri.
  • Ore 19.30: i sistemi di raffreddamento si sono interrotti e il combustibile del reattore numero 1, senza liquido di raffreddamento, inizia a fondere.
  • Ore 21.00: la situazione è compromessa, tanto da indurre il governo a dare l’ordine di evacuazione di tutti coloro che vivono entro un raggio di 3 km dalla centrale.
  • 12 marzo 2011, ore 04.15: le barre di combustibile del reattore numero 3 iniziano a fondere.
  • 12 marzo 2011, ore 21.00: l’ordine di evacuazione viene esteso a 20 chilometri dalla centrale.
  • 14 marzo: è la volta del reattore numero 2 (la Tepco ammetterà soltanto nel maggio 2011 la fusione dei reattori).
  • settembre 2013: i problemi continuano. Acque radioattive vengono riscontrate dall’altra parte dell’oceano, in California.
       PER APPROFONDIRE                     

• Nicola Armaroli – Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna 2011 (il saggio ha vinto il Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica).
• Mirco Elena, Cheobyl e il Trentino. La paura atomica nel piatto, Trento 2007 (l’ultimo capitolo è dedicato a come i media dell’epoca trattarono l’evento, sottolineando anche errori e imprecisioni). Per eventuali richieste: elena@science.unitn.it.

       GLI AUTORI                        

Piergiorgio Pescali – Gioalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Bbc, Cnn, Avvenire, Il Manifesto, Panorama e riviste specializzate. Dal 2010, cura per Asia Maior (www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar. Ha scritto il saggio Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010.
Il suo blog: www.pescali.blogspot.com.

Mirco Elena – Fisico e ricercatore trentino, lavora da anni come divulgatore scientifico. Si occupa in particolare di pace e disarmo, di rapporti tra scienza e società e di energia nucleare.

Tiziano Tosolini – Missionario saveriano. Vive a Osaka, in Giappone, e dirige il Centro Studi Asiatico. Oltre che di cultura e religioni (si veda il suo Inteo giapponese. Tracce di un dialogo tra Oriente e Occidente, Emi, Bologna 2009), si occupa anche di filosofia giapponese (Scuola di Kyoto), e ha ultimamente tradotto il
volume di Tanabe Hajime, Il nulla e la croce. Due saggi filosofici su Buddhismo e Cristianesimo, Mimesis editore, Milano 2013.

Paolo Moiola – Redattore MC, per il coordinamento giornalistico del dossier.

Piergiorgio Pescali