La Cina è latina


Sono molti i paesi latinoamericani che firmano accordi commerciali con la Cina. La «Belt and road initiative» dà la possibilità al gigante asiatico di intensificare gli investimenti. Le aziende tecnologiche cinesi sono sempre più presenti nel continente, il che diventa un’influenza geopolitica. Cosa che non piace agli Usa, storicamente «padroni» di quel territorio.

La «trade war» con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dellʼordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare allʼAmerica Latina. E i numeri confermano come lʼinteresse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Ad esempio, Guillermo Lasso, presidente uscente dell’Ecuador, liberale e con un passato da dirigente alla Coca Cola, il 15 maggio ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e Honduras hanno già firmato trattati analoghi o si apprestano a farlo.

Mentre gli Stati Uniti, potenza regionale, frenano lʼespansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta lʼAmerica Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe rialzate fino al 25% per rappresaglia contro i dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese. Questi prodotti oggi guidano la lista delle esportazioni dallʼAmerica Latina verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato lʼeuro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.

La via della seta

Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dellʼAmerica Latina hanno aderito alla Belt and road initiative (Bri), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, lʼultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le energie rinnovabili anziché per lʼindustria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.

Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei -, secondo il Center for latin america and latino studies, avrà verosimilmente accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo lʼuscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e lʼelezione a presidente di Lula, che ha personalmente visitato un centro di ricerca Huawei durante un viaggio a Shanghai dello scorso aprile.

(Photo by Luis Barron / Eyepix Group). (Photo by Eyepix/NurPhoto)

Aziende cinesi in America Latina

La regione è sempre più laboratorio per lʼinternazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata lʼapp di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche Byd ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto fuori dallʼAsia.

La Cina raccoglie anche quanto lasciato dallʼOccidente. Nella lista figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dallʼamericana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno Sqm, lasciate due anni più tardi.

«Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni»: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano, citato dal Financial Times, per descrivere lʼapproccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.

La «nuova Africa»

Lʼimpressione è che lʼAmerica Latina stia diventando – insieme al Medio Oriente – la «nuova Africa». Lʼaumento del debito africano, la permeabilità del continente al terrorismo islamico, la corruzione dilagante stanno spingendo la Cina a diversificare i mercati di sbocco per i propri investimenti nonché ad assicurarsi nuovi fornitori di materiali critici. Secondo i dati del Servizio geologico degli Stati Uniti, Bolivia, Argentina e Cile sono i primi tre paesi al mondo per riserve di litio, rispettivamente con 21, 19,3 e 9,6 milioni di tonnellate. Lʼinnalzamento di barriere normative in Namibia e Zimbabwe ha reso più appetibili le miniere sudamericane.

Proprio come in Africa, ora quei contatti economici coltivati nelle ultime decadi diventano paravento per sinergie meno innocue. LʼAmerica Latina sta diventando lo scacchiere di una nuova partita tra grandi potenze che vede la penetrazione cinese assumere connotazioni non più solo economiche, ma anche politiche e militari. È il segno di come la capacità di stringere accordi commerciali, dispensare investimenti e concedere prestiti, abbia contemporaneamente assegnato a Pechino una preziosa leva diplomatica in unʼarea del mondo centrale nel risiko per la leadership globale. Inoltre, trattandosi del «cortile di casa» statunitense ogni vittoria cinese assume un valore simbolico elevatissimo.

President of Brazil Luiz Inacio Lula da Silva (L) and President of China Xi Jinping (R) (Photo by Phill Magakoe / AFP)

Taiwan

Tutto, o quasi, ruota intorno a Taiwan (vedi dossier su questo numero ndr), lʼisola che la Cina rivendica come parte integrante dei propri territori. La maggior parte dei paesi latinoamericani hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese subito dopo il viaggio a Pechino del presidente americano Richard Nixon nel 1972. Da allora il legame ideologico è servito da collante politico in tutti quei paesi storicamente guidati dalla sinistra, come Venezuela, Argentina, Cuba, Bolivia e Messico. Ciononostante, per decenni la regione è rimasta ugualmente una delle più accoglienti per Taipei, alleata degli Stati Uniti fin dalla Guerra fredda.

Una decina di stati latinoamericani ha continuato a tenere fede agli impegni presi negli anni ʼ40, quando – su istruzione dellʼamministrazione Truman – iniziarono a diventare ferventi anticomunisti.

Nel 2016 lʼarrivo al potere a Taiwan dei filo indipendentisti del Partito democratico progressista (Dpp, in inglese) ha spinto Pechino a ostracizzare ancora di più lʼisola, proprio sfruttando il forte ascendente economico. Da allora Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno interrotto rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere la Cina popolare. Alcune isole dei Caraibi, Haiti, Guatemala, Paraguay e Belize sono rimaste le uniche nazioni regionali con cui Taipei intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Una fedeltà precaria spesso messa in discussione durante le campagne elettorali, quando promettere lʼarrivo di capitali cinesi torna comodo agli aspiranti presidenti. Dʼaltronde Taipei, sebbene non estranea alla cosiddetta «diplomazia dei dollari», ha presa ormai solo sulle nazioni meno sviluppate dellʼAmerica Latina, mentre i paesi più avanzati, come Panama, da tempo orbitano nella galassia cinese. Tanto che ad agosto il Parlamento centroamericano (istituzione politica per lʼintegrazione regionale, ndr) ha espulso lʼex Formosa come osservatore permanente dopo oltre ventʼanni.

Questione di sicurezza

Inutile dirlo, è una questione che preoccupa anche gli Stati Uniti. Quando El Salvador ha reciso i legami con Taiwan a favore della Repubblica popolare, al Congresso Usa è stata proposta la sospensione degli aiuti al governo di Nayib Bukele come monito per gli altri governi regionali ancora indecisi.

Il fatto è che il crescente affiatamento tra la dirigenza cinese e i leader dellʼAmerica Latina ha risvolti anche in termini di sicurezza. Come sottolinea su Asia Times Evan Ellis del Us army war college strategic studies institute, la Cina gestisce diverse strutture commerciali sparse tra Messico, Bahamas, Panama e nei Caraibi, potenzialmente utilizzabili per la raccolta di informazioni dʼintelligence. È uno degli aspetti più controversi della Belt and Road Initiative, additata dai detrattori.

A giugno il Wall Street Journal ha riacceso i riflettori sulla presenza a Cuba di avamposti utilizzati dal ministero della Sicurezza dello stato cinese ad appena 100 miglia dalle coste della Florida. Non è esattamente una novità: la Cina utilizza lʼisola caraibica per la raccolta di informazioni militari fin dal 1999, quando LʼAvana ha concesso al governo cinese di stabilirsi a Bejucal, città a sud della capitale, in una struttura dove operavano precedentemente i servizi sovietici.  Per stessa ammissione della Casa bianca, nel 2019 Pechino avrebbe provveduto a potenziare la base, non è chiaro se in cambio di nuovi investimenti nel paese o della rinegoziazione dei debiti, annunciata lo scorso novembre. Sempre secondo fonti del quotidiano finanziario (Wsj), la possibile nuova struttura militare fa parte del «Progetto 141», unʼiniziativa con cui la Cina mira a espandere la propria rete di supporto militare e logistico in tutto il mondo.

Mentre la vicinanza geografica agli Stati Uniti rende gli stati latinoamericani degli avamposti troppo vulnerabili per un attacco navale in caso di guerra, la stessa prossimità fisica si rivela invece strategica per portare avanti operazioni di disturbo a livello di comunicazione elettronica. A questo proposito giocano a favore della Repubblica popolare gli accordi commerciali stretti a livello locale dalle big tech cinesi: ad esempio il G5 Huawei (azienda privata ma legata al governo cinese, accusata di spionaggio in vari paesi).

Come sottolinea sempre Ellis, lo scenario bellico più probabile coinvolge proprio Taiwan, definita da Pechino il «rischio più importante» per le relazioni con Washington. Un coinvolgimento degli Usa al fianco di Taipei potrebbe rendere necessario il supporto delle nazioni dellʼAmerica Latina.

(Photo by Ecuadorian presidential palace / XINHUA / Xinhua via AFP)

«Fratellanza Sud-Sud»

Ma lʼinvasione cinese dellʼisola – salvo colpi di scena – non sembra imminente. Più che a imbracciare le armi, nellʼimmediato, il sostegno della regione latinoamericana è teso perlopiù alla promozione di valori e aspirazioni condivise. La chiamano «fratellanza Sud-Sud», è la solidarietà che lega Cina e molti paesi emergenti, accomunati da un passato simile. Nel 1840, centinaia di migliaia di immigrati cinesi furono portati dai colonizzatori portoghesi e americani a Cuba e in Perù per lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o nelle miniere dʼargento. Oggi gli echi di quellʼimperialismo occidentale nel cosiddetto «Sud globale» sono amplificati dal malcontento accumulato negli ultimi decenni a causa della mancata riforma dellʼordine internazionale. Da noi si parla di «revisionismo», ma per molti paesi emergenti lʼarchitettura mondiale è composta da istituzioni ormai obsolete che non rispecchiano adeguatamente i nuovi equilibri economici e geopolitici.

Nuovo ordine mondiale

Prendiamo i Brics, lʼacronimo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nata nei primi anni Duemila, lʼorga-nizzazione ha acquisito nuovo vigore dopo la guerra in Ucraina e la contestuale rinascita di un terzo blocco di nazioni «non allineate», ovvero non favorevoli allʼinvasione russa, ma critiche nei confronti della Nato. Sono sempre di più i paesi a valutare un ingresso nella piattaforma.

Nel 2022, anticipando lʼadesione dellʼArgentina, il presidente (uscente, ndr) Alberto Fernández ha definito il gruppo «unʼalternativa cooperativa a un ordine mondiale che ha lavorato a beneficio di pochi». Lo stesso vale per il Venezuela. Incontrando a Brasilia lʼomologo Luiz Inacio Lula da Silva alcuni mesi fa, Nicolas Maduro ha affermato che Caracas è pronta a contribuire alla «costruzione della nuova architettura geopolitica mondiale che sta nascendo». Si tratta di un supporto simbolico ma non solo, considerata la vagheggiata intenzione di introdurre una moneta dei Brics in grado di affrancare gli stati membri dal dollaro.

Ecco che, mentre oggi tutti gli occhi sono puntati su Taiwan e le acque agitate dellʼIndo-Pacifico, lʼepicentro della competizione tra Cina e Stati Uniti si sta spostando proprio in America Latina.

Alessandra Colarizi

Nel numero di ottobre abbiamo pubblicato un articolo sulla Russia in America Latina.


La storia infinita del canale del Nicaragua

Doppio canale

Agli inizi del Novecento gli Stati Uniti avevano due opzioni per la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il Pacifico con l’Atlantico: passare per il Nicaragua o attraverso Panama. Il Congresso votò per la seconda opzione. Non solo perché era il percorso più breve, ma anche perché permetteva di aggirare i vari vulcani attivi che costellano l’America Centrale.

Un secolo dopo, con l’aumento del traffico marittimo, l’idea di un’alternativa nicaraguense torna d’attualità. Stavolta sono i cinesi a fiutare l’affare, incoraggiati dalla nascente Bri e dal contestuale interesse economico di Pechino per i mercati emergenti.

Nel giugno 2013, la Hk Nicaragua canal development investment group (Hknd), società registrata a Hong Kong e guidata dall’imprenditore Wang Jing, ottiene una concessione di 50 anni per finanziare e gestire l’opera. Ma nel 2015 il terremoto del mercato azionario cinese compromette fortemente la stabilità finanziaria dell’ex miliardario e del suo impero economico. Tre anni dopo il progetto è praticamente da considerarsi defunto: non solo, nel frattempo la Cina ha ormai spostato molti dei suoi investimenti a Panama.

A seguito di difficoltà finanziarie, nel 2018 la Hknd chiude i suoi uffici e sparisce nel nulla. È solo nel novembre 2021 che Wang ricompare con una lettera di congratulazioni per la conferma del presidente Daniel Ortega a un quarto mandato. «Il Gruppo Hknd e io abbiamo fiducia nel progetto del Canale grande», scrive l’affarista quasi a voler esorcizzare le pile di debiti che in patria lo hanno messo nei guai. E non è l’unico: passività e insolvenze da anni rallentano l’espansione della Bri.

C’è chi ritiene che Managua non abbia mai pensato seriamente di cedere la costruzione del canale ai cinesi. Piuttosto, il governo nicaraguense voleva dimostrare agli Stati Uniti di avere altre valide alternative, spiega alla Bbc la ricercatrice Sarah McCall Harris.

Poco dopo la vittoria elettorale, Ortega ribadisce il messaggio interrompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan per allacciare contatti ufficiali con Pechino.

Lo scorso 31 agosto i due paesi annunciano la firma di un trattato di libero scambio che coinvolge pratiche doganali, tariffe, servizi finanziari e accordi ambientali multilaterali. Ma del famigerato canale, oltre la Grande muraglia, non se ne parla più.

A.C.




Somalia. Sognando la normalità


Uno Stato debole ma che c’è, e ha promesso di sconfiggere i fondamentalisti entro un anno. Occorre rilanciare l’economia piegata da tre decadi di guerra. Forse questo sarà un anno di svolta. Intanto cresce l’influenza della Turchia. E l’Italia che fa?

I fucili mitragliatori a tracolla pronti a essere utilizzati. Addosso elmetti e giubbotti antiproiettili in kevlar. Gli sguardi sempre puntati intorno, verso possibili minacce. Gli agenti della scorta sono all’erta. Hanno l’adrenalina al massimo anche se, per loro, questa è una missione come un’altra in una delle città più pericolose del mondo: Mogadiscio, la capitale della Somalia. Sono una decina sul pick-up che ci precede. Un’altra ventina sui due mezzi che ci seguono. Tra noi e loro il fuoristrada del comandante della scorta, un sudafricano alto due metri e massiccio come una roccia. «Qualsiasi cosa succeda – dice prima di partire -, non scendete dal fuoristrada se non ve lo ordino io. E, una volta a terra, continuate a seguire le mie indicazioni». Questo è quanto attende un europeo che voglia lasciare il compound dell’aeroporto di Mogadiscio per avventurarsi in città.

Lo scalo, costruito dagli italiani e ristrutturato dai turchi, è una sorta di città fortezza dove c’è di tutto: alberghi, negozi, aziende. La struttura è protetta da mura solide sormontate da chilometri di filo spinato. Rinunciare alla scorta è impossibile: militari, contractors o uomini di compagnie di sicurezza devono accompagnare qualsiasi convoglio sia all’interno dell’aeroporto sia all’esterno.

Appena fuori dall’hotel, troviamo un primo posto di blocco con sbarre, gestito da soldati ugandesi armati con Ak-47. Poi un altro, sempre composto da soldati ugandesi. A fianco delle sbarre un mezzo dell’Unione africana simile agli Iveco Lince in dotazione delle forze armate italiane. Più avanti un altro blocco. Questa volta la colonna è costretta, da una fila di jersey in cemento a rallentare drasticamente e a fare una serpentina. Si entra in città.

African Union Mission to Somalia (AMISOM) soldiers carry the wreckage of a vehicle at the scene of suicide bombing that targeted AMISOM forces in Mogadishu, Somalia, on November 11, 2021. (Photo by AFP)

Mogadiscio è viva

L’immagine che avevamo prima di arrivarci era quella di una metropoli spaventata, chiusa in sé, con poco traffico e poca gente. Invece le strade sono piene di uomini, donne, animali (soprattutto capre e asini). Ai bordi, piccoli mercati, negozi, locali affollati. C’è un continuo viavai di piccoli taxi apecar. Mogadiscio è viva. C’è fermento.

Certo le strade sono malridotte, sporche (anzi, sporchissime), il traffico è caotico, ma non è una metropoli spenta. Nell’aria, però, c’è una tensione palpabile. Ogni volta che il nostro convoglio rallenta o si ferma, gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e controllano intorno. Raggiunta la nostra meta, un’altra scena di guerra. Tutti gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e bloccano la via. La nostra jeep entra nel compound e, solo dopo che i nostri uomini hanno accertato che le condizioni sono buone, possiamo scendere.

La portiera del mezzo pesa moltissimo. Si fa fatica ad aprirla, la blindatura è consistente. Dopo una breve sosta, dobbiamo andare verso un’altra meta.

Passiamo il Km4, rotonda già teatro di attentati di al-Shabaab. Poco più in là. Due camion ostacolano la strada. Li superiamo. Poi, uno, due, tre colpi di arma da fuoco. La colonna prosegue, ma arriva l’ordine: «Rientrare!». Più avanti, ci viene detto, c’è una manifestazione di studenti. La polizia ha sparato per disperdere i manifestanti. La colonna fa dietro front. Ci aspettano ancora i posti di blocco. Rientriamo nella nostra bolla di sicurezza.

(Photo by Hassan Ali ELMI / AFP)

Sconfiggere al-Shabaab

La Somalia vive ancora nell’insicurezza. Nonostante il governo guidato dal presidente Hassan Sheikh Mohamud, sostenuto da Usa, Unione africana, Unione europea e Turchia, abbia lanciato un’offensiva a tutto campo contro al-Shabaab, le milizie fondamentaliste legate ad al-Qaeda hanno ancora molte basi nell’entroterra. Covi dai quali lanciano continuamente attacchi contro le istituzioni e le caserme federali.

«Nell’arco di un anno – ha detto il capo dello Stato – sconfiggeremo gli islamisti». Un ottimismo forse eccessivo, ma al quale la popolazione vuole dare credito. «Il nostro presidente ha detto che al-Shabaab sarà sconfitto nell’arco di un anno. Io penso che ce ne vorranno almeno due per eliminare le milizie fondamentaliste». Non ha dubbi Jamila, giovane insegnante somala. Secondo lei il destino della filiale locale di al-Qaeda è segnato.

Al-Shabaab arruola giovani poveri, non istruiti, con nessuna formazione professionale né lavoro. Al-Shabaab ha promesso loro una vita migliore e loro ci vedono un’opportunità.

Sono ragazzi vittime di anni in cui la Somalia era uno Stato senza autorità, senza legge, senza servizi per la popolazione. «Oggi – continua Jamila – le cose stanno cambiando. Lo Stato c’è, anche se è debole. Le scuole hanno riaperto. I ragazzi e le ragazze possono studiare. Persone istruite e con un lavoro non hanno interesse ad aderire a una formazione estremista che offre, ora lo sappiamo, un’unica prospettiva, quella della morte, della violenza e della distruzione».

I militari hanno ottenuto numerosi successi sul campo. La vera incognita è se riusciranno da soli a respingere l’offensiva di al-Shabaab. Le forze Atmis (African union transition mission in Somalia, è la missione dell’Unione africana che ha sostituito la precedente, Amison nell’aprile 2022, ndr) hanno infatti annunciato che, gradualmente, si ritireranno lasciando la sicurezza interamente in mano ai somali. «Gli attentati, anche nella capitale, sono sempre dietro l’angolo – conclude l’insegnante -. Il futuro però è segnato. I fondamentalisti saranno sconfitti nei fatti e noi potremo tornare a essere un Paese normale che si gioca il suo futuro sui binari della pace e dello sviluppo. A partire dai giovani».

Sicurezza ed economia

Se la sicurezza è una priorità del governo somalo, il rilancio dell’economia è altrettanto fondamentale. Più di trent’anni di guerra civile hanno messo al tappeto un sistema economico già fragile. Eppure le risorse per il rilancio non mancano. Il Paese può contare su un mare pescoso, su un allevamento di animali (cammelli soprattutto) molto forte, su risorse naturali (petrolio), terreni fertili (vicino ai principali corsi dei fiumi).

Il 2023 potrebbe poi essere un anno di svolta per la Somalia anche per il riconoscimento internazionale della ristrutturazione del suo debito estero. «La Somalia potrà tornare sul mercato internazionale per ottenere fondi – osserva Ygor Scarcia, responsabile a Mogadiscio di Unido (agenzia Onu per lo sviluppo industriale -. Si tratta di un segno importante per l’intero Paese. Mogadiscio dovrà però essere capace di investire questi fondi secondo priorità precise evitando gli errori del passato. Un passaggio nel quale la Somalia dovrà dimostrare serietà e nel quale la comunità internazionale dovrà accompagnare le autorità locali».

(Photo by Hassan Ali Elmi / AFP)

Presenza turca

A lavorare attivamente in Somalia c’è la Turchia. Ankara ha scommesso sul Paese quando era ancora quasi interamente in mano ad al-Shabaab.

Era il 19 agosto 2011, in pieno Ramadan, quando Recep Tayyp Erdogan atterrava nella capitale somala, accompagnato da moglie e figlia, dai suoi ministri e dalle loro famiglie, portando con sé una parte dei 250 milioni di dollari raccolti in Turchia da privati cittadini a sostegno dell’appello contro la carestia.

Un gesto che fece scalpore e fu seguito da altre azioni di soft power come la concessione di borse di studio, la possibilità offerta ai giovani somali di studiare in università turche, aiuti alle regioni più svantaggiate economicamente, ecc.

Alla Turchia si sono aperte le porte della Somalia. Le aziende di Ankara hanno ristrutturato l’aeroporto e il porto di Mogadiscio. Molti nuovi quartieri della capitale sono stati ricostruiti da imprese edili turche.

E l’Italia? L’ex potenza coloniale quale ruolo può avere nel rilancio della Somalia? «L’Italia – ha detto Hamza Abdi Barre, premier somalo, intervenuto al forum Somalia economic conference che si è svolto Mogadiscio il 30 e il 31 maggio – in passato ha sostenuto l’agricoltura somala e ha permesso al nostro Paese di godere di maggiore sicurezza alimentare. L’Italia deve continuare su questa strada per garantire stabilità e sviluppo».

Il governo somalo spera che l’Italia diventi il principale investitore nel Paese. «Stiamo lavorando per garantire stabilità e sicurezza combattendo al-Shabaab – ha osservato -. Questa conferenza può e deve essere un punto di partenza per rafforzare i legami tra i nostri Paesi».

Gli ha fatto eco Abdirizak Osman Giurile, consigliere del presidente somalo per la democratizzazione e il buon governo e incaricato di sostenere il capo dello Stato nelle relazioni con il nostro paese. «Il rapporto con l’Italia – ha detto all’agenzia InfoMundi – negli ultimi trent’anni ha avuto alti e bassi. Ora non va male. L’incontro dei vertici italiani e somali a febbraio a Roma è stato un momento importante».

Il funzionario ha però lamentato uno scarso impegno economico italiano. «Uno stanziamento di 20 milioni è troppo basso. Lo ha riconosciuto lo stesso ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. L’Italia deve fare di più e sostenerci nei settori di punta della nostra economia».

Anche sotto il profilo culturale i somali chiedono un maggiore intervento italiano. «Chiediamo – ha sottolineato ancora Giurile – che l’Italia riattivi e riattualizzi l’accordo del 1973 che prevedeva un sostegno economico importante per aiutare la nostra università, finanziando gli stipendi dei professori e le attrezzature per le facoltà. Il Governo di Roma ha detto che lo farà. Stiamo aspettando».

Phil Moore/IRIN

L’Italia tornerà?

Da parte italiana c’è stata un’apertura. Alberto Vecchi, ambasciatore d’Italia in Somalia, ha dichiarato sempre all’agenzia InfoMundi: «Questa conferenza è il frutto di un impegno che il presidente somalo ha preso nel corso della sua visita a Roma. Sono felice che siamo riusciti a dare seguito a quell’impegno. La Somalia ha relazioni speciali con il nostro Paese che affondano le radici nella storia, e che sono proseguite nel tempo».

Il paese africano, secondo il diplomatico, è unico per la sua posizione particolare e per le sue grandi risorse naturali: «Vogliamo contribuire a dare alla Somalia la possibilità di sfruttare queste risorse e diventare un importante punto di riferimento per la regione».

«L’Italia ci ha lasciato, perché? Perché da trent’anni non investe più da noi? I legami antichi sono spariti?», così parla un vecchio professore somalo che insegna italiano all’università di Mogadiscio. Nelle sue parole c’è il rimpianto per una vecchia amicizia che c’era un tempo e che oggi sembra appannata.

«Ve ne siete andati – osserva – e ora il vostro posto è stato preso da altri. I turchi soprattutto. In Somalia c’erano molte imprese italiane, ma adesso è tabula rasa. Non c’è più nulla. Eppure le opportunità ci sono. La comunità somala in Italia è grande e può fare da ponte tra le due nazioni. L’amore per l’Italia non è svanito».

Se gli si fa notare che la Somalia è un Paese instabile in cui molte regioni sono ancora sotto il giogo dei fondamentalisti islamici, lui risponde duro: «I turchi sono venuti qui nel periodo peggiore. Non c’era sicurezza, né possibilità economica. Ma loro c’erano, voi siete spariti. Tornerete? Me lo auguro. La nostra storia è la vostra e viceversa. Non possiamo dimenticarlo».

Enrico Casale

Somalia’s President Hassan Sheikh Mohamud (Photo by Hassan Ali Elmi / AFP)




La Russia in America Latina. Le mosse dello zar


La presenza di Mosca nei paesi latinoamericani è mutata nel corso degli anni: da estemporanea (con i flussi migratori) è diventata politica ed economica. In tempi recenti, ha amplificato la sua influenza tramite i suoi canali informativi (Rt e Sputnik). Dopo l’aggressione all’Ucraina, cos’è cambiato? E come sono le relazioni con la Cina, alleata a livello politico ma concorrente in America Latina?

Le relazioni tra Russia e America Latina hanno radici profonde, non sono cioè limitate ai primi decenni del XXI secolo. Gli immigrati russi comparvero per la prima volta in Sud America e nei Caraibi all’inizio del XIX secolo. Si trattava di ondate migratorie costituite in gran parte da lavoratori provenienti dalla parte europea dell’Impero russo e, in misura minore, dalle file dell’opposizione politica delle province baltiche, dalla Polonia e dall’Ucraina occidentale. Posteriormente, dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, un piccolo numero di russi in fuga dal regime comunista scelse la regione latinoamericana come luogo di esilio volontario.

Tra questi è doveroso ricordare il caso di Lev Davidovich Bronstein, meglio conosciuto come León Trotsky. Quello che fu il promotore della rivoluzione permanente terminò i suoi giorni a Città del Messico (il 21 agosto 1940), ucciso da Ramón Mercader (agente segreto spagnolo naturalizzato sovietico) su ordine di Stalin.

Trotsky visse i suoi ultimi anni in Messico da rifugiato grazie all’asilo politico che gli venne concesso dall’allora presidente messicano Lázaro Cárdenas e fu circondato dall’affetto di figure iconiche della storia della regione quali Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera (entrambi pittori di grande fama, ndr).

La seconda ondata di migrazione russa in America Latina si verificò dopo la Seconda Guerra mondiale. Era formata in gran parte da cittadini sovietici che vivevano nel territorio liberato dagli alleati occidentali, persone che non volevano tornare in Unione Sovietica. In questo modo si ampliò la presenza della diaspora nella regione, in particolare in Argentina, Brasile, Cile, Messico, Paraguay, Uruguay e Venezuela, gettando le basi per importanti scambi culturali tra la Russia e i paesi delle Americhe, connessione oggi vitale per le politiche e per l’influenza russa nella regione.

Dalla guerra fredda a Vladimir Putin

Durante la Guerra fredda (12 marzo 1947 – 26 dicembre 1991) anche la regione latinoamericana fu teatro dello scontro multilivello delle due superpotenze, terreno di lotta ideologica e indirettamente anche militare, nel quale l’Urss mantenne stretti legami con Cuba e con il Nicaragua. L’influenza sovietica ebbe un ruolo importante per creare un’alternativa all’egemonia esercitata dagli Stati Uniti d’America in una regione che, per molto tempo, fu considerata il giardino di casa («patio trasero») degli Usa.

Con la dissoluzione dell’Urss (dicembre 1991) e il lungo processo di riassetto politico, economico, sociale e diplomatico che ne seguì, la Russia perse molto peso sulla scena internazionale, anche nei confronti del paesi latinoamericani, Cuba in primis.

Agli inizi degli anni Novanta, il Paese, che oggi occupa più di due terzi del territorio della vecchia Urss e comprende metà della sua popolazione, aveva un volume di scambi commerciali con l’America Latina ridotto all’osso.

Dalla seconda metà degli anni Novanta la situazione iniziò a migliorare con un riavvicinamento e rafforzamento delle partnership strategiche, una ripresa del commercio e il susseguirsi di visite reciproche dei capi di stato. La vera svolta avvenne però nell’anno 2000 con il cambio dello scenario politico all’interno della Russia e l’arrivo ai vertici del potere di Vladimir Putin.

Già nell’agosto del 1998, come capo del governo, l’uomo aveva guidato la seconda guerra cecena diventando uno dei politici più popolari della Federazione russa. Successivamente, quando Boris Eltsin annunciò le sue dimissioni il 31 dicembre 1999, in conformità con la Costituzione, Putin diventò presidente ad interim iniziando una leadership che lo vede ancora oggi come l’uomo più potente e temuto della Russia.

I piani dello zar

L’arrivo dell’ex agente del Kgb al Cremlino ha cambiato completamente il posizionamento della Russia a livello globale e questo ha avuto effetti importanti anche sulla regione latinoamericana.

Già dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 (Munich security conference, spazio internazionale che si tiene annualmente dal 1963) Putin ha confutato la narrazione di un mondo «unipolare» sotto il protagonismo e l’egemonia degli Usa e della Ue, aprendo la porta a nuove interpretazioni ed equilibri di potere. L’anno prima, infatti, il 20 novembre 2006, si era tenuta la prima riunione dei Brics, acronimo di un’associazione economico-commerciale tra le cinque economie nazionali emergenti che, nel decennio del 2000, erano le più promettenti del mondo.

Si tratta del gruppo composto da  Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (quest’ultimo unitosi nel 2011) che si pone come contrappeso all’autoreferenzialità occidentale e che esplora misure alternative di commercio inter-

nazionale, ad esempio la possibilità di non utilizzare il dollaro come valuta di riserva mondiale.

Putin si è proposto, dunque, come un portabandiera di un mondo «multipolare» ricollocando la Russia (che è anche membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu con potere di veto) come protagonista nello scenario internazionale.

Le parole di Monaco del 2007 sono diventate «reali» con la guerra in Georgia del 2008 e con l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e le conseguentii sanzioni economiche che hanno diviso la comunità internazionale.

Proprio le sanzioni economiche imposte dall’Ue dopo i fatti di Crimea hanno spinto Mosca ad accelerare la ricerca di alleati sia a livello diplomatico che livello commerciale. È in questo contesto che l’America Latina è tornata al centro degli interessi russi e dove paesi come Uruguay, Argentina e Brasile hanno iniziato a sostituire i «vecchi» partner commerciali europei per l’esportazione di frutta, verdura e carne verso la Russia.

La strategia del vaccino

Con l’inizio del nuovo secolo, la Russia guidata da Vladimir Putin ha ripreso a guardare con interesse all’America Latina , espandendo la sua presenza commerciale e tessendo importanti alleanze con governi sia di destra che di sinistra. Armi, gas e petrolio sono stati il principale «grimaldello» con il quale è iniziata questa nuova era delle relazioni russo-latinoamericane, una dimensione che però molto presto ha acquisito un carattere più geopolitico, in opposizione alle azioni sanzionatorie di Washington nei confronti della Russia.  La politica estera russa ha così creato un’area di intervento multisettoriale nella regione latinoamericana, promuovendo relazioni commerciali ed econo-

miche, insieme a una cooperazione tecnica, militare e sanitaria.

Nello scenario creato dalla pandemia da Covid-19, la Russia ha infatti giocato un ruolo da protagonista aumentando la sua proiezione regionale grazie alla strategia di approvvigionamento del suo vaccino Sputnik a diversi paesi dell’area come Argentina, Bolivia, Guatemala, Guyana, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Panama e Venezuela.

I megafoni di Rt e Sputnik

A questo si aggiunge la diffusione massiccia di narrazioni favorevoli a Mosca attraverso la forte presenza nella regione di mass media russi come Russia today (Rt) e l’agenzia di stampa Sputnik. Questi sono megafoni potenti che permettono al Cremlino e a Putin di mettere in discussione, nei paesi latinoamericani, il modello democratico targato Stati Uniti d’America e Unione europea.

Nel corso degli anni, sono proprio quei paesi che hanno intrapreso cammini fuori dagli argini dello stato di diritto – Cuba, Nicaragua e Venezuela – ad avere instaurato legami molto stretti con Mosca. Rappresentano i primi alleati di Putin, paesi nei quali le narrazioni utilizzate dagli organi di stampa russi sono sostenute e ripetute acriticamente, compresa quella sull’invasione dell’Ucraina. Questi tre stati rappresentano oggi terreno di scontro politico e ideologico per le stesse sinistre della regione (come, ad esempio, il Venezuela, appoggiato dal brasiliano Lula ma criticato dal cileno Boric).

A questi stati la Russia ha offerto aiuti politici, economici e finanziari in cambio del loro sostegno a livello internazionale per rafforzarel’opposizione all’influenza degli Usa in America Latina.

In Nicaragua si assiste a continue esercitazioni militari, marittime e aeree, allo sviluppo di centri di addestramento militare o di sistemi di monitoraggio satellitare come «La Gaviota», tutto sotto il controllo operativo-amministrativo della missione diplomatica russa.

Con il Venezuela esistono più di  venti accordi bilaterali di cooperazione militare, scambio di personale e di addestramento, mentre con Cuba la collaborazione à ancora più estesa e comprende anche varie aree di influenza nel commercio, negli investimenti e negli aiuti umanitari. Sempre a Cuba, da marzo 2023 è possibile usare carte di credito russe negli sportelli dell’isola e a maggio tre banche russe hanno presentato le richieste necessarie per aprire succursali nel paese caraibico: in relazione a ciò si specula che presto L’Avana accetterà pagamenti anche in rubli.

Rt e Sputnik sono oggi, dunque, un importante volano degli interessi russi in America Latina, trovando il plauso delle sinistre più radicali e più in generale delle forze illiberali dello spettro politico latinoamericano.

TASSO Kirill, patriarca della Chiesa ortodossa russa e grande sostenitore di Putin, in una cerimonia al Cristo Redentore di Rio de Janeiro nel febbraio 2016. Foto Tasso Marcelo – AFP.

Chi commercia con Mosca

La generazione di consenso che ne deriva rende gli accordi economici e militari tra i paesi latinoamericani e la Russia politicamente molto più agevoli e accettabili da parte delle opinioni pubbliche nazionali. Tra questi spicca la cooperazione militare, dove l’industria bellica russa gioca un ruolo di primo piano.

Oltre a Cuba, Nicaragua e Venezuela si sono rafforzati negli ultimi anni i legami con i governi di Nayib Bukele nel Salvador, Alberto Fernandez in Argentina, Jair Bolsonaro in Brasile (che, a gennaio 2023, ha lasciato il posto a Lula) e Andrés Manuel Lopez Obrador in Messico. Questi ultimi tre paesi rappresentano i mercati più importanti per la Russia in America Latina e nel caso particolare di Brasile (membro dei Brics) e del Messico (membro del G20) parliamo di esportazioni vitali per l’economia di Mosca, come zucchero di canna, semi di soia, caffè, carne, birra, apparecchi meccanici, autovetture, e telefoni. Un commercio bilaterale che ha visto un notevole aumento nel XXI secolo e con l’era Putin, dove tra tutti spicca il Brasile, paese che mantiene con la Russa il più grande  flusso di importazioni e di esportazioni di merci di tutta l’America Latina. In totale, nel 2020 il Brasile ha importato beni per un valore di 2,9 miliardi di dollari dalla sua controparte russa e ha esportato un valore di 1,5 miliardi di dollari, essendo i fertilizzanti i prodotti con il più alto valore di importazione. Il fiorente commercio con l’economia più grande dell’America Latina (il Brasile ha fatto registrare nel 2022 un Pil di 1.900 miliardi di dollari ed è l’undicesima economia mondiale, proprio dietro all’Italia) è dunque uno dei pilastri della proiezione russa nel continente. Considerando inoltre che, proprio ad aprile 2023, l’ex presidentessa brasiliana Dilma Rousseff ha assunto la guida della Nuova banca di sviluppo (New development bank, Ndb) dei Brics.

La sede centrale della «Nuova banca di sviluppo», punto di riferimento dei Brics, a Shanghai, e il logo del summit dei Brics, tenuto a Johannesburg, in Sudafrica, dal 22 al 24 agosto.

La crescita esponenziale della Cina

L’America Latina però è una regione estremamente eterogenea nella quale l’appeal russo non si espande in modo uniforme in ogni contesto nazionale.

I forti legami commerciali con Brasile e Messico e i legami politico finanziari con Cuba, Nicaragua e Venezuela (che hanno potuto godere di ingenti prestiti, donazioni e lucrosi affari con le aziende russe) hanno creato un gruppo di paesi «di appoggio» che hanno sostenuto Putin durante l’ultimo anno, astenendosi dal votare all’Onu contro la Russia per la guerra in Ucraina.

Basti ricordare, infatti, la posizione ambigua, quando non dichiaratamente opportunista, assunta nella votazione sull’espulsione del paese dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, durante la quale Messico, Brasile ed El Salvador si sono astenuti, mentre Nicaragua, Cuba e Bolivia hanno votato contro (7 aprile 2022).

Il fatto che la Russia non sia riuscita a generare una completa area di influenza diplomatica ed economica in America Latina è però dovuto anche alla Cina, le cui relazioni commerciali con la regione sono cresciute in modo esponenziale.

Basti pensare che Pechino ha assegnato ad Argentina, Brasile, Cile, Ecuador, Messico, Perù e Venezuela il massimo livello di cooperazione strategica e che la Banca cinese di sviluppo è uno dei principali investitori in progetti di costruzione di infrastrutture nella regione.

La Russia mantiene, però, un potere geopolitico importante in America Latina, dove la sua industria bellica fornisce armi a diversi governi (Venezuela su tutti) e dove continua a mantenere un grado di impegno mediatico e diplomatico ad alta intensità. A livello geostrategico però il suo peso economico è molto inferiore a quello della Cina, suo partner politico ma, appunto, rivale in America Latina.

Visioni del mondo

Russia e Cina condividono una visione «multipolare» del mondo, una visione cioè che vuole contrastare la leadership e l’egemonia statunitense. Tralasciando la spinosa questione della guerra russa contro l’Ucraina, questa visione è anche quella di buona parte dei governi progressisti della sinistra latinoamericana: in questo senso l’America Latina risulta una regione strategica per il conseguimento di questo obiettivo.

La convivenza nella regione degli interessi di due giganti come Russia e Cina rappresenta una grande sfida, considerando anche e soprattutto la necessità dei nuovi governi e delle nuove leadership dei paesi latinoamericani, più o meno allineati con la narrazione di Washington e della Ue, di trovare un proprio spazio di manovra politica ed economica.

Diego Battistessa

 Prossimamente su MC: la Cina in America Latina.

(230823) — JOHANNESBURG, Aug. 23, 2023 (Xinhua) — Chinese President Xi Jinping, South African President Cyril Ramaphosa, Brazilian President Luiz Inacio Lula da Silva, Indian Prime Minister Narendra Modi and Russian Foreign Minister Sergei Lavrov pose for a group photo during the 15th BRICS Summit in Johannesburg, South Africa, Aug. 23, 2023. The 15th BRICS Summit was held in Johannesburg on Wednesday. (Xinhua/Li Xueren) (Photo by LI XUEREN / XINHUA / Xinhua via AFP)


La Russia e i Brics: il multilateralismo delle dittature

Con sulla testa un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale (Icc), Vladimir Putin ha preferito non recarsi alla tre giorni del XV Brics Summit, tenutosi a Johannesburg, in Sudafrica dal 22 al 24 agosto scorso. Si è, pertanto, limitato a inviare un discorso preregistrato di 17 minuti. In esso il leader del Cremlino si è concentrato soprattutto sull’«operazione speciale» in Ucraina e sulle cattiverie dell’Occidente verso l’incolpevole Russia, non cambiando di una virgola il suo ormai consueto canovaggio di bugie e ossessioni.

Al vertice sudafricano erano presenti gli altri quattro leader dei Brics (acronimo dei cinque paesi aderenti all’alleanza): il cinese Xi Jinping, l’indiano Narendra Modi, il brasiliano Luiz Inacio Lula e Cyril Ramaphosa, presidente del paese ospitante.

Attualmente, i paesi Brics rappresentano oltre il 42% della popolazione globale, il 30% del territorio mondiale, il 23% del Pil e il 18% del commercio internazionale. Numeri già importanti che aumenteranno con il prossimo allargamento del gruppo.

Al Summit sudafricano è stata, infatti, annunciata la lista dei nuovi membri: dal primo gennaio 2024, dovrebbero entrare Iran, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Argentina. Insomma, come si può capire, tanti paesi con un pedigree dittatoriale, Iran e Arabia Saudita in testa.

Perché – allora – tanti aspirano a entrare in questa alleanza? La risposta principale è talmente ovvia da apparire semplicistica: per le opportunità di sviluppo economico che, aderendo, si potrebbero aprire. Si pensi, ad esempio, ai vantaggi per il Brasile di Lula o per un’Argentina sull’orlo del suo ennesimo fallimento economico.

Con la Russia impegnata nella guerra, oggi i Brics sono una creatura dominata dalla Cina, seconda potenza economica mondiale in competizione con gli Usa. Anche a Johannesburg il vero vincitore è stato Xi Jinping, che ha blandito molti paesi, soprattutto africani (dove Pechino ha da tempo piantato le proprie bandiere). Il leader cinese ha anche incontrato Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica dell’Iran, paese che, pur non avendo mai smesso la persecuzione nei confronti dei dissidenti, è stato accolto nei Brics. Come per l’aggressione russa all’Ucraina, anche davanti alla repressione di Tehran, Pechino chiude gli occhi. D’altra parte, i cinesi sono i primi a non voler parlare di democrazia e diritti umani avendo i loro problemi in Tibet, Xinjiang, Hong Kong e Taiwan.

Che il capitalismo occidentale abbia prodotto e produca troppe ingiustizie (economiche, sociali e ora anche ambientali) è fatto indubitabile e non più tollerabile. Che l’alternativa sia un modello multilaterale guidato da una o più dittature è però una toppa peggiore del buco.

Paolo Moiola




India. A Delhi, promesse e gaffe

Da Narendra Modi a Lula da Silva. Nel 2024, il vertice delle venti maggiori economie del mondo (G20) si terrà nel paese latinoamericano.

Modi è stato abile, abilissimo. Non tanto per aver fatto conoscere al mondo il nome originale del suo paese, Bhārat (al posto del coloniale India), quanto per il suo fantastico equilibrismo. Al pari del turco Erdogan (con il quale condivide anche un’interpretazione piuttosto discutibile della democrazia), il primo ministro indiano è stato capace di barcamenarsi tra Joe Biden e Xi Jinping, quest’ultimo strategicamente assente dal vertice dopo aver partecipato di persona a quello dei Brics, a fine agosto.

«Siamo una sola terra, una sola famiglia e condividiamo un futuro» con queste (belle) parole inizia il preambolo della dichiarazione finale della due giorni (9-10 settembre) di Nuova Delhi. E subito dopo, ai punti 3 e 4, s’introduce la questione ambientale: «Le emissioni globali di gas serra (Ghg) continuano ad aumentare, di pari passo con il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la siccità, il degrado del territorio e la desertificazione, minacciando vite e mezzi di sussistenza. […] Noi affermiamo che nessun paese dovrebbe scegliere tra la lotta alla povertà e la lotta per il nostro pianeta». Insomma, nel documento finale del G20 le buone intenzioni non mancano, ma – si sa – quelle non costano nulla.

Modi saluta Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo. (Foto da www.g20.org)

Poco sotto, nel paragrafo titolato «Per il pianeta, la gente, la pace e la prosperità», al punto 8 si legge della guerra in Ucraina, ma la Russia di Vladimir Putin non viene neppure citata. Come se quel conflitto si fosse autogenerato al pari di una combustione spontanea o, meglio, di una partenogenesi. Sergej Lavrov, l’ineffabile ministro degli esteri russo, ha gradito molto. Una scelta grave quella del G20 perché alla legalità internazionale si è preferito il compromesso ipocrita.

Per il resto, nella lunga dichiarazione (sono 38 pagine) non manca quasi nulla: economia e sviluppo, ambiente e clima, tecnologia, finanza, lotta al terrorismo, alla xenofobia e alla strumentalizzazione delle fedi religiose, migrazioni. Difficile trovare un passaggio su cui non concordare: le parole sono scelte con estrema cura, come consuetudine nei documenti finali. È il successivo passaggio, dalle parole ai fatti, che risulta sempre problematico.

Non manca, tuttavia, qualche elemento positivo. Per esempio, verso la fine del documento (al punto 76), si legge una novità potenzialmente interessante: l’entrata dell’Unione africana – organizzazione similare all’Unione europea – come membro permanente del G20.

Il punto precede le righe che riguardano le migrazioni, la questione mondiale più rilevante di questi anni, al pari dei cambiamenti climatici. Vale la pena di riportarne alcune righe: «Riaffermiamo il nostro impegno – scrivono i leader – a sostenere i migranti, compresi i lavoratori migranti e i rifugiati, nell’ambito dei nostri sforzi verso un mondo più inclusivo, in linea con le politiche nazionali, legislazioni e circostanze, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, indipendentemente dal loro status migratorio. Riconosciamo anche l’importanza di prevenire i flussi migratori irregolari e il traffico di migranti, come parte di un approccio globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare rispondendo, nel contempo, ai bisogni umanitari e alle cause profonde degli sfollamenti. Sosteniamo il rafforzamento della cooperazione tra paesi di origine, transito e destinazione».

Come volevasi dimostrare, non c’è una parola fuori posto. Ma di soluzioni concrete e immediatamente attuabili non c’è traccia alcuna.

Interessante anche il punto 78, nel quale si difende la libertà religiosa. «Deploriamo fortemente – scrivono i leader – tutti gli atti di odio religioso contro le persone, nonché quelli di natura simbolica, […], anche contro i simboli religiosi e i libri sacri». Il passaggio è importante, ma dovrebbe stonare un po’ per l’anfitrione indiano. Narendra Modi, infatti, è primo ministro del paese asiatico, ma anche leader del Bharatiya janata party (Bjp), partito induista poco rispettoso delle minoranze religiose. In particolare, sono i musulmani (14,2% pari a quasi 173 milioni di indiani) e i cattolici (1,5%, circa 20 milioni) a essere fatti oggetto di discriminazione e violenza.

Modi con il presidente Lula. Il Brasile ospiterà il G20 del 2024. (Foto da www.G20.org)

A conclusione del vertice, Modi ha passato le consegne a Lula, presidente del Brasile, prossimo paese a ospitare il G20. Come primo gesto, il leader brasiliano ha offerto a Vladimir Putin, ricercato dalla Corte penale internazionale (alla quale anche il paese latinoamericano aderisce), la possibilità di presenziare di persona al summit del 2024 senza correre il rischio di essere arrestato. Il giorno dopo Lula ha ritrattato: «Su Putin deciderà la magistratura», ha precisato. Aggiungendo però un’altra affermazione infelice: «Non sapevo nemmeno che esistesse questo tribunale».

Paolo Moiola




Usa-Vietnam: da nemici a partner strategici

Il 10 e 11 settembre il presidente degli Stati Uniti è stato in visita ufficiale in Vietnam, invitato dal segretario generale del Partito comunista vietnamita. Durante la visita è stato siglato un importante accordo.

Il presidente statunitense, Joe Biden, ha compiuto una visita di due giorni in Vietnam, il 10 e 11 settembre scorso. È stato invitato dal segretario generale del Partito comunista vietnamita (Pcv), Nguyen Pu Trong, di fatto la carica politica più importante nel Paese.

Usa e Vietnam hanno ristabilito relazioni diplomatiche, dopo la guerra, da quasi trent’anni: la normalizzazione è infatti avvenuta nel luglio 1995, quando Bill Clinton era presidente Usa.

I due paesi, negli anni, sono arrivati a un livello di scambio economico elevato, ma il 10 settembre hanno firmato il cosiddetto «partenariato strategico integrale per la pace, la cooperazione e lo sviluppo sostenibile». Si tratta del livello più alto di partenariato previsto dal paese asiatico con altri stati, e, prima di oggi, era stato siglato solo con Russia, Cina, India e Corea del Sud.

Il Vietnam deve mantenere un equilibrio difficile con la Cina, la quale, da un lato è il suo maggiore partner commerciale, dall’altro mostra strapotere e invadenza nelle acque del Mar cinese meridionale (in Vietnam chiamato Mare orientale).

Una buona relazione con gli Usa, a livello geopolitico, può aiutare in questo equilibrismo, pur evitando di schierarsi. Il Vietnam adotta la cosiddetta diplomazia del bambù, definita dallo stesso segretario generale come avente «radici forti, fusto solido, ma rami flessibili».

Gli Usa, invece, cercano alleanze in chiave anticinese nell’area dell’Indo-Pacifico, oggi la più strategica a livello mondiale.

È inoltre fondamentale per entrambi l’aspetto economico della relazione: «Il segretario generale [del Pcv] si è complimentato per la forte promozione della cooperazione economica, commerciale e degli investimenti, oltre che per la crescita economica inclusiva nella direzione dell’innovazione, centrale nelle relazioni tra i due paesi», riporta il Courrier du Vietnam, giornale di Hanoi in lingua francese.

Il partenariato è stato seguito dalla firma di una serie di accordi commerciali.

Secondo Christophe Paget, giornalista di Radio France international, «nel 2022 Il Vietnam è diventato il settimo mercato di esportazione degli Usa, superando il Regno Unito, mentre per il Vietnam gli Usa sono il primo mercato di esportazione».

Inoltre, le difficoltà commerciali degli Usa con la Cina in questa fase, spingono gli americani a cercare altre sponde. In particolare per i semiconduttori, ma anche per le terre rare, di cui il Vietnam è uno dei paesi con le maggiori riserve al mondo.

L’incontro di inizio settembre è solo una tappa del percorso. Lo scorso giugno Biden ha mandato una lettera d’invito a Trong per una visita ufficiale negli Usa.

Per approfondire

https://www.rivistamissioniconsolata.it/2023/06/12/cinquantanni-di-relazioni-italia-vietnam-stabilita-e-crescita/

https://www.rivistamissioniconsolata.it/2023/08/14/nemici-ieri-partner-oggi/




Islanda, miti e realtà. L’isola bivalente

Viaggio nell’isola del Nord Europa

Mappa con l’Islanda e gli altri paesi del Circolo polare artico.

Sommario

 

 

 



Ma non è il paradiso

Piccola, sperduta, spopolata. I boschi sono scomparsi da secoli. I ghiacciai stanno sparendo rapidamente a causa dei cambiamenti climatici. L’energia a disposizione è tanta, ma i turisti sono forse troppi. E anche i casi di depressione tra i suoi abitanti. L’Islanda è bella, ma non idilliaca come retorica racconta.

L’aria «si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra».

L’Islanda sarebbe stata la terra che il filosofo di Mileto, Anassimene (586-528 a.C.), da cui sono tratti questi versi, avrebbe probabilmente amato. I quattro elementi costituenti la materia da lui per primo teorizzati e che poi Empedocle (V secolo a.C.) avrebbe fissato in una concezione scientifica che avrebbe resistito fino al Medioevo, si scatenano da millenni nelle viscere di quest’isola per poi liberarsi sulla sua superficie plasmandone il territorio.

Anche se politicamente l’Islanda appartiene all’Europa, geologicamente l’isola è lo spettacolare palcoscenico in cui le due placche continentali europea e americana si incontrano permettendoci di calpestare il suolo dell’una o dell’altra.

I turisti si divertono ad attraversare il «Ponte tra i continenti» che si trova nella penisola di Reykjanes. Si lanciano saluti dalla placca americana a quella europea. A Þingvellir, le guide amano spiegare ai turisti che si inoltrano nel canyon di Almannagjá di stare camminando esattamente tra le due placche tettoniche, anche se in realtà le due faglie non sono così nettamente divise e il canyon di Almannagjà si trova interamente nella placca americana (e per calpestare il suolo europeo occorre attraversare per diversi chilometri tutta la pianura sino ai primi contrafforti che si vedono verso est).

Il piccolo porto di Husavik, nell’estremo nord dell’Islanda. Foto Christian Klein – Pixabay.

Le forze naturali: risorse e disastri

È comunque proprio questa conflagrazione naturale causata dalle forze tettoniche – che qui in Islanda ha trovato la sua espressione più spettacolare – la causa del fallimento, prima, e del successo, poi, della colonizzazione di questa terra.

Fallimento, perché per secoli la popolazione dell’isola ha dovuto lottare contro l’esuberanza degli agenti naturali e un clima rigido che limitava la coltivazione del terreno rendendo la vita al limite della sopportazione.

Secondo Halldór Laxness, scrittore islandese premio Nobel nel 1955, i suoi connazionali sono l’unico popolo che ha distrutto la natura del loro stesso Paese. La colonizzazione è coincisa con la deforestazione secondo l’idea di una natura da combattere invece che da proteggere.

Successo perché proprio la natura, insieme all’isolamento del Paese, ha da un lato protetto l’Islanda dalle guerre che hanno imperversato in Europa e nel mondo e, dall’altro, a partire dagli anni Novanta, ha favorito lo sviluppo dell’industria turistica, da anni in continua espansione.

Le case colorate della capitale islandese Reykjavik. Foto Tom Podmore – Unsplash.

Turismo ed energia da fonti rinnovabili

Nel 2022 sono stati 1,29 milioni i turisti che hanno raggiunto il paese a fronte di una popolazione totale di soli 390 mila abitanti. Pur non avendo ancora raggiunto la punta massima del 2018, quando i visitatori furono 1,82 milioni, l’aumento post pandemia è comunque considerevole, tanto da contribuire per il 6,2% del Pil nel 2022, ma suscitando qualche critica anche da parte della popolazione.

Le arterie cittadine sono ormai trafficate, gli incidenti causati dai guidatori non esperti che si avventurano in strade non asfaltate o che rimangono impantanati nei guadi sono in aumento, così come i rifiuti e gli atti di vandalismo (voluti o accidentali). La pressione demografica, che a prima vista potrebbe sembrare poco influente in un paese di 103mila km2 (un terzo dell’Italia), inizia a farsi sentire sull’ambiente (il 90% dei viaggiatori si concentra in aree limitate e utilizza mezzi propri per gli spostamenti) mentre il costo della vita, dei servizi e del mercato immobiliare aumenta, soprattutto a scapito degli abitanti. I prezzi degli appartamenti sono improponibili anche per un islandese, il cui stipendio medio si aggira sui 3.800 euro al mese: un appartamento in centro in una città di medie dimensioni costa sui 4mila euro al metro quadrato e a Reykjavik raggiunge anche i 6-8mila euro. Accanto ai disagi creati dal turismo, la natura islandese dona però anche indubbi vantaggi, in primo luogo sul piano energetico.

L’87% dell’energia prodotta nell’isola proviene da fonti rinnovabili (nell’Unione europea rappresenta il 18.6%, in Italia il 18,4%). Le imponenti masse d’acqua che si riversano nei fiumi generando cascate impressionanti forniscono energia idroelettrica per il 62% del totale dell’energia prodotta nel Paese (nell’Unione europea è il 5,4%, in Italia il 6,4%), mentre il vapore che fuoriesce ininterrottamente dal sottosuolo, oltre a riscaldare le piscine termali, alimenta le centrali geotermiche che contribuiscono al 25% della produzione energetica nazionale.

Nonostante la geotermia sia considerata fonte energetica a basso impatto ambientale, le emissioni di CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano) sono comunque considerevoli. I gas serra, sommati a gas tossici come l’idrogeno solforato (H2S), in un impianto geotermico sono emessi durante il processo di generazione. Nei giacimenti sotterranei i fluidi caldi, contenenti principalmente CO2 e metano, vengono portati in superficie, ma mentre il vapore acqueo può venire liquefatto, i gas in esso contenuti non sono condensabili. Al fine di evitare che i gas serra si diffondano nell’atmosfera a Hellisheiði, poco distante da Reykjavik, la più grande centrale geotermica islandese e l’ottava al mondo, è prevista l’installazione di un impianto Dacs (Direct air capture storage).

Mentre visito la struttura, Edda Aradóttir, Ceo della compagnia, mi illustra il progetto «Mammoth», un sistema che, una volta funzionante (si pensa entro il 2025), sarà capace di catturare nominalmente fino a 36mila tonnellate di anidride carbonica l’anno per poi insufflarla a 800-2.500 metri nel sottosuolo dove, nel giro di un paio d’anni, si trasformerà naturalmente in minerali carbonati.

Una vista spettacolare della valle di Oxnadalur con la fattoria Hals. Foto Piergiorgio Pescali.

Il riscaldamento climatico e i ghiacciai dell’isola

Il riscaldamento climatico, che gli islandesi cercano di mitigare limitando ulteriormente le già minime emissioni di gas serra rilasciate dal loro sistema energetico, è evidente a Fjallsárlón e Jökulsárlón dove trovo ad aspettarmi Andrea e Claude, entrambi geologi, con cui compio un giro per le lagune glaciali. L’innalzamento delle temperature che sta assottigliando il Vatnajökull, una massa di ghiaccio grande quanto il Friuli-Venezia Giulia, agisce in due modi: da una parte espone le morene all’aria e dall’altra fa arretrare il fronte glaciale. La fuliggine delle attività vulcaniche e la polvere che si deposita sulla superficie del ghiacciaio rendono il suo manto di un colore grigiastro che riduce l’albedo (il potere riflettente di una superficie bianca, ndr) con la conseguente accelerazione dello scioglimento, trasformando il ciclo in un pericoloso uroboro (l’uroboro è il serpente che si mangia la coda, ndr) climatico.

A dieci chilometri di distanza dal Fjallsárlón, si apre la laguna di Jökusárlón, più vasta e più bella della precedente e per questo anche quella più assaltata dai turisti. La Jökusárlón è formata dalla lingua glaciale del Breiðamerkurjökull che, dopo essersi espansa fino al 1890, dagli anni Venti del XX secolo ha iniziato a ritrarsi lasciando spazio a uno specchio d’acqua che si è venuto a formare a partire dal 1935. Oggi questo lago è ampio circa 18 chilometri quadrati e la sua superficie aumenta a velocità sempre più elevata. «L’Islanda ha solo 390mila abitanti e conta ben poco nella lotta contro il cambiamento climatico, ma è spesso presa a esempio per il suo impegno nel contribuire all’impegno per mantenere l’aumento della temperatura sotto il punto di non ritorno», afferma Andrea.

Vero è, però, che un paese poco densamente abitato che ha la fortuna di godere di fonti naturali energetiche poco impattanti dal punto di vista ambientale e – perdipiù – pressoché inesauribili, è sicuramente molto più favorito di altre nazioni.

Del resto, non tutto in Islanda funziona al meglio.
«Abitare in Islanda non è facile» mi dice Guðrún, studentessa di chimica all’University of Iceland che, per guadagnarsi da vivere, passa le vacanze lavorando come cameriera in un bar di Vik: «I turisti arrivano, rimangono estasiati dalla baia, dal Paese, dalle pecore, dalle cascate, dal mare, ma poi, dopo una o due settimane, se ne ritornano da dove sono venuti, nel caldo delle loro città, nella vita notturna, nei concerti. Escono al mattino con il sole e sanno che quella giornata rientreranno con il sole. Se vogliono possono bersi una birra o andare al ristorante senza spendere una fortuna. Da noi tutto questo è semplicemente impossibile».

Mi viene in mente un passo di «Miss Islanda», il libro di Auður Ava Ólafsdóttir, ambientato negli anni Sessanta, ma ancora attualissimo, in cui Hekla, trasferitasi a Copenaghen, scrive alla sua amica Ísey che «la pioggia (a Copenaghen, ndr) non è orizzontale, anzi scende giù verticalmente, come fili di perle».

L’impressionante volume d’acqua che forma la cascata di Dettifoss, la maggiore dell’Islanda e dell’Europa. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli islandesi e il pericolo della depressione

Nella fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 29 anni, un islandese su dieci soffre di depressione acuta  e lo Stato riserva il 12% del budget della sanità per le malattie mentali. Appena possono, i giovani fuggono dall’isola, spesso considerata come una prigione, per trasferirsi sul continente. Ogni anno circa duemila islandesi tra i 15 e i 64 anni si trasferiscono all’estero. Se è vero che essi rappresentano solo l’1% della fetta di popolazione di quell’età, è anche vero che oggi in termini assoluti sono ben 49mila gli islandesi (il 13,2%) che risiedono permanentemente fuori dal Paese.

A parte pochi paesini che contano qualche migliaio di abitanti (Húsavík, Akureyri, Stykkishólmur, Ísafjörður), la maggior parte dei centri islandesi sono deprimenti e senza alcuna attrazione.

La difficile situazione sociale islandese è raccontata oltre che dalla letteratura anche dalla filmografia: Virgin Mountain, Nói AlbÍnói, The Oath-il giuramento, Rams-Storia di due fratelli e otto pecore, e anche la serie Trapped, raccontano i risvolti di una società ben lontana dall’idilliaco stereotipo in cui i turisti si ostiniamo a dipingere la nazione.

Nell’Islanda dei libri di Halldór Laxness o di Ragnar Jónasson c’è molta più verità di una fotografia scattata durante una toccata e fuga nell’isola. È la vita reale di un’Islanda che preferiamo non vedere o non conoscere: famiglie spezzate, intrighi tra colleghi di lavoro, dialoghi ridotti all’osso ed ermetici, paesaggi desolati, quasi sempre cupi e piovosi, paesini malinconici.

Ne «I giorni del vulcano» di Jónasson, Ívar, il superiore di Ísrún, non vede l’ora di licenziare la collega, ma non potendolo fare le affida i lavori più noiosi e insignificanti mobbizzandola persino di fronte alla direttrice della redazione televisiva in cui lavora.

Mi dirigo verso Siglufjörður, a nord di Akureyri, dove è ambientata la serie televisiva Trapped e dove si dipanano le scene dei libri di Ragnar Jónasson. Una manciata di case sparpagliate su una baia per un totale di 1.300 abitanti. Nonostante non piova, le strade sono deserte. Solo qualche turista si aggira tra la banchina del porto e la fabbrica di aringhe alla ricerca di qualche scena che ricordi i luoghi calpestati da Andri Ólaffson, il poliziotto a capo delle indagini.

Ne «L’angelo di neve», Jónasson descrive magistralmente il paesaggio in cui mi immergo: «Il fiordo li accolse con il grigio opprimente di una giornata coperta. Nuvole scure nascondevano l’anello di montagne impedendo di ammirarne in pieno la magnificenza. Il grigiore rendeva opachi i tetti delle case e i giardini erano coperti da un leggero strato di neve».

A Djúpavik, lungo la costa Strandir, nei fiordi occidentali, la desolazione si ripresenta in modo ancora più deprimente. Nel villaggio vive una sola famiglia immersa nel nulla di un paesaggio che è tanto magnifico quando è illuminato dal sole quanto è demoralizzante quando piove. La cittadina più vicina, Hólmavik, si trova a settanta chilometri al termine di una strada non asfaltata. L’unico hotel è una magnifica oasi di pace aperta nel 1985 da Eva Sigurbjörnsdóttir e dal marito Ásbjörn Þorgilsson che, con i loro figli, hanno trasformato ciò che restava di una vecchia fabbrica di aringhe, chiusa nel 1954, in un piccolo museo in cui artisti esibiscono i loro lavori. D’altro non c’è molto: una stazione di benzina in disuso, il relitto arrugginito della Suðurland che, dopo aver smesso di fare servizio fra Reykjavik e il Breiðafjörður, venne trasferita a Djúpavik nel 1935 e usata per ospitare la manovalanza stagionale della fabbrica di aringhe.

Nonostante il villaggio sia quasi abbandonato, Halldór Laxness ha ambientato qui il suo romanzo «Guðsgjafaþula» (Una narrazione dei doni di Dio, non ancora tradotto in altre lingue), mentre nel 2006 i Sigur Rós hanno suonato nella vecchia fabbrica di aringhe e, nel 2016, Ben Affleck, Willem Dafoe e Jason Momoa hanno girato alcune scene di «Justice League».

Gli iceberg della laguna di Jökulsárlón; il riscaldamento climatico ha liberato blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

La politica e la stretta migratoria

L’isolamento a cui sono costretti molti centri islandesi a causa dei collegamenti poco veloci o per le condizioni atmosferiche, ripropone in modo più che mai attuale la questione dello spopolamento delle campagne. Il 94% della popolazione si accalca nelle città. Reykjavik, la cui municipalità da sola raggruppa 243mila islandesi, si sta espandendo: nel 1972 era una cittadina quasi sconosciuta quando per qualche giorno occupò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo con la leggendaria sfida di scacchi tra Bobby Fisher e Boris Spassky e nel 1986 tornò alla ribalta grazie alla riunione tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv alla Höfði. Il summit, assieme all’inaugurazione, avvenuta pochi giorni dopo, della chiesa di Hallgrímskirkja, iniziata nel 1945 (anche in Islanda non tutto funziona in modo efficiente), segnarono la svolta della capitale.

Nel Paese iniziarono a riversarsi i primi turisti e, con loro, i primi immigrati. Dieci anni dopo quasi il 3% della popolazione islandese era straniero: oggi lo è il 19%.

L’apprezzata prima ministra islandese, Katrín Ja-kobsdóttir, del Movimento sinistra e verdi, pur avendo nel suo Dna una politica sociale progressista e illuminata, deve fare i conti con una singolare coalizione di governo che la vede alleata di minoranza di due partiti di centro destra, il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista. Il primo, con 17 deputati su 63, è il maggior gruppo parlamentare con un orientamento a destra e liberale. Sostenuto dalle cooperative di pescatori e dagli imprenditori, è euroscettico, condividendo questo sentimento con gli altri due alleati.

Il Partito progressista si è invece sempre più avvicinato ai movimenti populisti abbracciando la retorica sovranista, opponendosi a un’eventuale entrata dell’Islanda nell’Unione europea, criticando le istituzioni e i creditori internazionali e chiedendo una stretta nella regolamentazione migratoria.

Chi ne fa le spese sono soprattutto gli immigrati. La politica islandese sta cambiando radicalmente: le difficoltà economiche, come spesso accade, hanno aumentato l’ostilità della popolazione e del governo verso l’immigrazione, in particolare quella economica. Di fronte alla minaccia di rimpatrio («deportazione» è il termine esatto utilizzato dalle Ong islandesi ) di trecento richiedenti asilo (principalmente di nazionalità irachena e nigeriana), nel 2022 diverse organizzazioni, tra cui la Croce Rossa, sono scese in piazza chiedendo al governo di rivedere la sua politica migratoria.

Nei primi quattro mesi del 2023 su 1.771 domande di asilo (813 da venezuelani, 629 da ucraini, 71 da palestinesi e varie altre nazionalità), solo 736 ne sono state accettate (547 ucraini, 67 palestinesi, 36 siriani).

Padre Jacob Rolland con, sullo sfondo, la cattedrale cattolica di Cristo Re nella capitale islandese. Foto Piergiorgio Pescali.

La polemica religiosa

Nel 2018 il governo di Jakobsdóttir è stato anche al centro di una vivace polemica internazionale per il disegno di legge proposto dal Partito progressista che intendeva proibire la circoncisione con una pena fino a sei anni di prigione.

Di fronte a tale pericolo, l’Inter Faith Forum, presieduto da padre Jakob Rolland, della Chiesa cattolica islandese in collaborazione con l’Istituto di studi religiosi dell’Università dell’Islanda, ha indetto una conferenza a cui hanno partecipato rappresentanti laici, cristiani, ebrei e musulmani (la comunità ebraica islandese conta circa 500-600 membri e solo nel 2021 la fede ebraica è stata riconosciuta come una delle religioni ufficiali del Paese).

Il caso fu ripreso anche dalla stampa: «Se un Paese inizia a proibire una pratica religiosa con la giustificazione dei diritti umani, altre nazioni potrebbero seguirne l’esempio creando un precedente molto pericoloso», mi dice padre Rolland, il quale aggiunge che la sua famiglia polacca ricorda bene gli orrori dei campi di concentramento nazisti. «Era quindi chiaro per noi che dovevamo fermare la proposta sin dall’inizio per evitare che potesse passare inosservata aprendo porte che non devono assolutamente essere di nuovo aperte».

Dopo la conferenza dell’Inter Faith Forum, il parlamento islandese chiese la rettifica della legge al governo, ottenendone il congelamento (non la sua cancellazione).

Un pescatore islandese mostra la preda. Foto Piergiorgio Pescali.

Il marketing dei vichinghi e il nazionalismo islandese

«I nostri antenati erano vichinghi, il nostro popolo è abituato a lottare per la propria sopravvivenza. Se vuoi qualcosa te la devi meritare, non puoi arrivare in Islanda e pretendere che il governo ti conceda tutto quello che non hai avuto nel tuo Paese d’origine» mi dice un sostenitore del «Fronte nazionale islandese», un partito di estrema destra nato nel 2016 che, come si legge nel suo statuto, intende «proteggere il sistema sociale, l’indipendenza dell’Islanda e la cultura islandese».

L’immagine dell’islandese vichingo è oggi sempre più utilizzata in senso nazionalista dall’ultradestra del paese. In realtà, i primi colonizzatori, a partire da quell’Ingólfur Arnarson che nell’874 sbarcò con la moglie Hallveig Fróðadóttir e al fratello di sangue Hjörleifur Hróðmarsson, erano fuggiaschi norvegesi, per lo più poveri contadini, che cercavano terre da coltivare che non fossero soggette alla pesante tassazione reale.

«Siamo più eredi di poveracci che di fieri guerrieri. Dal punto di vista del marketing, però, l’eredità dei landnásmenn (i proprietari delle terre) non rende quanto quella di nerboruti e battaglieri combattenti», sostiene Lúna, neolaureata in Studi medioevali presso la University of Iceland.

Nel «Landnamabók» (Libro dell’insediamento) sono nominati circa quattrocento coloni che arrivarono in Islanda (tra cui centotrenta dalla Norvegia e cinquanta dalla Britannia).

Molti di essi fuggirono dalla Norvegia per le vessazioni di Harold Fairhair (Bellachioma, ndr), altri fuggirono dalle isole britanniche per le sconfitte subite nel Wessex e a Dublino nel 902.

Ancora oggi la storia della colonizzazione dell’Islanda è ricoperta da un velo di mistero. Si parla anche dell’arrivo di monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar» (vedi sotto).

Un gregge di pecore a Hverir. Foto Piergiorgio Pescali.

Saghe, leggende e stereotipi

A proposito di stereotipi, nel 2019, ho partecipato a Edimburgo a una conferenza in cui era invitato Hallgrímur Helgason, scrittore pittore presentatore radiofonico, uno degli uomini più famosi in Islanda (e uno dei più contestati, specie negli ambienti della sinistra), vincitore di due Premi letterari islandesi (nel 2001 e nel 2018) e conosciuto anche in Italia per il suo romanzo «101 Reykjavik».

Nel suo intervento, incentrato sul turismo in Islanda, l’autore ha inanellato luoghi comuni degni del migliore assorbitore seriale di leggende metropolitane lette sui social: dalle coppie giapponesi che sbarcano in Islanda in inverno per avere la possibilità di concepire sotto l’aurora boreale perché ritenuto di buon auspicio (una storia inventata di sana pianta che ha avuto origine in Canada e in Alaska), ai gruppi che circolano per Reykjavik chiedendo «a che ora accendono l’aurora boreale» (l’aforisma – molto probabilmente inventato dallo stesso Helgason – deve piacere particolarmente allo scrittore perché lo cita spesso nei suoi interventi variando di volta in volta la nazionalità dei gruppi – ora cinesi, ora filippini, ora giapponesi – che però rimangono immancabilmente asiatici).

«Ecco, ora hai capito perché ci sentiamo in un certo senso orfani letterari», mi spiega una collega islandese. «Purtroppo dopo Laxness non siamo più riusciti a sfornare scrittori di talento».

Eppure, l’Islanda è il Paese in cui la letteratura, specialmente quella epica, è fiorita più che in altri: le innumerevoli saghe di cui si nutre la storia islandese hanno plasmato la cultura e il carattere della popolazione. Ogni luogo, ogni comunità, ogni anfratto racchiude storie di elfi, diavoli, tesori, troll di cui gli attuali toponimi trasmettono ancora l’eredità.

La centrale geotermica di Krafla, nel nord del Paese, appartiene alla Landsvirkjun, il più grande gestore elettrico dell’Islanda, di proprietà statale. Foto Piergiorgio Pescali.

Lo scandalo finanziari0 e il «Best Party»

Continuando a parlare di miti e leggende, ma sul lato secolare, la leggenda che forse è più dura a morire riguarda l’integrità del sistema Islanda dopo la grande crisi finanziaria del 2008 (che ha visto il fallimento delle tre principali banche del paese, ndr).

Dei 202 imputati chiamati a rispondere delle loro responsabilità, solo 25 sono stati incriminati con pene relativamente miti (tra 6 mesi e 6 anni) e a quattro di questi la condanna è stata sospesa. La maggior parte di loro ha scontato la pena nella prigione di Kvíabryggja, un luogo di detenzione all’aperto e non recintata, e rilasciata dopo un anno. «Attraverso i cambiamenti legislativi, le condanne, già brevi, sono diventate comicamente brevi e in pochi mesi sono tornati a pilotare elicotteri e cenare con i loro coniugi nei migliori ristoranti di Reykjavik», afferma Jared Bibler, ingegnere al Mit di Boston e direttore della squadra investigativa che ha indagato sulla crisi pubblicando in un libro del 2021 un dettagliato resoconto della sua esperienza.

Geir H. Harde, il primo ministro islandese al tempo dello scandalo, dopo essere stato «punito» con la nomina ad ambasciatore dell’Islanda negli Stati Uniti, è oggi direttore esecutivo alla Banca mondiale per gli Stati nordici e baltici.

A seguito della debacle finanziaria, l’Islanda ha conosciuto una rivoluzione politica che si è riverberata sull’intero pianeta: un attore comico, Jón Gnarr, ha formato un partito, il Best Party, che con la sua satira affermava di non voler mentire ai propri elettori: «Dato che i partiti sono segretamente corrotti, noi promettiamo di essere apertamente corrotti».

Il Best Party, nato inizialmente come uno scherzo, è diventato ben presto una realtà politica: nel 2010 ha partecipato alle elezioni comunali di Reykjavik, vincendole con il 35% dei consensi e conquistando sei dei quindici seggi del consiglio comunale. Anarchico, figlio di un poliziotto comunista, Jón Gnarr, pur non avendo mai terminato le scuole secondarie, è diventato sindaco della capitale islandese per quattro anni.

Tra dichiarazioni ironiche («importeremo ebrei per avere finalmente in Islanda qualcuno che ne capisce di economia»), consiglieri improbabili («mi lascio consigliare dai Moomin e dagli elfi, che mi hanno detto che l’Islanda deve aderire all’Unione europea»), Reykjavik sotto Gnarr ha risanato il debito e si è riscoperta una città colorata abbandonando lo squallido grigiore e quella patina di austera compostezza che la contraddistingueva.

La Orkuveita reykjavíkur (Or), l’azienda energetica municipale che aveva accumulato due miliardi di dollari di debiti, è stata risanata licenziando il direttore generale e duecento dipendenti, chiamando esperti, depoliticizzando l’azienda e trasferendo gli uffici in una sede meno costosa. Le reti dei trasporti pubblici e delle strutture educative (scuole e asili) sono state riorganizzate (non senza vivaci proteste da parte della popolazione) e in città sono stati costruiti 25 km di piste ciclabili.

Foche nei pressi del villaggio di Djúpavík, nei fiordi occidentali. Foto Piergiorgio Pescali.

Dall’indipendenza alle guerre del merluzzo

L’ascesa politica di Gnarr e il suo stesso modo di parlare e di agire nel nome del popolo è stato certamente favorito dalla cultura islandese. Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore, una vita tranquilla (per molti, troppo tranquilla).

Non dobbiamo però farci ingannare: pur essendo un Paese pacifico e senza esercito, l’Islanda ha sempre tratto beneficio dalle guerre.

In «Gente indipendente», Halldór Laxness scrive che «La guerra mondiale continua a portare benefici al Paese e alla gente, tanto che non la chiamano altro che guerra benedetta […] e più andava avanti, più la gente ne aveva piacere. Tutti i buonuomini si auguravano che potesse continuare il più a lungo possibile».

La Seconda guerra mondiale ha segnato una tappa fondamentale per l’Islanda: con l’occupazione statunitense, che dal 1941 si sostituì a quella britannica, nel 1944 l’isola ottenne l’indipendenza dalla Danimarca, allora sotto occupazione tedesca. Dopo la fine del conflitto, gli islandesi ricevettero più aiuti procapite rispetto a tutti gli altri europei occidentali.

L’adesione alla Nato contribuì anche alle tre vittorie nelle «guerre del merluzzo» (1950-1970), combattute con successo contro il Regno unito a colpi di speronamenti e, a volte, anche con scambi di artiglieria navale tra la Guardia costiera islandese e la marina britannica, intervenuta a difesa dei propri pescherecci. Con il 10% del Pil legato alla pesca, Reykjavik non poteva (e ancora oggi non può) permettersi di condividere con altre flotte più numerose e attrezzate della sua, le pescose acque artiche. Il governo islandese chiedeva con insistenza che lo sfruttamento dei mari fosse esclusiva prerogativa delle sue navi. Priva di una propria marina, l’Islanda giocò la carta geopolitica minacciando di uscire dalla Nato nel caso le sue richieste non fossero state accettate. Alla fine, fu Kissinger a convincere Londra a ritirare le proprie navi. Così, al termine delle tre guerre (1958-61; 1972-73; 1974-75), Reykjavik riuscì a estendere le acque territoriali a duecento miglia dalle proprie coste.

Il ghiacciaio che si getta nella laguna di Fjallsárlón; il riscaldamento climatico da una parte sta facendo ritirare il fronte del ghiacciaio, dall’altro ha permesso di liberare blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

Tra Unione europea e Cina

La questione ittica, con il mancato accordo sulle quote di pesca, è stato anche uno dei motivi del ritiro, annunciato nel 2013 e messo in pratica nel 2015, della richiesta di adesione dell’Islanda all’Unione europea, anche se, secondo un sondaggio svoltosi nell’aprile 2023, il 44% degli islandesi sarebbe favorevole all’entrata nella Ue contro il 34% dei contrari.

Nel frattempo, però, l’economia islandese deve trovare nuovi sbocchi e nuovi partner. E un nuovo partner lo ha trovato, preoccupando seriamente gli Stati Uniti, nella Cina.

Dopo il crollo della cortina di ferro e lo spostamento dell’attenzione internazionale in Asia, la piccola, sperduta e spopolata Islanda, anziché perdere la sua importanza strategica, l’ha aumentata. In particolare, a partire dal 2013, quando, su iniziativa dell’allora presidente Ólafur Ragnar Grímsson, Reykjavik ospitò la prima assemblea del Circolo artico. Questo, a differenza dell’Arctic council, il consiglio governativo formato nel 1996, è un organismo a cui possono partecipare istituzioni di vario genere, governative, private, Ong, università, ecc. non necessariamente geograficamente ed economicamente coinvolte nelle attività artiche. Vi partecipano, quindi, anche Cina, India, Corea del Sud, Singapore, Emirati arabi, e questo allargamento di confini ha aumentato il peso specifico della politica islandese aprendo le porte dell’isola all’economia di Pechino. La nuova Via della seta passa anche da qui.

Piergiorgio Pescali

Il getto d’acqua del geyser di Strukkur (Geysir); erutta ogni 5-10 minuti lanciando un getto alto tra i 20 e i 30 metri. Foto Piergiorgio Pescali.


Dorsali, placche, magma, geyser

La dorsale medio atlantica si allunga per circa 15mila chilometri nel fondo dell’oceano e, a mano a mano che il mantello della crosta terrestre si eleva, al di sotto di esso viene a crearsi una depressione che riscalda la roccia. Questo aumento di temperatura porta allo scioglimento della crosta che trova sfogo nelle parti meno spesse dando così origine ai fenomeni vulcanici.

Lungo la dorsale, il magma fuoriesce dalle viscere della terra e, a contatto con l’acqua, solidifica. È così che ogni anno il fondo marino si innalza di 2,5 cm, ma vi sono dei punti in cui il movimento è più attivo che in altri ed è qui che il suolo si è innalzato tanto da affiorare sul livello del mare per formare isole più o meno grandi. L’Islanda è la maggiore tra queste e il suo territorio viene letteralmente spaccato dalla dorsale che si incunea per tutta la sua lunghezza. Una diramazione si stacca verso sud dalla faglia principale all’altezza dei vulcani Grimsvötn e Laki-Fogrufjöll per creare una terza «isola» tettonica che comprende i vulcani Katla e Hekla, mentre nella piana di Þingvellir, sede storica del primo parlamento islandese, la placca continentale americana si divide da una placca minore a sé stante, la microplacca di Hreppar.

La mappa mostra le dorsali (ridges, in inglese) che attraversano o lambiscono il Paese.

Terra tra le più giovani del pianeta (è iniziata ad affiorare circa 20 milioni di anni fa), l’Islanda è in continua evoluzione, come testimoniano i numerosi vulcani attivi e le sorgenti termali di cui i geyser sono l’espressione più scenografica.

Le fratture tra le due placche si allargano ogni anno di circa 2,5 centimetri e il movimento, seppur impercettibile ai nostri occhi, causa una vivace attività sismica che si trasmette in fenomeni che toccano più direttamente la vita della popolazione: terremoti, eruzioni magmatiche o geotermiche.

I materiali ricchi di metalli alcalini sono trasportati in superficie dai cosiddetti hotspot, punti circoscritti particolarmente caldi che affiorano seguendo cunicoli e pennacchi. La presenza di acqua, invece, da una parte è la causa della formazione di getti ad alta pressione che fuoriescono sotto forma di geyser, fenditure del terreno che si collegano a falde riscaldate da rocce a contatto con il magma, dall’altra, quando entra in contatto direttamente con il magma, l’acqua si trasforma in vapore dissociandosi in idrogeno e ossigeno. Questa miscela, innescata dai getti incandescenti, esplode con violenza spargendo cenere vulcanica in tutta la regione e cambiando radicalmente la conformazione del terreno.

Pi.Pes.


I vichinghi, «guerrieri del mare»

La tela dipinta da Oscar Wergeland nel 1877 ricorda l’arrivo dei vichinghi in terra d’Islanda.

L’immagine dell’islandese vichingo è uno stereotipo che ha fatto il suo tempo, ma che continua a essere molto popolare all’estero.

Il termine vikingr al maschile era usato dai norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia) per indicare «guerrieri del mare», mentre al femminile, viking, indicava le «spedizioni marittime a fini militari». Oggi la parola vikingr è usata per descrivere chiunque abbia origini norrene nell’era vichinga.

Solitamente assimilati a uomini rudi, mezzi nudi e pelosi, con il barbone rosso che cala dal mento e che si confonde con i capelli lunghi e arruffati nascosti parzialmente da un curioso elmo cornuto, in realtà, i norreni erano una popolazione dai gusti raffinati, eleganti, dedita al commercio con le nazioni più potenti dell’epoca, il Sacro Romano Impero, l’impero arabo, quello bizantino.

I rapporti non si limitarono solo a negoziazioni commerciali di beni di prima necessità, ma consentirono alla società norrena di approfondire la conoscenza di altre culture e apprezzarne la ricchezza artistica.

Grazie ai drekar, le navi dalla chiglia piatta, il popolo dei norreni poteva navigare in mare aperto così come lungo i fiumi a basso pescaggio compiendo esplorazioni in Groenlandia, Islanda e raggiungendo le coste del Nord America, qualche secolo prima di Colombo.

Quella dei vichinghi è un’era che si dipana tra il 750 e il 1050 d.C. Chiamata «Età dell’oro», in essa le società scandinave espansero la loro economia, le loro conoscenze e, dall’XI secolo, assorbirono le influenze cristiane.

Deluderà forse sapere che le corna poste ai lati degli elmi che ancora oggi piacciono tanto ai turisti e ai negozi di souvenir, sono frutto di una leggenda nata in tempi recenti. Fu lo scenografo Carl Emil Doepler a disegnare proprio un elmo del genere per il ciclo «L’anello dei Nibelunghi». Molto probabilmente i vichinghi raramente indossavano copricapi in ferro, preferendo quelli in cuoio, lasciando gli elmi per le cerimonie dei nobili, che se li portavano nelle loro tombe come simbolo distintivo sociale.

L’ecllissi della società vichinga avvenne in concomitanza con la transizione verso il cristianesimo grazie all’opera del re Olaf II Haraldsson (995-1030), il Sant’Olaf a cui tutta la cultura baltica e slava è particolarmente affezionata. È a seguito della conversione forzata del popolo norreno che venne realizzata la famosa stele di Dynna, oggi conservata nel museo di Storia di Oslo. Questo monolito piramidale di tre metri rappresenta una delle prime testimonianze cristiane della regione scandinava. I suoi bassorilievi propongono una commovente Natività e i tre re Magi che seguono la stella di Betlemme, non ancora trasformatasi nella cometa di cui Giotto sarà primo autore, tre secoli più tardi, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.

Pi.Pes.

Sorgenti calde nell’area di Geysir. Foto Piergiorgio Pescali.


Geotermia, dall’Italia all’Islanda

La generazione di energia elettrica e di calore da geotermia è iniziata in Italia nel 1818 grazie all’ingegnere di origini francesi, Francesco Giacomo Larderel che pensò di sfruttare i getti di vapore che uscivano dal suolo nel comune di Pomarance, nell’allora Granducato di Toscana, per produrre boro utilizzandolo nelle industrie farmaceutiche.

Per omaggiare l’ingegno di Larderel, Leopoldo II decise di dare al luogo il nome dell’ingegnere e il 4 luglio 1904 il proprietario della ditta, Piero Ginori Conti, decise di sperimentare un generatore la cui bobina era alimentata con il calore geotermico. Con l’accensione di cinque lampadine, quel 4 luglio 1904, si inaugurò la geotermia.  Sette anni dopo, la prima centrale geotermica al mondo venne inaugurata a Larderello e oggi le 34 centrali geotermiche italiane producono seimila GWh (2.976 GWh in provincia di Pisa, 1.492 GWh in provincia di Siena e 1.403 GWh in provincia di Grosseto), circa la stessa quantità generata in Islanda (5.960 GWh).

La compagnia energetica nazionale islandese, la Orkustofnun, ha la possibilità di rilevare le risorse energetiche presenti nel sottosuolo di qualsiasi terreno, privato o pubblico, nel Paese. Un proprietario di terreno può richiedere la licenza d’uso per poter sfruttare risorse geotermiche (e del sottosuolo in generale) per un periodo limitato.

In Islanda, ad oggi sono state individuate 20 aree geotermiche all’interno di zone vulcaniche attive con vapori che raggiungono temperature sotterranee di 250°C entro i mille metri di profondità e circa duecentocinquanta aree geotermiche lontane dalle zone vulcaniche, i cui vapori, sempre a mille metri di profondità, non superano i 150°C.

Oggi il 90% delle abitazioni islandesi sono riscaldate con impianti che traggono calore dall’energia geotermica e in alcune zone di Reykjavik e di altre città islandesi i marciapiedi, le strade e le aree di parcheggio sono dotate impianti di riscaldamento a geotermia per sciogliere il ghiaccio durante i mesi invernali.

Nel 2000 un consorzio di compagnie energetiche private e pubbliche (HS Orka hf, Landsvirkjun, Orkuveita Reykjavíkur e la Orkustofnun) ha iniziato un progetto, l’Iceland deep drilling project, Iddp, per sfruttare sistemi idrotermali ad altissima temperatura al fine di raggiungere fluidi supercritici che si trovano a 4-5 km di profondità con temperature che raggiugono i 400-600°C. I giacimenti supercritici potrebbero arrivare a una potenza sino a dieci volte superiore rispetto a quelli convenzionali: mentre questi ultimi raggiungono una profondità media di 2,5 km con una potenza equivalente di 5 MWe, quelli Iddp riescono ad attingere giacimenti supercritici con temperature superiori a 450° con una potenza equivalente prodotta pari a 50 MWe.

Pi.Pes.

La cattedrale della Chiesa nazionale d’Islanda nella capiatale del paese. Foto Wikimedia commons.


Chiese e fedeli

La leggenda dei «papar»

Come negli altri paesi nordici, anche in Islanda la grande maggioranza dei fedeli segue la Chiesa luterana. I cattolici arrivarono presto, ma la loro vicenda è priva di certezze storiche.

Padre Jakob Rolland, cancelliere ecclesiastico della diocesi cattolica di Reykjavik, che incontro presso la cattedrale di Landakotskirkja (Cristo Re), afferma che i primi abitanti dell’Islanda furono monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar», dal celtico pap e dal latino papa, «padre» o «papa».

Secondo lo storico Axel Kristinsson, invece, non vi è alcuna prova archeologica secondo cui l’Islanda fosse in qualche modo abitata prima dell’arrivo dei norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia, ndr) nel IX secolo. Il testo più antico che testimonia la presenza dei papar è l’«Íslendingabók» (Libro degli islandesi), scritto tra il 1122 e il 1133 dallo scrittore e religioso Ari Þorgilsson (1067-1148) in cui si afferma che «L’Islanda fu colonizzata per la prima volta dalla Norvegia ai tempi di Harold Fairhair. […] A quel tempo l’Islanda era coperta da boschi tra le montagne e la costa. C’erano cristiani, che i norvegesi chiamano papar, ma che se ne andarono perché non volevano convivere con i pagani lasciando libri irlandesi, campane e pastorali. Da questo si poté capire che fossero uomini irlandesi». Ma l’Íslendingabók, oltre a essere stato scritto da un rappresentante della Chiesa, non porta alcuna prova, oltre a quella tramandata oralmente circa tre secoli dopo i fatti raccontati, della presenza cristiana.

Quel che è certo, è che la fede cristiana venne abbracciata nel 999 d.C.

La chiesa Hallgrímskirkja, opera del noto architetto islandese Gudjon Samuelsson, a Reykjavik. Foto Piergiorgio Pescali.

Cristiano III e il luteranesimo

Nel villaggio di Holmavík, c’è uno dei musei islandesi più particolari e originali: quello di magia e stregoneria, diretto da Anna Björg Þórarinsdóttir. «In Islanda la Chiesa cattolica e il paganesimo, che portava con sé pratiche magiche, hanno convissuto abbastanza pacificamente», ha commentato la direttrice.

Fu solo dopo il XVI secolo, quando Cristiano III (1503-1559), re di Danimarca e Norvegia, impose la fede luterana anche all’isola, allora possedimento danese, che iniziò la caccia alle streghe.

«Il primo caso di messa al rogo registrato è avvenuto a Eyjafjörður, quando un certo Jón Rögnvaldsson venne accusato di aver praticato casi di stregoneria, mentre l’ultimo avvenne nel 1719 a Þingvellir».

Luterani e cattolici nell’Islanda di oggi

Mons. Dávid Bartimej Tencer, vescovo della Chiesa cattolica islandese. Foto Wikimedia commons.

In termini percentuali, la Chiesa cattolica islandese è la più grande tra quelle dei paesi del Nord Europa, tutti dominati dalle Chiese luterane. Dal 2015 la comunità cattolica è guidata da monsignor Dávid Bartimej Tencer, dell’ordine dei frati minori cappuccini.

Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, vescovo della Chiesa nazionale d’Islanda. Foto www.kirkjan.is.

La Chiesa principale (70 per cento dei fedeli) è la Chiesa nazionale d’Islanda, luterana. Dal 2012 essa è retta da Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, la prima donna vescovo del paese.

Piergiorgio Pescali


Hanno firmato il dossier:

Piergiorgio Pescali, ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è un assiduo collaboratore di Missioni Consolata.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione mc.




Turchia. Nelle mani del sultano


Lo scorso maggio si sono chiuse le elezioni presidenziali. Da vent’anni al potere, Recep Tayyip Erdoğan ha vinto ancora. Le speranze di molti, soprattutto giovani e intellettuali, di vedere il tramonto del sultano si sono infrante. Tra crisi economica, politica estera ondivaga, islamizzazione e restrizioni delle libertà individuali, il futuro del paese rimane molto incerto.

Istanbul. Quando atterro nella metropoli turca – è il 13 maggio, vigilia delle elezioni -, il clima è tesissimo. Le strade sono tappezzate di bandiere e striscioni con i volti e gli slogan dei candidati. In questi giorni sono state arrestate 78 persone, la maggior parte attivisti e giornalisti, accusati di aver postato sui social media contenuti «inopportuni» contro Erdoğan. Alcuni reporter, all’ingresso in aeroporto, si sono visti anche rifiutare il permesso d’ entrata, ragione per la quale mi sono presentato, alle autorità, come semplice turista. I contendenti alla presidenza sono: l’attuale presidente Erdoğan e il settantaquattrenne Kemal Kılıçdaroğlu, principale oppositore del sultano. Kılıçdaroğlu rappresenta la sinistra, la sua è una visione liberale e inclusiva di tutte le etnie presenti in Turchia. Il terzo candidato è l’outsider: Sinan Oğan, esponente dell’Unr, un partito di estrema destra ma comunque sempre di opposizione. Nella corsa alla presidenza era presente un quarto candidato: Muharrem Ince, ritiratosi dopo essere stato vittima di una pesante campagna diffamatoria. Il terremoto del 6 febbraio ha cambiato qualcosa nell’opinione pubblica. Molto ha pesato la cattiva gestione dei soccorsi da parte del presidente, il quale ha favorito l’invio di aiuti in alcuni luoghi, rallentando invece quelli verso le zone a lui ostili, come quelle a maggioranza curda. Inoltre, l’altissimo livello di corruzione presente in Turchia si è nuova-

mente palesato quando si è scoperto che le enormi cifre destinate alla messa in sicurezza degli edifici a rischio non sono mai state impiegate o, comunque, sono state usate solo parzialmente. Tutto questo ha aperto gli occhi a molti elettori, soprattutto i più moderati, che hanno spostato il proprio voto su Kılıçdaroğlu. Ad oggi, le preferenze degli abitanti di Istanbul, così come quelle di tutto il popolo turco, sono divise quasi perfettamente a metà.

A Sultanahmet, uno dei quartieri più famosi della città, luogo dove sorgono la Moschea Blu e Aya Sophia, un numeroso gruppo di persone già festeggia la vittoria di Erdoğan. I sostenitori sventolano bandiere della Turchia cantando che: «C’è solo un uomo in grado di guidare il Paese».

È blindata Sultanahmet, polizia e militari hanno transennato le strade impedendo l’accesso a qualsiasi veicolo, tutta la zona è sorvolata da elicotteri. Proprio qui, questa sera, si terrà il discorso di chiusura della campagna elettorale di Erdoğan.

Al posto dei classici manifesti elettorali, la Turchia era addobbata con migliaia di bandiere che mostravano il volto dei candidati; qui il volto di Erdogan. Foto Angelo Calianno.

Un «dedem» come avversario

Il modo di comunicare dei due principali candidati, fino a ora, è stato totalmente opposto. Altisonante quello di Erdoğan che ha parlato spesso dal palazzo presidenziale, circondato dai suoi uomini e dai militari come in una continua parata.

Kılıçdaroğlu, invece, ha spesso postato video su internet dalla sua cucina, quella di una normalissima casa. Per la sua età, i modi pacati e le buone maniere, l’avversario di Erdoğan è stato soprannominato dai suoi elettori più giovani: «dedem» (mio nonno, in turco).

Arrivo nel quartiere di Besiktas, una delle roccaforti di Kılıçda- roğlu, il 14 maggio. Anche questa mattina c’è molta tensione, le strade sono semideserte in una calma irreale. Massiccia è la presenza di militari e polizia. Malgrado tutti i candidati abbiano chiesto, ai propri elettori, di non uscire per strada e di non manifestare, si ha molta paura che, qualsiasi sarà il risultato, possano esserci scontri e violenze. Incontro il mio interprete, ha appena votato per Kılıçdaroğlu: «Sono venuto qui a lavorare con te in segreto. Lavoro per una compagnia gestita dalla famiglia di Erdoğan, potrei perdere il mio posto se si venisse a sapere che sto collaborando con un giornalista. Potrei comunque anche perderlo se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, ma non mi importa. Siamo stanchi di questa situazione, cambierei volentieri lavoro se questo dovesse significare avere un presidente diverso».

Mentre ci rechiamo in una delle scuole adibite a sede elettorale, un gruppo di anziani richiama la nostra attenzione mostrandoci, con le dita, il segno «V» di vittoria.

«Questa notte finalmente potremmo riavere una vera democrazia – spiega uno di loro -. Sono pensionato, ho lavorato come rappresentante commerciale in giro per la Turchia e per l’Europa. Molti vedono il nostro Paese ancora come un luogo dalla mentalità chiusa, ma il desiderio di molti di noi è quello di convivere con tutte le nostre religioni ed etnie: musulmani, cristiani, curdi, turchi, tutti pacificamente. La politica di Erdoğan è sempre stata incentrata su odio e divisione. Ma questa sera, sarà la fine di tutto questo».

Arrivato davanti a una scuola, noto moltissimi giovani che camminano avanti e indietro tra le aule e l’ingresso: sono volontari, sostenitori di Kılıçdaroğlu. Sono qui per assicurarsi che non ci siano brogli e che tutto avvenga regolarmente. I timori di irregolarità in queste elezioni sono ben giustificati. Solo pochi giorni fa, a Mardin, sono state sequestrate migliaia di schede elettorali finte. La presenza di tutti questi volontari fa ben sperare che, davvero, questa possa essere la fine di Erdoğan.

Una donna danza attorno la bandiera raffigurante il volto dell’avversario di Erdogan. Foto Angelo Calianno.

Meglio l’anonimato

Un altro quartiere da sempre liberale, e opposto all’attuale presidente, è quello di Kadikoy. Situato sul golfo del Mar di Marmara, pieno di locali e luoghi di ritrovo, Kadikoy è il ritrovo dei giovani artisti e intellettuali di Istanbul.

Avvicino alcuni di loro, seduti a un tavolo di un caffè. Discutono di quello che potrebbe essere il risultato finale di questa notte. Uno di loro dice: «Io penso che vincerà Kılıçdaroğlu, ma la vittoria non sarà schiacciante, sarà un testa a testa fino alla fine. Noi ci siamo laureati da poco, lavoriamo per multinazionali straniere che hanno delle sedi qui, ma, per colpa di Erdoğan, siamo sottopagati. Il nostro stipendio si aggira sulle 15mila lire al mese (circa 600 euro), ne paghiamo 10mila di affitto. I costi aumentano, i nostri stipendi rimangono uguali. Erdoğan ha trasformato la Turchia in un Paese di manodopera a basso costo per aziende occidentali. Questa è la realtà».

Cosa fareste se dovesse vincere Erdoğan?, chiedo. «Io penso che cercherei un modo di andar via – risponde un altro ragazzo -. Penso che se continueremo con Erdoğan al potere, questo Paese andrà sempre più verso un’islamizzazione estrema, fino a somigliare a un vero regime, come quello iraniano».

Domando: «Come festeggerete questa sera se dovesse vincere Kılıçdaroğlu?». «Non penso che festeggeremo – dice una ragazza del gruppo -. Sinceramente, io ho paura che ci possano essere scontri e che delle persone possano rimanere uccise. Soprattutto se dovesse vincere “dedem”. I sostenitori di Erdoğan uscirebbero in strada per sfogare la loro rabbia su chi sta celebrando. Per questo, tutti i leader politici ci hanno rivolto degli appelli a non uscire di casa, qualsiasi sarà il risultato».

Prima di andare via, chiedo il permesso di poter scrivere i loro nomi, ma i ragazzi hanno paura e si rifiutano. Uno di loro aggiunge: «Questo, però, dillo. Scrivi che i giovani di Istanbul sono così terrorizzati da Erdoğan da non poter dare nemmeno il proprio nome».

Fila di votanti in una scuola del quartiere di Besiktas. Foto Angelo Calianno.

«Occorrerebbe una rivoluzione culturale»

Continuando a camminare nel quartiere di Kadikoy, arrivo a un’altra sede elettorale. Sono le 16, c’è ancora un’ora a disposizione, dopodiché, le elezioni saranno chiuse. Anche le scuole di Kadikoy pullulano di volontari che controllano l’effettiva regolarità della votazione.

Tra questi ragazzi, si avvicina un uomo. Si chiama Omer Faruk, è uno scrittore ed editore turco:

«Rimarrò qui fino allo spoglio delle cartelle. Non mi fido assolutamente di quello che può succedere. Il problema in ogni caso, anche se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, rimane. La Turchia è un Paese che ha ancora una mentalità troppo arretrata. Un Paese che, per metà, vota ancora per Erdoğan è un Paese che ha bisogno di un cambiamento radicale. La Turchia è ancora schiava della religione. Gli estremisti, che rappresentano la maggior parte dei suoi elettori, hanno ancora troppo potere nella società. Anche cambiando governo, questo Paese ha bisogno di affrontare una rivoluzione culturale».

Un gruppo di ragazzine chiacchierano dopo aver pregato nella moschea di Fatih; come quasi tutte le donne qui, indossano il tradizionale chador. Foto Angelo Calianno.

Gli elettori di Erdoğan

Nella metropoli turca, chi sono i sostenitori di Erdoğan? Molti sono imprenditori, anche stranieri, residenti qui da anni. Nel Paese sono stati tanti gli investimenti edilizi illeciti, soprattutto a Istanbul, città della quale Erdoğan è stato anche sindaco. In molti casi, qui basta pagare una tangente per ottenere permessi di costruzione, anche dove non sarebbe possibile. Un’altra nutrita parte di elettori, fedelissima, la si trova tra i musulmani conservatori.

Un terzo gruppo è rappresentato dalle persone facilmente influenzabili, vittime della interminabile campagna mediatica di Erdoğan che, con la sua famiglia, controlla quasi tutti i canali di comunicazione del Paese.

Camminando per Istanbul è facile capire quali quartieri siano a lui devoti. Luoghi, ad esempio, come il quartiere di Fatih, parte della città dove risiedono i musulmani più estremisti. Le strade sono decorate da bandiere che raffigurano il suo volto, quasi tutte le donne indossano il tradizionale chador, e praticamente nessuno vuole rilasciare dichiarazioni riguardanti le elezioni. I pochi commenti che riesco a raccogliere sono soltanto lodi alla grandezza del presidente e slogan per la sua sicura vittoria.

Per aspettare il risultato dello spoglio elettorale, mi sposto a Taksim, una delle piazze principali della città. Qui, nel 2013, si svolsero le proteste contro il governo di Erdoğan. La polizia represse i manifestanti con un bagno di sangue: 11 morti e quasi novemila feriti. Anche questa notte si teme che possa accadere la stessa cosa. Quindi, le misure di sicurezza sono eccezionali.

Alle 23, quando cominciano a uscire le prime proiezioni, le poche persone in giro cominciano ad andar via. Per strada rimaniamo solo in pochi giornalisti stranieri, molti collegati in diretta Tv con i propri Paesi. I sostenitori, di tutti e tre i leader, rimangono a distanza ai margini della piazza, seduti in cerchio a osservare l’aggiornamento dei risultati dai loro cellulari.

È circa l’una di notte quando viene dato l’annuncio, anche se non ancora ufficiale, i giochi sembrano fatti: Erdoğan ha chiuso le votazioni con poco più del 49%, Kılıçdaroğlu al 44% e Oğan appena sopra il 5%. A fine mese si tornerà al voto.

Ragazzi e ragazze intervistate in uno dei caffè di Kadikoy; con le dita mostrano il simbolo del cuore, marchio distintivo dei sostenitori di Kılıçdaroğlu durante la sua campagna elettorale. Foto Angelo Calianno.

Il ballottaggio spegne la speranza

È il 28 maggio. Rispetto a due settimane fa, le speranze di un cambiamento sembrano affievolite. Rispetto al primo turno di elezioni, i giorni che hanno preceduto il ballottaggio hanno visto una campagna elettorale ancora più aggressiva. Erdoğan, in particolare, ha usato tutto il suo potere mediatico per gettare discredito su Kılıçdaroğlu, accusandolo anche di essere simpatizzante dei terroristi del Pkk.

Erdoğan controlla l’85% dei media turchi, tra cui i principali giornali e televisioni. Il suo governo ha posto pesanti censure su Twitter, YouTube e Facebook. Già nella prima parte delle elezioni, la disparità di visibilità tra i due contendenti è stata abissale. Secondo Rsf (Reporter senza frontiere), Erdoğan ha ottenuto 60 volte la visibilità di Kılıçdaroğlu. Sulle Tv nazionali, i minuti messi a disposizione a Kılıçdaroğlu sono stati appena 30, contro le 32 ore per Erdoğan. Il candidato Oğan ha espressamente chiesto ai suoi elettori di votare per Erdoğan, mentre il suo partito si è dissociato da queste dichiarazioni, appoggiando Kılıçdaroğlu.

Gruppi armati di bastoni, coltelli e catene, inoltre, si sono recati in alcune scuole nel quartiere di Kadikoy, vandalizzandole, così da scoraggiare gli elettori ad andare alle urne. Si è stimato che quest’atto abbia abbassato l’affluenza del 10%. In questo caso, tutti voti in meno per Kılıçda-roğlu.

Le speranze si spengono definitivamente alle 22, quando Erdoğan, dal palazzo presidenziale, annuncia la sua vittoria: rimarrà presidente per altri 5 anni, avendo ottenuto il 52,16% dei voti. In conferenza stampa, Kılıçdaroğlu dichiara che queste sono state le elezioni più scorrette della storia recente. Prega i suoi elettori di tenere viva la lotta per la democrazia.

Il nuovo governo di Erdoğan si troverà a fronteggiare il malcontento di quasi il 50% della popolazione, la ricostruzione delle regioni distrutte dal terremoto di febbraio, e un’inflazione che sfiora l’80%.

Non da ultimo, le ambigue amicizie del presidente con Cina e Russia, una lenta, ma costante, islamizzazione del Paese e le continue violazioni dei diritti umani, fanno guardare con preoccupazione a quello che potrebbe accadere in Turchia nei prossimi cinque anni.

Angelo Calianno

A Sultanahmet, uno degli ultimi discorsi pubblici dei sostenitori di Erdogan, prima della chiusura della campagna elettorale. Foto Angelo Calianno.

Erdoğan e la politica estera: Più Mosca e Pechino che Bruxelles

La posizione geografica della Turchia, da sempre, la rende uno dei luoghi strategici più importanti di tutto il Medioriente, essendo un punto di connessione tra Asia ed Europa. Con 1.148 imprese registrate sul territorio, la Cina è uno dei principali investitori in questo Paese. La Turchia è il ventitreesimo maggior destinatario di investimenti cinesi nel mondo. La maggior parte delle aziende di Pechino si occupano di trasporti e logistica, utilizzando la rete ferroviaria (che hanno contribuito a modernizzare) e quella marittima. Importantissimi poi sono gli investimenti cinesi sulle telecomunicazioni: società di telefonia, infrastrutture per la rete 5G. Le banche cinesi, come la Bank of China, hanno partecipato al finanziamento della costruzione della centrale termica di Hunutl e di diversi gasdotti.

Un altro importantissimo, e storico, alleato della Turchia sin dalla fine della guerra fredda, è la Russia.  Mosca fornisce quasi la metà del gas naturale importato, oltre che il 25% delle importazioni di petrolio. La Russia sta costruendo la prima centrale nucleare turca. Il commercio bilaterale, sull’asse Mosca-Ankara, valeva 26 miliardi di dollari nel 2019: da un lato importazioni turche di energia e grano, dall’altro gli acquisti russi dei prodotti agricoli turchi. Preoccupano molto alcuni accordi, tra Mosca e le banche turche, che hanno introdotto la possibilità di pagare con «carta Mir». Mir è un circuito di pagamento russo che si avvale di conti virtuali e carte di credito, un sistema potrebbe aiutare la Russia ad aggirare le sanzioni occidentali.

Uno dei principali rivali politici della Turchia, in questi anni, sono stati gli Emirati Arabi Uniti. I due Paesi si sono accusati a vicenda nell’ultimo decennio: Erdoğan ha ritenuto colpevoli gli Emirati Arabi di aver appoggiato il tentativo di colpo di Stato del 2016. Gli Emirati Arabi hanno lamentato il sostegno turco ai Fratelli musulmani durante le rivolte arabe. Dal 2021 però, dopo un’intensa attività diplomatica, i due Paesi hanno ripreso a dialogare.

L’interesse degli emiratini a investire in Turchia è concreto. Su tutti: l’Abu Dhabi investment authority. Il piano economico, messo in standby durante le elezioni, potrebbe diventare sempre più intenso adesso.

Senza tregua è la lotta dell’attuale presidente contro l’etnia curda. Continui sono gli arresti ingiustificati di giornalisti, attivisti, tutti per presunta affiliazione al Pkk, spesso senza prove concrete. L’ultimo atto, in questo senso, è stato il bombardamento della Turchia nel Rojava, la regione curda nel nord della Siria, a novembre e dicembre del 2022. Bombardamenti e tentativi di invasione che Erdoğan riprende con ogni pretesto.

Infine, una delle questioni più complesse dei governi di Erdoğan degli ultimi 20 anni, è stata il rapporto con l’Unione europea e i Paesi occidentali. Pur avendo avviato dal 2005 i negoziati di adesione alle Ue, l’entrata ufficiale della Turchia è in stallo dal 2018, soprattutto per i continui passi indietro del Paese in materia di democrazia. Censure ai media, arresti arbitrari e la dubbia posizione sulla guerra in Ucraina, vedono oggi la Turchia più lontana che mai dall’Europa.

An.Ca.

La moschea di Fatih, situata nell’omonimo quartiere; questa moschea, una delle più grandi di Istanbul, fu costruita nel 1463 sul sito della chiesa bizantina dei Santi Apostoli. Foto Angelo Calianno.

Turchia: Da paese laico a paese islamico

Da Kemal Atatürk a Erdoğan

Nonostante la Turchia abbia una costituzione di ispirazione laica, con Erdoğan al potere, gli ultimi 20 anni costituiscono uno degli esempi più longevi di politica islamista in Medioriente. L’orientamento all’islam di Erdoğan è cominciato fino dalla sua giovinezza. Nato a Kasimpasa, quartiere povero di Istanbul, viene mandato dal padre a studiare in una scuola religiosa. Negli anni perfeziona lo studio del Corano e della vita di Maometto. Durante l’adolescenza, si unisce all’ala giovane di partiti islamico-nazionalisti, anti occidentalisti e anti semiti come l’Mnp (Milli selamet partisi). Malgrado, a un certo punto, questi partiti vengano banditi per aver violato la Costituzione turca, Erdoğan continua la sua militanza, formandosi poi con l’ideologia sulla quale si baserà per tutta la sua carriera politica: populismo e anti kemalismo (termine indicante la politica di Kemal Atatürk, ndr).

Il primo grande successo di Erdoğan arriva nel 1994, quando diventa sindaco di Istanbul. In pochi anni raccoglie milioni di consensi, facendo leva soprattutto sul «vittimismo» di molti musulmani che, dalla formazione di uno Stato turco di stampo laico, quello di Atatürk, non hanno più trovato lo spazio e l’importanza del passato.

Dal 1924, per ordine di Atatürk, in Turchia è presente un organo chiamato: Diyanet (dal turco «Diyanet işleri başkanlığı»), ovvero Direttorio per gli affari religiosi). Inizialmente il Diyanet era un ufficio nato per supervisionare gli affari religiosi, costituito per proteggere la Repubblica turca da pressioni e infiltrazioni religiose estremiste. Con Erdoğan però, esso cambia totalmente ruolo. Da quando il presidente è salito al potere, nel 2002, il Diyanet si occupa della promozione dell’Islam sunnita, sia in Turchia che all’estero, e della divulgazione dei valori della vita tradizionale. Negli ultimi 10 anni, il budget del governo destinato al lavoro del Diyanet è stato quadruplicato, oggi conta 150 mila dipendenti. Ultimo atto di questo organo amministrativo, sono state pesanti tassazioni sulle bevande alcoliche e il divieto di servirle a bordo di arei nelle tratte domestiche. Oggi Erdoğan è considerato uno dei principali leader dell’islam nel mondo. È stato soprannominato il nuovo sultano o califfo. Nel 2019, nella lista della Royal islamic strategic studies centre, si è classificato come uno dei 500 musulmani più influenti del mondo.

Angelo Calianno

Fedele all’interno della moschea di Fatih, quartiere dove vivono le persone più devote ai dettami dell’islam. La maggior parte degli abitanti di questa zona proviene dall’estremo est dell’Anatolia. Foto Angelo Calianno.

 

 




Nemici ieri, partner oggi


Le tensioni tra Washington e Pechino spingono i paesi asiatici a schierarsi. In Vietnam i segni della guerra con gli Usa, conclusa nel 1975, sono talvolta ancora visibili, ma i rapporti con la Cina non sono mai stati distesi. E anche il principale fornitore di armi, la Russia, sta dando forfait. Così Hanoi guarda sempre più oltre il Pacifico.

«Guarda, è quello che rimane della Città proibita purpurea». Thang punta il dito e nella sua voce fin lì squillante e divertita subentra una punta di tristezza. Aveva 8 anni quando, nel 1968, l’antica capitale di Hue divenne il teatro di una delle più lunghe e sanguinose battaglie della guerra del Vietnam. Compresa la cittadella imperiale, simbolo della dinastia Nguyen, che era riuscita a unire da nord a sud il territorio vietnamita dopo tanti infruttuosi tentativi.

Hue si trova nel Vietnam centrale, a pochi chilometri dall’antica zona demilitarizzata tra l’allora Vietnam del Nord e Vietnam del Sud.

La cittadella era stata danneggiata una prima volta nel 1947, quando i francesi avevano preso d’assedio la città occupata dai Viet Minh (Lega per l’indipendenza del Vietnam, ndr): molte delle strutture principali erano state colpite. Ancora peggiori furono le conseguenze di quanto accadde tra il 31 gennaio e il 2 marzo del 1968, settimane in cui l’antica capitale e la sua cittadella contenente edifici e opere di valore inestimabile divennero l’epicentro del conflitto.

L’Esercito popolare del Vietnam e i soldati Viet Cong (termine dispregiativo con cui erano chiamati i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, ndr) arrivarono a conquistare la maggior parte della città. L’ordine era quello di distruggere l’apparato amministrativo del Vietnam del Sud e punire spie e reazionari. Quelli identificati vennero portati fuori dalla città per essere «rieducati». Pochi avrebbero fatto ritorno. Quelli ritenuti colpevoli dei «crimini» più gravi furono processati e giustiziati.

Gli Stati Uniti prepararono il contrattacco, ma alle truppe venne ordinato di non bombardare la città per paura di distruggere i numerosi edifici storici, nonché per rispetto nei confronti dello status religioso di Hue, dove ancora oggi sorgono, lungo il fiume dei Profumi, le celeberrime e lussuose tombe degli imperatori. Dopo settimane di combattimenti casa per casa, proprio la cittadella divenne il fronte di combattimento. I Viet Cong occuparono diversi edifici e installarono dei cannoni anti aerei sulle torri esterne. I sudvietnamiti riuscirono comunque a entrare nel sito, sostenuti dai bombardamenti americani, ai quali era stato infine dato il via libera. Alcuni di questi colpirono direttamente edifici in cui erano piazzati cecchini rivali. I combattimenti avvennero tra giardini, fossati e padiglioni. Si arrivò a sparare anche alle porte del palazzo imperiale, dove si erano rifugiati i Viet Cong. Molte delle mura e delle porte vennero ridotte a poco più che macerie. Dei 160 edifici originari, solo 10 siti principali sono rimasti in piedi dopo la battaglia.

Circa 100mila persone furono sfollate dalla città, dove lungo le strade rimasero insepolti centinaia di cadaveri. Le vittime furono numerose: morirono 216 militari statunitensi e 421 soldati sudvietnamiti, e poco meno di cinquemila militari da entrambe le parti restarono feriti.

La battaglia causò la morte di circa quattromila civili. Tra questi, anche alcuni familiari di Thang, che oggi accompagna i turisti in ciclorisciò tra le mura della cittadella. «Ho perso i miei zii e uno dei miei cugini. Era tremendo, eravamo tutti senza acqua e non sapevamo dove andare o dove trovare rifugio. Avevamo paura sia dei nordvietnamiti che cercavano le presunte spie, sia delle bombe degli americani», racconta. «Mi fa impressione leggere che la battaglia è durata circa un mese. Quando ero piccolo ero convinto che fosse durata molto di più, quasi come un’intera epoca della mia vita».

I segni della guerra

Osservando le grandi porte d’ingresso, il sontuoso palazzo Dien Tho e il laghetto pieno di carpe del padiglione Truong Du è difficile credere che questa enorme cittadella sia, suo malgrado, anche uno dei simboli della violenza del conflitto. Eppure, guardando bene, i segni di quella battaglia sono ancora presenti.

Ci sono quelli visibili a occhio nudo, nonostante i decenni di ricostruzione che hanno reso la città una popolare attrazione turistica. Diversi fori di proiettile sono ancora lì in alcune parti delle mura della città, mentre al museo storico e rivoluzionario sono esposti diversi cimeli militari, tra cui un carro armato M48 Patton e un aereo da attacco leggero A-37 Dragonfly della Marina statunitense.

E poi ci sono i segni non visibili agli occhi, ma percepibili attraverso ragione e sentimenti. «Meglio di tanti altri, qui conosciamo che cosa significa subire le devastazioni della guerra», sospira Ngoc, celando per un momento il sorriso mai interrotto durante tutta la cena presso il suo ristorante di cucina locale. «Per questo ora siamo preoccupati da quanto sta succedendo in Ucraina, ma anche e soprattutto dalla tensione tra Stati Uniti e Cina». Suo malgrado, Hue è stata uno dei principali campi di battaglia (indiretti) tra le due superpotenze e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Ora il timore è che l’assenza di dialogo tra Washington e Pechino porti a una nuova epoca di divisioni in blocchi, costringendo i vari paesi asiatici a scegliere da che parte stare. Una scelta che Hue, il Vietnam e in generale tutto il Sud Est asiatico non vorrebbero compiere.

Proprio il caso del Vietnam è forse il più emblematico dell’intera regione. Il paese ha conosciuto la colonizzazione occidentale e combattuto l’America, ma ha anche vissuto sotto la dominazione cinese per oltre mille anni, tra il terzo secolo avanti Cristo e il decimo secolo dopo Cristo, per restare poi a lungo uno stato tributario dell’impero cinese e subire diverse altre invasioni di cinesi e mongoli. Ancora oggi, le iscrizioni dei palazzi della cittadella imperiale di Hue sono in caratteri cinesi.

I vicini scomodi

Nonostante la vicinanza politico ideologica, i rapporti tra Repubblica popolare cinese e Repubblica socialista del Vietnam non sono mai stati del tutto distesi. Nel 1979 ci fu anche una guerra durata un mese, risultato della tensione per il sostegno di Hanoi all’Unione Sovietica (in un momento di grande contrasto con Pechino che si stava aprendo agli Usa) e dell’invasione vietnamita della Cambogia, causa della deposizione dei Khmer Rossi, tradizionali alleati della Cina.

Oggi i rapporti politici tra i due partiti comunisti sono cordiali. E i rapporti commerciali tra i due paesi sono floridi.

Ma questa cordialità si tesse su uno sfondo sempre più evidente di tensioni per alcune dispute territoriali sul Mar Cinese meridionale, intorno ai due arcipelaghi Spratly e Paracelso. A quest’ultimo è dedicato un museo nella città marittima di Da Nang, circa 100 chilometri a sud di Hue. Tre piani di esposizione per raccontare la storia di quelle che qui vengono chiamate isole Hoang Sa (letteralmente «sabbia gialla») e rivendicare su di esse la sovranità vietnamita, che trova spazio anche in alcune mappe esibite in altri musei della zona.

Dall’apertura nel 2018, circa la metà dei suoi visitatori sono stati studenti che, attraverso mappe, fotografie e altri documenti, apprendono la versione ufficiale di Hanoi, secondo cui le isole sono del Vietnam e non della Cina. È una questione seria e molto attuale, tanto che l’anno scorso è stata vietata la distribuzione del blockbuster americano Uncharted, perché un frammento di due secondi mostra l’immagine di una mappa che recepisce tutte le rivendicazioni territoriali cinesi.

Il capo del dipartimento del cinema, chiamato a censurare i prodotti culturali non in linea con la sicurezza nazionale, ha spiegato il divieto di distribuzione del film citando una «immagine illegale dell’infamante linea dei nove tratti».

Acque contese

All’esterno del museo di Da Nang si trova il peschereccio 90152 TS. Affondato nel 2014 durante uno scontro con una nave di sorveglianza marittima cinese vicino alle isole Paracelso, il suo equipaggio è stato salvato da un’altra barca vietnamita. Un episodio che ha segnato molto i rapporti bilaterali degli ultimi anni, simboleggiando anche la differenza di capacità navali e militari dei due paesi. In quell’occasione, infatti, la nave cinese più grande e con scafo in acciaio ha sopraffatto quella vietnamita più piccola e in legno. La Cina sostiene che la nave vietnamita avesse «molestato» un peschereccio cinese.

D’altronde, le acque contese tra Pechino e Hanoi sono ricche di risorse naturali (cfr MC, giugno 2014). Tanto che al loro interno il governo vietnamita ha assegnato concessioni petrolifere ad aziende nazionali e straniere. Anche se di recente il governo ha dovuto accettare di pagare circa un miliardo di dollari a due compagnie petrolifere internazionali (la spagnola Repsol e la Mubadala degli Emirati arabi uniti) dopo aver annullato le loro operazioni nel Mar Cinese meridionale in seguito alle crescenti manovre militari della Cina. Hanoi ha spesso avanzato rimostranze per delle esercitazioni militari svolte all’interno di un’area che il governo vietnamita ritiene come parte della sua zona economica esclusiva, non riconosciuta da Pechino.

Guardare altrove

Il Vietnam è uno dei paesi che meno si è espresso pubblicamente sulla guerra in Ucraina. Ma forse è tra quelli che guarda con maggiore preoccupazione alle sue conseguenze. Anche perché il Vietnam forse più di chiunque altro rischia una sorta di «accerchiamento», confinando non solo con la Cina ma anche con Cambogia e Laos, vale a dire i due paesi della regione maggiormente inseriti negli ingranaggi di Pechino.

Il premier cambogiano Hun Sen, che si appresta a vincere le ennesime elezioni senza rivali a luglio (la rivista è stata chiusa prima della data elettorale, ndr), sembra peraltro disposto a garantire accesso alle navi cinesi nella base militare di Ream. Come altri paesi vicini il Vietnam teme un potenziale crescente allineamento tra Cina e Russia. Sinora, infatti, Hanoi aveva sapientemente dosato i rapporti con Pechino e Mosca sfruttando le evidenti asimmetrie della loro relazione.

Se la Cina è da tempo il primo partner commerciale del Vietnam, la Russia è sempre stata il primo fornitore di componenti militari. Dal 2000 al 2021, l’80 per cento delle armi acquistate dal Vietnam provenivano da Mosca. A fine 2021, i governi dei due paesi hanno siglato un nuovo accordo per espandere ulteriormente la cooperazione militare. Ma la guerra in Ucraina sta rendendo più complicato per il Cremlino continuare a garantire le esportazioni nel settore della difesa. Tanto che Mosca starebbe già riportando a casa armi promesse a partner regionali come Myanmar e India, ritardando consegne ad Hanoi e non solo.

US Secretary of State Antony Blinken (L) meets with Vietnam’s Communist Party General Secretary Nguyen Phu Trong at the Communist Party of Vietnam Headquarters in Hanoi on April 15, 2023. (Photo by Andrew Harnik / POOL / AFP)

Ecco allora che il Vietnam è costretto a guardare altrove. E quell’altrove possono essere gli Stati Uniti che, dopo un embargo decennale, sono pronti a rifornire di componenti militari anche Hanoi. Negli scorsi mesi, si è svolta la più grande missione «di sistema» di aziende americane in Vietnam di sempre. Presenti anche Lockheed Martin e Boeing, che gestiscono contratti milionari per spedire elicotteri e droni armati.

Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato alla posa della prima pietra della nuova ambasciata americana ad Hanoi, che diventerà una delle sedi diplomatiche con l’edificio più costoso dell’Asia. Non solo. Joe Biden ha telefonato a Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista, proprio nel giorno dell’apertura del suo secondo summit della democrazia, invitandolo a Washington. Un atto inusuale, visto che solitamente la Casa Bianca si confronta con il presidente vietnamita, una figura più cerimoniale. Trong ha, invece, accentrato molto il potere, sbaragliando tutti i rivali interni al Partito con la feroce campagna anticorruzione della «fornace ardente». Tanto da ottenere uno storico terzo mandato, rompendo il vincolo dei due mandati introdotto da Le Duan, ancora prima che lo facesse Xi Jinping in Cina.

Fabbriche hi tech

Da ultimo, proprio il presidente Nguyen Xuan Phuc è stato costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria che lo ha lambito ed è stato sostituito da Von Van Thuong, fedelissimo di Trong. Ma tutto questo non sembra essere un problema per Usa e occidente, che hanno individuato proprio nel Vietnam la base perfetta per spostare linee di produzione in uscita dalla Cina, nel tentativo di «riduzione del rischio» di esposizione al mercato della Repubblica popolare.

Si tratta di un fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Pechino e Washington. Negli ultimi anni, sempre più colossi digitali americani e loro fornitori (tra cui Apple) hanno messo radici in Vietnam. Comprese fabbriche ad alto valore tecnologico. Tutti segnali di un rapporto che potrebbe presto conoscere un rafforzamento anche a livello politico difensivo. Ciò non significa che il Vietnam verrà «arruolato» dagli Stati Uniti nella loro strategia di «contenimento» della Cina. Hanoi proverà a continuare a mantenere la sua cosiddetta diplomazia del bambù. Piantato solidamente nel terreno, ma agile nel flettersi secondo il vento.

Così il Vietnam cerca di restare in piedi e navigare le acque agitate della contesa tra le super potenze. D’altronde, qui più che altrove, forse si spera che il confronto non si tramuti mai in conflitto. «Anche perché in caso contrario sappiamo già chi ne pagherà subito le conseguenze», dice Thang, abbassando il dito che indicava ciò che resta della Città proibita purpurea di Hue.

Lorenzo Lamperti




Guatemala. Democrazia in affanno


Il paese è andato al voto senza troppe speranze dicambiamento. Le possibili candidature innovative sono state bloccate da cavilli. La stampa è sempre più imbavagliata e il sistema di lotta alla corruzione è stato smantellato. I guatemaltechi sono in fuga da miseria e violenza verso gli Stati Uniti. Eppure, dal primo turno elettorale, è arrivata una sorpresa.

Città del Guatemala. Passeggiare per la capitale del Guatemala nel giugno 2023 non lascia spazio a dubbi. Si è chiaramente in uno Stato alla soglia del suo Election Day. Non è necessario essere appassionati di politica per rendersene conto. A ogni passo ci si imbatte in enormi cartelloni elettorali che rivestono pali della luce, spartitraffico, piazzali e attraversano le superstrade che dalle periferie portano verso il centro. Fotografie di candidati sorridenti e nomi di partiti si ammucchiano uno sull’altro senza un ordine preciso, alle fermate dei bus, di fronte ai mercati e in tutti gli angoli, anche dei quartieri più marginali della città, dove le facce in carne e ossa delle persone raffigurate in quei cartelloni probabilmente non sono mai state. O meglio, si fanno vedere proprio adesso, all’ultima ora, per fare proseliti, cercare voti e convincere a votare anche chi dalla politica si è sempre sentito escluso.

Il 25 giugno 2023 i cittadini del paese più a nord del Centroamerica sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente. La campagna elettorale, iniziata a marzo, non ha lasciato spazio a grandi novità, anzi è stata il riflesso di un sistema antico e consolidato dove a fare da padrona, in un Paese che al 60% è indigeno, è una ridotta oligarchia bianca di destra, incarnata in grandi proprietari di impresa e veterani di guerra, ancora oggi discendenti direttamente dai coloni spagnoli.

Gli esclusi

Le novità, in teoria, ci sarebbero anche potute essere, ma sono state messe fuorigioco fin dall’inizio. All’appello dei 23 candidati in lizza per le elezioni è mancato la coppia presidenziale formata dal sodalizio tra la leader del Comité de desarrollo campesino (Codeca), di origine maya mam, Thelma Cabrera, e l’ex procuratore per i diritti umani, famoso per la sua lotta contro la corruzione, Jordán Rodas, entrambi candidati per il partito di sinistra Movimiento de liberación de los pueblos (Mlp). Il Tribunale supremo elettorale ha bocciato la candidatura di Rodas e, di conseguenza, anche quella di Cabrera, a causa di un’indagine aperta contro di lui per presunte irregolarità avvenute durante il suo incarico come procuratore, che però non gli era mai stata notificata. Una secchiata d’acqua fredda per i due candidati che ha rappresentato uno stop per Thelma Cabrera che, con il 10,9% dei voti, si era piazzata al quarto posto già nelle precedenti elezioni e, di fatto, avrebbe avuto la possibilità di raggiungere buoni risultati anche in questa tornata. All’esclusione dei due candidati del Mlp, si è affiancato anche quella del candidato di destra Roberto Arzú, figlio dell’ex presidente Alvaro Arzú e, all’ultima ora, del favorito da tutti i sondaggi, il leader de partito Prosperidad ciudadana, Carlos Pineda, per supposte irregolarità avvenute durante l’assemblea del partito.

L’elemento che più colpisce in questa vicenda è il ruolo di «tagliatore di teste» giocato dal Tribunale elettorale supremo che (anche alla conclusione del primo turno, ndr), invece di garantire l’iscrizione dei candidati presidenziali in un contesto democratico, ha abusato del proprio potere per escludere le candidature che sarebbero potute essere d’ostacolo al potere attuale, rappresentato da Alejandro Giammattei, presidente uscente (che non si è potuto ricandidare perché il mandato è unico), conservatore di destra, che da sempre rappresenta gli interessi dell’oligarchia. Human rights watch e numerose organizzazioni internazionali, già a gennaio, avevano espresso inquietudine di fronte alle frodi elettorali, dichiarando che «queste elezioni si sarebbero svolte in un contesto di deterioramento dello stato di diritto, in cui le istituzioni incaricate di monitorare le elezioni hanno poca indipendenza e credibilità. La decisione del Tribunale elettorale supremo del Guatemala di impedire ad alcuni candidati di partecipare alle elezioni presidenziali del 2023 si basa su motivazioni dubbie, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale».

Chi comanda il paese

Frode, corruzione e fragile democrazia sono parole chiave per comprendere le elezioni in Guatemala dove l’astensionismo rimane sempre il protagonista, attestandosi intorno al 40% (come nel 2019), un dato che riflette lo scoraggiamento e la sensazione che nulla possa cambiare di fronte agli interessi di una élite economica e militare che favorisce senza mezze misure i suoi candidati di punta.

Tra questi ultimi c’è Zury Ríos Sosa, figlia minore dell’ex dittatore del Guatemala Efraín Ríos Montt, condannato nel 2013 a 50 anni di carcere per il crimine di genocidio durante il conflitto armato interno durato 30 anni e conclusosi nel 1996. Sebbene la sentenza sia stata annullata per cavilli burocratici, la Costituzione del Guatemala proibisce ai consanguinei dei dittatori, fino al quarto grado di parentela, di potersi presentare come presidente o vice. Tuttavia, la candidatura della figlia di Ríos Montt è stata accettata, permettendole di presentarsi alle elezioni percorrendo una strada spianata grazie all’esclusione di tre candidati che avrebbero potuto darle filo da torcere.

In pole position dei sondaggi, oltre a Zury Ríos Sosa, c’erano Edmond Mulet, 72 anni, del partito Cabal (Esatto, in italiano), e Sandra Torres, 67 anni, moglie dell’ex presidente Álvaro Colom, e candidata di Unidad nacional de la esperanza (Une).

Entrambi hanno un profilo che, seppure differente, è offuscato da presunti scandali e macchie difficili da cancellare.

La prima dama di Une, sconfitta proprio da Giammattei nelle elezioni precedenti, è stata arrestata nel 2019, poi prosciolta, per il reato di associazione illecita e finanziamento elettorale non registrato del suo stesso partito.

Traffico di adozioni

Edmond Mulet, nonostante abbia sempre respinto le accuse e sia stato assolto in un processo, è legato alle adozioni illegali di minori guatemaltechi avvenute nella decade inclusa tra gli anni Ottanta e Novanta, durante il conflitto armato interno. A partire dal 1977 il Guatemala aprì le porte alle adozioni internazionali e, l’allora avvocato trentenne Mulet, partecipò come legale a una organizzazione che facilitava le pratiche di adozioni per motivi che, lui stesso, ha sempre dichiarato essere umanitari. Proprio in quegli anni le richieste di bambini in adozione da parte di Europa, Stati Uniti e Canada aumentarono a dismisura e si creò una redditizia rete di traffico. Migliaia di bambini, dati in adozione e dichiarati in stato di abbandono, in realtà venivano prelevati dalle comunità distrutte dal conflitto armato, rapiti nelle strade e nei parchi, o direttamente dagli ospedali, in assenza del consenso dei genitori o dietro un misero pagamento che a volte le famiglie più povere si vedevano costrette ad accettare. Molti avvocati coinvolti nelle reti di traffico si occupavano di falsificare documenti, velocizzando le procedure di adozione.

Come riportato dalla Corte interamericana dei diritti umani, in quegli anni il Guatemala si è distinto per essere il terzo paese al mondo per numero di adozioni internazionali, dopo Russia e Cina, realizzate in maniera irregolare «senza un ufficio notarile e senza alcun coinvolgimento degli organi statali». Nel 1981, Mulet è stato arrestato con l’accusa di essere coinvolto nelle reti di traffico e successivamente scagionato dall’organismo giudiziale di competenza «per mancanza di sufficienti motivi per portare il processo alla fase pubblica».

A giugno, il collettivo Aquí Estamos formato da alcuni dei bambini, oggi adulti, adottati tra Canada e Stati Uniti, e tornati in Guatemala per cercare le proprie famiglie biologiche, hanno organizzato una conferenza stampa per denunciare la candidatura a presidente di persone coinvolte con il traffico di bambini, tra cui Mulet, ma anche Zury Ríos Sosa, in quanto figlia del dittatore che, con la violenza scatenata negli anni della guerra, ha distrutto o ridotto in povertà molte famiglie.

Oggi, invece, Mulet è un diplomatico apprezzato all’estero per la sua carriera internazionale come ex ambasciatore del Guatemala negli Stati Uniti e presso l’Unione europea, ex direttore della Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah) e sottosegretario generale dell’Onu per le operazioni di pace nel 2007. Il candidato di Cabal, inoltre, è un intellettuale vicino al mondo giornalistico che ha dichiarato, diversamente da altri candidati, l’importanza della libertà di espressione severamente a rischio nel Paese e ha dimostrato vicinanza al pool anticorruzione attivo in Guatemala fino al 2018.

Farsa elettorale

Di fronte a questo panorama politico, il Paese, in buona parte, ha la sensazione che le elezioni siano una farsa, una porta falsamente democratica da cui entrerà in scena un governo autoritario che non farà altro che rappresentare gli interessi delle lobby economiche e militari da sempre al governo. Si ripeterà una gestione arbitraria delle istituzioni, che adatterà la legge alle proprie necessità e colpirà duramente tutti gli oppositori, così come fino a oggi è stato fatto dal presidente Alejandro Giammattei. Due esempi su tutti sono la persecuzione degli operatori di giustizia che, negli scorsi anni, si sono dedicati a sradicare la corruzione nel Paese e, di riflesso, il bavaglio stretto intorno ai giornalisti che si sono distinti per inchieste scomode sul governo.

Il caso Zamora

Caso paradigmatico è quello del processo contro José Rubén Zamora Marroquín, detto Chepe, 66 anni, giornalista riconosciuto a livello nazionale e internazionale per centinaia di inchieste contro la corruzione nel Paese, direttore del secondo quotidiano più diffuso del Guatemala, «El Periódico». Il giornalista, da quasi un anno, è in carcere accusato per riciclaggio di denaro, ricatto e traffico di influenze, nonostante non ci siano prove determinanti della sua colpevolezza.

A metà giugno è stato condannato a sei anni. Il suo giornale ha chiuso i battenti il 15 maggio scorso a causa del collasso finanziario dovuto al sequestro dei conti correnti stabilito dal pubblico ministero dopo l’incarcerazione di Zamora il 29 luglio 2022. Erano passati cinque giorni dall’uscita di un reportage incentrato sulla corruzione del presidente del Guatemala, che è stato al centro di centinaia di altre inchieste de El Periódico, tra le quali quella che rivelava lo scandalo dell’acquisto di vaccini a prezzi gonfiati di cui avrebbero beneficiato persone vicine all’esecutivo.

Zamora ha affermato più volte di sentirsi un prigioniero politico, in uno stato in cui il potere giudiziario, legislativo e governativo sono cooptati dalle oligarchie economiche in sodalizio con politici, giuristi corrotti e bande criminali che, di fatto, stanno riportando il Paese a una condizione simile a quella antecedente il 1996, quando ci fu il ritorno della democrazia.

L’attacco a Zamora e, di conseguenza, la chiusura del suo quotidiano, è un avvertimento a tutta la stampa nazionale. Annichilire il famoso giornalista significa mandare a tutti i suoi colleghi il messaggio che a esprimersi liberamente si rischia il carcere.

Contro i giudici

Questa minaccia si trasforma in una vera e propria vendetta nel caso della persecuzione del pool di giudici, molti dei quali operativi nella Fiscalía especial contra la impunidad (Feci), che lavorava a fianco della Comisión internacional contra la impunidad en Guatemala (Cicig), organismo dell’Onu istituito nel paese nel 2006 per indagare sui gravi casi di corruzione. La Cicig è stata smantellata nel 2018 dall’allora presidente Jimmy Morales, che ha pure dichiarato Iván Velásquez, direttore della commissione, «persona non gradita» e lo ha cacciato dal Paese. Famosa è l’immagine in cui l’esercito scorta il funzionario in aeroporto.

Da quel momento, uno dopo l’altro, tutti gli operatori di giustizia scomodi al governo e allo status quo sono stati perseguitati in differenti forme, a partire dal rinomato magistrato anticorruzione Juan Francisco Sandoval, direttore della Feci, che è stato sollevato dall’incarico e sostituito da Rafael Curruchiche, segnalato dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti come persona «impegnata in azioni che minano processi o istituzioni democratiche, in atti di significativa corruzione o di ostruzione delle indagini su di essi».

Sandoval è stato costretto a fuggire all’estero, così come altri ventiquattro operatori di giustizia all’epoca attivi nelle indagini anticorruzione, per sfuggire alla caccia alle streghe lanciata dal nuovo gruppo di giudici della Feci scelto dai settori politici più conservatori del Guatemala.

Che fa il popolo

A fare da pubblico alla lenta morte dello stato di diritto in Guatemala ci sono circa 17 milioni di cittadini, per lo più esclusi dalle logiche di potere e da qualsiasi scelta politica. Secondo la Banca mondiale, il 59% della popolazione vive in condizione di povertà e i numeri, come è successo in tutto il mondo, sono aumentati con la pandemia. Oggi meno di un chilo di pomodori al mercato costa 1,2 euro e in qualsiasi supermercato non si trova un prodotto di base, neppure mezzo chilo di fagioli, a meno di un euro.

Molte persone decidono di migrare verso gli Stati Uniti in condizioni precarie, in viaggi nei quali mettono a rischio la propria vita, ma che diventano quasi un obbligo quando si vive in condizione di precarietà economica.

Oggi nel paese nordamericano è presente una comunità guatemalteca, regolarmente residente, di circa un milione e mezzo di persone a cui si aggiunge un numero, difficile da quantificare, di lavoratori che vivono nel paese senza documenti.

Nonostante le rimesse siano la prima voce del prodotto interno lordo guatemalteco, solo tre candidati alla presidenza, tra cui Mulet, hanno fatto campagna elettorale per intercettare gli elettori all’estero, che, come riporta il giornale Los Angeles Times, hanno fatto arrivare dalla California un chiaro messaggio alla dirigenza del paese: «ristabilite lo stato di diritto».

Nonostante petizioni per il ritorno a una democrazia reale, e non solo di facciata, arrivino da più voci nazionali e internazionali, bisognerà aspettare il 20 agosto per sapere chi sarà il o la presidente del Guatemala, e capire se davvero esiste la volontà da parte di chi verrà eletto di sfidare lo status quo e dare una svolta a un sistema in cancrena che lascia poca immaginazione per il futuro.

Simona Carnino


Al primo turno del 25 giugno è arrivata in testa Sandra Torres, con circa il 15,8%, mentre la sorpresa è stato il secondo posto di Bernardo Arévalo, del movimento Semilla (semente) di centro sinistra. Dato all’ottavo posto dei sondaggi, ha invece sfiorato il 12%. Il 20 agosto si terrà il ballottaggio tra i due. A meno di eventuali, nuovi interventi del Tribunale elettorale, il solo vero protagonista delle elezioni guatemalteche.




Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel


Niger. In seguito al golpe dello scorso 26 luglio da parte dei militari della guardia presidenziale, l’organizzazione economica regionale, Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), ha imposto pesanti sanzioni economiche e dato un ultimatum di una settimana per il ritorno all’ordine costituzionale. In caso contrario, anche l’opzione militare è sul tavolo.

Mali e Burkina Faso, altri due paesi del Sahel attualmente governati da giunte militari, che hanno preso il potere con la forza (nel 2021 e 2022), si sono detti alleati dei golpisti del Niger, e pronti a sostenerli in caso di azione di forza della Cedeao (di cui, tra l’altro, fanno parte). La Guinea Conakry, anch’essa retta da una giunta golpista, è pure contraria alle sanzioni.

Si tratta di dichiarazioni, ma è solo un gioco delle parti. Questi eserciti non sono in grado neppure di difendere il proprio territorio dai gruppi armati jihadisti. La lotta al terrorismo è stata la loro scusa per prendere il potere, (anche se avevano già molta libertà su questo fronte), ma il risultato è stato un aggravamento della situazione nei loro paesi.

Dal Niger, arrivano immagini di folla inneggiante al nuovo potere (un sedicente Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria, Cnsp). In realtà la maggior parte della popolazione e la società civile, non appoggia né i golpisti né tanto meno la Russia, come la propaganda vuole farci credere.

«Ci sono state alcune manifestazioni anti golpe a Niamey, ma sono state represse», ci dice una fonte nigerina sul posto. Mentre si è dato largo spazio a quelle in favore, con i cartelli contro la Francia e bandiere russe, distribuite da qualcuno ad hoc.

Il sentimento antifrancese è certo diffuso, in tutta la regione, ma il pretesto anti imperialista, di allearsi con la Russia non regge. Il gruppo Wagner, nei paesi in cui interviene, fa razzia delle risorse minerarie.

«Penso che una parte della popolazione di Niamey sostenga i golpisti. Inoltre, ci sono diverse dichiarazioni di opportunisti in loro favore, ma sono persone sconosciute sia a livello della società civile che dei partiti politici», ci racconta un’altra fonte dalla capitale del Niger. In generale: «Sono contenti del golpe gli oppositori del presidente Mohamed Bazoum, mentre il nigerino comune e i lavoratori non lo sono affatto».

Nei villaggi, invece, questo è il periodo dell’anno di massimo lavoro nei campi, perché siamo nel pieno dell’unica stagione delle piogge (giugno-settembre), quindi «la preoccupazione principale della gente in questo momento è la raccolta, per avere da mangiare nel resto dell’anno».

«Poi c’è il grosso problema delle sanzioni, che rischiano di strangolare la popolazione. È già iniziata a mancare l’elettricità, che arriva dalla Nigeria. Mentre il sistema bancario rischia è bloccato e rischia di andare in tilt», continua la nostra fonte.

Uno degli elementi in questi paesi del Sahel è la crisi dell’istituzione «esercito repubblicano», e le divisioni in seno alla stessa. La realtà ha evidenziato che non esistono dei veri eserciti repubblicani, pronti a difendere il popolo, ma siamo ancora a livello di fazioni militari, pronte a prendere il potere quando l’occasione si presenti.

Il primo agosto, sono stati evacuati alcuni stranieri, tra i quali gli italiani (una trentina), tramite aerei militari (consentita dai golpisti). Mentre un contingente di militari italiani, ci circa 200 unità resta dispiegato nel paese, così come 1.500 francesi, oltre a soldati statunitensi e tedeschi.

Attualmente il Cnsp sta nominando i governatori di regione e alcuni membri del suo governo de facto, mettendo i propri uomini nei posti chiave.

Il due agosto è giunta a Niamey una delegazione della Cedeao per tentare una mediazione. È  condotta dall’ex presidente nigeriano Abdulsalami Abubakar, e ne fa parte l’influente sultano di Sokoto (Nigeria), capo tradizionale molto apprezzato nella regione.

Marco Bello