Venti Nordici. Finlandia, confine d’Europa

La cattedrale della Chiesa luterana, a Helsinky, la capitale finlandese. Foto Tapio Haia-Unsplash.

La svolta conservatrice. Il nuovo governo

Nel paese scandinavo, i conservatori hanno preso il posto dei progressisti. La loro vittoria è stata propiziata dalle proposte su economia, immigrazione, sicurezza, valori tradizionali.   Nel frattempo, l’aggressività del vicino russo, ha spinto la Finlandia ad aderire alla Nato.

Helsinky. In centro città c’è un via vai di pendolari che si dirigono verso i loro uffici. La capitale finlandese mantiene il suo fascino nordico, con l’architettura che mescola tradizione scandinava e modernità funzionale. Eppure, qualcosa è cambiato nell’aria politica di questo paese con 5,5 milioni di abitanti. La Finlandia di Sanna Marin – giovane socialdemocratica, primo ministro dal 2019 al 2023, simbolo di un nuovo femminismo nordico – appartiene ormai al passato. Dal giugno 2023, il Paese è guidato da Petteri Orpo, leader del partito della Coalizione nazionale e di un governo di centrodestra che ha segnato una svolta conservatrice significativa.

Da Sanna Marin a Riikka Purra

Il governo Orpo rappresenta una delle alleanze più controverse della storia finlandese. Formato da quattro partiti – la Coalizione nazionale, il Partito dei finlandesi, il Partito popolare svedese e i Cristiano democratici – controlla 108 seggi sui 200 del parlamento finlandese. Tra i quattro aderenti, è però il Partito dei finlandesi – il Perussuomalaiset, guidato da Riikka Purra – che rende la coalizione particolarmente significativa nel panorama politico nordico.

La socialdemocratica Sanna Marin, primo ministro finlandese fino al 20 giugno 2023. Foto European Union.

«Non è stato un cambiamento improvviso», mi spiega Tapio Raunio, professore di Scienze politiche all’Università di Tampere, mentre ci troviamo nel suo ufficio. «I semi del malcontento verso le politiche progressiste di Marin erano già visibili nelle elezioni comunali del 2021. Gli elettori finlandesi erano preoccupati per l’economia, l’immigrazione e sentivano che il governo precedente fosse troppo focalizzato su questioni identitarie a scapito dei problemi concreti».

Le elezioni dell’aprile 2023 hanno raccontato una storia dai margini sottilissimi: la Coalizione nazionale (Kokoomus) e il Partito dei finlandesi hanno ottenuto entrambi il 20,1% dei voti, mentre i socialdemocratici di Marin si sono fermati al 19,9%. Una differenza di poche migliaia di voti che ha cambiato radicalmente il corso politico del Paese.

L’ascesa del Partito dei finlandesi rappresenta forse l’elemento più significativo di questa trasformazione. Fondato nel 1995 come «Veri finlandesi» dall’ex socialdemocratico Timo Soini, il partito ha attraversato diverse metamorfosi, passando da forza anti establishment a partito populista di destra, fino a diventare una delle componenti principali del sistema politico finlandese. Sotto la guida di Riikka Purra, avvocata 47enne originaria di Espoo, il partito ha consolidato la sua posizione come voce delle preoccupazioni dell’elettorato più conservatore.

Il primo ministro finlandese Petteri Orpo. Foto Lauri Heikkinen.

«Purra è riuscita a dare al partito una faccia più rispettabile rispetto ai suoi predecessori», osserva la politologa Jenni Karimäki. «Ha mantenuto le posizioni di destra su immigrazione e identità nazionale, ma le ha presentate con un linguaggio più istituzionale. Questo le ha permesso di attrarre voti non solo dalla base tradizionale del partito, ma anche da elettori di centrodestra delusi dalla Coalizione nazionale».

Il programma del governo Orpo riflette chiaramente questa nuova direzione politica. Le priorità includono il risanamento delle finanze pubbliche attraverso tagli alla spesa sociale, una stretta significativa sulle politiche di immigrazione e asilo, e una revisione delle ambizioni climatiche considerate troppo costose per l’economia nazionale. Il governo ha – inoltre – promesso di rafforzare la «sicurezza interna» e di promuovere i «valori finlandesi tradizionali».

Riikka Purra, del Partito dei finlandesi, è vice primo ministro e ministro delle finanze. Foto Lauri Heikkinen-Wikimedia.

Tuttavia, gestire una coalizione così eterogenea non è una sfida da poco. Il Partito popolare svedese (Suomen ruotsalainen kansanpuolue), che rappresenta la minoranza di lingua svedese del Paese (circa il 5% della popolazione), spesso si trova in disaccordo con le posizioni più nazionaliste del Partito dei finlandesi. I Cristiano democratici, dal canto loro, mantengono posizioni più moderate su alcune questioni sociali. È un equilibrio delicato nel quale Orpo deve costantemente mediare tra le diverse anime della coalizione.

La reazione dell’opinione pubblica al nuovo esecutivo è stata variegata. I sostenitori del Governo apprezzano l’approccio più pragmatico alle questioni economiche e migratorie, mentre i critici accusano l’esecutivo di aver abbandonato la tradizione progressista finlandese. Anche in questo Paese si sta, dunque, assistendo a una sorta di normalizzazione del populismo di destra: quello che fino a pochi anni fa era considerato estremismo politico, oggi fa parte del programma governativo.

La nuova politica migratoria

Un esempio concreto di questa trasformazione è rappresentato dalle nuove politiche migratorie. Il Governo ha ridotto significativamente il numero di rifugiati accettati, ha inasprito i criteri per il ricongiungimento familiare e ha introdotto controlli più severi ai confini. Queste misure hanno sollevato critiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani, ma hanno trovato il sostegno di una parte significativa dell’elettorato.

La svolta conservatrice non si limita, però, alle questioni migratorie. Il Governo ha anche ridimensionato gli investimenti in energie rinnovabili, preferendo puntare sul nucleare, e ha rallentato alcuni progetti di welfare innovativi avviati dall’amministrazione precedente. «È un cambiamento di paradigma», spiega Elina Kestilä-Kekkonen, politologa dell’Università di Tampere. «Dal modello scandinavo progressista stiamo andando verso un conservatorismo più pragmatico, simile a quello che vediamo in altri Paesi europei».

Questa trasformazione ha anche implicazioni internazionali. Mentre la Finlandia mantiene il suo forte sostegno all’Ucraina e alla propria integrazione nella Nato, il governo Orpo ha adottato posizioni più critiche verso alcune politiche dell’Unione europea, in particolare quelle relative alla distribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo. «Vogliamo essere buoni europei, ma anche difendere la sovranità nazionale finlandese», ha dichiarato in più occasioni il primo ministro.

I sondaggi mostrano che, dopo quasi due anni di governo, la coalizione Orpo mantiene un sostegno relativamente stabile, attestandosi intorno al 46-48% delle preferenze. Tuttavia, la polarizzazione politica è aumentata, con una parte significativa dell’elettorato che esprime forte opposizione alle politiche governative.

La sfida per il governo Orpo nei prossimi anni sarà quella di mantenere la coesione della coalizione, mentre affronta questioni complesse come l’invecchiamento della popolazione, la transizione energetica e le tensioni geopolitiche con la Russia. La Finlandia progressista è stata sostituita da un Paese alla ricerca un nuovo equilibrio tra tradizione e modernità, tra apertura internazionale e protezione dell’identità nazionale.

Un lago parzialmente ghiacciato in Lapponia. Foto Piergiorgio Pescali.

Dalla neutralità all’atlantismo

L’ingresso della Finlandia nella Nato rappresenta probabilmente la decisione di politica estera più significativa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Una scelta storica, in quanto pone fine a uno status di neutralità mantenuto per lungo tempo dal Paese, compiuta in virtù di un largo consenso diffuso sia tra l’opinione pubblica, sia all’interno della classe dirigente finlandese.

La rapidità di questo cambiamento è stata sorprendente. Nel dicembre 2021, solo il 26% dei finlandesi sosteneva l’adesione alla Nato, mentre il 51% era contrario. Un anno dopo, nell’aprile 2022, due mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i favorevoli erano saliti al 78%. Oggi, nel 2025, il sostegno si mantiene stabile, rendendo la Finlandia uno dei paesi Nato con il consenso più alto per l’appartenenza all’Alleanza atlantica.

Questa trasformazione non è stata solo numerica, ma ha rappresentato una vera e propria rivoluzione culturale e geopolitica per un Paese che aveva fatto della neutralità attiva uno dei pilastri della propria identità nazionale dal dopoguerra. La «finlandizzazione» – termine coniato per descrivere la capacità di mantenere l’indipendenza pur rispettando gli interessi di sicurezza dell’Unione Sovietica – era diventata sinonimo di pragmatismo diplomatico.

L’adesione alla Nato, formalizzata nell’aprile 2023 insieme alla Svezia, ha comportato cambiamenti significativi non solo nella postura rispetto alla sicurezza del Paese, ma anche nella percezione che i finlandesi hanno di se stessi e del proprio ruolo nel mondo. La Finlandia, che condivide 1.340 chilometri di frontiera con la Russia – il confine più lungo tra un paese Nato e il Paese di Vladimir Putin -, si è trovata improvvisamente in prima linea nella nuova Guerra fredda.

«L’integrazione nelle strutture Nato è proceduta più rapidamente di quanto chiunque si aspettasse», ha spiegato il generale di brigata Jukka Sonninen, in una recente intervista alla televisione pubblica Yle: «I finlandesi hanno sempre avuto capacità militari solide – il servizio militare obbligatorio non è mai stato abolito – ma ora queste capacità sono integrate in una strategia di difesa collettiva».

Il bilancio della difesa finlandese è aumentato significativamente, passando dall’1,9% del Pil nel 2022 al 2,4% previsto per il 2025. Gli investimenti si concentrano principalmente su sistemi di difesa aerea, capacità di guerra elettronica e miglioramento dell’interoperabilità con le forze alleate. Il Paese ha, inoltre, deciso di acquistare 64 caccia F-35 americani, che sostituiranno progressivamente i vecchi F/A-18 Hornet a partire dal 2026.

Ma è forse nella percezione della Russia che si registra il cambiamento più drammatico. Tradizionalmente, i rapporti con Mosca erano caratterizzati da una cauta cordialità, nonostante le tensioni storiche. La Russia era il principale partner commerciale della Finlandia, e molte aziende finlandesi avevano significativi investimenti nel Paese vicino. L’invasione dell’Ucraina ha cambiato tutto, anche per i socialdemocratici.

«La Russia di Putin non è più la Russia con cui potevamo fare affari», afferma Elina Valtonen, ex ministra degli Esteri del governo Marin, ora all’opposizione. «È diventata un vicino imprevedibile e potenzialmente pericoloso. La chiusura della frontiera terrestre (decisa del dicembre 2023, ndr) è stata una decisione necessaria, anche se dolorosa».

Per decenni, il confine era stato uno dei più trafficati tra Russia e Occidente, con circa 9 milioni di attraversamenti annui prima della pandemia. La decisione è arrivata dopo un improvviso e contemporaneo afflusso di richiedenti asilo provenienti da Paesi terzi attraverso la Russia sia in Finlandia che in Norvegia, un fenomeno che Helsinki e Olso hanno interpretato come una forma di guerra ibrida orchestrata dal Cremlino.

La chiusura ha avuto conseguenze significative per le comunità di confine che, per generazioni, avevano vissuto di commerci transfrontalieri e turismo russo. Città come Lappeenranta e Imatra hanno visto crollare i loro ricavi, mentre migliaia di finlandesi che lavoravano o avevano proprietà in Russia si sono trovati improvvisamente isolati.

«È stato traumatico», racconta una proprietaria di un negozio di souvenir a Lappeenranta. «I turisti russi rappresentavano il 60% dei nostri clienti. Ora dobbiamo reinventarci completamente». Il Governo ha stanziato fondi per sostenere le attività economiche colpite, ma la transizione resta difficile.

L’opinione pubblica, tuttavia, sostiene ampiamente la decisione. I sondaggi mostrano che oltre l’85% dei finlandesi approva la chiusura della frontiera, considerandola necessaria per la sicurezza nazionale. «I finlandesi hanno capito che non è più possibile separare questioni economiche e di sicurezza quando si tratta della Russia», osserva la politologa Minna Ålander del Finnish institute of international affairs.

Una ciclista attraversa Lordi Square, a Rovaniemi, capitale della Lapponia finlandese, famosa per ospitare l’Ufficio di Santa Claus e per gli edifici progettati dall’architetto Alvar Aalto. Foto Piergiorgio Pescali.

Una chiara scelta di campo

La nuova strategia di sicurezza finlandese si basa su tre pilastri principali: deterrenza, resilienza e cooperazione internazionale. La deterrenza include non solo le capacità militari convenzionali, ma anche sistemi di difesa cibernetica avanzati e preparazione contro la guerra ibrida. La resilienza sociale viene rafforzata attraverso programmi di preparazione civile e comunicazione strategica per contrastare la disinformazione.

«Ogni finlandese deve essere preparato a contribuire alla difesa nazionale», ha spiegato Jukka Sonninen. «Non parliamo solo di difesa militare, ma di resilienza sociale, economica e informatica». Il Paese ha investito significativamente in bunker civili – Helsinki ha alcune delle migliori protezioni antiaeree d’Europa – e in sistemi di allerta per la popolazione.

La cooperazione nordica si è intensificata notevolmente. Finlandia, Svezia, Norvegia e Danimarca hanno creato un comando di difesa integrato per l’area artica e baltica, mentre Estonia, Lettonia e Lituania vedono nella Finlandia un partner naturale nel contenimento della Russia. «Siamo diventati il fianco Nord della Nato. Questo ci dà responsabilità aggiuntive, ma anche maggiore influenza nelle decisioni dell’Alleanza», ha concluso Jukka Sonninen.

L’impatto generazionale dell’adesione alla Nato è particolarmente interessante. I giovani finlandesi, che non hanno vissuto la Guerra fredda, sembrano più entusiasti dell’integrazione occidentale rispetto alle generazioni più anziane. «Per noi la Nato rappresenta normalità europea», dice Laura Pitkänen, studentessa 22enne dell’Università di Helsinki. «È difficile immaginare che fino a poco tempo fa fossimo neutrali».

La trasformazione è visibile anche nella cultura popolare e nell’educazione. Le scuole hanno introdotto nuovi programmi di educazione civica che includono la comprensione della difesa nazionale e della sicurezza informatica.

L’adesione alla Nato ha rappresentato la fine di un’era per la Finlandia, ma anche l’inizio di un nuovo capitolo. Un Paese, che per decenni ha fatto dell’equilibrio diplomatico la sua specialità, ora deve imparare a navigare come membro a pieno titolo dell’Occidente, in un mondo sempre più polarizzato.

Piergiorgio Pescali

Mezzi pubblici e persone a Kluuvi, quartiere dello shopping di Helsinky. Foto Tapio Haaja-Unsplash.

Diventare finlandesi
Migrazioni e multiculturalismo

Le persone di origine straniera sono l’8,3 per cento della popolazione totale. L’integrazione non è facile, ma possibile in un Paese con una scuola all’avanguardia.

Helsinky. Camminando attraverso il quartiere di Itäkeskus, nella periferia orientale di Helsinki, il paesaggio urbano racconta una storia di trasformazione che va ben oltre l’architettura degli anni Ottanta. I supermercati halal si alternano ai negozi di alimentari somali, i ristoranti nepalesi condividono la strada con pizzerie gestite da famiglie italiane di seconda generazione, mentre i cartelli bilingui finlandese-arabo indicano i servizi pubblici. Questo è il volto della nuova Finlandia multiculturale.

«Venticinque anni fa, questo quartiere era popolato quasi esclusivamente da finlandesi etnici», mi racconta un’assistente sociale di origine somala che lavora nei servizi di integrazione del comune di Helsinki. «Oggi, in alcune scuole elementari della zona, i bambini di origine straniera sono la maggioranza. È un cambiamento demografico senza precedenti nella storia finlandese».

Stranieri in crescita

I numeri confermano questa trasformazione. La popolazione di origine straniera in Finlandia è cresciuta dal 2,6% del 2000 all’8,3% del 2024, con proiezioni che indicano il 15% entro il 2035. L’area metropolitana di Helsinki concentra la maggior parte di questa popolazione. Alcuni quartieri della capitale registrano percentuali di residenti stranieri superiori al 30%.

Questa evoluzione demografica rappresenta una sfida inedita per un Paese che, fino agli anni Novanta, era tra i più etnicamente omogenei d’Europa. La Finlandia, che per secoli era stata terra di emigrazione – con oltre un milione di suoi cittadini emigrati principalmente in Svezia e Nord America nel XX secolo – si è trovata improvvisamente a gestire flussi significativi d’immigrazione. E non tutti erano preparati a questa trasformazione.

Il percorso d’integrazione

Le comunità di immigrati più numerose includono russi (circa 90mila), estoni (50mila), somali (22mila), iracheni (15mila) e siriani (12mila). Ciascuna di queste comunità ha portato proprie sfide e specificità.

La comunità russa, presenta un caso particolare. Molti sono arrivati negli anni Novanta e Duemila, spesso come gli Ingriani, una etnia finnica arrivata dalla regione di San Pietroburgo dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Il governo Orpo sta implementando politiche di integrazione più severe rispetto al passato. Il nuovo modello richiede maggiori competenze linguistiche per l’accesso ai servizi sociali e prevede percorsi più strutturati. «Non basta più vivere in Finlandia», ha detto in un’intervista Mika Salminen, direttore dei servizi di integrazione del ministero dell’Interno. «Bisogna dimostrare di voler diventare finlandesi».

Gli immigrati e le scuole finlandesi

Questa svolta ha, come era prevedibile, generato accesi dibattiti incentrati soprattutto sul sistema educativo del Paese. Tradizionalmente considerato tra i migliori al mondo, oggi deve affrontare la sfida rappresentata dai nuovi studenti appartenenti a tradizioni culturali e linguistiche diverse. Le scuole di Helsinki hanno sviluppato programmi specifici per l’apprendimento del finlandese come seconda lingua, ma i risultati non sono uniformi.

«Abbiamo studenti che arrivano senza conoscere l’alfabeto latino e studenti che parlano già tre lingue», racconta Marjo Kyllönen, direttrice del settore della pubblica istruzione del comune di Helsinki. «La diversità è una ricchezza, ma richiede risorse e metodi didattici completamente nuovi».

I dati del «Programma per la valutazione internazionale degli studenti» (Pisa) mostrano che, mentre la Finlandia mantiene risultati eccellenti a livello nazionale, esistono significativi divari di performance tra studenti autoctoni e di origine straniera. «Non è solo una questione linguistica» analizza Sari Sulkunen, ricercatrice presso l’Università di Jyväskylä. «È una questione culturale più ampia. Alcune famiglie di immigrati non hanno familiarità con il sistema educativo finlandese, che si basa molto sull’autonomia dello studente e sulla collaborazione scuola famiglia».

Per affrontare queste sfide, diverse scuole hanno sviluppato programmi innovativi. La scuola elementare di Puotila, ad esempio, ha introdotto insegnanti mediatori culturali che parlano le lingue delle principali comunità di immigrati.

La chiesa ortodossa di Nellim, a pochi chilometri dal confine con la Russia e principale centro degli Skolt Sami, la popolazione indigena lappone. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli immigrati e il lavoro

Il mercato del lavoro presenta un quadro complesso. Mentre i cittadini Ue, in particolare estoni e svedesi, mostrano tassi di occupazione simili ai finlandesi autoctoni, altre comunità affrontano difficoltà significative. Il tasso di disoccupazione tra i cittadini di origine somala raggiunge il 65%, mentre quello degli iracheni si attesta al 45%.

«Molti immigrati hanno qualifiche non riconosciute, competenze linguistiche insufficienti o provengono da sistemi educativi molto diversi. Servono tempo e investimenti mirati», spiega Akram Al-Turk, consulente per l’integrazione lavorativa presso il centro per l’impiego di Helsinki.

Alcune aziende finlandesi hanno sviluppato programmi specifici per l’assunzione di personale immigrato. Nokia, ad esempio, ha lanciato un’iniziativa per assumere rifugiati con competenze tecniche, fornendo corsi di lingua e accompagnatori culturali.

Tuttavia, esistono anche storie di successo significative. La comunità vietnamita, arrivata principalmente dall’esperienza dei boat people negli anni Ottanta, ha raggiunto livelli di integrazione eccellenti. «I vietnamiti hanno tassi di occupazione superiori alla media finlandese e i loro figli ottengono risultati scolastici ottimi», osserva Ronkainen. «È un esempio di integrazione riuscita a lungo termine».

La coesione sociale rimane relativamente alta, ma si registrano tensioni crescenti. I sondaggi mostrano che il 73% dei cittadini considera l’immigrazione un fenomeno complessivamente positivo, ma il 58% ritiene che l’integrazione non stia procedendo abbastanza rapidamente.

Tolleranza e valori finlandesi

I finlandesi sono tolleranti, ma hanno anche aspettative elevate di conformità alle norme sociali. Questa tensione, tipica delle società nordiche, è particolarmente evidente in questioni come il velo islamico, i matrimoni combinati o le pratiche educative tradizionali. Non si chiede di abbandonare la propria cultura, ma ci si aspetta rispetto per i valori finlandesi fondamentali: uguaglianza di genere, diritti dei bambini, rispetto delle leggi.

Le politiche abitative hanno giocato un ruolo cruciale nell’integrazione. A differenza di altri Paesi europei, la Finlandia ha evitato di concentrare gli immigrati in specifici quartieri ghetto prevenendo la segregazione etnica.

Il settore sanitario ha dovuto adattarsi significativamente. I servizi hanno introdotto mediatori culturali e traduttori, mentre alcuni ospedali hanno sviluppato protocolli specifici per comunità con esigenze particolari per rispettare tabù culturali.

La digitalizzazione dei servizi pubblici ha creato nuove barriere per alcuni immigrati più anziani o con bassa scolarizzazione. Il sistema finlandese è molto digitalizzato e chi non padroneggia la lingua o non ha competenze digitali rischia di essere escluso. Per rispondere a questa sfida, sono stati sviluppati servizi di supporto digitale multilingue e corsi di alfabetizzazione informatica specifici per immigrati.

«Non possiamo tornare indietro», conclude Ronkainen. «La sfida è creare un modello di integrazione che preservi i valori finlandesi permettendo la diversità culturale».

Il successo di questo modello determinerà non solo il futuro demografico del Paese, ma anche la sua capacità di mantenere quel consenso sociale che ha caratterizzato la società finlandese nel dopoguerra.

Piergiorgio Pescali

La Chiesa luterana della Santa Croce di Rauma, sito Unesco. Foto Piergiorgio Pescali.

L’identità religiosa
La Chiesa luterana

Formalmente, il 66,6% dei finlandesi appartiene alla Chiesa evangelica luterana, facendone una delle comunità religiose più numerose d’Europa in termini percentuali. Le chiese, però, si svuotano e la maggior parte dei fedeli che partecipano alle funzioni è anziana.

«È il paradosso della fede finlandese», mi spiega l’arcivescovo Tapio Luoma. «La maggioranza dei cittadini si considera luterana per identità culturale, ma la pratica religiosa attiva riguarda meno del 10% della popolazione. Siamo una Chiesa di appartenenza più che di credenza».

L’arcivescovo luterano Tapio Luoma. Foto da www.arkkipiispa.fi

Questa peculiarità riflette il ruolo storico della Chiesa luterana in Finlandia. Per quattro secoli, dal 1593 al 1923, il luteranesimo è stato religione di Stato, plasmando non solo la spiritualità ma l’intera cultura finlandese. Anche dopo la separazione formale tra Stato e Chiesa, l’istituzione ecclesiastica ha mantenuto un ruolo sociale centrale.

«La Chiesa luterana finlandese è molto più di un’istituzione religiosa», spiega ancora Luoma. «È un provider di servizi sociali, un custode della cultura, un sistema di welfare parallelo. Molti finlandesi la sostengono per queste funzioni, indipendentemente dalle loro convinzioni teologiche».

I numeri confermano questa interpretazione. La Chiesa gestisce 765 parrocchie in tutta la nazione, impiega circa 24mila persone e ha un budget annuo di 1,1 miliardi di euro, finanziato attraverso l’imposta ecclesiastica (1-2% del reddito per i membri) e donazioni. È il secondo datore di lavoro del Paese dopo lo Stato.
Detto questo, anche in Finlandia la secolarizzazione procede inesorabilmente. Ogni anno circa 15mila finlandesi lasciano formalmente la Chiesa, mentre solo 8mila vi aderiscono. «I giovani vedono la Chiesa come un’istituzione obsoleta», osserva Laura Tuominen, studentessa di teologia 24enne. «Molti dei miei coetanei escono dalla Chiesa appena diventano maggiorenni, principalmente per non pagare l’imposta ecclesiastica».

La Chiesa ha risposto a queste sfide con una strategia di modernizzazione e apertura. Nel 2010 ha accettato l’ordinazione delle donne come pastori e ha progressivamente ammorbidito le posizioni su temi etici controversi.

«La Chiesa finlandese è tra le più liberali del mondo luterano», spiega l’arcivescovo Luoma. «Benediciamo i matrimoni tra persone dello stesso sesso, accettiamo il divorzio, sosteniamo i diritti delle donne. Cerchiamo di essere una chiesa inclusiva in una società plurale».

P.P.

La Chiesa luterana della Santa Trinità di Vaasa, da qui parte uno dei cammini di Sant’Olav. Foto Piergiorgio Pescali.

Meno ideologia, più scienza.
Visita alla centrale di Olkiluoto

È la più potente centrale nucleare dell’Europa, la terza del mondo. Dopo un lungo percorso, oggi è il simbolo della filosofia energetica finlandese, favorevole al nucleare.

Olkiluoto. Quando si arriva al complesso nucleare di Olkiluoto, nel comune di Eurajoki sulla costa occidentale della Finlandia, la prima cosa che colpisce è la maestosità dell’impianto. Due edifici di contenimento, più una terza cupola moderna e imponente, dominano il paesaggio industriale. È qui che si sta scrivendo una delle pagine più significative del futuro energetico europeo.

Con i suoi 1.600 MW di capacità, Olkiluoto 3 (tre, infatti, sono i suoi reattori) è attualmente l’unità nucleare più potente d’Europa e la terza al mondo. Il reattore Epr (European pressurized reactor), entrato in funzione commerciale nell’aprile 2023 dopo anni di ritardi e costi lievitati, rappresenta molto più di un semplice impianto di generazione elettrica: è il simbolo di una filosofia energetica che distingue la Finlandia da gran parte dell’Europa occidentale.

«Questo reattore da solo produce circa il 14% dell’elettricità finlandese», mi spiega Juha Poikola ingegnere della Tvo (Teollisuuden Voima), l’azienda che gestisce l’impianto. «Ma il suo impatto va ben oltre i numeri. Ha dimostrato che l’Europa può ancora costruire tecnologia nucleare avanzata»: il 14% dell’energia di un’intera nazione prodotta in uno spazio di poche decine di metri quadrati.

Veduta della centrale nucleare di Olkiluoto, la maggiore d’Europa. Foto Piergiorgio Pescali.

La scelta nucleare

La strada verso Olkiluoto 3 è stata tutt’altro che semplice. Iniziata nel 2005, la costruzione ha subito numerosi ritardi tecnici e legali, con i costi che sono lievitati dai 3 miliardi di euro iniziali a oltre 11 miliardi. Il reattore doveva essere operativo nel 2009, ma ha iniziato la produzione commerciale solo quattordici anni dopo. Tuttavia, per i finlandesi, questo lungo percorso non ha scalfito la fiducia nel nucleare.

«In Germania o in Italia, ritardi del genere avrebbero probabilmente ucciso il programma nucleare», osserva Tomas Tala, direttore del consorzio FinnFusion. «In Finlandia, li abbiamo visti come problemi tecnici da risolvere, non come ragioni per abbandonare la tecnologia».

Questa differenza di approccio ha radici profonde nella cultura del Paese. Il pragmatismo nordico, combinato con una forte tradizione ingegneristica e una fiducia nelle istituzioni, ha creato un ambiente favorevole al nucleare che contrasta nettamente con l’atteggiamento di molti altri Paesi europei. Ma c’è di più: la Finlandia è riuscita a creare un consenso sociale intorno al nucleare che include persino i partiti tradizionalmente più scettici.

«Il nostro approccio è sempre stato basato sulla scienza, non sull’ideologia», mi dice Atte Harjanne, parlamentare del Partito verde finlandese, mentre prendiamo un caffè. Harjanne, fisico di formazione, rappresenta una posizione che sarebbe impensabile per molti partiti verdi europei. «Abbiamo fatto i conti con la realtà climatica: se vogliamo raggiungere la neutralità carbonica mantenendo standard di vita elevati, il nucleare è necessario».

Questa posizione non è stata semplice da raggiungere nemmeno per i Verdi finlandesi. Il partito ha vissuto intensi dibattiti interni, ma alla fine ha prevalso l’approccio pragmatico. «Abbiamo studiato i dati» continua Harjanne. «Il nucleare finlandese ha un record di sicurezza eccellente, produce energia carbon-free e ci garantisce indipendenza energetica. Sarebbe irresponsabile opporsi per principio ideologico».

Nel Paese il consenso sul nucleare raggiunge livelli impressionanti: oltre il 60% della popolazione sostiene l’energia nucleare (grafico), con punte dell’80% tra i giovani laureati e più del 90% tra i laureati in materie scientifiche. Questo sostegno è alimentato da diversi fattori, ma forse il più importante è la trasparenza con cui le autorità hanno gestito il dossier nucleare nel corso dei decenni.

«Fin dagli anni Settanta, abbiamo coinvolto le comunità locali nelle decisioni sul nucleare», spiega Petteri Tiippana, direttore dell’Autorità finlandese per la sicurezza nucleare (Stuk). «Non abbiamo mai imposto nulla dall’alto. Le comunità che ospitano impianti nucleari ricevono benefici economici diretti e hanno voce in capitolo nelle decisioni che li riguardano».

Il caso di Eurajoki, il comune che ospita Olkiluoto, è emblematico. Con poco più di novemila abitanti, questa comunità costiera riceve annualmente milioni di euro in tasse dalla centrale nucleare, finanziando servizi pubblici di qualità superiore e mantenendo le imposte locali tra le più basse della Finlandia. «I nostri figli hanno scuole eccellenti, abbiamo una biblioteca modernissima e servizi sanitari di primo livello», racconta Vesa Lakaniemi, sindaco di Eurajoki. «Il nucleare non è solo accettato qui, è visto come una risorsa per la comunità».

Ma la vera rivoluzione di Olkiluoto non è solo nel reattore Epr.

Il deposito delle scorie

A pochi chilometri dall’impianto, scavato nella roccia granitica a 420 metri di profondità, si trova Onkalo, il primo deposito geologico permanente al mondo per scorie nucleari ad alta attività.

Il deposito è progettato per contenere le scorie radioattive per 100mila anni, isolandole completamente dall’ambiente. «È il progetto più a lungo termine mai intrapreso dall’umanità», spiega Pasi Tuohimaa, public relations di Posiva, l’azienda responsabile del deposito. «Stiamo progettando per un periodo di tempo che va oltre l’intera storia della civiltà umana».

La costruzione di Onkalo ha richiesto vent’anni di ricerche geologiche, test tecnologici e sviluppo di protocolli di sicurezza. Il sistema si basa su barriere multiple: le scorie vengono incapsulate in contenitori di rame, sigillati con argilla bentonitica e posizionati in tunnel scavati in roccia granitica stabile da 1,9 miliardi di anni. «Anche se tutte le barriere ingegneristiche dovessero fallire, la roccia stessa conterrebbe la radioattività», assicura Tuohimaa.

L’accettazione sociale di Onkalo è stata altrettanto notevole. Mentre altri Paesi europei hanno lottato per decenni per trovare siti per i depositi di scorie nucleari – spesso incontrando opposizione feroce delle comunità locali – la Finlandia ha risolto il problema con un approccio trasparente e partecipativo. «Abbiamo iniziato il dialogo con le comunità locali negli anni Novanta», ricorda Tuohimaa. «Non abbiamo nascosto nulla. Abbiamo spiegato i rischi, i benefici e le alternative».

Il risultato è che Eurajoki e i comuni limitrofi non solo accettano Onkalo, ma lo vedono come un’opportunità economica e tecnologica. Il deposito porta investimenti, posti di lavoro qualificati e posiziona la regione come centro di eccellenza nell’ingegneria nucleare.

L’enorme turbina del reattore nucleare Epr della centrale di Olkiluoto. Foto Piergiorgio Pescali.

Non solo nucleare

Questa capacità di gestire l’intero ciclo nucleare – dall’importazione dell’uranio allo smaltimento delle scorie – colloca la Finlandia in una posizione unica nel panorama energetico mondiale. Mentre la Germania ha deciso di eliminare gradualmente il nucleare e la Francia fatica a modernizzare il suo parco reattori, la Finlandia sta espandendo le sue capacità nucleari.

«Il nucleare non è solo parte del nostro mix energetico, è parte della nostra strategia industriale» spiega Riku Huttunen, direttore generale dell’Agenzia finlandese per l’energia. «Abbiamo industrie energivore – metallurgia, chimica, pasta di legno – che hanno bisogno di elettricità abbondante e affidabile. Il nucleare ce la garantisce».

Questa strategia ha permesso alla Finlandia di raggiungere risultati ambientali significativi mantenendo la competitività industriale. Il Paese ha già ridotto le emissioni di CO2 del 35% rispetto ai livelli del 1990, pur mantenendo una crescita economica robusta. L’obiettivo della carbon neutralità entro il 2035 – cinque anni prima dell’obiettivo Ue – sembra raggiungibile.

L’integrazione tra nucleare e rinnovabili in Finlandia è particolarmente sofisticata. Il Paese ha investito massicciamente nell’eolico – soprattutto onshore – e nel solare, nonostante le latitudini nordiche. Ma è il nucleare che fornisce la flessibilità necessaria per gestire l’intermittenza delle rinnovabili. «Non vediamo competizione tra nucleare e rinnovabili», chiarisce Huttunen. «Li vediamo come complementari. Il nucleare fornisce elettricità stabile 24 ore su 24 per 7 giorni alla settimana, le rinnovabili aggiungono capacità quando le condizioni sono favorevoli».

Questa filosofia pragmatica contrasta nettamente con l’approccio di Paesi come la Germania, dove l’Energiewende ha puntato tutto sulle rinnovabili eliminando il nucleare. I risultati parlano chiaro: mentre la Germania ha ancora significative emissioni dal settore elettrico e bollette energetiche tra le più care d’Europa, la Finlandia ha raggiunto un mix energetico quasi carbon-free mantenendo costi competitivi.

«La differenza culturale è fondamentale», riflette il sociologo dell’energia Tapio Litmanen dell’Università di Jyväskylä. «I tedeschi vedono il nucleare attraverso il prisma di Chernobyl e Fukushima. I finlandesi lo vedono attraverso il prisma dell’ingegneria e della gestione del rischio. Due approcci completamente diversi allo stesso problema.»

Il modello finlandese sta attirando interesse internazionale. Delegazioni da tutto il mondo visitano Olkiluoto e Onkalo per studiare l’approccio finlandese. «Riceviamo visite continue da altri Paesi che vogliono capire come abbiamo fatto» racconta Tuohimaa. «Il nostro modello di gestione partecipata e trasparente del nucleare è diventato un caso di studio globale».

La lezione è chiara: il successo del nucleare non dipende solo dalla tecnologia, ma dalla capacità di costruire consenso sociale attraverso trasparenza, partecipazione e benefici concreti per le comunità. È un modello che altri paesi stanno cercando di replicare, ma che richiede un contesto culturale e istituzionale specifico che non è facile da esportare.

Piergiorgio Pescali

Il moderno quartiere di Kalasatama, ad Helsinky. Foto Wikimedia.

Tecnologia e Welfare
Un paese laboratorio

Innovazione e sostenibilità sono le parole d’ordine della Finlandia. Senza però dimenticare il proprio sistema di welfare, tra i più avanzati al mondo.

Helsinky. Mentre il mio viaggio attraverso la Finlandia del 2025 volge al termine, sono di nuovo nella capitale nel quartiere di Kalasatama, un’area che fino a pochi anni fa ospitava il porto commerciale e oggi rappresenta uno dei progetti di sviluppo urbano sostenibile più ambiziosi d’Europa. Grattacieli in legno si ergono accanto a edifici tradizionali ristrutturati con criteri di efficienza energetica estrema, mentre pannelli solari e turbine eoliche urbane completano un paesaggio che sembra uscito da un film di fantascienza.

Il quartiere di Kalasatama è un laboratorio del futuro dove si stanno testando tutte le tecnologie che renderanno Helsinki carbon neutral entro il 2030, cinque anni prima del target nazionale. I progressi sono tangibili: Helsinki ha già ridotto le emissioni del 60% rispetto ai livelli del 1990, principalmente attraverso il passaggio dal carbone alle bioenergie per il teleriscaldamento urbano e l’elettrificazione dei trasporti pubblici. «Il segreto è l’integrazione sistemica», spiega Laura Aalto che ha ricoperto il ruolo di direttrice marketing e comunicazione della città di Helsinki. «Non basta cambiare una tecnologia alla volta. Bisogna ripensare completamente come funziona una città: energia, trasporti, edifici, rifiuti, tutto deve essere interconnesso in un sistema circolare».

Il modello Helsinki sta attirando delegazioni da tutto il mondo. La città ha sviluppato un sistema di teleriscaldamento che utilizza il calore di scarto dei data center per riscaldare gli edifici, ha introdotto autobus a idrogeno e sta sperimentando sistemi di mobilità autonoma per il trasporto pubblico. Ma è forse nel settore dell’economia circolare che la Finlandia sta dimostrando la maggiore innovazione. Il Paese ha l’obiettivo di diventare la prima economia completamente circolare al mondo entro il 2035, eliminando il concetto di rifiuto attraverso il riuso, il riciclo e la rigenerazione dei materiali.

L’industria forestale finlandese, tradizionalmente focalizzata su carta e legname, si sta trasformando in un settore ad alta tecnologia che produce biocarburanti, biomateriali avanzati, tessuti sostenibili e persino cibo sintetico da cellulosa. Aziende come Stora Enso e Upm (Industria forestale finlandese) hanno investito miliardi in bioraffinerie che trasformano gli scarti di lavorazione in centinaia di prodotti diversi.

«Da un albero oggi ricaviamo non solo carta e legno, ma anche carburante per aerei, tessuti, plastiche biodegradabili, farmaci e additivi alimentari», racconta Jyrki Ovaska, direttore della ricerca presso Upm. «È una rivoluzione industriale silenziosa che sta cambiando completamente il paradigma produttivo».

Questa trasformazione ha implicazioni profonde per l’identità nazionale finlandese che va ben oltre il settore forestale. Il Paese è leader mondiale in diverse nicchie tecnologiche: dall’ingegneria navale per navi rompighiaccio (Aker Arctic) ai sistemi di automazione industriale (Kone, Metso), dalle tecnologie per data center efficienti ai videogiochi (Supercell, Remedy).

Il settore dei videogiochi rappresenta un caso di studio interessante. Dopo il successo globale di Angry Birds, la Finlandia è diventata una delle capitali mondiali del gaming, con oltre 300 studi di sviluppo e un fatturato annuo di 2,7 miliardi di euro.

Il confine finno-russo a Virtaniemi; la Finlandia ha chiuso ermeticamente ogni confine con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Foto Piergiorgio Pescali.

L’intelligenza artificiale spiegata

È forse nell’approccio all’intelligenza artificiale che la Finlandia si sta distinguendo. Il Paese ha lanciato il programma Elements of AI, che ha l’obiettivo di formare l’1% della popolazione (55mila persone) sui fondamenti dell’intelligenza artificiale. È il più ambizioso programma di alfabetizzazione Ia (Intelligenza artificiale) al mondo.

«Non vogliamo che l’Ia sia appannaggio di pochi specialisti», spiega Teemu Roos, professore di
informatica all’Università di Helsinki e cocreatore del programma. «Vogliamo che ogni cittadino finlandese comprenda le potenzialità e i rischi dell’intelligenza artificiale. È una questione di democrazia digitale».

Questo approccio inclusivo riflette i valori nordici di uguaglianza e trasparenza applicati alla tecnologia. La Finlandia sta sviluppando sistemi di Ia «spiegabile» per la pubblica amministrazione e ha introdotto standard etici rigorosi per l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei servizi pubblici.

La sostenibilità permea tutti gli aspetti dell’innovazione finlandese. Il Paese ha sviluppato un «indicatore di benessere genuino» che misura il progresso non solo attraverso il Pil ma anche attraverso parametri ambientali e sociali.

Una filosofia che si riflette anche nelle politiche fiscali. La Finlandia ha introdotto una carbon tax progressiva che aumenta automaticamente ogni anno, incentivando investimenti in tecnologie pulite. I proventi vengono utilizzati per ridurre le tasse sul lavoro, creando un doppio incentivo economico ambientale.

Il sistema di welfare finlandese si sta adattando ai cambiamenti del mercato del lavoro nell’era digitale. Il Paese ha sperimentato il reddito di base universale tra il 2017 e il 2018, e sta ora testando modelli di Welfare 2.0 che includono formazione continua, mobilità professionale assistita e nuove forme di protezione sociale per lavoratori autonomi e freelance.

«Il lavoro del futuro sarà più flessibile ma anche più incerto» prevede Olli Kangas, ricercatore presso Kela (l’agenzia finlandese per la sicurezza sociale). «Il nostro sistema di welfare deve adattarsi a questa realtà senza perdere le garanzie di sicurezza che caratterizzano il modello nordico».

L’educazione continua rappresenta un pilastro di questa strategia. La nazione ha introdotto il diritto individuale alla formazione professionale per tutti i lavoratori, finanziato dallo Stato e dalle aziende. «In un mondo che cambia rapidamente, l’apprendimento permanente non è più un lusso ma una necessità» osserva Olli Kangas.

Ma il consenso finlandese, che per decenni ha caratterizzato le decisioni politiche del Paese, è sotto pressione. L’ascesa del Partito dei finlandesi riflette una parte della popolazione che si sente esclusa dalla modernizzazione e dalla globalizzazione: c’è una Finlandia che va veloce verso il futuro e una Finlandia che ha paura di essere lasciata indietro. Tuttavia, la capacità di adattamento della società rimane notevole.

Il Paese ha saputo navigare la transizione post-Nokia (nel 2011, dal suo fallimento nacquero centinaia di società hitech), l’integrazione nella Nato, la gestione dell’immigrazione e ora affronta la sfida climatica con determinazione.

Miracolo finlandese

La Finlandia non ha risolto tutti i suoi problemi – nessun Paese l’ha fatto – ma ha dimostrato che è possibile costruire un modello di sviluppo che combina prosperità economica, sostenibilità ambientale e giustizia sociale. In un mondo sempre più diviso e polarizzato, l’esempio finlandese offre una via alternativa: pragmatica, inclusiva e orientata al futuro.

È questo, forse, il vero «miracolo finlandese» del XXI secolo: non la crescita economica esplosiva o la potenza militare, ma la capacità di reinventarsi continuamente rimanendo fedeli ai propri valori fondamentali. Una lezione preziosa per tutti noi, mentre navighiamo le acque incerte del futuro globale.

Piergiorgio Pescali

Gruppo di renne lungo una strada. Foto Tapani Hellman-Pixabay.

Lapponia (Terra dei Sami). Clima surriscaldato

Rovaniemi. Qui il paesaggio racconta una storia geografica e geopolitica unica. Distese infinite di foreste si alternano a laghi ghiacciati e tundra. Siamo oltre il Circolo polare artico, in una regione che rappresenta il 26% del territorio finlandese ma ospita solo il 3,4% della popolazione nazionale che oggi sta vivendo una trasformazione senza precedenti. Le temperature aumentano al doppio della velocità della media globale, sciogliendo ghiacci perenni e aprendo nuove rotte commerciali. Contemporaneamente, la scoperta di vasti giacimenti di minerali rari ha scatenato una nuova «corsa all’oro» polare. «L’Artico era una zona di cooperazione pacifica», spiega Timo Koivurova, professore di diritto artico all’Università di Lapponia. «La guerra in Ucraina ha cambiato tutto. Russia e Occidente si confrontano ora anche nell’Artico, e noi finlandesi ci troviamo in mezzo».
Il Consiglio artico, fondato nel 1996, includeva tradizionalmente tutti gli otto stati artici (Finlandia, Norvegia, Svezia, Islanda, Danimarca, Canada, Usa e Russia). L’invasione russa dell’Ucraina ha portato alla sospensione della partecipazione russa, paralizzando di fatto il meccanismo di cooperazione regionale. La strategia artica finlandese per il periodo 2024-’30 riflette questa nuova realtà geopolitica. Il documento, presentato dal governo Orpo, enfatizza la sicurezza, la sostenibilità e la sovranità, abbandonando il precedente approccio puramente cooperativo.

Turismo e comunità indigene

L’economia artica finlandese è in rapida trasformazione. Il turismo, tradizionalmente basato su caccia e pesca, ha abbracciato il fenomeno dell’aurora boreale e del «turismo di Babbo Natale», attirando oltre 600mila visitatori annui a Rovaniemi. Tuttavia, questa crescita crea tensioni con le comunità indigene.

«Il turismo di massa sta cambiando il volto della Lapponia», osserva Leo Aikio, primo vicepresidente del Parlamento sami finlandese. «Vediamo un eccesso di turismo in alcune aree, mentre le nostre tradizioni di allevamento delle renne sono sotto pressione». In Finlandia, i Sami, popolo indigeno che abita l’Artico scandinavo da migliaia di anni (cfr. MC aprile 2020), contano circa 10mila persone. La loro economia tradizionale si basa sull’allevamento di renne, ma oggi deve competere con nuovi usi del territorio.

Il cambiamento climatico sta trasformando radicalmente l’ecosistema. Le temperature invernali sono aumentate di 3-4 gradi negli ultimi cinquant’anni, modificando i luoghi di migrazione degli animali e riducendo la durata del manto nevoso. «Quando ero bambino, la neve arrivava a ottobre e rimaneva fino ad aprile», racconta Ante Sokki, allevatore sami. «Ora arriva a dicembre e se ne va a marzo. Le renne fanno fatica a trovare cibo sotto il ghiaccio che si forma quando piove d’inverno».

P.P.

La strada è innevata, ma anche in Finlandia il cambio climatico sta colpendo duramente. Foto Turkkinen-Pixabay.

Ha firmato il dossier:

PIERGIORGIO PESCALI. Risiede in Giappone e Corea del Nord lavorando nella ricerca scientifica nel settore della fisica nucleare. Grazie al lavoro che lo porta a viaggiare per il mondo collabora con vari media. È una firma storica di MC.

A CURA DI: Paolo Moiola, giornalista MC.

Renne d’allevamento. Foto Piergiorgio Pescali.



Il regime del silenzio

La giunta militare di Ibrahim Traoré ha compiuto tre anni al potere. La narrazione ufficiale parla di una vittoria imminente contro il terrorismo e di un’economia in crescita. Ma i fatti dicono altro. Abbiamo sentito un testimone d’eccezione.

La popolazione del Burkina Faso non ha tregua. Dopo l’insurrezione che ha mandato via il regime di Blaise Compaoré, durato 27 anni, il Governo di transizione e le elezioni, nel gennaio 2016 i gruppi armati jihadisti hanno iniziato a colpire sul territorio. Prima con un attentato al cuore del Paese, e poi prendendo sempre più terreno, a partire da Nord. Nel dicembre dello stesso anno, il primo gruppo isalmista composto da burkinabè, Ansarul Islam, si è dichiarato apertamente (si veda la cronologia in MC gennaio-febbraio 2019).

È seguita una breve parentesi democratica, con la presidenza di Roch Marc Christian Kaboré, che non ha saputo limitare l’avanzata dei terroristi (come del resto è successo negli altri paesi del Sahel), fornendo il pretesto ai militari per attuare un colpo di stato il 24 gennaio 2022. La giunta è stata destituita da un secondo golpe che, il 30 settembre dello stesso anno, ha portato al potere il giovane capitano Ibrahim Traoré e il suo gruppo.

Il nuovo uomo forte ha ben presto imposto un regime autoritario, riducendo al minimo le libertà di espressione, di stampa e di associazione. I sindacati e i partiti politici sono stati sospesi, così come i media indipendenti. Ong nazionali e internazionali si sono viste revocare il permesso di operare da un giorno all’altro. Attivisti della società civile, giornalisti, avvocati che denunciavano quanto sta avvenendo, anche sulla lotta al terrorismo, sono stati arrestati a casa, sul luogo di lavoro, per strada, da individui armati, di solito in borghese. I famigliari e i colleghi non hanno avuto loro notizie per mesi.

Alcuni di loro sono ritrovati nelle prigioni di Stato, in attesa di giudizio. L’ultimo arresto arbitrario eccellente è stato quello dell’avvocata Ini Benjamin Doli, avvenuto la notte del 31 agosto scorso. Molto critica nei confronti della giunta, l’avvocata ha visto un gruppo di uomini armati irrompere nel suo domicilio durante la notte. Ci sono voluti alcuni giorni affinché i colleghi dell’Ordine degli avvocati, scoprissero che era stata arrestata dai servizi segreti.

Il 16 settembre scorso, una buona notizia è stata la liberazione di cinque giornalisti – Khalifara Seré, Alain Alain, Boukari Ouoba, Guézouma Sanogo, Adama Bayala -, alcuni dei quali in prigione da oltre un anno, e di altrettanti attivisti. Ma molti altri restano in detenzione arbitraria, come il giornalista Idrissa Barry e l’avvocato Guy Hervé Kam.

Guerra al terrorismo

Al di fuori della capitale, i gruppi armati sono molto presenti sul territorio e compiono massacri tra la popolazione civile, oltre che attacchi a postazioni militari. Anche l’esercito burkinabè, affiancato dalle milizie dei Volontari della patria (Vdp, paramilitari), commette efferatezze contro i civili, come documentate da Human rights watch e Amnesty International, che chiedono inchieste indipendenti sull’operato delle forze dell’ordine.

Inoltre, oltre al clima di paura, una propaganda molto pressante è messa in piedi dal Governo, sia all’interno del Paese che verso l’estero. Ha il duplice scopo di anestetizzare la popolazione su quanto accade, e di raccontare il personaggio Ibrahim Traoré, come un rivoluzionario, difensore del popolo contro gli interessi occidentali.

Newton Ahmed Barry – © Marco Bello

La testimonianza

A Parigi incontriamo Newton Ahmed Barry, giornalista burkinabè molto noto nel suo Paese e attualmente in esilio.

Barry ha lavorato in televisione, è stato tra i fondatori del giornale indipendente «l’Évenement» (2002). È stato, inoltre, presidente del Consiglio elettorale nazionale indipendente con il quale ha organizzato l’ultima consultazione elettorale, nel 2020.
Dal luglio del 2023 è dovuto andare all’estero, in quanto critico della giunta.

Barry è, inoltre, finito su una lista nera, resa pubblica con grande enfasi, anche tramite i social media, insieme ad altri sei giornalisti, con la pesante accusa di «associazione criminale con legami con il terrorismo».

Come sta andando la guerra contro i jihadisti in Burkina Faso?

«Occorre confrontare quello che il Governo dice e quello che succede sul terreno: sono due cose totalmente diverse. Quello che constatiamo sul terreno è che, un po’ ovunque, i jihadisti attaccano i campi militari, e i soldati burkinabè, così come i Vdp, che sono una sorta di milizia governativa, sono uccisi dai terroristi. Leggendo una valutazione fatta tra fine aprile e fine maggio, più di 800 militari sono stati uccisi. Secondo il Centro africano di studi strategici la situazione di sicurezza è preoccupante. Quindi, non possiamo dire che la lotta contro il terrorismo stia facendo dei progressi. Nonostante questo, il Governo della giunta militare dice che le cose vanno bene, che i terroristi saranno sconfitti prossimamente in Burkina. Ma non è quello che dicono i fatti. Tra il discorso politico e il terreno, c’è una grande differenza».

Ci parli della limitazione delle libertà nel suo Paese.

«È un regime autoritario, direi una dittatura, che ha cominciato sopprimendo la libertà della stampa, poi ha messo i giudici in prigione, e oggi è addirittura proibito mettere dei “like” su internet. Chi mette un like a un messaggio che non è conforme alla linea ufficiale, è perseguito.

In questo momento, in Burkina Faso abbiamo il regime responsabile del più grande numero di sempre di sparizioni di persone che hanno osato dare un’opinione contraria a quella ufficiale.
Sono decine i giornalisti attualmente detenuti senza giudizio. Le loro famiglie non sanno dove si trovano. Inoltre, gli anonimi scomparsi cono centinaia.
Non ci sono diritti politici, i partiti sono sospesi e non possono esprimersi.
Le Ong e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani non possono parlare.

Se hai un problema, oggi non puoi appellarti alla giustizia, perché questa è stata silenziata e alcuni giudici mandati al fronte, a combattere contro i jihadisti. Questo perché hanno osato condannare i partigiani del regime. Nel Burkina di oggi, c’è una sorta di buco nero delle libertà.

La lotta contro il terrorismo è stata un pretesto per togliere tutte le libertà e per imporre un regime dittatoriale. Regime che ha l’effetto di isolare il Paese».

Il presidente russo Vladimir Putin incontra il leader della giunta militare del Burkina Faso’s, il capitano Ibrahim Traore il 29 luglio2023. (Photo by Alexey DANICHEV / POOL / AFP)
Quali sono oggi i partner internazionali del Burkina Faso?

«Il Burkina ha un solo partner, ovvero la Russia. Essa, nella sua geostrategia contro gli occidentali, e in particolare contro la Francia, ha cercato di prenderle tutte le sue vecchie colonie. I russi sono, quindi, venuti in Sahel, diventando il partner principale di questi Paesi.

In Burkina, con l’arrivo di Ibrahim Traoré, sono state interrotte tutte le relazioni diplomatiche con la Francia. A Ouagadougou è arrivato il gruppo Wagner, ed è stato incaricato della sicurezza personale del capitano Ibrahim Traoré. Wagner è stato poi sostituito da Africa corps (conversione di Wagner dopo l’uccisione del suo capo, nel 2023, ndr), che ricopre lo stesso ruolo, ancora oggi. Ma i militari russi, in Burkina, non combattono, come invece accade in Mali, a fianco delle truppe di quel Paese».

La Russia ha anche attività di cooperazione o di aiuto?

«Piuttosto i russi prendono. Occorre dire che è il Governo del Burkina che paga gli uomini di Africa corps, con denaro o dando loro accesso alle miniere d’oro. Inoltre, il Burkina acquista armi dalla Russia. Sono a conoscenza del fatto che i russi hanno dato 50mila tonnellate di grano, che è niente, in quanto un piccolo villaggio in Burkina ne produce il doppio in un anno. E poi hanno elargito una ventina di borse di studio per studenti. Questa è la loro cooperazione».

Bandiere russe e del Burkina Faso a rally in sostegno of Traore in Ouagadougou in Aprile, 2025. (Photo by AFP)
Si dice che, in Burkina, questo regime abbia molto seguito.

«È difficile dirlo, perché, non essendoci libertà di espressione, chi non è d’accordo non ha la possibilità di manifestare le proprie idee. Come giudicare la popolarità della giunta se la parola è data solo ai suoi sostenitori? Inoltre, le manifestazioni non sono poi così massicce. Nel 2014 abbiamo fatto manifestazioni dieci volte più importanti, quando si trattava di cacciare via Blaise Compaoré (il presidente che ha gestito il Paese dal 1987 al 2014, ndr). All’epoca, sia i suoi partigiani, che noi dell’opposizione, potevamo manifestare. Ma se non c’è un contesto di libertà, di possibilità di scelta, è difficile giudicare la popolarità di un regime».

Le organizzazioni internazionali dei diritti umani hanno denunciato diversi massacri di civili nei villaggi durante operazioni di antiterrorismo. Ma perché viene presa di mira la popolazione?

«Perché il regime militare ha connotato la strategia di lotta contro il terrorismo su delle basi etniche. Dato che la maggioranza dei militanti nel terrorismo parlano la lingua Peul (cfr. MC dicembre 2018), è tutta la comunità Peul che è stata messa in causa. Il regime pensa di dovere sterminare il massimo numero di Peul per ridurre il reclutamento di nuovi combattenti. Ma questo ha creato l’effetto inverso, perché, a forza di prendere un’etnia come obiettivo, i giovani di quella comunità non hanno altra scelta che ingrossare i ranghi dei jihadisti.

Quindi, invece di indebolire il movimento terrorista, questa strategia lo ha rinforzato, e oggi i jihadisti sono molto più numerosi di due anni fa».

Quali sono i gruppi armati presenti in Burkina Faso?

«C’è principalmente Ansarul Islam, che fa parte del Gsim (Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, o Jenim dalla sigla in arabo), il quale risponde ad Al Qaida. Il Jenim è composto da tre gruppi: il Movimento di liberazione di Masina, che è principalmente in Mali, nella zona centrale, verso Timbuctu; poi c’è Ansar Dine, il movimento dei Tuareg di Iyad ag Ghali e – infine – Ansarul Islam, che è il ramo burkinabè (cfr. Mc dicembre 2018), che è presente un po’ ovunque nel Paese.

C’è anche una presenza dello Stato islamico nel Sahel, che è limitato alla zona delle tre frontiere: Burkina, Mali e Niger. Loro sono più forti in Mali, nella zona di Menaka, e in Niger, nell’area di Tillaberi».

Attualmente, quali sono, secondo lei, le possibilità di un cambio di regime?

«Oggi tutto è possibile, dal momento che si tratta di un sistema chiuso, che non permette alternative. Io vedrei tre possibilità.

La prima è quella di un colpo di stato militare: esiste, ma è bassa. Questo perché Traoré ha rimodellato l’esercito portando il livello di comando più in basso, ovvero al livello dei capitani. Molti di loro, oggi, sanno che il loro privilegi sono dovuti a questo regime, per cui lo difendono per proteggere i propri interessi, che coincidono con quelli di Traoré.

La seconda possibilità è quella di una ribellione. Ci sono molti ufficiali superiori che sono fuggiti dal Burkina e si trovano nei Paesi vicini. È plausibile che possano guidare una ribellione dall’estero. Ci sono delle idee, ma nulla di strutturato.

La terza possibilità è la presa del potere da parte di Ansarul Islam. Questo gruppo armato è molto avanti oggi e prende a tenaglia la capitale Ouagadougou e la seconda città, Bobo Dioulasso. Si può dire che controlla il 70% del territorio nazionale, mentre la giunta militare ne controlla il restante 30%. Possiedono molte armi, perché le prendono attaccando i campi dell’esercito. Hanno, inoltre, molti uomini perché, come detto, la strategia governativa di colpire i Peul, ha avuto questo effetto. I Peul sono la seconda etnia per numero del Paese, dopo i Mossì. Questa è la possibilità a mio avviso più concreta rispetto alle altre».

Campo di profifhi interni a Wendou 2 IDP displacement camp in Dori il 29, 2024. nel Nord Est del Brkina Faso (Photo by FANNY NOARO-KABRÉ / AFP)
E dal punto di vista dell’economia?

«L’economia del Burkina Faso è basata sull’agricoltura e sull’appoggio dei partener internazionali. Per quanto riguarda l’agricoltura, dato che gran parte del territorio è sotto il controllo dei jihadisti, ci sono circa tre milioni di contadini che sono dovuti scappare dai propri villaggi, lasciando incolti i loro campi.

Un secondo elemento economico interno è lo sfruttamento delle miniere d’oro (il 70% dei proventi di esportazione e costituisce il 16% del Pil). Ma anche molte regioni aurifere sono sotto il controllo dei terroristi. La metà delle miniere sono chiuse o date in uso ai russi per pagare i mercenari. Anche in questo caso si riducono le entrate nelle casse dello Stato (la produzione è scesa del 20%).

Un terzo elemento è il fatto che il governo ha tagliato i ponti con i partner principali del Paese, come l’Unione europea che era tra i principali donatori. Il bilancio del Burkina è di circa 2mila miliardi di Fcfa all’anno (3 miliardi di euro). Circa la metà arrivavano dall’aiuto budgetario dei partner internazionali. Inoltre, gli investimenti stranieri sono passati da 670 milioni di dollari nel 2022 a 83 milioni nel 2024.

C’è, quindi, un problema evidente a livello del bilancio dello Stato. Un Paese che è già in una situazione di crisi, si è privato di metà del proprio bilancio.

Il governo fa, dunque, molta propaganda ma non riesce più a fare sviluppo. Le strade, la sanità, l’educazione diventano difficili da finanziare. Ci sono oltre quattromila scuole chiuse (a causa dell’occupazione del territorio da parte dei gruppi armati, ndr) con milioni di bambini che sono privati dell’educazione primaria.

Tutti questi elementi portano verso a una crisi economica profonda. E sull’economia non si può mentire».

Lei è attualmente in esilio. Ci può parlare della campagna che sta preparando per i colleghi che sono in prigione per motivi di opinione?

«È la prima volta, nella storia del Paese, che centinaia di persone sono obbligate a vivere in esilio. La nostra preoccupazione è organizzarci per poter continuare a difendere libertà e democrazia, e pure continuare a sensibilizzare i partner all’estero, affinché non si dimentichi il dramma che si sta consumando a porte chiuse. Un dramma umanitario, delle libertà, ma anche di tutte le popolazioni rurali.

Un problema che abbiamo è anche il rapimento e l’imprigionamento, senza alcuna forma di processo e procedura giudiziaria di molti giornalisti (e attivisti della società civile, avvocati, ecc. ndr). Sono decine oggi in questa situazione.

Stiamo, quindi, cercando di realizzare una campagna, con le foto dei colleghi scomparsi, da far girare su internet o su altri mezzi stampa, per sensibilizzare i partner internazionali».

La macchina della propaganda dipinge il capitano Ibrahim Traoré come un nuovo Thomas Sankara.

«Utilizzano Sankara per la propaganda. Ma Traoré non ha il livello di Sankara (il presidente visionario ucciso nel 1987, ndr) né intellettualmente, né in termini di comprensione delle questioni complesse di democrazia o regimi politici.

In secondo luogo, Sankara era antimperialista tout cour, e non “antimperialista occidentale”.
Ovvero, era anche antimperialista contro i russi, infatti disse ai sovietici che rifiutava il loro aiuto, perché “l’aiuto non aiuta a liberarsi dell’aiuto”.  
Al contrario, Ibrahim Traoré lotta contro l’imperialismo occidentale, ma è un buon partner di quello russo.

Sankara era panafricano, non ha fatto uscire il Paese dalla Cedeao. Ed era per la libertà di parola. Sankara disse una cosa importante: “Sfortuna a chi imbavaglia il proprio popolo”. Ma la politica di Traoré è basata esclusivamente sul silenzio: imbavaglia il suo popolo, nessuno può parlare».

Marco Bello

ULTIME NOTIZIE

Mentre stiamo per mandare in stampa, apprendiamo del sequestro, da parte di sedicenti agenti dei servizi segreti, di tre magistrati, due giornalisti, un avvocato e un doganiere, tra sabato 11 e lunedì 13 ottobre. Seguiranno aggiornamenti sul sito della rivista.

Archivio MC




L’isola che rinasce

Nel Paese convivono buddhisti, induisti, musulmani e cristiani. Dopo la guerra civile tra Tigri tamil e Stato, conclusa nel 2009, e dopo la grave crisi economica, sociale e politica del 2022, oggi lo Sri Lanka vive un tempo di speranza e sta cercando di risollevarsi.

È l’isola a forma di lacrima a Sud dell’India che già Marco Polo aveva definito «la più bella del mondo». Da un anno a questa parte, con l’elezione di un nuovo Presidente e un nuovo Parlamento, sta tentando di rialzarsi dopo decenni di grandi fatiche e la profonda crisi economica, sociale e politica che l’ha colpita nel 2022.

Paese di 22 milioni di abitanti, nello Sri Lanka convivono buddhisti (70%), induisti (12,6%), musulmani (9,7%) e cristiani (7,5%, di cui 6,5% cattolici e 1% protestanti).

Noto anche con il nome Ceylon, come veniva chiamato quando era parte dell’Impero britannico e veniva sfruttato per la produzione di tè, ha ottenuto l’indipendenza nel 1948. Ha avviato un cammino di autonomia e sviluppo che, però, è stato ostacolato da una violenta guerra civile, durata poco meno di trent’anni e conclusasi formalmente nel 2009, ma con strascichi evidenti ancora oggi, tra lo Stato a maggioranza singalese e la minoranza etnica tamil, popolazione induista originaria del Sud dell’India che lamentava discriminazioni ed emarginazione.

La crisi del 2022, iniziata come una crisi del debito estero, che ha portato a grandi manifestazioni di piazza, e alle dimissioni di un governo corrotto, sembra essere ormai alle spalle, e il Paese attraversa una fase di ripresa a tutti i livelli.

Una nuova classe politica

«Lo Sri Lanka torna a vedere la luce in fondo al tunnel», afferma padre Cyril Gamini Fernando, sacerdote di Colombo, la capitale, e direttore del giornale cattolico in lingua singalese «Gnanartha Pradeepaya» («La luce della conoscenza»).

Il Paese ha un nuovo Presidente e un nuovo Parlamento che detengono la maggioranza assoluta: gli elettori hanno premiato Anura Kumara Dissanayake, del Janatha vimukthi peramuna (Jvp), salito alla guida della nazione nel settembre 2024. Il leader ha messo in agenda il cambiamento della vecchia struttura di potere, legata a una classe politica macchiatasi, secondo le accuse della società civile e dei partiti di opposizione, di abusi e violazioni dei diritti umani.

Dopo la vittoria di Dissanayake, nelle successive elezioni parlamentari la coalizione politica del National people’s power (Npp), guidata dal Jvp, ha confermato il risultato, ottenendo il saldo controllo dell’assemblea legislativa con oltre il 70% dei seggi.

La popolazione si aspettava e richiedeva un cambiamento che si è poi verificato: in carica è arrivato un governo di orientamento socialista che ha messo in programma la lotta alla povertà e il benessere per le classi sociali più svantaggiate.

«Nei proclami del Presidente e negli obiettivi dichiarati del Governo – rileva padre Fernando -, vi è l’intento di rendere giustizia a quanti in passato hanno subito la violazione dei loro diritti».

Proteste a Colombo 29 aprile 2022

La ripresa della fiducia

Un settore su cui l’esecutivo di Dissanayake ha impegnato risorse e attenzione è quello dell’economia. Si è avviata, così, una lenta risalita, seguendo le indicazioni del Fondo monetario internazionale che ha concesso una linea di credito di 2,9 miliardi di dollari.

L’economia dello Sri Lanka crescerà del 4,5% nel 2025, secondo un rapporto della banca centrale. E questa proiezione di crescita arriva nonostante i potenziali rischi derivanti dai dazi Usa.

Nell’attuale fase di ripresa, anche l’importante settore del turismo sta crescendo, creando prosperità. E se gli economisti osservano che i primi risultati stabili del processo di ripresa si vedranno solo dopo almeno un paio di anni, l’elemento chiave, come rimarca padre Fernando, è la fiducia: «Siamo sulla buona strada. Nella popolazione oggi si respira un certo ottimismo, la gente vede una classe politica che si mostra responsabile, e si fida del nuovo Presidente».

«La grave crisi in cui siamo sprofondati negli anni scorsi – ha spiegato il direttore del settimanale cattolico – era dovuta anche alla corruzione: le sue radici stanno nella mala amministrazione del passato». Ora, afferma, «c’è maggiore oculatezza nella spesa pubblica e il Governo ha stanziato una quota di budget più alta rispetto al passato per settori come l’istruzione, lo sviluppo, i servizi sociali».

Grazie alla graduale ripresa dell’economia, poi, l’inflazione, prima galoppante, è tornata sotto controllo, e il potere d’acquisto dei salari è stabile. «Questo andamento sociale ed economico crea una buona atmosfera e dà speranze concrete alla gente», aggiunge il sacerdote.

Come padre Fernando ha scritto in un recente editoriale sul suo periodico, «è dovere del governo stare dalla parte dei più poveri e venire incontro alle loro necessità: questa è l’attesa del tempo che viviamo».

D’altronde, nota, «il Governo è alle prese con la questione centrale della corruzione. Naturalmente, per affrontarla, è necessario del tempo, e l’impatto va considerato sul lungo periodo. La nostra posizione è quella di valutare gli effetti delle sue scelte politiche, se ci sarà un reale beneficio per la vita della gente».

Tempio buddista di Dambulla, Sri Lanka. 2020


Turismo, avanti tutta

Tra i settori economici ai quali si rivolgono le speranze della popolazione singalese, quello del turismo è particolarmente importante, anche per il suo essere «indice» di una ritrovata fiducia nel Paese da parte della comunità internazionale.

«Il turismo in Sri Lanka vive un tempo di piena rifioritura – continua padre Fernando -. È fondamentale per la nostra nazione, che può mostrare le sue meraviglie alle genti di tutti i continenti». L’isola dell’Asia meridionale vanta, infatti, oltre a un ricco patrimonio culturale e monumentale legato al buddhismo, spiagge mozzafiato, rigogliose piantagioni di tè, antiche città e riserve naturali.

La recente crisi politica ed economica aveva fiaccato il settore. Ma ora il turismo fa da locomotiva per la crescita. Secondo dati ufficiali dell’ente nazionale per il turismo, nel 2025 si registra un forte aumento di arrivi nel Paese: 250mila nel mese di gennaio, record storico, mentre a maggio la crescita si è attestata al +20% rispetto al 2024.

Nei primi cinque mesi di quest’anno, nota l’ente del turismo, gli arrivi hanno superato il milione, con una proiezione su base e annua superiore a due milioni.

La ricchezza generata, notano gli esperti, può essere decisiva per far uscire la nazione dalla crisi del debito iniziata nel 2022.

Per rivitalizzare il settore turistico e accelerare la ripresa, il governo ha deciso di concedere il visto gratuito a cittadini di quaranta Paesi (tra i quali l’Italia), portatori, tra le altre cose, di valuta estera. Il settore turistico rappresenta circa il 12% del Pil del Paese e, anche grazie a questo provvedimento, la quota cresce dal 2024.

Altro elemento che riguarda questo settore è la sua ricaduta positiva sugli investimenti infrastrutturali, come l’ampliamento dell’aeroporto internazionale di Bandaranaike a Colombo, il potenziamento delle reti stradali che collegano le destinazioni turistiche e balneari, gli incentivi per lo sviluppo di hotel e resort in aree meno conosciute.

Sigiriya, Sri Lanka. 2021

I cattolici e il Giubileo

Anche il cardinale arcivescovo di Colombo, monsignor Albert Malcolm Ranjith, definisce quello attuale come un tempo «di ripresa e di speranza» a livello politico, sociale ed economico.

La speranza, d’altro canto, riguarda anche la sfera spirituale: «Nella comunità cattolica – ricorda – celebriamo il Giubileo della speranza: riscopriamo la speranza nel cuore perché possiamo portarla anche fuori dalla Chiesa, nella società, promuovendo la pace, la giustizia, il bene, la testimonianza di carità».

Lo spirito giubilare, allora, ben si addice al tempo di rinnovamento e di risalita che sta vivendo l’intero Paese. Su 22 milioni di abitanti, in maggioranza buddhisti, i cattolici sono circa il 6,5% della popolazione. La Chiesa locale si è ritrovata in piena sintonia con le parole e il senso dell’anno del Giubileo: «Dopo anni di buio, di pessimismo, di miseria – riprende padre Fernando -, oggi, nel Paese, la tendenza generale è positiva, nell’economia, nella società, nello scenario politico. Sarà necessario un po’ di tempo per superare definitivamente la crisi degli ultimi tre anni, ma vi sono buone prospettive, e tutti abbiamo la sensazione di essere sul giusto cammino».

La Chiesa cattolica, a livello istituzionale, ha buoni rapporti con il Governo e, «anche a livello di base, la popolazione cattolica sembra aver incoraggiato e sostenuto la svolta politica avvenuta un anno fa». Secondo il sacerdote, «vi sono buone prospettive di collaborazione».

La ferita della Pasqua 2019

Tuttavia, nel rapporto tra la Chiesa cattolica e le istituzioni del Paese, c’è una ferita ancora aperta: gli attentati di Pasqua 2019, avvenuti in diverse chiese e hotel, non hanno ancora visto i responsabili, esecutori e mandanti, rintracciati e processati.

Il presidente Dissanayake ha annunciato una nuova inchiesta in nome della trasparenza e per cercare la verità, e, prosegue padre Fernando, una commissione appositamente istituita «sta interpellando periodicamente anche alcuni dei nostri sacerdoti.

Fin dal principio – ricorda – abbiamo chiesto verità e giustizia contro l’insabbiamento del caso. Ora aspettiamo che si proceda, perché emergano le reali responsabilità o le complicità presenti negli apparati pubblici. Le vittime attendono giustizia».

Nel 2023, la Corte suprema dello Sri Lanka, ha stabilito che l’ex presidente, Maithripala Sirisena, e altri quattro alti funzionari, avevano tenuto, in quel frangente, una condotta negligente, poiché, nonostante i fondati avvertimenti dell’intelligence, non avevano adottato le necessarie misure preventive per contrastare gli attacchi terroristici.

Il supremo tribunale ha addossato precise responsabilità di omissione a Sirisena, per non aver impedito gli attentati, nei quali 250 persone erano morte e oltre 500 erano rimaste ferite.

È stato un primo passo, ma non rappresenta il chiarimento definitivo della vicenda.

In questo scenario, la Santa Sede ha deciso di includere i 167 fedeli cattolici uccisi in chiesa quel 21 aprile 2019 nel catalogo dei «Testimoni della fede» del XXI secolo redatto dal Dicastero vaticano delle cause dei santi e presentato nel corso dell’Anno giubilare.

Intanto, racconta padre Fernando, «la vita della Chiesa va avanti: si cammina come popolo di Dio, continuiamo le nostre attività sociali educative e caritative a servizio della gente».

Le comunità stanno vivendo il Giubileo, ogni diocesi ha preparato un calendario con celebrazioni e attività di carattere spirituale: «È per noi un momento di rinnovamento interiore, per ripartire con nuovo slancio spirituale, che è un dono della grazia di Dio. Il tema della speranza si accorda ai sentimenti della gente: in questa fase della vita nazionale, siamo portatori della speranza che viene da Dio per donarla al prossimo, alla comunità, al Paese».

Sri Lankan soldiers look on inside the St Sebastian’s Church at Katuwapitiya in Negombo on April 21, 2019, following a bomb blast during the Easter service that killed tens of people. A series of eight devastating bomb blasts ripped through high-end hotels and churches holding Easter services in Sri Lanka on April 21, killing nearly 160 people, including dozens of foreigners. (Photo by AFP)

Le ferite della guerra

Un altro dei punti che il nuovo governo sta cercando di affrontare è quello della divisione etnico religiosa della società. È un punto delicato che va a toccare le ferite di tre decenni di guerra civile che hanno segnato con lutto e dolore, fino al 2009, la vita della comunità singalese, maggioritaria, e di quella tamil, il 15% della popolazione, concentrata nel Nord.  Il conflitto armato, iniziato nel 1983 dal movimento delle milizie delle «Tigri tamil», è durato 26 anni lasciando sul campo più di 100mila morti.

Diversi casi di violazioni dei diritti umani commesse in special modo nell’ultima fase della guerra, sono giunti all’esame del Consiglio per i diritti umani della Nazioni Unite. Questo ha stimato che, negli ultimi mesi dei combattimenti, quando il governo aveva lanciato l’assalto finale alle Tigri tamil, fossero stati uccisi 40mila civili. Secondo il rapporto dell’Onu, le autorità avevano minimizzato deliberatamente il numero dei civili rimasti intrappolati nelle zone di conflitto, privando la popolazione degli aiuti umanitari, compresi cibo e medicinali, mentre i guerriglieri tamil, a loro volta, avevano usato bambini-soldato e preso civili in ostaggio per usarli come scudi umani.

Le organizzazioni internazionali hanno attestato che l’esercito dello Sri Lanka aveva bombardato centri di distribuzione alimentare, ospedali e rifugi civili.

Dieci anni dopo, nel 2019, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha constatato che rapimenti, detenzioni illegali, torture e violenze da parte delle forze di sicurezza verso il popolo tamil sono continuate almeno fino al 2016.

Nel 2021 il Consiglio dei diritti umani ha approvato una risoluzione esprimendo grave preoccupazione per la situazione dei diritti umani nello Sri Lanka, rilevando non solo l’impunità di chi aveva commesso gravi crimini durante la guerra civile, ma anche il deterioramento della tutela dei diritti dopo l’elezione dell’allora presidente Gotabaya Rajapaksa a novembre 2019.

Riconciliazione possibile

Ora anche la stagione politica del clan dei Rajapaksa è finita.

Nella nuova cornice, mentre non si sono spente del tutto le controversie e le rivendicazioni tra le due comunità allora belligeranti, il nuovo governo di Dissanayake ha provato a riprendere in mano il processo di riconciliazione nazionale. La promessa è quella di reclutare più Tamil nelle forze di polizia, e di restituire ulteriori terre, a lungo occupate dai militari, ai loro originari proprietari tamil.

Queste misure potrebbero aiutare la coalizione al governo ad acquisire attrattiva e fiducia anche tra le minoranze, e a dare una svolta alla definitiva pacificazione dello Sri Lanka.

Su questo versante il contributo della comunità cattolica è sempre stato significativo, poiché essa ha sempre agito da ponte, avendo al suo interno fedeli battezzati sia singalesi, sia tamil.

In special modo, dal santuario mariano dedicato a Nostra Signora della salute, nella località di Madhu, in un’area in passato attraversata dalla guerra, nel Nord dell’isola, è partito un potente appello alla riconciliazione e all’armonia nazionale.

Anche papa Francesco, nel suo viaggio nel Paese nel 2015, aveva voluto recarsi in quel luogo per pregare e per affidare alla Vergine le sorti della nazione.

Quella di Madhu con la sua dimensione di convivenza interetnica e interculturale, tra fedeli singalesi e tamil, resta una delle testimonianze luminose di fede e di fraternità.

Paolo Affatato

Tea Research Institute of Sri Lanka, Talawakelle, Sri Lanka. 2017




Vite nel Paese che non c’è

C’è un filo rosso che collega le vite di tanti congolesi. Il piccolo venditore di carbone di Kinshasa, Marten e Daniel del Katanga, Stella del Kivu. Quello di una vita senza diritti, vissuta in affanno, alla ricerca di una condizione migliore. Il nostro reportage.

Kinshasa. Sono le sei di sera, stiamo rientrando al nostro alloggio. È a Masina III, uno dei quartieri più difficili della capitale della Repubblica democratica del Congo, perfetto per indagare i lati più oscuri di una metropoli che, con i suoi quasi 18 milioni di abitanti, è lo specchio di un Paese dilaniato. Quella mattina, all’uscita, eravamo rimasti colpiti da un bambino in strada, ma presi dallo sfuggire al caotico traffico della città, non ci eravamo potuti fermare. Al nostro rientro quel bambino era ancora lì, con il viso e i vestiti più sporchi rispetto all’inizio della giornata. È un «charbonnier», nome con cui si indicano i produttori e venditori di carbone da legna – makala in lingua lingala -, un combustibile essenziale per la popolazione congolese, usato per cucinare. Quel bambino, però, è visibilmente troppo piccolo per quel lavoro: i sacchi di carbone da trasportare sono più alti e sicuramente più pesanti di lui. Non è da solo, ci sono ragazzi più grandi: qualcuno dorme sui sacchi ammassati, altri danno ordini su come procedere.

Ci avviciniamo e, dopo una mancia (indispensabile per convincere le persone a parlare), rispondono a qualche domanda. È un lavoro duro, fisicamente stancante – dicono -, il cui guadagno dipende da quanti sacchi si riescono a vendere. Questo, tuttavia, vale per gli adulti, perché quando chiediamo a quel bambino quanto guadagni per trascorrere, a otto anni, le sue intere giornate lì, la sua risposta è «rien», niente. Ma niente è meglio della strada che altrimenti lo aspetterebbe. In questo modo ha almeno la possibilità di ottenere qualcosa da mangiare o qualche franco congolese per sopravvivere.

Lui, come molti bambini a Kinshasa, è figlio della strada: abbandonato dalla famiglia e cresciuto da solo, però non si è dato ai furti, come invece capita a molti altri. Questi minori si riconoscono facilmente: sono quelli che si aggrappano ai finestrini delle auto per chiedere denaro, quando si rimane bloccati per ore nel traffico della capitale. Uno di questi aveva un taglio profondo sul viso, così recente da sanguinare ancora, ma servono soldi per farsi curare in ospedale, quelli che stava cercando per strada.

La vita a Kinshasa

Forse è proprio «la strada» a essere il centro di tutto a Kinshasa: l’intera vita della maggior parte della popolazione si svolge lì, nelle vie non asfaltate, spesso invase da odori nauseanti, che però ospitano chiunque. È per strada che vive il commercio informale di cui si nutrono i kinois (abitanti di Kinshasa). Le donne – spesso chiamate mamas in lingala – al mattino danno vita a un vero e proprio mercato di strada. Sedute su teli di plastica e coperte con qualche foglia che fa da tetto di fortuna per ripararsi dal sole, vendono prodotti locali: banane, farina di mais, pane e, vicino ai corsi d’acqua, pesci, spesso ancora vivi, messi in ciotole di plastica. C’è poi chi svolge il suo commercio andando avanti e indietro con bottigliette d’acqua, altre bibite o cibo preparato da vendere a chi è bloccato nel traffico. Si aggiunge il via vai di chi trasporta taniche da riempire ai pozzi o direttamente ai corsi d’acqua, vista la mancanza di impianti idrici nelle case.

Chi vende mattoni, chi ripara motociclette, perfino chi taglia i capelli: la strada è di tutti. Regolare un flusso così corposo di persone risulta impossibile: le centinaia di poliziotti in circolazione non incutono timore alla popolazione: «Molti di quelli che vedi armati, in realtà hanno il Kalashnikov scarico. I soldi per le forze di sicurezza qui sono limitati e così gli stessi militari sono corrotti: spesso, quando fermano qualcuno per un’infrazione stradale, si fanno dare qualche franco congolese e non fanno la multa», ci spiega Gloire, la nostra guida in città.

Venditore ambulante davanti a mercato di strada a Kinshsa

La storia di Marten

Tuttavia, in questa metropoli così caotica c’è chi ha ritrovato la sua serenità: è la storia di Marten, trasferitosi a Kinshasa da
Lubumbashi, capoluogo della provincia sudorientale dell’Alto
Katanga, 2.257 km a Est. È questa la distanza che Marten ha posto tra sé e il suo passato. Lui, come molti in quella regione del Congo, è stato vittima dell’estrattivismo minerario: «Lavoravo nella miniera di Kimpe, una cava situata a 95 km da Lubumbashi, verso lo Zambia, precisamente a 35 km da Kasumbalese, una città sul confine.

Kimpe è una miniera artigianale dove i giovani si riuniscono in cerca di una vita migliore, perché nel nostro Paese trovare lavoro è difficile. Così ho preso coraggio e con mio cugino ho cominciato anch’io. All’inizio trasportavamo i materiali dalla montagna al villaggio; per un sacco di materiale venivamo pagati 20mila franchi congolesi (7,15 dollari). I sacchi però erano pesanti e per portarli dovevo dividerli: per esempio, trasportavo un sacco in due viaggi e quindi in tutta la giornata guadagnavo solo 20mila franchi».

Un lavoro duro, spiega Marten, ma migliore di quello successivo: «Dopo abbiamo iniziato a lavorare in quelli che da noi si chiamano “mungoti” o “bovu”, tunnel profondi scavati nel sottosuolo alla ricerca di rame. Lì la vita era ancora più difficile: i guadagni dipendevano dalla fortuna di trovare qualcosa scavando. Poteva passare anche un mese senza trovare nulla. Ecco perché molti si sono indebitati con i cinesi, che, oltre alle loro miniere industriali, guadagnano anche dalla filiera artigianale, prestando soldi ai minatori perché possano sopravvivere e, quindi, continuare a scavare».

A Marten quella vita non piaceva, ma non trovava la forza per andarsene, almeno fino quando a motivarlo non è stato il dolore di una perdita: «I rischi sono sempre stati elevati. Quando scavi sotto la terra può esserci un crollo e tu rimani sommerso. Non ci sono protezioni, nessuno verrà a tirarti fuori. Quando poi le miniere raggiungono livelli profondi si incontrano le falde acquifere, l’acqua stagnante e il lavoro in spazi ristretti consumano ossigeno fino a far diventare l’aria irrespirabile. È il motivo per cui solitamente si ricorrere a motopompe, ma se queste si fermano le persone sono condannate.

Mio cugino, Mateso Nyembo, è morto così. Era una sera, abbiamo mangiato, e lui alle quattro del mattino, mentre altri dormivano, ha deciso di rientrare nel tunnel. Abbiamo provato a salvarlo ma e stato impossibile».

Quello di Mateso non è un caso isolato: secondo Siddharth Kara, autore nel libro Rosso Cobalto, sono circa duemila i morti annuali tra i minatori artigianali, sebbene avere stime attendibili sia complesso vista l’illegalità del settore.

Nelle miniere del Katanga

Per capire meglio questa complessa realtà, da Kinshasa abbiamo preso un volo per Lubumbashi. Poi, per arrivare a Lwembo – piccola città situata in una regione chiave per l’estrazione di rame e cobalto – abbiamo percorso molti chilometri in auto. Qui le strade non asfaltate hanno un colore rossastro che crea contrasto con il verde della vegetazione, ed è poco più scuro delle capanne di paglia ai margini della strada. Se ne trovano molte lungo la via, spesso abbastanza distanziate tra loro, oppure a gruppetti di due o tre: non si tratta di veri e propri villaggi strutturati, ma di accampamenti informali.

La stessa città di Lwembo è interamente organizzata in funzione dell’estrattivismo minerario e spesso le capanne vengono costruite il più possibile vicino alle cave. Quasi tutti i minatori quotidianamente percorrono a piedi la strada per arrivare alle miniere. La sera se ne vedono molti ricoperti di polvere e di terra rientrare nelle loro abitazioni. Hanno picche e pale, gli unici attrezzi di cui sono in possesso per scavare, ma la maggior parte lavora a mani nude.

In questa zona ci sono anche le grandi miniere industriali, principalmente appannaggio di multinazionali cinesi. Circondate da alte mura e filo spinato, intravediamo i macchinari utilizzati per l’estrazione e i cumuli di terra e sassi. Sono molti i congolesi impiegati in queste miniere, presenti in svariate zone dell’Alto Katanga. Uno di questi è Daniel Masumbulo Nyembo che, per ragioni di sicurezza, chiede che non venga citato il nome della società per cui lavora: «Lavoro dieci ore al giorno, dalle otto e mezza alle cinque e mezza del pomeriggio, e ho uno stipendio di 600 dollari al mese». La paga è molto più alta rispetto a quella dei minatori artigianali, ma i pericoli sono comunque tanti: «Soprattutto durante le stagioni di pioggia – ci spiega -, il rischio di crolli è elevatissimo. Kasengo Didie, 29 anni, era un mio amico ed è morto schiacciato dalla terra. La cosa assurda è che le autorità statali, quando arrivano, vengono corrotte con denaro dal capo della società per insabbiare tutto».

L’assenza di diritti e tutele per questi minatori è una costante, oggi accresciuta da ciò che sta accadendo a Nord, in Kivu, con le milizie M23: «Abbiamo paura che i ribelli possano arrivare anche qui», dice Daniel.

Mercato di quartiere a Masina III a Kinshsa.

Minaccia dal Kivu

Questo è difficile da prevedere; almeno negli intenti, l’M23 non sembra voler limitare le sue conquiste a Est: «Adesso stanno tendando di prendere Uvira (Sud Kivu) ma i congolesi non si arrenderanno. Probabilmente ci saranno combattimenti porta a porta, spargimenti di sangue. A difendere la città ci sono i Babembe, una tribù affiliata ai Mai-Mai, che cerca di resistere ai ribelli. Tuttavia, benché amino la patria, non sono molto rispettosi dei diritti umani e spesso le violenze si riversano sulla stessa popolazione. Se Uvira dovesse cadere, si aprirebbe la strada per un’avanzata in Alto Katanga», racconta Ursula Vitali (pseudonimo per proteggerne l’identità), che da anni risiede a Bukavu, nel Sud Kivu. Lei racconta anche della resilienza di una società civile che, seppure terrorizzata, non vuole piegarsi: «A Bukavu e Goma ci sono state alcune donne che sono andate direttamente a chiedere ai ribelli di liberare i propri figli o mariti che erano stati costretti ad arruolarsi. In alcuni casi le famiglie hanno dovuto pagare il riscatto per liberarli».

Dal Kivu arriva anche la testimonianza di un’altra donna, Stella Yanda, impiegata da diversi anni nell’ambito della tutela dei diritti umani: «Con l’arrivo dell’M23, ogni giorno assistiamo ad una drastica restrizione dello spazio democratico e della libertà di espressione. A causa della guerra che stiamo vivendo, il corpo delle donne è diventato un secondo campo di battaglia. Le violenze hanno gravemente danneggiato anche l’economia famigliare delle vittime, perché colpire la donna significa attaccare il pilastro della famiglia.

Anche io sono stata oggetto di minacce perché avevo partecipato a un rapporto per denunciare il saccheggio delle miniere da parte degli occupanti. Perché, del resto, sono le miniere il fulcro centrale di questo conflitto e della condanna a cui il Paese sembra essere soggetto. Basti pensare al ruolo giocato dal Rwanda che viene lasciato libero di depredare i minerali di uno Stato sovrano».

In Repubblica democratica del Congo la quantità immensa di risorse – tanto da essere definita «scandalo geologico» – non solo non arricchisce la popolazione, ma la rende schiava di potenze straniere.

Sara Cecchetti*
Laureata in filosofia alla Normale di Pisa, ha come interesse geopolitico il continente africano.
Ha realizzato diversi reportage sulla Rd Congo. Scrive per «Atlante delle guerre» e collabora con diverse altre testate.




Giappone. Sanae Takaichi, la prima premier donna

Takaichi Sanae, 64 anni, è diventata la prima donna premier nella storia del Giappone. Dopo aver conquistato la leadership del Partito Liberal Democratico (Ldp) il 4 ottobre scorso, battendo al ballottaggio il giovane Koizumi Shinjiro con 185 voti contro 156, la sua elezione a capo del governo è avvenuta con il voto parlamentare il 21 ottobre. Ma il suo approdo al governo giapponese è tutt’altro che trionfale. Eredita, infatti, un Paese in profonda crisi politica ed economica, e dovrà affrontare ostacoli che vanno ben oltre le sfide tradizionali di un nuovo premier.

Un patito diviso

La prima grande difficoltà per Takaichi arriva paradossalmente dal suo stesso partito.
Il Ldp, che ha dominato la politica giapponese per quasi settant’anni, è uscito profondamente indebolito da una serie di sconfitte elettorali. Nel 2024 ha perso la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, e nel luglio 2025 anche quella alla Camera dei Consiglieri.
Questi risultati disastrosi hanno portato alle dimissioni del premier uscente Ishiba Shigeru, in carica da appena un anno.

La scelta di Takaichi da parte dell’Ldp riflette una strategia rischiosa: puntare su una figura ultraconservatrice per riconquistare l’elettorato di destra che si era spostato verso partiti emergenti come il Sanseito. Ma questa mossa ha un prezzo. Molti all’interno del partito preferivano il più moderato Koizumi, e la vittoria risicata di Takaichi al ballottaggio rivela profonde divisioni interne.

A complicare ulteriormente il quadro c’è la rottura dell’alleanza storica con il Komeito, il partito moderato di ispirazione buddista che per 26 anni ha garantito stabilità alla coalizione. La nuova coalizione con il Partito dell’Innovazione Giapponese (Nippon Ishin) lascia il governo sotto di due seggi rispetto alla maggioranza assoluta alla Camera bassa: 231 su 465, quando ne servono 233.
Questa fragilità parlamentare significa che Takaichi dovrà negoziare continuamente con l’opposizione per far passare qualsiasi iniziativa legislativa. Un’ironia amara per una donna politica nota per le sue posizioni intransigenti.

Una leadership femminile guardata con diffidenza

Essere la prima donna premier in Giappone non è solo un traguardo simbolico, ma anche un fattore che complica ulteriormente la sua posizione. Il Paese si colloca agli ultimi posti nelle classifiche internazionali sulla parità di genere, e la leadership femminile è ancora guardata con diffidenza in molti ambienti politici e imprenditoriali.

Paradossalmente, le posizioni personali di Takaichi su questi temi potrebbero alienarle il sostegno di chi vorrebbe vedere in lei un simbolo di progresso. L’ultraconservatrice Takaichi si oppone ai matrimoni omosessuali, è contraria alla possibilità per le donne sposate di mantenere il proprio cognome, e ha dichiarato che le donne dovrebbero essere innanzitutto mogli e madri.
Si oppone persino alla possibilità che la successione imperiale cessi di essere un affare esclusivamente maschile.

Queste posizioni la mettono in una posizione singolare: prima donna premier, ma paladina di valori tradizionali che limitano il ruolo delle donne nella società giapponese.

Un falco in politica estera

Il profilo di falco di Takaichi in politica estera rappresenta forse la sfida più delicata del suo mandato.
Cresciuta all’ombra di Abe Shinzo, l’ex premier assassinato nel 2022, Takaichi non ha mai nascosto le sue simpatie per il nazionalismo giapponese.
Le sue ripetute visite al santuario di Yasukuni, che onora i caduti di guerra giapponesi inclusi criminali di guerra giustiziati, hanno già suscitato forti critiche da parte di Cina e Corea del Sud, che vedono il santuario come simbolo del passato militarista del Giappone.
Negli ultimi giorni, tuttavia, Takaichi ha mostrato un inatteso pragmatismo evitando di visitare il santuario durante un’importante festività, probabilmente per non compromettere le relazioni diplomatiche alla vigilia della sua investitura.

Una delle priorità di Takaichi è la revisione dell’articolo 9 della Costituzione pacifista giapponese, che rinuncia formalmente alla guerra e limita le forze armate del paese a un ruolo difensivo. La leader dell’Ldp vuole che venga riconosciuto esplicitamente il ruolo dell’esercito giapponese e ha proposto un significativo aumento della spesa per la difesa.

Questa posizione la pone in sintonia con gli Stati Uniti, che da tempo spingono il Giappone ad assumere un ruolo militare più attivo nella regione Indo-Pacifica, ma rischia di alimentare le tensioni con Pechino, soprattutto considerando che Takaichi ha anche suggerito la creazione di un’alleanza di sicurezza con Taiwan, l’isola rivendicata dalla Cina come parte del proprio territorio.

Anche i rapporti con la Corea del Nord rappresentano un nodo critico. La reticenza di Takaichi nel riconoscere apertamente i crimini di guerra commessi dal Giappone nel secolo scorso complica qualsiasi dialogo con Pyongyang sulla questione degli ostaggi giapponesi e sulla denuclearizzazione della penisola coreana.

Con gli Stati Uniti, Takaichi ha proposto di rivedere l’accordo sui dazi negoziato dal suo predecessore Ishiba, che aveva ottenuto una riduzione al 15%. Il Ldp ha scelto Takaichi anche perché ritenuta la candidata più adatta a gestire le relazioni con Washington in un momento di crescenti tensioni commerciali e strategiche nell’Indo-Pacifico.

Il fronte economico

Sul fronte economico, Takaichi si presenta come una nostalgica dell’«Abenomics», la strategia economica del suo mentore Abe Shinzo basata su tre pilastri: politica monetaria espansiva, aumento della spesa pubblica e riforme strutturali. La leader dell’Ldp non ha mai nascosto la sua ammirazione per Margaret Thatcher, l’ex premier britannica che incontrò a un simposio poco prima della sua morte nel 2013.

Takaichi ha recentemente criticato la decisione della Banca del Giappone di alzare i tassi di interesse, sostenendo la necessità di mantenere una politica monetaria accomodante. Ha proposto aumenti della spesa pubblica e tagli fiscali per contrastare l’aumento del costo della vita che sta erodendo il potere d’acquisto delle famiglie giapponesi.

Il problema è che queste ricette sembrano dissonanti rispetto alla situazione attuale. L’inflazione, dopo decenni di deflazione o stagnazione dei prezzi, è tornata a essere un tema politicamente esplosivo in Giappone. Una politica di yen debole e spesa pubblica espansiva rischia di alimentare ulteriormente l’inflazione, vanificando gli sforzi per alleviare la pressione sui consumatori.

Gli analisti economici avvertono che il raddoppio dell’Abenomics propugnato da Takaichi, potrebbe portare a un’inflazione ancora più alta, proprio l’opposto di ciò di cui ha bisogno la popolazione giapponese in questo momento.

Una sfida difficile

Takaichi Sanae si trova di fronte a una sfida che pochi premier giapponesi hanno dovuto affrontare. Deve governare senza una maggioranza solida, ricucire un partito diviso, gestire crisi economiche e diplomatiche simultanee, e farlo mentre porta il peso simbolico di essere la prima donna alla guida del paese.

Le sue posizioni conservatrici in politica interna ed estera potrebbero rivelarsi sia un punto di forza che una debolezza. Da un lato, potrebbero consolidare la base elettorale dell’Ldp tra gli elettori più tradizionalisti. Dall’altro, rischiano di alienare gli elettori moderati e di complicare i rapporti con i paesi vicini in un momento in cui la stabilità regionale è più che mai necessaria.

Il Giappone, quarta economia mondiale, si trova a un bivio. La scelta di Takaichi rappresenta un test non solo per lei personalmente, ma per l’intera classe politica giapponese: può il paese permettersi un ritorno al conservatorismo duro in un momento che richiede pragmatismo e capacità di compromesso?

La risposta arriverà presto. Il 21 ottobre segna non solo l’inizio di un’era storica con la prima donna premier, ma anche l’inizio di una delle prove più difficili per la leadership giapponese nel dopoguerra.

Piergiorgio Pescali




Mondo. L’Onu irrilevante e a rischio estinzione

Quello delle Nazioni Unite – sono nate il 24 ottobre 1945 – è stato un triste ottantesimo compleanno. «Le Nazioni Unite sono indispensabili per la pace, la giustizia e l’eguaglianza nel mondo» si legge su un sito celebrativo. L’affermazione è certamente corretta, ma oggi – purtroppo – smentita dai fatti. L’ultima conferma è arrivata in occasione dell’ottantesima sessione, chiusasi a New York lo scorso 30 settembre.
A causa della situazione internazionale, il mondo è apparso diviso come da tempo non si vedeva. Una divisione dovuta alle guerre in corso e alla nuova contrapposizione tra blocchi di paesi.
Le guerre sono diverse, ma le più pericolose e controverse sono due: quella che si combatte in Ucraina dopo l’invasione da parte della Russia di Putin e quella in Medio Oriente tra Israele e palestinesi. C’è poi la nuova suddivisione in blocchi politici contrapposti: da una parte l’Occidente litigioso e senza una guida, dall’altra il gruppo dei Brics a guida cinese.

Nella carrellata di passaggi davanti ai delegati di tutto il mondo, due discorsi hanno avuto il sopravvento mediatico.
C’è stata l’ora (ben oltre i limiti temporali assegnati) occupata da Donald Trump, presidente degli Stati Uniti. Il suo discorso è stato imbarazzante per i toni usati e inquietante per i contenuti espressi, oltre che infarcito di falsità o esagerazioni.
In particolare, è da sottolineare la conferma del suo negazionismo climatico (previsioni catastrofiche fatte da «persone stupide») e il suo attacco alle politiche energetiche verdi (definite «brutali»). Con il suo consueto linguaggio da bullo ignorante, Trump ha poi fustigato i paesi alleati (in primis, quelli europei) per non fermare l’immigrazione, magnificato se stesso («ho risolto sette guerre» al posto delle Nazioni Unite) e il suo governo (che starebbe portando gli Usa verso una nuova «età dell’oro») e sommerso di offese il sindaco di Londra.

Dopo Trump, ha trovato spazio lo show di Benjamin Netanyahu (nella foto), premier di Israele al cui arrivo metà dei presenti ha abbandonato l’aula in segno di protesta. A dispetto delle evidenze, il controverso politico israeliano ha negato sia il genocidio che la fame e spazzato via qualsiasi ipotesi di Stato palestinese.

In rappresentanza della Russia, il ministro degli esteri Sergey Lavrov ha difeso la guerra del suo paese contro l’Ucraina, attaccato l’Europa e mostrato accondiscendenza verso gli Stati Uniti (ennesima dimostrazione del feeling tra Putin e Trump). Quanto alla Cina (lunico vincitore di questo periodo storico), il premier Li Qiang ha concluso il suo intervento affermando che il suo paese è pronto «a collaborare con tutti i membri per sostenere la posizione e l’autorità delle Nazioni Unite, salvaguardare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite, sostenere le riforme delle Nazioni Unite per migliorarne l’efficienza e la capacità di adempiere al suo mandato e promuovere una maggiore rappresentanza e voce dei paesi in via di sviluppo».

L’ottantesima sessione delle Nazioni Unite si è – quindi – trasformata in una serie di esibizioni di rappresentanti politici in cerca di consenso senza una proposta costruttiva per l’organizzazione. Da tempo, le Nazioni Unite stanno discutendo una serie di riforme interne. Al momento, però, un accordo pare molto lontano. Come anche l’estinzione dell’organizzazione, mentre è sotto gli occhi di tutti la sua irrilevanza.

Paolo Moiola

L’ottantesima sessione delle Nazioni Unite si è – quindi – trasformata in una serie di esibizioni di rappresentanti politici in cerca di consenso senza una proposta costruttiva per l’organizzazione. Da tempo, le Nazioni Unite stanno discutendo una serie di riforme interne. Al momento, però, un accordo pare molto lontano. Come anche l’estinzione dell’organizzazione, mentre è sotto gli occhi di tutti la sua irrilevanza.




Nucleare, civile è possibile? /2

«Sì, al nucleare civile»

di Piergiorgio Pescali

Nel dibattito contemporaneo sull’energia, il nucleare civile occupa una posizione centrale e controversa. Mentre alcuni fisici e scienziati esprimono preoccupazioni legittime sui rischi associati alla tecnologia nucleare, è essenziale analizzare razionalmente i vantaggi che questa fonte può offrire nella transizione verso un futuro sostenibile. La sfida climatica che stiamo affrontando richiede una valutazione pragmatica delle nostre opzioni energetiche, oltre i timori del passato e le confusioni concettuali tra uso civile e militare dell’atomo.

La distinzione

Prima di addentrarci nell’analisi dei benefici dell’energia nucleare civile, è cruciale stabilire una distinzione netta e scientificamente rigorosa tra l’uso pacifico e quello militare della tecnologia nucleare. Questa distinzione, spesso offuscata nel dibattito pubblico, è fondamentale per una valutazione razionale della questione.

Il nucleare civile utilizza uranio arricchito al 3-5% di U-235, una concentrazione sufficiente per sostenere una reazione controllata ma completamente inadeguata per scopi militari. Le armi nucleari richiedono uranio arricchito oltre il 90% o plutonio di qualità militare, materiali che prevedono processi industriali completamente diversi e molto più complessi. Una centrale nucleare civile non può fisicamente produrre un’esplosione nucleare: nel caso peggiore, come dimostrato a Fukushima, si verifica una fusione del nocciolo contenuta all’interno delle barriere di sicurezza.

La rivoluzione necessaria

Il cambiamento climatico rappresenta la sfida più urgente del nostro tempo. Gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 e la neutralità climatica entro il 2050 richiedono una trasformazione radicale del nostro sistema ener-

getico globale. Mentre le energie rinnovabili come solare ed eolico stanno crescendo rapidamente, la loro natura intermittente presenta limitazioni significative per garantire una fornitura stabile e affidabile 24 ore su 24.

Una centrale nucleare moderna può operare continuamente per 18-24 mesi senza interruzioni, fornendo energia pulita indipendentemente dalle condizioni meteorologiche o dall’ora del giorno con una resa che supera il 90% rispetto al 20-30% del fotovoltaico ed eolico.

La Francia, che produce circa il 70% della sua elettricità dal nucleare, ha una delle impronte di carbonio più basse d’Europa nel settore elettrico con soli 60 grammi di CO2 per kWh contro gli 820 della Polonia (carbone) o i 400 della Germania. Questo risultato dimostra concretamente l’efficacia del nucleare nella decarbonizzazione del sistema energetico.

Una vista della centrale ucraina di Zaporizhzhia, a rischio per gli attacchi della Russia. Foto Wikimedia.

I progressi tecnologici e i timori del passato

Le preoccupazioni sulla sicurezza nucleare, comprensibilmente amplificate da eventi come Chernobyl e Fukushima, devono essere contestualizzate nell’evoluzione tecnologica degli ultimi quarant’anni. I reattori di Generazione III+ oggi in uso, incorporano sistemi di sicurezza passivi che si attivano automaticamente senza intervento umano o energia esterna, utilizzando principi fisici fondamentali come la gravità e la convezione naturale.

L’analisi statistica della sicurezza nucleare rivela dati sorprendenti spesso ignorati nel dibattito pubblico. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), entrambe organizzazioni dell’Onu, l’energia nucleare presenta uno dei tassi di mortalità per unità di energia prodotta più bassi tra tutte le fonti energetiche.

Inoltre, i moderni sistemi di contenimento sono progettati per resistere a eventi estremi come terremoti di magnitudo 9, tsunami, impatti di aerei commerciali e atti terroristici. Il doppio o triplo contenimento in acciaio e cemento armato di spessore superiore al metro garantisce che anche nel caso remoto di un incidente grave, le radiazioni rimangano confinate.

A Fukushima, secondo i dati dell’Unscear (United nations scientific committee on the effects of atomic radiation), l’incidente ha causato direttamente un solo morto per radiazioni, mentre in Ucraina, dove la maggior parte degli impianti eolici e fotovoltaici sono stati distrutti o trasferiti in Russia, Zaporizhzhia, nonostante le continue profezie apocalittiche, non ha mai subito danni strutturali e la stessa popolazione ucraina può avere energia elettrica anche grazie alle sue centrali nucleari.

I costi

L’economia dell’energia nucleare presenta vantaggi strutturali spesso sottovalutati nel dibattito energetico contemporaneo. Mentre l’investimento iniziale per una centrale nucleare è significativo, tipicamente 6-9 miliardi di euro per un reattore da 1.600 MW, i costi operativi sono estremamente bassi e stabili per 60-80 anni di vita operativa.

Il combustibile nucleare rappresenta solo il 5-10% del costo totale di produzione dell’elettricità nucleare, rendendo questa fonte energetica praticamente immune alle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime che affliggono i combustibili fossili.

La Corea del Sud ha dimostrato come un programma nucleare ben gestito possa fornire energia economica e competitiva grazie alla standardizzazione, alla costruzione in serie e all’esperienza accumulata del settore industriale nazionale.

L’industria nucleare genera, inoltre, un ecosistema economico ad alto valore aggiunto. Una centrale nucleare impiega direttamente 400-700 persone altamente qualificate per tutta la sua vita operativa, oltre a creare un indotto di 1.500-2.000 posti di lavoro nell’area circostante. L’industria nucleare francese, oltre a impiegare circa 220mila persone, genera un fatturato annuo di 46 miliardi di euro, rappresentando un pilastro dell’economia nazionale.

Cartelli di pericolo avvertono della presenza di scorie radioattive. Foto Dan Meyers – Unsplash.

Innovazione scientifica: il nucleare del futuro

Il settore nucleare sta vivendo una rinascita tecnologica senza precedenti, con innovazioni che promettono di rivoluzionare completamente il panorama energetico mondiale. I piccoli reattori modulari (Smr) rappresentano la frontiera più promettente, con oltre 70 progetti in sviluppo in tutto il mondo.

Gli Smr, con potenze comprese tra 50 e 300 MW, possono essere prodotti in serie in fabbrica e trasportati sui siti di installazione, riducendo drasticamente i tempi di costruzione da 10-15 anni a 3-5 anni. La standardizzazione industriale permette un controllo qualità superiore e costi significativamente inferiori.

La tecnologia dei reattori veloci rappresenta un’altra frontiera rivoluzionaria. Questi reattori possono utilizzare come combustibile l’uranio-238, che costituisce il 99.3% dell’uranio naturale moltiplicando le riserve di combustibile nucleare di un fattore 100, rendendo l’energia nucleare praticamente inesauribile per millenni.

La gestione delle scorie

La questione delle scorie radioattive, spesso presentata come un problema irrisolvibile, richiede una valutazione scientifica basata su dati concreti piuttosto che su percezioni emotive. La quantità di scorie ad alta attività prodotte dall’energia nucleare è sorprendentemente piccola: tutto il combustibile esausto prodotto dall’industria nucleare mondiale in 80 anni di operazioni è di 10mila m3 (in confronto, ogni anno noi produciamo 410 milioni di tonnellate di rifiuti tossici, non meno pericolosi per la salute di quelli radioattivi).

La pericolosità delle scorie diminuisce esponenzialmente nel tempo seguendo leggi fisiche immutabili e, dopo 300 anni, la radioattività delle scorie vetrificate è ridotta al livello del minerale di uranio originario. Le barriere ingegneristiche e geologiche dei depositi permanenti sono progettate per durare centinaia di migliaia di anni, garantendo un margine di sicurezza enorme.

La Finlandia ha inaugurato Onkalo, il primo deposito geologico permanente al mondo per scorie ad alta attività, dimostrando che esistono soluzioni tecniche sicure e definitive. Il deposito, scavato nella roccia granitica stabile da 2 miliardi di anni, utilizzerà il principio del confinamento multi-barriera: contenitori di rame che durano 100mila anni, circondati da bentonite che si espande a contatto con l’acqua creando una barriera impermeabile.

Le tecnologie di riciclaggio del combustibile, implementate con successo in Francia da oltre 40 anni, possono ridurre il volume delle scorie del 85% e recuperare il 96% dell’energia ancora contenuta nel combustibile «esausto».

I benefici ambientali

I vantaggi ambientali dell’energia nucleare si estendono ben oltre la semplice riduzione delle emissioni di CO2. L’impronta territoriale del nucleare è la più piccola tra tutte le fonti energetiche: una centrale nucleare da 1.000 MW occupa circa 2-3 km², mentre un parco eolico equivalente richiederebbe 200-300 km² e un impianto solare 50-100 km².

Questa efficienza nell’uso del territorio è cruciale non solo per la rapida occupazione di suolo sul territorio, ma anche per la preservazione della biodiversità e degli ecosistemi naturali. L’espansione massiccia delle rinnovabili richiede enormi quantità di terre, spesso sottraendo spazio ad agricoltura e habitat naturali.

L’energia nucleare non produce inquinamento atmosferico locale: nessuna emissione di particolato fine, ossidi di azoto, biossido di zolfo o altri inquinanti che causano problemi respiratori e cardiovascolari.

Il consumo di acqua per il raffreddamento, spesso citato come problema ambientale, è comparabile a quello di altre centrali termiche e può essere completamente eliminato utilizzando sistemi di raffreddamento a secco, già implementati in diverse centrali moderne in aree aride. La stessa Ipcc, in tutti i suoi schemi di riduzione di contenimento dell’aumento di temperatura, prevede l’intervento del nucleare accoppiato a quello delle rinnovabili.

Lezioni dal mondo

L’esperienza internazionale offre esempi concreti dei benefici del nucleare civile ben gestito. La Svezia ha combinato nucleare e idroelettrico per raggiungere uno dei mix elettrici più puliti al mondo, con emissioni di soli 45 grammi di CO2 per kWh. Il Paese ha mantenuto prezzi dell’elettricità stabili e competitivi per decenni.

La già citata Corea del Sud ha trasformato la sua economia energetica attraverso un programma nucleare ambizioso, passando dal 100% di dipendenza energetica estera negli anni Settanta a una situazione di relativa autosufficienza elettrica. I 24 reattori sudcoreani forniscono il 27% dell’elettricità nazionale con standard di sicurezza eccellenti e costi competitivi.

Anche Paesi in via di sviluppo stanno riconoscendo il potenziale del nucleare. Gli Emirati arabi uniti hanno completato la centrale di Barakah, diventando il primo Paese arabo con energia nucleare civile.

È significativo che paesi come Germania e Belgio, che hanno deciso di abbandonare il nucleare per preoccupazioni di sicurezza, stiano ora riconsiderando queste decisioni di fronte alla crisi energetica e climatica.

Nucleare e sicurezza energetica

La crisi energetica del 2022 ha evidenziato l’importanza della diversificazione delle fonti energetiche e dell’indipendenza da fornitori instabili. L’energia nucleare offre un contributo fondamentale alla sicurezza energetica nazionale ed europea. Una centrale nucleare può operare per 18-24 mesi con un singolo caricamento di combustibile, rendendo il sistema elettrico molto meno vulnerabile a interruzioni delle forniture.

Il combustibile nucleare può essere facilmente stoccato per anni senza degradazione permettendo ai paesi di mantenere riserve strategiche di combustibile nucleare equivalenti a diversi anni di operazione, garantendo l’indipendenza energetica anche in scenari geopolitici complessi.

Una roccia contenente uranio grezzo. Foto Pavan – Unsplash.

Superare i pregiudizi

La transizione energetica europea richiede un approccio tecnologicamente neutro che utilizzi tutte le fonti low carbon disponibili. Non dobbiamo vedere il nucleare in contrapposizione alle fonti rinnovabili, ma come un complesso sinergico.

Escludere a priori il nucleare significa limitare artificialmente le nostre opzioni tecnologiche, rendere più difficile e costoso il raggiungimento degli obiettivi climatici, e perdere opportunità economiche e tecnologiche strategiche. L’energia nucleare non è l’unica soluzione alla crisi climatica, ma è certamente una componente indispensabile di una strategia energetica integrata e sostenibile.

Il futuro energetico dell’Europa e del mondo dipenderà dalla nostra capacità di superare i pregiudizi del passato, distinguere chiaramente tra uso civile e militare dell’atomo, e abbracciare un approccio scientifico e pragmatico alle sfide energetiche. L’energia nucleare civile, con le sue tecnologie avanzate, i suoi standard di sicurezza rigorosi e il suo potenziale di innovazione, rappresenta un pilastro fondamentale per un futuro sostenibile, sicuro ed economicamente competitivo.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali è fisico. Risiede tra Giappone e Corea del Nord lavorando nella ricerca scientifica in campo fisico e nucleare. È una firma storica di MC. I suoi ultimi contributi sono state alcune corrispondenze dall’Iran per il nostro sito in concomitanza con la «guerra dei 12 giorni» del giugno 2025.




Nucleare, civile è possibile? /1

Iran, Russia, Pakistan, India, Israele. Con il mondo sempre sull’orlo di una guerra atomica, ci si pone una domanda: il nucleare civile è un’opzione o un’utopia?  Due collaboratori di MC, entrambi fisici, si confrontano.

«Non è una panacea energetica»

di Mirco Elena

L’energia è indispensabile nelle società umane, che la usano in diverse forme: bruciando combustibili tradizionali, usando fonti rinnovabili (come quella idrica, il fotovoltaico, l’eolico, il geotermico) o sfruttando la scissione del nucleo atomico (ancora oggi uno dei massimi trionfi delle capacità scientifiche ed ingegneristiche umane). Tutte le diverse tecnologie energetiche presentano però sia vantaggi che svantaggi, e sta alla politica valutare le scelte migliori per ciascun Paese.

L’Italia e l’energia nucleare

Da poco, il governo italiano ha deciso di tornare a puntare sui reattori nucleari per approvvigionare la nazione di elettricità, sebbene la popolazione, nei referendum del 1987 e del 2011, si fosse espressa in modo contrario, sull’onda della paura provocata dalle catastrofi di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011). Oggi si ripropone il nucleare dicendo che è assolutamente necessario e che saranno utilizzati nuovi «piccoli reattori modulari» (Small modular reactors, Smr). Il ministro Gilberto Pichetto Fratin e il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ottimisticamente sostengono che il nucleare abbasserà il costo delle bollette, eviterà i blackout, renderà il paese indipendente dall’estero e – infine – sarà pure «sostenibile».

Queste affermazioni, però, convincono poco. Al momento, gli Smr sono solo progetti, e nessuno ne produce. Pertanto, non si sa neppure quanto costerebbero. In mancanza di esemplari funzionanti, non si ha nemmeno idea di quanto sarebbero affidabili, cioè capaci di fornire elettricità con continuità. Da questi parametri dipende molto anche il costo dei chilowattora prodotti. Le speranze negli Smr ricordano parecchio l’entusiasmo con cui – vari decenni fa – si preconizzava l’adozione su vasta scala di un innovativo reattore nucleare «autofertilizzante», incarnato, in particolare, dall’impianto francese «Superphénix» (vedi riquadro a pagina 12).

Resta quindi il fatto che, se i nostri ministri vogliono ridare l’energia nucleare all’Italia, bisognerà puntare ai tipi di reattori già esistenti, in particolare ai grandi impianti, come quello appena realizzato dai francesi a Flamanville (nella bassa Normandia), capace di soddisfare le necessità elettriche di una regione di media grandezza. Esaminando i dati di quel progetto, però se ne scoprono le pecche: il costo del reattore è lievitato di quasi quattro volte, dai 3,3 miliardi di euro previsti ad oltre 13 a fine lavori. Questi si sono conclusi in ritardo di dodici anni, ben oltre i cinque stimati inizialmente. Se questo è capitato ai francesi, che hanno grande tradizione e competenza nel nucleare, viene da domandarsi come riuscirà il governo italiano a fare meglio.

foto Lukas Lehotsky – Unsplash

Gli aspetti da valutare

Prima di realizzare centrali nucleari, l’Italia deve – comunque -valutare aspetti tecnici, finanziari, sociali, ambientali, geopolitici, che raramente sono oggetto di dibattito pubblico. Iniziamo dal rischio di disastro atomico, generalmente ai vertici delle preoccupazioni del cittadino medio. Al mondo ci sono oltre 400 reattori, funzionanti senza troppi problemi da vari decenni. L’unico incidente gravissimo è stato quello di Chernobyl, derivante da manovre irresponsabili degli operatori. Fukushima, invece, è derivato da un maremoto che ha oltrepassato il muraglione di protezione, progettato di altezza insufficiente.

Il rischio è accettabile oppure no? Ci sembrano sagge le parole di Tatsujiro Suzuki, già vicepresidente della Commissione giapponese per l’energia atomica, secondo le quali una nazione, prima di optare per la fonte energetica nucleare, dovrebbe essere disposta ad accollarsi le gravissime conseguenze umane ed economiche del peggior incidente teoricamente immaginabile. Una situazione cui le nostre società non sono preparate a far fronte: un evento rarissimo, poco probabile, ma dagli effetti straordinariamente pesanti.

Altro punto da considerare è l’alto costo dei reattori, che deve essere pagato molti anni prima di poter vendere l’elettricità prodotta. I rischi finanziari sono notevoli, specie nel caso di forti variazioni dei tassi di interesse. Questo è il motivo per cui i pochi reattori realizzati negli ultimi decenni hanno sempre avuto necessità di un forte sostegno pubblico. E noi sappiamo che, in Italia, ogni governo dispone di scarse possibilità di investimento.

Nucleare e rinnovabili

Si confronti questa situazione con le energie rinnovabili, in particolare eolico e fotovoltaico, i cui singoli impianti costano poco, sono alla portata degli investitori privati, si installano in tempi brevi e quindi iniziano presto a ripagarsi. Essi, inoltre, non presentano vulnerabilità strategiche e non possono causare nessun disastro ambientale.

Per comparare l’economicità delle varie tecnologie energetiche, torna comodo il «costo livellato del chilowattora», in sigla Lcoe. Utilizzando i dati forniti dall’azienda di consulenza e gestione finanziaria Lazard (grafico di pag.12) possiamo constatare che l’elettricità da nucleare costa circa tre volte più di quella derivante dal solare fotovoltaico e dall’eolico. Qualche decennio addietro, una differenza di prezzo così elevata avrebbe bocciato quella fonte energetica; oggi pare che i criteri della presidente Meloni, del ministro Pichetto e colleghi siano cambiati. È pure curioso il fatto che venga sottolineato di rado uno dei fondamentali vantaggi delle energie rinnovabili: esse garantiscono un rifornimento di energia molto elevato sia nel tempo (milioni di anni) che in quantità (circa diecimila volte gli attuali consumi dell’umanità). Senza trascurare che queste fonti hanno il difetto di essere soggette a fluttuazioni nella produzione a seconda della disponibilità di sole e vento. Ciò obbliga a realizzare sistemi di accumulo o a tenere pronte centrali di rimpiazzo, ad esempio quelle a gas.

In caso di guerra

L’Europa del 2025 dà segnali di preparazione alla guerra, ma sembra non aver imparato una lezione dal conflitto ucraino. La presenza di impianti nucleari sul territorio (come a Zaporizhzhia) rappresenta una debolezza strategica importante, in quanto un nemico potrebbe danneggiare volutamente un reattore, per spargere nel territorio avversario sostanze radioattive e causare il panico nella popolazione. Il paese attaccato dovrebbe gestire una difficile emergenza, dedicandole risorse umane e materiali, forse arrivando a sfollare intere città. È certo un quadro pessimista, ma non irrealistico, visto ciò che sta succedendo nel mondo. Chi propone il nucleare per l’Italia ci ha mai pensato?

Una pastiglia di uranio arricchito. Foto Wikiimages-Pixabay.

Dal civile al militare

Restando su questioni belliche, c’è da considerare che, se uno Stato dispone dei materiali, delle conoscenze e delle tecnologie necessari per le centrali nucleari, ha davanti a sé la possibilità di intraprendere un percorso di armamento atomico. Infatti, due fasi del cosiddetto ciclo del combustibile (l’arricchimento dell’uranio per aumentare la concentrazione dell’isotopo U-235 e il riprocessamento del combustibile, per recuperare l’uranio residuo e per separare il plutonio creatosi) consentono di ottenere i materiali necessari per produrre un ordigno nucleare. Questa è la strada che, nei decenni passati, hanno seguito vari paesi (India, Pakistan, Israele, Nord Corea e Sud Africa), i quali con la copertura di attività energetiche civili, sono riusciti a dotarsi della bomba.

Altro punto delicato è dato dal fatto che si può decidere di realizzare un impianto di arricchimento dell’uranio, per non dover dipendere da forniture straniere, sempre soggette ad embarghi o sanzioni. Una cosa poco nota è che, una volta raggiunta la concentrazione di circa il 4% di U-235 – richiesta dai reattori di tipo occidentale – si è già fatto metà del lavoro di arricchimento necessario per arrivare agli elevati livelli di purezza in uranio 235 richiesti per realizzare una bomba atomica. Quindi, un impianto giustificato inizialmente da esigenze energetiche civili può, a discrezione del governo in carica, venir impiegato per ottenere il materiale esplosivo costituente il cuore degli ordigni nucleari.

I rifiuti radioattivi

Alla fine della sua vita utile, il combustibile nucleare usato in un reattore non solo contiene materiali potenzialmente utili per realizzare bombe, ma è caratterizzato da una fortissima radioattività, che impone speciali cautele e protezioni. Tale radioattività persiste per tempi assai lunghi (molte migliaia di anni) e questo impone di trovare dei depositi capaci di assicurare che sostanze molto pericolose non vengano mai a contatto con la biosfera. Una delle soluzioni più promettenti appare l’isolamento in profondità nel terreno, all’interno di strutture geologiche particolarmente stabili. In realtà, il compito è più complicato di quanto sembri. Basti pensare che lo stesso atto di scavare tunnel e caverne crea punti deboli nelle rocce. E poi c’è la questione di come fare per avvisare del pericolo che si cela nella terra gli umani che vivranno lì tra decine di migliaia di anni.

La realizzazione di un deposito geologico con elevate caratteristiche di sicurezza interessa anche il nostro Paese: per gestire i materiali risultanti da attività ospedaliere, industriali e pure da scarti e scorie radioattive risalenti ai programmi nucleari bloccati dal referendum popolare del 1987. Una ventina di anni fa, il governo dell’epoca sembrava aver scelto la località di Scanzano Jonico per procedere alla realizzazione del deposito nazionale, ma la rivolta della popolazione ha bloccato tutto, e nessuno ha più osato riproporre la questione. Peccato, perché attualmente queste sostanze pericolose sono stoccate in una sessantina di siti, nessuno dei quali del tutto soddisfacente nei confronti di possibili rischi da attività terroristiche o da disastri naturali. Uno studio ha permesso di individuare una cinquantina di siti potenzialmente adatti a realizzare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, e la scelta dovrebbe avvenire entro la fine di questo decennio, se il governo nazionale troverà la forza di imporsi ai vari comitati «Nimby» (not in my backyard, non nel mio cortile) che rifiutano di accollarsi l’onere di ospitare una struttura di quel tipo. È necessario che tale decisione sia presa prima di intraprendere realizzazioni nucleari su larga scala.

L’energia migliore

Per tutti i motivi esposti sinora ci pare che ripartire con la realizzazione di impianti nucleari non sia la scelta migliore per l’Italia, soprattutto se vogliamo onorare nei tempi previsti gli impegni di decarbonizzazione che abbiamo preso a livello europeo. Velleitarie appaiono le promesse di Pichetto Fratin di avere Smr funzionanti per la fine di questo decennio o l’inizio del prossimo. Assai più praticabile e meno impegnativo sul piano economico è investire su fotovoltaico ed eolico e, allo stesso tempo, lavorare a sistemi di accumulo (batterie, bacini idroelettrici di pompaggio, gas compressi, volani, ecc.).

E ricordiamoci che l’energia migliore in assoluto è quella che non si usa. Ci sono spazi amplissimi per l’eliminazione di sprechi e inefficienze, che rappresentano il settore con il migliore rapporto costo-benefici e con i più brevi tempi di implementazione, oltre ad essere quello che produce maggiore occupazione.

Mirco Elena

 
Il «Superphénix» nel sito nucleare di Creys-Malville, Isère, Francia. Foto Yann Forget – Wikimedia.

Il «Superfenix»

Certi speciali nuclei atomici, detti «fissionabili», possono essere spaccati allo scopo di produrre grandiose quantità di energia (dimostrazione terribile della loro potenza fu la distruzione delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki). Le reazioni di «fissione» sono sfruttate anche nei reattori nucleari per la propulsione navale e per la produzione di elettricità. Già agli inizi degli anni Cinquanta, l’impianto statunitense Ebr-I dimostrò che era possibile realizzare reattori capaci di produrre non solo energia ma anche di generare più combustibile di quanto ne consumassero (da qui l’appellativo di «autofertilizzanti»), grazie ai cambiamenti indotti in speciali materiali posti nelle vicinanze del nocciolo del reattore, ove si svolge la «reazione a catena» che mantiene in funzione il reattore. Si sfrutta il flusso di neutroni proveniente dalle fissioni dei nuclei di combustibile per trasformare nuclei come quello dell’uranio 238 in plutonio 239, che può – a suo volta – fissionare e quindi essere impiegato per generare energia. Si trasforma così qualcosa di pressoché inutile in un prezioso combustibile, così aumentando di un centinaio di volte l’energia complessiva ottenibile dall’uranio.

Questa idea era talmente attraente che in diversi paesi si cercò di realizzare reattori nucleari basati su questo principio. In Francia si partì con il piccolo impianto Rapsodie per passare a un prototipo dimostrativo da 250 MW elettrici e arrivare, infine, al prototipo industriale Superphenix da ben 1.220 MW elettrici, in funzione dal 1985 al 1998. Vari incidenti ne interruppero a più riprese l’attività per lunghi periodi. Le proteste antinucleari e il calo del prezzo dell’uranio spinsero – infine – il governo francese a chiudere l’impianto, ultimo reattore autofertilizzante ad aver operato da allora in Europa. Si infranse così la prospettiva di un futuro nucleare autogenerantesi. Un esempio istruttivo di come le idee tecniche più esaltanti si scontrino spesso con la realtà economico-gestionale-politica.

(M.E.)

Mirco Elena è fisico. Divulgatore scientifico, è membro del consiglio scientifico dell’Unione scienziati per il disarmo (Uspid) e del consiglio direttivo della Scuola internazionale sul disarmo e la ricerca sui conflitti (Isodarco). È un collaboratore di MC.




Etiopia. Inaugurata la maggiore diga d’Africa

Uno sbarramento gigantesco. Un blocco di cemento e acciaio che sbarra uno dei fiumi più lunghi e imponenti del mondo. Ci sono voluti quindici anni per costruirlo e ora è pronto. Il 9 settembre l’Etiopia ha ufficialmente inaugurato la Grand ethiopian renaissance dam (Gerd), la più grande diga idroelettrica dell’Africa. Un’opera colossale che, nelle intenzioni del Governo, dovrebbe garantire elettricità a milioni di etiopi, sostenere lo sviluppo agricolo, trasformare il Paese in un hub energetico regionale e regolare il corso del Nilo Azzurro (il principale affluente del Nilo). L’entusiasmo di Addis Abeba si scontra però con i timori e le proteste dei vicini, in particolare Egitto e Sudan, che vedono nella faraonica infrastruttura una minaccia per la loro sopravvivenza economica e sociale.

L’opera
I lavori sono cominciati nel 2011, nella regione di Benishangul-Gumuz, a quindici chilometri dal confine sudanese. A realizzarla è stata l’italiana Salini Impregilo (oggi Webuild), con un cantiere che ha richiesto migliaia di operai, turni continui e la costruzione di una vera e propria città di supporto. Il risultato è uno sbarramento di dimensioni imponenti. La diga principale, in calcestruzzo compattato, è alta 145 metri e lunga 1.780; accanto si estende una diga di sella (una struttura idraulica secondaria, costruita per integrare quella principale) di cinque chilometri. Il bacino, battezzato Nigat Lake, ha una capacità di 74 miliardi di metri cubi e copre quasi 1.900 chilometri quadrati di superficie.
A pieno regime, le 16 turbine installate genereranno 5.150 megawatt di potenza, con una produzione annua di circa 15.700 gigawattora: un quantitativo sufficiente a triplicare l’attuale disponibilità di elettricità del Paese. L’obiettivo del governo è garantire energia a una popolazione di oltre 130 milioni di persone, di cui circa 60 milioni oggi ancora senza accesso alla corrente, e allo stesso tempo vendere elettricità ai Paesi vicini. Addis Abeba prevede entrate per 427 milioni di dollari tra il 2025 e il 2026, in gran parte grazie a contratti con aziende minerarie.

I benefici
La diga ha già cambiato gli equilibri energetici interni. In questi ultimi anni, il bacino ha iniziato a riempirsi. A settembre 2025 le riserve hanno raggiunto i 64 miliardi di metri cubi, quattro in più rispetto all’anno precedente coprendo, da sola, un terzo della produzione nazionale di energia, con un aumento del 43% rispetto all’anno precedente. Per un Paese che dipende dalle esportazioni di caffè e fiori recisi, la vendita di elettricità rappresenta una nuova fonte di valuta estera, cruciale per finanziare infrastrutture e sostenere la modernizzazione. Non a caso la Gerd è diventata un simbolo del «rinascimento etiope»: campeggia su poster e magneti venduti nei mercati di Addis Abeba e ha raccolto consenso popolare anche grazie a bond diffusi tra i cittadini, che hanno contribuito a finanziare il progetto per cinque miliardi di dollari. Sul piano pratico, la diga dovrebbe contribuire anche alla regolazione del Nilo Azzurro, riducendo le inondazioni stagionali e mitigando gli effetti delle siccità, con benefici diretti per l’agricoltura, settore che occupa il 70% degli etiopi.

Gli equilibri internazionali
Negli anni, però, il sogno etiope è diventato un incubo per i Paesi a valle. L’Egitto dipende per circa il 90% dal Nilo per il suo fabbisogno idrico, il Sudan per il 70%. Entrambi denunciano che un serbatoio di tali dimensioni rischia di compromettere la loro sicurezza idrica, soprattutto in caso di periodi di scarse piogge. Le tensioni non sono nuove. Fin dall’avvio dei lavori si sono moltiplicati i negoziati tra i tre Paesi, ma nessuno ha portato a un accordo vincolante. Una delle questioni più controverse è la gestione del flusso in caso di siccità: il Cairo pretende garanzie precise, Addis Abeba si oppone a vincoli che limiterebbero la sua sovranità. «Se immagazzini 60 miliardi di acqua che prima fluivano in Egitto, non crei un danno?», ha denunciato Abbas Sharaky, professore di Geologia all’Università del Cairo.
Per l’Egitto, la Gerd non è solo un problema idrico ma anche una questione identitaria e politica: il Nilo è considerato «un fiume sacro», legato alla storia stessa della nazione. Vederne le acque controllate dall’Etiopia è vissuto come un affronto. La minaccia di bombardare la Gerd è stata evocata più volte da esponenti egiziani, soprattutto negli anni di maggiore tensione con l’Etiopia. Il caso più noto risale al 2013, quando durante una riunione politica trasmessa per errore in diretta televisiva, diversi leader egiziani parlarono apertamente di possibili azioni militari contro la diga. In quell’occasione l’ex presidente del Parlamento Essam El-Erian e l’esponente del partito al-Wafd Mounir Fakhry Abdel Nour ipotizzarono il bombardamento della diga per impedire all’Etiopia di deviare le acque del Nilo Azzurro. Successivamente, anche alti ufficiali egiziani hanno lasciato intendere che «tutte le opzioni restano sul tavolo», compresa l’azione militare, se il progetto minacciasse la sicurezza idrica dell’Egitto. Addis Abeba ribatte che gli accordi del 1959 tra Egitto e Sudan, che regolavano l’uso del fiume, sono ormai anacronistici e non possono vincolare un Paese che non li ha mai firmati.

Mancano gli accordi
Dietro la diga si gioca anche una partita che va oltre l’acqua e l’energia: riguarda il prestigio regionale, le prospettive economiche e la stabilità politica. Per il premier Abiy Ahmed, reduce dalle difficoltà economiche e dalle ferite della guerra civile con il Tigray, la Gerd è un investimento d’immagine e una promessa di riscatto. Non a caso l’inaugurazione è stata programmata in coincidenza con un summit climatico ad Addis Abeba, in vista della Cop30 in Brasile, per presentare la diga come progetto collettivo e attrarre consensi sul piano africano.
Resta però un’incognita: se il clima dovesse cambiare e le piogge ridursi, le tensioni potrebbero esplodere di nuovo. Senza un accordo condiviso sulla gestione delle emergenze, «la diga della rinascita» rischia di trasformarsi nella diga della discordia.

Enrico Casale




La corsa di Seul. La Corea del Sud tra luci e ombre

Cittadini e visitatori leggono e si riposano lungo il Cheonggyecheon, corso d’acqua recuperato alla capitale coreana dopo un importante investimento pubblico; le sovrastanti lanterne colorate sono state appese per la celebrazione del «compleanno del Buddha». Foto Paolo Moiola.

Miracoli (e incubi) sul fiume Han.
Nella capitale sudcoreana

Dopo la lunga sottomissione all’Impero giapponese e una guerra civile sanguinosa, la Corea è rimasta divisa tra il Nord comunista e il Sud filoccidentale. Negli ultimi settant’anni, Seul ha fatto passi da gigante, pur sacrificando spesso la democrazia. Oggi, la Corea del Sud è una potenza economica, ma i problemi non mancano.

Seul, fine aprile. Alle sette del mattino l’aria è fresca. Sui grandi cartelloni digitali la pubblicità scorre senza sosta, ma le strade di Myeong-dong (dove il suffisso «dong» è traducibile con «quartiere») sono ancora deserte, i negozi e i ristoranti chiusi. Soltanto ieri sera, qui era un flusso ininterrotto di persone, una sequela di bancarelle che vendeva ogni sorta di cibo cucinato al momento (l’acclamato street food coreano). E poi luci e ancora luci di tutti i colori: Myeong-dong è zona di negozi di cosmetici (un’eccellenza della Corea del Sud), vestiti, accessori, giochi, fotografia e, ovviamente, di locali e ristoranti. Insomma, un distretto dello shopping e dello svago. Sono trascorse soltanto poche ore, ma adesso pare di essere stati catapultati in un altro luogo. Tutto è ordine e pulizia.

Sul The Korea Times, per spiegare il suo stupore davanti al decoro del Paese, un professore universitario indiano è ricorso a una citazione: «La pulizia è vicina alla santità». Come accade il più delle volte, l’affermazione è di attribuzione incerta, ma il concetto espresso non è lontano dalla realtà. La Corea è un paese dove i luoghi pubblici – strade, mezzi di trasporto, giardini – sono così immacolati e ordinati da lasciare a bocca aperta. Per non parlare dei bagni pubblici (sempre gratuiti), che – agli occhi di uno straniero – rimandano all’igiene di una clinica o al film di Wim Wenders, Perfect days (ambientato nei bagni pubblici di Tokyo). 

Difficile non collegare questa condizione all’influsso del confucianesimo, la filosofia che permea ogni aspetto della vita dei coreani, indipendentemente dalla loro eventuale affiliazione religiosa.

Senso civico e iper-consumismo

Modernissimi grattacieli si affacciano su una delle più note spiagge di Busan, seconda città della Corea. Foto Paolo Moiola.

Seul, capitale della Corea del Sud, è una metropoli cresciuta attorno al fiume Han (o Hangang) fino a raggiungere i dieci milioni di abitanti, pari al venti per cento dell’intera popolazione coreana (52 milioni, ma – come vedremo – in costante decrescita).

Il modo migliore per raggiungere piazza Gwanghwamun, cuore della capitale coreana, è prendere la metropolitana. Estesa ed efficiente, la metro svela molte cose. Per esempio, il senso civico dei coreani, ma anche una società votata all’iperconsumismo. Tra le molteplici pubblicità che, nelle stazioni e nei vagoni della metro, circondano la folla dei passeggeri, risaltano quelle di cliniche e medici. Qui c’è la reclame di alcuni oculisti, più avanti quella dei dermatologi. «Ma il vero business – ci spiega Han Gyeol, il giovane coreano che ci fa da guida e che si fa chiamare Antonio, il suo nome da battezzato cattolico – è la chirurgia estetica».

Nel frattempo, è il momento di scendere dal vagone, ordinatamente come fanno i coreani. All’uscita della metro, ecco apparire piazza Gwanghwamun, di forma allungata, costeggiata da palazzi moderni e con ampi spazi pedonali. La statua di Sejong il Grande (1397-1450), monarca della dinastia Joseon, famoso per aver inventato l’alfabeto della lingua coreana (lo «Hangul», che sostituì i caratteri cinesi), s’innalza imponente poche centinaia di metri prima della porta del Gyeongbokgung, uno dei palazzi reali costruiti dalla sua dinastia.

Attorno al monumento, l’associazione dei fotoreporter coreani ha allestito la mostra del 61° Korea press photo contest. Quest’anno la foto che ha vinto il concorso raffigura soldati schierati davanti all’edificio principale dell’Assemblea nazionale il 3 dicembre 2024, quando il presidente Yoon Seok-yeol ha dichiarato la legge marziale. I soldati inviati da Yoon si sono trovati ad affrontare le persone accorse per proteggere l’istituzione e permettere ai legislatori riuniti all’interno di respingere la legge. Una notte drammatica nel contesto di una vicenda con molti punti oscuri e che non può essere disgiunta dalla storia del Paese.

Nord-Sud, una ferita non rimarginata

Una storia in cui la democrazia non ha ancora avuto modo di consolidarsi. Quella dello scorso dicembre risulta essere, infatti, la diciassettesima volta che è stata dichiarata la legge marziale dalla fondazione della Repubblica, nel 1948. Inoltre, dalla tregua bellica del 1953, il Paese vive con la spada di Damocle delle azioni ostili della Corea del Nord, Paese fratello ma prigioniero di Kim Jong-un, dittatore tanto folle quanto imprevedibile.

Il confine del 38.mo parallelo, probabilmente il più militarizzato al mondo, è poco distante da Seul. «In questo momento, però, non conviene visitare la zona demilitarizzata (conosciuta con la sigla inglese Dmz, nda)», spiega Han Gyeol. Negli ultimi tempi, le relazioni tra Pyongyang e Seul sono (di nuovo) peggiorate. Oltre alle minacce e alle esercitazioni militari, nell’ultimo anno Kim Jong-un, sostenuto da Pechino e Mosca, ha iniziato a inviare sulla Corea del Sud palloni aerostatici carichi di rifiuti e di escrementi. Di conseguenza, per precauzione, gran parte dei siti visitabili della zona demilitarizzata (nei pressi della città di Paju) sono attualmente chiusi. La Dmz – 250 chilometri di lunghezza, 4 di ampiezza – è il lascito visibile della Guerra fredda e della sanguinosa guerra di Corea, che hanno sancito la divisione tra Nord e Sud del Paese. Una ferita dolorosa che, al momento, pare impossibile da rimarginare, nonostante, dal 1969, Seul abbia istituito il ministero dell’Unificazione (Mou). «No – precisa Han Gyeol -, non credo che la riunificazione avverrà. O, perlomeno, non credo che accadrà nel corso della mia vita».

La tensione permanente con il regime comunista di Pyongyang è stata utilizzata anche da Yoon Suk-yeol, nel suo tentativo di instaurare la legge marziale. Nel discorso televisivo del 3 dicembre 2024, il politico conservatore aveva accusato l’opposizione democratica, maggioritaria al Congresso, di essersi alleata con i comunisti, affermando, tra l’altro: «Cari cittadini, dichiaro la legge marziale d’emergenza per difendere la libera Repubblica di Corea dalle minacce delle forze comuniste nordcoreane e per sradicare le spudorate forze anti stato filo-nordcoreane che stanno saccheggiando la libertà e la felicità del nostro popolo, nonché per proteggere il libero ordine costituzionale».

A causa del suo fallito colpo di stato, il presidente è stato destituito rendendo necessarie nuove elezioni presidenziali previste per il 3 giugno. Eppure, a parte per alcuni, sparuti striscioni elettorali, non percepiamo un clima elettorale. Forse anche per il fatto che la città è distratta dalla preparazione dei festeggiamenti per il «compleanno del Buddha» (Chopail), che quest’anno cade il 5 maggio (una data che cambia in ragione del calendario lunare). È una celebrazione non solo per i quasi nove milioni di buddhisti coreani, ma per tutto il Paese che la classifica come festa nazionale.

Le lanterne di carta colorata – simbolo di luce e speranza, preghiera e ricordo dei defunti – sono appese in tutti i templi, ma spesso pure in vie e luoghi pubblici. Alcune sono appese anche in piazza Gwanghwamun, in direzione opposta rispetto all’entrata del palazzo reale, accanto alla statua dell’ammiraglio Yi Sun-sin (1545-1598). E poi s’infittiscono più avanti, in piazza Cheonggye, dove parte il Cheonggyecheon, un corso d’acqua – è meno di un fiume, ma più di un ruscello – recuperato a partire dal 2003 con un grande e riuscito progetto di riqualificazione urbana e valorizzazione ambientale. Per quasi undici chilometri la gente può passeggiare lungo camminamenti verdi o sedersi nei pressi dell’acqua a conversare o leggere un libro.

Passare dalle camminate lungo il Cheonggyecheon al distretto di Bukchon è facile e piacevole. Bukchon è un vecchio quartiere residenziale, ma è anche un’attrazione turistica perché ospita un «villaggio hanok».

Il termine hanok deriva dalla combinazione di due caratteri cinesi, «han» (che significa «il popolo coreano») e «ok» (che significa «casa»). Di conseguenza, la parola è traducibile come «casa del popolo coreano». O, per dirla con il dizionario locale, «termine usato per riferirsi alle case costruite nello stile architettonico tradizionale coreano distinte dagli edifici in stile occidentale».

Un tempo, le hanok erano case familiari costruite con materiali naturali (legno e pietre) e con carta speciale (per porte e finestre), in armonia con il contesto. Erano caratterizzate da un pavimento riscaldato (ieri come oggi, in casa i coreani non usano scarpe) tramite il calore recuperato dal fuoco della cucina, un patio, un tetto di tegole d’argilla (ma, in passato, anche di paglia per le famiglie meno abbienti). Spazzate via dagli eventi storici (guerre e distruzioni) e dai mutamenti della società (tutte le città coreane sono circondate da altissimi grattacieli, esatto contrario delle case tradizionali), ultimamente le hanok sono tornate di moda, anche se con caratteristiche adattate ai tempi e soltanto per famiglie con redditi elevati.

Originali o ricostruite che siano, le hanok testimoniano armonia, bellezza, tradizione.

Come il percorso lungo il Cheonggyecheon, anche il villaggio hanok è un luogo tranquillo e piacevole che infonde serenità. Tuttavia, sarebbe sbagliato dedurre da questi aspetti esteriori che quella coreana sia una società felice.

Insegna pubblicitaria di un medico all’entrata di una stazione della metro, a Busan; in Corea, le pubblicità di cliniche e medici sono diffusissime; in particolare, vanno per la maggiore quelle della chirurgia estetica, molto praticata dai sudcoreani. Foto Paolo Moiola.

Una società (troppo) competitiva

Secondo il The Korea Times, che cita i dati di alcune ricerche pubbliche del 2023, soltanto il 35 per cento dei coreani sarebbe felice. Il dato trova conferma nel recente rapporto mondiale sull’indice di felicità («2025 World happiness report», University of Oxford). Ebbene, la Corea del Sud si piazza solamente al 58.mo posto su 147 Paesi.

Pressione sociale, competizione esagerata fin dai primi anni di vita e stress lavorativo (è legale arrivare a 52 ore settimanali, l’antisindacalismo è una consuetudine radicata e gli scioperi sono praticamente inesistenti) sono le cause più citate.

«In Corea – ci spiega il professor Kim Sanghyuk -, il divario tra ricchi e poveri è molto forte, e le misure del welfare statale sono deboli, rendendo molto più difficile la vita dei bisognosi. Inoltre, i coreani hanno una forte tendenza al confronto. Questo si riflette nei bassi livelli di felicità e in un elevato tasso di suicidi».

«Il suicidio – ha scritto Kwon Jun-soo, psichiatra all’ospedale della Seoul national university – è la principale causa di morte tra le persone di età compresa tra i 12 e i 39 anni. Con un tasso di fecondità di 0,8 e appena 200mila neonati all’anno, la fertilità ha raggiunto un livello seriamente preoccupante, per non parlare del rapido invecchiamento della popolazione e dell’aumento della solitudine tra gli anziani. I giovani coreani stanno rinunciando a frequentare qualcuno, a sposarsi e ad avere figli». «È così – conferma Han Gyeol -. È vero che in Corea non si fanno più figli. È vero che deteniamo il più alto tasso di suicidio tra i Paesi industrializzati».

È lo stesso quadro che ci dipinge padre Kim Moon-jung, coreano e missionario della Consolata in Messico: «Quando ero bambino – ci racconta via email -, ben più della metà della città era composta da bambini, e ora ben più della metà è composta da adulti e anziani, senza figli. Con l’adozione del capitalismo, la Corea è diventata una società estremamente competitiva. Questo ha permesso al Paese di svilupparsi rapidamente, ma ha anche causato molto stress. Sebbene la vita di molte persone sia diventata più prospera, anche le pressioni sono aumentate. Oggi le persone non hanno tempo per fare altro, se non lavorare sodo per avere una vita migliore. Pertanto, molti coreani non vogliono più avere bambini. Sia per mancanza di tempo, sia per evitare ai figli lo stress imposto da una società troppo competitiva».

Paolo Moiola

Byun Jae-woon con in mano una copia del Kookmin Ilbo, quotidiano coreano nel quale il giornalista ha lavorato per molti anni. Foto archivio Byun Jae-woon.

Korean way of life

Come ha fatto il Paese asiatico a diventare una potenza economica mondiale? Quali costi sociali ha dovuto
pagare per il suo successo? Quali sono le differenze con il vicino Giappone? E come comportarsi con i «fratelli» separati della Corea del Nord? Abbiamo chiesto questo e altro a un giornalista coreano.

In Corea del Sud, salvo poche eccezioni, le montagne sono poco più che colline. Con Byun Jae-woon, giornalista, ci siamo conosciuti durante una camminata nel parco di Seoraksan. Anche lì, per raggiungere la sommità, non si fa molta fatica. Avvantaggiati dalla situazione, un passo dopo l’altro, la nostra conversazione è andata avanti senza affanni fisici. Data la sintonia abbiamo, quindi, deciso di risentirci subito dopo l’appuntamento elettorale del 3 giugno, e così abbiamo fatto.

Le elezioni sono state vinte da Lee Jae-myung, candidato del Partito democratico (Dpk), che ha sconfitto Han Duck-soo, candidato del Partito del potere popolare (Ppp) al potere. Un altro candidato, Lee Jun-seok, fondatore del Partito riformatore ma ex dirigente del Ppp, è arrivato al terzo posto. Ha vinto, sì, l’opposizione, ma sommando i voti ottenuti dai due partiti conservatori la situazione sarebbe stata in parità.

Preso contatto con Byun Jae-woon, che ha lavorato nel quotidiano Kookmin Ilbo (redattore, caporedattore, direttore e – infine – anche amministratore delegato, prima di andare in pensione), gli chiediamo un commento ai risultati elettorali.

«Nei Paesi con un sistema presidenziale – esordisce -, la popolazione è divisa, e i conflitti possono essere rilevanti a causa delle rispettive inclinazioni ideologiche. Personalmente, sono soddisfatto e ho grandi aspettative perché il candidato del partito che ho scelto è diventato presidente, ma chi ha sostenuto altri candidati non lo sarà. Parlando solo dal mio punto di vista, mentre Yoon Suk-yeol, l’ex presidente messo sotto accusa, era un ex procuratore brutale e incompetente, questo presidente, avendo già ricoperto la carica di sindaco e governatore, ha una capacità di governo del Paese quantomeno eccellente. Per questo, penso che aiuterà la Repubblica di Corea a fare un balzo in avanti e ad aumentare il Prodotto interno lordo per migliorare la vita della popolazione. Inoltre, mentre l’ex presidente è nato in una famiglia benestante e ha studiato e cresciuto in un ambiente favorevole, il presidente eletto è nato in una famiglia estremamente povera e si è fatto strada da solo. Dato che conosce la gente comune, è probabile che attuerà politiche a favore dei normali cittadini piuttosto che della classe privilegiata».

Samsung, Lg, Hyundai, Kia sono marchi universalmente conosciuti della Corea potenza economica mondiale. Tuttavia, il loro successo è dovuto anche a un sistema produttivo che privilegia sempre e comunque le imprese a scapito dei lavoratori. Come dimostra l’irrilevanza dei sindacati. 

«In verità, dopo la democratizzazione della vita politica coreana, il potere dei sindacati è notevolmente aumentato. Però, è vero che i passati regimi militari hanno oppresso i lavoratori attuando politiche che favorivano le grandi aziende e che ciò ha contribuito a una rapida crescita del Paese. Era simile all’attuale politica economica cinese, guidata dal governo centrale, che ha soppresso i diritti umani fondamentali dei lavoratori e delle persone in generale per ottenere un’elevata crescita economica. Tuttavia, questo da solo non può spiegare il successo della Corea. I suoi cittadini sono fondamentalmente laboriosi e molto impazienti. Secondo alcuni studi, la natura impaziente dei coreani ha giocato un ruolo decisivo nel balzo del Paese verso l’economia digitale (penso alla diffusione di internet ad alta velocità). Inoltre, la Corea è una società in cui la competizione per conquistare un livello di vita migliore di quello degli altri è molto agguerrita. Credo che questi diversi fattori si siano combinati per contribuire alla crescita del Paese».

In tutto questo, qual è il ruolo del confucianesimo?

«La Corea è stata fortemente influenzata dal pensiero confuciano. La sua influenza persiste ancora, ma è diminuita significativamente rispetto al passato. Il confucianesimo era la dottrina che governava il popolo durante la dinastia Joseon, fermamente applicata dal re e dalla classe dirigente dell’epoca (1392-1910, ndr), ma la situazione era completamente diversa durante la precedente dinastia Goryeo (936-1392, ndr). Ad esempio, sotto la filosofia confuciana della dinastia Joseon, gli uomini avevano un vantaggio assoluto sulle donne, ma prima, durante il regno di Goryeo, uomini e donne godevano di pari dignità. Credo che le tendenze dei coreani assomiglino in realtà a quelle della dinastia Goryeo e che tali tendenze stiano rivivendo dopo il declino del confucianesimo in seguito alla modernizzazione».

Con o senza l’influenza del confucianesimo, il successo economico coreano ha (almeno) due lati oscuri: l’alto tasso di suicidi e il bassissimo tasso di natalità.

«Sono due problemi seri. La Corea è una società fortemente orientata al successo. Per esempio, c’è una spiccata tendenza a conoscere in quale università una persona si sia laureata come standard per giudicare le sue capacità. Poiché è una società in cui la superiorità è determinata dal background accademico e dalla ricchezza, chi rimane indietro prova un profondo senso di sconfitta, che spesso porta alla depressione.

Credo che questo sia il risultato dell’aver seguito il capitalismo della giungla in stile americano piuttosto che la socialdemocrazia in stile europeo. Il partito conservatore coreano è più vicino a un partito di estrema destra, e l’attuale partito al governo, che viene definito un partito progressista, è più vicino a un partito conservatore secondo gli standard europei. Ecco perché la gente non è felice, nonostante sia un Paese economicamente prospero.

Rispetto al tasso di natalità, occorre ricordare che, per integrare i bambini in una società altamente competitiva come quella coreana, è necessario mandarli in buone scuole e buone università, ma poiché l’istruzione è molto costosa fin da piccoli, i novelli sposi sono riluttanti ad avere figli. La maggior parte di loro sono coppie che lavorano e, se hanno figli, non è facile crescerli a causa della mancanza di asili nido pubblici. Sebbene stia gradualmente aumentando, la spesa sociale della Corea è ancora bassa rispetto a quella degli altri membri dell’Ocse e soprattutto rispetto a quella dei Paesi europei».

Per molti occidentali Corea e Giappone si somigliano. In realtà, le differenze sono sostanziali e poi ci sono pesanti ferite della storia – 35 anni di dominazione giapponese (dal 1910 al 1945) – non ancora rimarginate.

«La Corea del Sud e il Giappone sono paesi geograficamente prossimi, ma con molte questioni da risolvere, sia politiche che diplomatiche.

Personalmente, auspico che i due paesi si avvicinino. Se essi unissero le forze, sarebbero in grado di esercitare una maggiore influenza nel mondo. A tal fine, sarebbe però indispensabile che il Giappone mostrasse un atteggiamento più flessibile, che si scusasse ancora una volta per le sue azioni passate e risarcisse le vittime civili.

Tuttavia, non mi pare che abbia alcuna intenzione di farlo e, a meno che il governo di Tokyo non cambi atteggiamento, sarà difficile per quello di Seul cambiare la sua posizione nei confronti del vicino. Premesso questo, nell’ordinarietà non ci sono molti conflitti tra i due paesi. Per esempio, sia da una parte che dall’altra il numero di turisti è aumentato vertiginosamente».

Capita spesso che la Corea del Nord faccia esercitazioni militari con lancio di missili o annunci il rafforzamento dei propri programmi nucleari. Come sudcoreani temete gli ordigni atomici di Pyongyang?

«La Corea del Sud ha un vantaggio schiacciante sulla Corea del Nord in termini di armi convenzionali, fatta eccezione per quelle nucleari. Tuttavia, è vero che le armi convenzionali sono inutili di fronte agli ordigni atomici. Il modo più efficace per evitare la guerra sarebbe che anche la Corea del Sud si dotasse di armi nucleari.

Tuttavia, è probabile che, se il nostro governo sviluppasse programmi nucleari a scopo militare, subirebbe sanzioni internazionali che causerebbero al Paese enormi danni economici. Inoltre, gli Stati Uniti si oppongono a un riarmo nucleare temendo un effetto domino (anche il Giappone lo farebbe e così altri Paesi).

Pertanto, la pace deve essere mantenuta attraverso sforzi diplomatici. Il nuovo presidente ha recentemente sottolineato che si impegnerà per la riconciliazione e la cooperazione intercoreane. Alcuni esperti di politica estera ritengono che il presidente Usa (del quale, però, io non ho una buona opinione) stia cercando di portare la Corea del Nord dalla sua parte per tenere sotto controllo la Cina. A tal fine, è probabile che Trump visiti la Corea del Nord già quest’anno e si prevede che le relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Corea del Nord si stabilizzeranno. Se ciò accadrà, sarà il modo più auspicabile ed efficace per garantire la pace nella penisola coreana».

Al momento, l’obiettivo auspicato da Byun Jae-woon rimane molto lontano. Tuttavia, Seul sta mettendo in campo almeno un po’ di buona volontà. Pochi giorni dopo la sua elezione, il governo del neoeletto presidente ha sospeso alcune sue azioni di disturbo verso Pyongyang per mantenere – è stato scritto – «un impegno con l’opinione pubblica, ripristinare la fiducia nelle relazioni intercoreane e raggiungere la pace nella penisola».

Paolo Moiola

Manifestazione di protesta per le strade di Busan. Foto Paolo Moiola.

Confucio batte tutti
Religione e spiritualità in Corea del Sud

Buddhisti, protestanti e cattolici: la maggior parte dei fedeli coreani appartiene a uno di questi tre gruppi. Su tutto prevale però il confucianesimo, che non è una religione in senso proprio, ma una filosofia a cui ogni coreano – credente e non – fa riferimento. Ne abbiamo parlato con alcuni missionari.

Jeonju. Sul lungo striscione bianco appeso sopra la cancellata d’ingresso campeggia l’immagine di Francesco da un lato e lo stemma del Vaticano dall’altra. Si riescono a distinguere anche alcuni numeri, ma il resto è una scritta in lingua coreana. Tuttavia, non occorre arrabattarsi troppo per avere la sua traduzione. Preso in mano il cellulare e fatta la fotografia, Naver – il principale motore di ricerca coreano – in pochi istanti ci ritorna l’immagine dello striscione in versione italiana: «Signore, dona a Francesco la vita eterna». E, sotto, in caratteri più piccoli: «Papa Francesco muore il 21 aprile 2025».

L’entrata è quella della chiesa di Jeondong, una struttura che assomiglia in modo evidente alla cattedrale di Myeog-dong di Seul. Il motivo è spiegato nella bacheca dove è raccontata la sua storia: le due costruzioni hanno avuto lo stesso disegnatore, padre Poinel.

Nell’arioso e soleggiato piazzale antistante la chiesa si aggirano varie persone, tutte intente a cercare la migliore inquadratura per l’immancabile selfie. Molte di loro indossano sofisticati e colorati «hanbok», gli splendidi abiti tradizionali del Paese, vera passione dei coreani di qualsiasi età come testimoniano i numerosi negozi che questi vestiti li noleggiano.

La chiesa di Jeonju è stata costruita in onore dei martiri cattolici della dinastia Joseon. È sotto la sua dominazione (1392-1910) che gli storici hanno individuato almeno cinque grandi persecuzioni contro i cattolici coreani. Oggi, le cose sono cambiate: la Corea del Sud, infatti, è divenuta il Paese dell’Asia continentale con più cristiani (protestanti e cattolici, con i primi in maggioranza).

Uno striscione all’entrata della chiesa cattolica di Jeonju ricorda la morte di papa Francesco. Foto Paolo Moiola.

I coreani e la religione

Dal centro di dialogo interreligioso di Daejeon, padre Diego Cazzolato, da oltre trent’anni in Corea, dice: «I coreani sembra abbiano con le religioni una relazione complessa. Mentre non ci sono assolutamente situazioni di ateismo dichiarato, l’adesione a una religione particolare sembra essere difficile per molte persone. Infatti, ben la metà della popolazione dichiara, nelle statistiche ufficiali, di non aderire a nessuna Chiesa e anche coloro che aderiscono a una o l’altra delle religioni della Corea – cristianesimo, buddhismo, religioni autoctone tipo buddhismo-won, ceondoismo e sciamanesimo – spesso non partecipano davvero».

In questo elenco di religioni manca il confucianesimo. «In Corea – ci spiega il missionario -, il confucianesimo è onnipresente, però non come “religione” (che è praticata da ben poche persone) ma come base della cultura coreana. Con il suo mandato a ogni persona di essere il “meglio” che possa arrivare a essere, il confucianesimo si manifesta in modo positivo nell’alto livello di coscienza etica della popolazione (fare bene il proprio dovere; lavorare con impegno per il successo della nazione; istruzione a tutti i costi dei figli; rispetto dell’autorità e delle istituzioni; le “regole” basiche delle relazioni interpersonali). A volte, però, esso sfocia nell’autoritarismo (anche nella Chiesa), nel non riconoscere la meritocrazia, in poca libertà personale nelle relazioni sociali e nella politica, in mancanza di senso critico».

«La forma mentis di tutti – conferma padre Gianpaolo Lamberto, anche lui da trent’anni in Corea del Sud – è profondamente confuciana. Confucio ce l’hanno nel sangue. Anche i cattolici, dal vescovo in giù».

Un momento di una celebrazione buddhista. Foto Paolo Moiola.

Croci e chiese evangeliche

Già colpiti dal barocchismo dei templi buddhisti (tra l’altro, amplificato dalla moltiplicazione delle lanterne durante le celebrazioni per il compleanno del Buddha), nelle città coreane abbiamo notato un proliferare di croci, spesso croci rosse al neon. «Ma – ci spiega con fervore padre Gianpaolo – quelle croci rosse da tantissimi anni stanno sulla cima delle chiese protestanti. A volte, si tratta di chiesette di poche decine di fedeli: il numero sufficiente per mantenere un pastore. Comunque, sì, i protestanti sono tanti. Loro sono arrivati a fine Ottocento, quando i cattolici erano esausti per via delle persecuzioni. Hanno cominciato aprendo scuole e università e così hanno attirato molti coreani. Quanto alla qualità… personalmente penso che se Lutero venisse in Corea, si farebbe cattolico!».

Più diplomatico, si mostra padre Diego: «In Corea, il dialogo ecumenico tra cristiani è presente e attivo. Sfortunatamente, la frammentazione delle Chiese protestanti è un ostacolo formidabile. Buona parte di esse sono di matrice “evangelica”, la quale non sente il bisogno di dialogare con le altre Chiese. In tal modo, al dialogo ecumenico partecipa solo circa un terzo delle chiese protestanti – quelle affiliate al Kncc (Korean national conference of churches, a sua volta affiliato al World council of churches) – che operano in Corea del Sud».

Gianpaolo Lamperto (a sinistra) e Diego Cazzolato, padri missionari Imc, da oltre trent’anni in Corea del Sud. Foto archivio Imc Corea.

Non soltanto tecnologia

Entrambi i missionari italiani sembrano aver subito il fascino del Paese. «Per capire la Corea – ci dice padre Gianpaolo -, occorre svuotarsi dagli schemi mentali con cui un occidentale è abituato a giudicare la realtà. Occorre ascoltare, guardare e cercare di capire senza metterci dentro il nostro mondo». Mondi diversi, dunque. Ma come spiegare il fatto che un paese semi sconosciuto in Occidente in pochi anni sia diventato prima notissimo per i suoi prodotti tecnologici e le auto e infine, ai giorni nostri, un paese di successo nei campi più svariati, dalla musica alle serie televisive? 

«Alla base dell’hallyu – l’«onda coreana», come viene chiamata – che sta invadendo il mondo, c’è – spiega padre Diego – il sentimento nazionalista di tutta la popolazione (a sua volta rinforzato dal confucianesimo). L’amore per la nazione è un “sine qua non” per ogni coreano. I coreani sentono come una umiliazione storica il fatto di essere stati colonizzati dai giapponesi fino alla fine della Seconda guerra mondiale; di essere divisi tra Corea del Sud e del Nord; di essere un paese piccolo di fronte ai “giganti” del mondo. Per tutte queste ragioni adesso reagiscono dicendo a tutti che la Corea è invece una grande nazione, con una lunga storia e una grande cultura, degna di stare alla pari con qualunque altro Paese del mondo. E lo fanno, appunto, in vari campi, dallo sviluppo tecnologico, alla musica, ai film, alla cucina. Ognuno nel suo campo è impegnato a far conoscere ed apprezzare la Corea sulla scena mondiale».

La cattedrale di Myeong-dong, a Seul, è luogo simbolo della Chiesa cattolica coreana. Foto Paolo Moiola.

I costi dell’onda

L’«onda coreana» esiste, ma ci sono anche i suoi costi. Uno di questi è il Suneung exam (o «College scholastic ability test», Csat). Questo esame è noto per essere «il primo e più importante obiettivo nella vita di un coreano». Esso determina se uno studente è idoneo o meno all’università.

«L’esame di Stato per accedere a posti importanti nell’amministrazione – spiega padre Diego – è una antica tradizione della Corea, in uso da molti secoli. La sua versione moderna consiste nel famoso “esame di accesso all’università”, che chiunque voglia entrare all’università deve affrontare alla fine del Liceo. È un esame comprensivo di quasi tutte le materie studiate, e si svolge nell’arco di una giornata, normalmente nel mese di novembre. Dal risultato di tale esame, misurato con esattezza fino al centesimo (es. 247,36) dipende, in buona misura, il futuro di ogni studente. È ben diverso poter studiare ciò che uno desidera in una delle grandi università del Paese, o doversi immatricolare in altre università meno rinomate o adattarsi a studiare qualcosa che non rientrava nei piani e desideri personali e con meno aperture positive verso il futuro. La competizione per far bene all’esame, quindi, è estrema, e la preparazione allo stesso diventa di fondamentale importanza (per la gioia delle tante “accademie di studio” che preparano i giovani all’esame).

Il giorno dell’esame il Paese si ferma: la gente va al lavoro un’ora più tardi del solito (per non creare traffico che potrebbe far ritardare qualcuno al luogo dell’esame); la polizia è a disposizione per accompagnare velocemente possibili ritardatari; gli aerei non volano nel tempo previsto per l’esame di inglese, per permettere agli studenti di ascoltare bene il testo inglese proposto per l’esame, ecc.

Le mamme degli esaminandi passano la giornata in chiesa, o al tempio, a pregare per i figli (magari dopo aver frequentato una preghiera speciale per il buon esito dell’esame, durante i cento giorni che lo precedono). E, alla fine di tutto, grande gioia o grande disperazione».

Sul tema, padre Kim Moon-jung, missionario della Consolata in Messico, ha esperienza diretta: «Ricordo che, all’epoca dell’università, per un anno, dormivo soltanto quattro ore al giorno per prepararmi all’esame di ammissione. Un’esperienza che non vorrei ripetere».

Paolo Moiola

Una fedele s’inchina davanti ai due «guardiani» (di solito, raffigurati con un aspetto truce) posti all’entrata del tempio buddhista. Foto Paolo Moiola.

Il respiro delle «haenyeo».
Jeju, l’isola delle donne

La sua natura l’ha portata a diventare una frequentata meta turistica. L’isola di Jeju è però molto altro. È la tempra delle sue «haenyeo», le pescatrici subacquee. La loro epopea è simbolo di riscatto per la tragica storia delle «comfort women» ed è d’esempio per le donne coreane d’oggi la cui condizione è ancora d’inferiorità.

Seogwipo, isola di Jeju. L’ampia vetrata guarda sul lungomare. Certamente un bel vedere, ma all’interno del ristorante le distrazioni sono molte. A capotavola, c’è un piccolo schermo tattile – già incontrato in vari locali – sul quale scorre il menu: immagine, descrizione e costo dei piatti disponibili. Il cliente sceglie attraverso il monitor e il suo ordine arriva direttamente in cucina. Al centro di ogni tavolo – il ristorante è specializzato in carne alla brace e, in particolare, in quella di maiale nero -, si trova una griglia a carbone (sormontata da un tubo d’aspirazione) sulla quale il commensale si cuoce la propria carne.

Non è tutto qui, però. Nel locale si muovono camerieri-robot che portano i piatti dalla cucina ai tavoli e, se trovano un ostacolo davanti a sé, cambiano immediatamente direzione. I camerieri umani ci sono (e, peraltro, debbono correre da un tavolo all’altro), ma sono aiutati da quelli assemblati in fabbrica. Insomma, siamo in un locale che fa sfoggio di molta tecnologica efficienza, ma probabilmente sprigiona meno romanticismo e meno atmosfera di uno tradizionale.

Possiamo vedere questo ristorante come un piccolo esempio di una delle due facce della Corea: quella lanciata a grandi falcate nel futuro. Come lo sono – ma con più obiezioni da parte della popolazione (anche se formulate con «calma confuciana», che è uno dei dieci insegnamenti del filosofo cinese) – le decine di enormi pale eoliche innalzate per chilometri (sia sulla terraferma che in mare) lungo la costa non lontana da qui.

In questa immagine esposta al Haenyeo Museum dell’isola di Jeju, un gruppo di donne (con in mano la tipica attrezzatura) entra nelle acque dell’oceano per andare a immergersi. Foto Haenyeo Museum.

Storie di donne coreane

Non è futuro, ma storica tradizione dell’isola di Jeju la figura delle haenyeo, le «donne del mare». Trattenendo il fiato anche per un paio di minuti (in apnea, quindi), queste donne s’immergono nelle acque dell’oceano fino a dieci metri di profondità per raccogliere dal fondo marino polpi, abaloni, crostacei, ricci, ma anche alghe. Escono in mare in gruppo (anche per limitare i rischi, che – nonostante il meticoloso addestramento e, forse, anche la genetica di queste donne – ci sono sempre) e poi si dividono equamente il pescato, indipendentemente dalla raccolta di ognuna.

Le haenyeo rispettano i tempi del mare e della natura per questo la loro pesca è considerata sostenibile (diversamente da quella di molti altri). Nella tradizione delle sommozzatrici di Jeju rientrano anche alcuni riti sciamanici in onore di Yeongdeung Halmang, la dea del mare.

La scrittrice coreana Han Kung, premio Nobel per la letteratura 2024. Foto John Sears – Wikimedia.

La loro storia è talmente straordinaria che, nel 2016, l’Unesco le ha dichiarate patrimonio immateriale dell’umanità. Le haenyeo ci sono ancora, pur se in numero molto ridotto rispetto alle quindici-ventimila del passato. Nel 2024, il governo provinciale di Jeuju ne ha contate 2.839, ma il novanta per cento di esse aveva 60 anni o più.

Purtroppo, non abbiamo l’opportunità di vederle in azione e, quindi, dobbiamo accontentarci di visitare il museo a loro dedicato. Oltre a foto e filmati d’epoca, alle ricostruzioni delle abitazioni delle famiglie, sono esposti gli attrezzi utilizzati per le immersioni, veramente minimi: maschere subacque, cinte con pesi di piombo per scendere più velocemente, galleggianti con una rete attaccata per raccogliere il pescato.

Le sommozzatrici di Jeju hanno un posto nella storia coreana non soltanto per la loro epopea e le loro straordinarie abilità d’immersione, ma anche per quello che hanno rappresentato per le donne coreane. Con riferimento ad esse, molti hanno addirittura parlato di società matriarcale.

Su un pannello del museo a loro dedicato è scritto: «La vita delle donne di Jeju è molto diversa da quella delle donne in altre parti della Corea. Nella Corea continentale, le donne erano tradizionalmente responsabili delle faccende domestiche, mentre gli uomini si guadagnavano da vivere, a causa della differenziazione dei ruoli di genere. Al contrario, le donne di Jeju si dedicavano ad attività economiche, come l’agricoltura e le immersioni per la pesca dei molluschi, oltre alle faccende domestiche».

Se quella delle haenyeo è una storia di determinazione e coraggio, ne esiste un’altra in cui le donne coreane (e di altri paesi asiatici) sono state umiliate senza mai ricevere scuse ufficiali dai responsabili. Ci riferiamo alle military comfort women («donne di conforto per i militari»), traduzione inglese del termine giapponese jūgun-ianfu. Durante la sua lunga dominazione sulla Corea (dal 1910 al 1945), il Giappone costituì una rete di bordelli in cui le donne venivano costrette a prostituirsi per il «conforto» dei militari. Ebbene, dal 1992, ogni mercoledì, persone di diversa estrazione sociale in Corea del Sud organizzano una manifestazione in memoria davanti all’ambasciata giapponese a Seul.

«È una protesta – ci spiega Byun Jae-woon, giornalista -, che mira ad avere dal governo giapponese scuse ufficiali e un risarcimento per le donne che furono ridotte in schiavitù sessuale dall’esercito nipponico e subirono uno sfruttamento fisico e psicologico. Tuttavia, l’atteggiamento del Giappone non è mai cambiato. Nel frattempo, le vittime hanno continuato a morire e, a quanto mi risulta, oggi ne rimangono poche».

Una protesta, questa, le cui modalità ricordano quelle delle «madres de Plaza de Mayo», a Buenos Aires, in Argentina. Dal 1977, le Madri s’incontrano ogni giovedì alle 15,30 in Plaza de Mayo, nella capitale argentina, davanti alla Casa Rosada, per girare in tondo, in una manifestazione pacifica e altamente simbolica con cui esse chiedono giustizia per i loro figli e figlie scomparsi durante l’ultima dittatura argentina.

Ceremony for unveiling comfort woman statue in Seoul – International Memorial Day For Comfort Women – August 14, 2019
Namsan, Yongsan-gu, Seoul, Ministry of Culture, Sports and Tourism. Korean Culture and Information Service, Korea.net (www.korea.net)
Official Photographer : Kim Sunjoo

La resistenza della società patriarcale

A parte gli estremi delle «haenyeo» e delle «comfort women», ad oggi, al successo economico mondiale della Corea del Sud non è corrisposto un eguale successo delle donne coreane, ancora limitate in una società dalle strutture patriarcali. I numeri dei report internazionali sembrano confermare la situazione. Secondo l’«Indice del soffitto di vetro» (Glass ceiling index 2025, «The Economist») sulla condizione lavorativa delle donne, la Corea del Sud è al 28.mo posto tra i 29 paesi appartenenti alla Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). A sua volta, l’«Indice sulla disparità di genere» (Global gender gap index 2024, «World economic forum») colloca il paese asiatico al 94.mo posto su 146.

Kim Sang-hyuk, già professore alla Università nazionale dei trasporti, ci dice: «La Corea è fortemente influenzata dal confucianesimo e credo che la discriminazione di genere abbia avuto origine da esso. Se ci liberiamo del confucianesimo, la discriminazione di genere si ridurrà».

«Bisogna sempre fare riferimento al confucianesimo dominante – ci conferma padre Diego Cazzolato, missionario in Corea -, dove la donna ha un ruolo “strutturalmente” inferiore a quello dell’uomo. In più, potrei dire che un movimento femminista degno di tale nome in Corea non si è mai sviluppato. Per cui le donne sembrano accontentarsi di essere “belle” il più possibile, e di avere un loro ruolo ben ritagliato in famiglia. Tuttavia, devo anche aggiungere che adesso le giovani mogli riescono ad ottenere in casa una certa parità, in quanto anche gli uomini vengono paritariamente coinvolti nelle faccende di casa e nel badare ai figli. Non è un cambiamento da poco».

In effetti, la rivincita delle donne coreane è già cominciata. Non ci riferiamo soltanto al movimento femminista delle «4B» (dove «bi» – «no», in coreano – è l’iniziale dei quattro principi del movimento: niente matrimonio, niente parto, niente appuntamenti, niente sesso), ma anche e soprattutto ad Han Kang, la scrittrice sudcoreana che, nel 2024, è stata insignita del premio Nobel per la letteratura, prima volta per una donna asiatica.

Peraltro, Han Kang ha dedicato uno dei suoi romanzi – «Non dico addio» – proprio a Jeju e sono sempre due donne (Gyeong-ha e In-seon) a far rivivere una rivolta avvenuta sull’isola tra il 1948 e il 1949 e repressa nel sangue dalle autorità dell’epoca. «Per la sua intensa prosa poetica – recita la motivazione del Nobel -, che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana».

Paolo Moiola

Il sorriso di una giovane signora coreana intenta a giocare. Foto Paolo Moiola.

Corea del Sud. Cronologia essenziale

Dai Tre regni alle elezioni presidenziali di giugno 2025

57 a.C – 661 d.C.
È il periodo dei «Tre regni di Corea»: Baekje, Goguryeo e Silla. Quest’ultimo finirà con l’avere il sopravvento sugli altri due.

661-935
Munmu è il trentunesimo re di Silla dal 661 al 681. Gli storici sono soliti identificare nella sua figura il primo sovrano del periodo definito del Silla unificato, cosiddetto per aver inglobato i regni di Baekje (nel 660) e Goguryeo (nel 668).

Maschere esposte presso il Museo nazionale della Corea, a Seul. Foto Paolo Moiola.

936-1392
Sono i secoli del regno di Goryeo che subentra a Silla. In questo periodo il buddhismo viene dichiarato religione di Stato. Ad esso succede la dinastia Joseon.

1392-1910
Sono i secoli della dinastia Joseon, l’ultima e più longeva dinastia della Corea. Fondata dal generale Yi Seong-Gye, che stabilì la capitale a Hanyang (l’odierna Seul), il regno prese il nome di Joseon dall’omonimo stato che aveva dominato la penisola coreana in tempi antichi.
Durante il periodo Joseon, viene incoraggiato il radicamento degli ideali e delle dottrine confuciane cinesi nella società coreana, e il neoconfucianesimo venne installato come ideologia di Stato della nuova dinastia. La dinastia termina con il 26.mo re, Gojong, che nel 1897 diviene il primo imperatore dell’Impero coreano, cui pongono fine fine i giapponesi nel 1910. 

1397-1450
Re Sejong il Grande, quarto sovrano della dinastia Joseon, introduce lo «hangul», l’alfabeto coreano usato per scrivere la lingua coreana. Esso sostituisce il sistema di scrittura cinese, basato sugli «hanja» e usato fino a quel momento dalle élite colte del Paese.

Prezioso reperto cartaceo esposto nel Museo, nella capitale sudcoreana Seul. Foto Paolo Moiola.
 

1784-1866
In Corea viene lanciato il movimento cattolico con l’organizzazione della prima chiesa a Seul da parte di Yi Seung-hun (1756-1801) e dei suoi compagni convertiti. Nel 1801, Chiesa cattolica coreana è soggetta alla prima grande repressione da parte del governo (la persecuzione Shinyu) in cui vengono uccise più di 300 persone. Yi Seung-Hun diventa il primo martire cristiano, decapitato l’8 aprile del 1801. Altre persecuzioni contro i cattolici avvengono nel 1839 (persecuzione di Kihae) e nel 1866 (persecuzione di Byungin).

1904 (novembre) – 1945 (15 agosto)
Nel 1904 viene firmato un trattato di protettorato con il Giappone, nel 1910 il trattato di annessione. L’impero giapponese dominerà sulla Corea per trentacinque anni, fino al 15 agosto del 1945. Per tutta la durata della dominazione, Tokyo attuerà la sistematica umiliazione della cultura coreana, inclusa la distruzione di palazzi, templi buddhisti, libri.

1930-1945
Sono gli anni delle «military comfort women» (jugun ianfu, in giapponese). Si stima che le donne (non soltanto coreane) coinvolte in questo sistema di schiavitù sessuale siano state 200mila.

1945, luglio-agosto
Alla conferenza di Potsdam (luglio 1945), a un mese dalla fine della Seconda guerra mondiale, i negoziatori delle potenze vincitrici stabiliscono che il 38° parallelo diventi il confine temporaneo tra la Corea del Nord (controllata dall’Unione Sovietica) e la Corea del Sud (controllata dagli Stati Uniti). L’inizio della Guerra fredda congelerà questa situazione.

1945, 7 settembre
Il generale dell’esercito Usa Douglas MacArthur proclama che «tutti i poteri del governo sul territorio della Corea a Sud dei 38 gradi di latitudine Nord e sulla sua popolazione saranno per il momento esercitati sotto la mia autorità». In seguito al proclama, il governo militare dell’esercito degli Stati Uniti in Corea (Usamgik) diviene l’organo governativo ufficiale per tre anni, fino alla costituzione della Repubblica di Corea (Roc) il 15 agosto 1948.

1948 (maggio-luglio)
Sotto il controllo delle Nazioni Unite, il 10 maggio del 1948 si tengono le elezioni nella sola Corea del Sud. A luglio viene approvata la Costituzione: nasce la Repubblica di Corea (Rok). Syngman Rhee, uomo degli Usa, sarà il primo presidente (e dittatore) del Paese fino al 1960.

1948-1949
Tra il 3 aprile 1948 e il maggio del 1949 nell’isola di Jeju avviene un’insurrezione guidata da gruppi di sinistra che si oppongono alla divisione del paese in due. Si stima che un numero imprecisato di persone – i numeri variano dalle 14mila alle 100mila – perda la vita a causa della repressione dell’esercito sudcoreano a guida Usa e di un gruppo paramilitare di estrema destra. È una carneficina di pescatori e povera gente, donne e bambini. Il motivo della repressione è la presunta simpatia verso le idee comuniste da parte degli insorti. Nel 2000 viene istituita una commissione nazionale per far luce su quegli avvenimenti di cui il presidente Roh Moo-hyun chiederà perdono. Alla vicenda storica di Jeju, il premio Nobel Han Kang dedicherà il suo ultimo romanzo «Non dico addio».

1950 (25 giugno) – 1953 (27 luglio)
Il 25 giugno del 1950 la Corea del Nord di Kim Il-sung (appoggiata dall’Unione Sovietica di Stalin e dalla Cina di Mao) invade la Corea del Sud. È l’inizio della guerra di Corea. Il conflitto durerà tre anni, provocando un olocausto in termini di numero di vite perse: circa tre milioni di coreani (tra militari e civili), oltre un milione di «volontari» cinesi e 36,516 soldati americani perirono durante i combattimenti. Questi terminano nel luglio del 1953 con la firma di una tregua, tuttora in vigore.

1961-1979
Il 16 maggio del 1961 il generale Park Chung-hee compie un colpo di stato, dissolve il Parlamento, impone la legge marziale e forma un Consiglio supremo per la ricostruzione nazionale. Il generale riesce a trasformare il paese in una potenza economica. È sotto il suo governo che nascono i grandi conglomerati industriali e finanziari a conduzione familiare (i «chaebol»), organizzati «secondo principi di lealtà e integrità ideologica». I suoi anni al potere sono però segnati dall’autoritarismo. Il 26 ottobre 1979 Park viene assassinato dal direttore dei servizi segreti coreani.

1965 (22 giugno)
Dopo quattordici anni di discussioni, vengono ristabilite normali relazioni diplomatiche tra Corea e Giappone.

1980-1988
Al generale Park Chung-Hee subentra con un colpo di Stato il generale Chun Doo-hwan che instaura una nuova dittatura. Contro di lui si solleva un movimento popolare a Gwangju. Gli scontri e la successiva repressione ad opera dell’esercito sudcoreano portano a un numero di vittime stimato tra le diverse centinaia ed alcune migliaia (18 maggio 1980). La storia è raccontata da Hang Kang nel romanzo «Atti umani».
Anche nel periodo di Chun Doo-hwan prosegue la crescita economica della Corea.

1988
La Corea ospita i giochi delle ventottesime Olimpiadi.

1991 (14 agosto)
Kim Hak-soon (1924-1997) è la prima donna coreana a testimoniare pubblicamente la sua esperienza come «military comfort woman» per gli occupanti giapponesi. Nel dicembre del 1991, Kim denuncia il governo giapponese per i danni subiti durante quegli anni.

1993-1998
Kim Young-sam è il settimo presidente della Corea e – soprattutto – il primo a formare un governo non legato ai militari.

2005 (1° dicembre)
Viene istituita una commissione governativa – «Commissione per la verità e riconciliazione» – per indagare sui fatti storici delittuosi avvenuti dalla dominazione giapponese (1910) alla fine della dittatura (1993).

2024
La scrittrice coreana Han Kang vince il Premio Nobel per la letteratura. Tra i suoi romanzi, tradotti in tutto il mondo: «La vegetariana», «Atti umani», «Convalescenza», «Non dico addio», «L’ora di greco».

2024, 10 aprile
Alle elezioni per l’Assemblea nazionale (unicamerale), il Partito democratico (Dpk) ottiene 171 seggi su 300. Il Partito del potere popolare (Ppp), conservatore e al governo, soltanto 107.

2024 (3-27 dicembre)
Il 3 dicembre il presidente conservatore Yoon Suk-yeol dichiara la legge marziale. Sei ore dopo l’Assemblea nazionale la annulla. Il 14 dicembre viene avviato un procedimento di impeachement e nominato presidente ad interim il primo ministro Han Duck-soo. Il 27 dicembre, a soli dodici giorni dalla nomina, anche questi viene rimosso accusato di non aver voluto promulgare le misure contro l’ex presidente e sua moglie. Sia Yoon Suk Yeol che Han Duck-soo appartengono al conservatore Partito del potere popolare (Ppp).

2025 (24 marzo)
La Corte costituzionale respinge l’impeachment del primo ministro Han Duck-soo, reintegrandolo come presidente ad interim, un ruolo che gli era stato assegnato dopo che l’allora presidente Yoon Suk-yeol era stato sospeso per aver dichiarato la legge marziale.

2025 (4 aprile)
La Corte costituzionale coreana si esprime a favore della rimozione definitiva del presidente conservatore Yoon Suk-yeol. Il verdetto trova l’unanimità dei suoi otto giudici.

2025 (3 giugno)
L’affluenza alle urne per le elezioni presidenziali anticipate raggiunge il 79,4%, la più alta degli ultimi 28 anni, a dimostrazione del coinvolgimento dei coreani in un periodo di sconvolgimenti politici. Lee Jae-myung, candidato del Partito democratico (Dpk), vince con il 49,42% delle preferenze. Han Duck-soo, candidato del Partito del potere popolare (Ppp) al potere, ottiene il 41,15%. Un altro 8,34% va al Partito riformatore, fondato da Lee Jun-seok, ex dirigente del Ppp.

2025 (4 giugno)
Il presidente Lee Jae-myung giura davanti all’Assemblea nazionale. Rimarrà in carica per cinque anni.

2025 (11 giugno)
Dopo aver interrotto la distribuzione di volantini antiregime, la Corea del Sud interrompe anche le sue trasmissioni di propaganda – attuate tramite altoparlanti posti sul confine – anti Pyongyang.

Paolo Moiola

Fonti principali: Yonhap News Agency; Young Ick Lew, «Brief History of Korea»; Britannica.com.

Ha firmato il dossier

Paolo Moiola, giornalista, redazione Missioni Consolata. Ha viaggiato in Corea del Sud tra aprile e maggio 2025.

Hanno collaborato: Byun Jae-woon*, giornalista; Kim Sang-hyuk, professore universitario; Han Gyeol, guida turistica e insegnante; Kim Moon-jung, missionario della Consolata in Messico; Diego Cazzolato, missionario della Consolata in Corea; Gianpaolo Lamperto, missionario della Consolata in Corea.

(*) In Corea, il cognome precede il nome proprio e spesso quest’ultimo è composto da due caratteri.

Una giovane coppia di coreani con vestiti tradizionali (hanbok) si fotografa davanti alla chiesa cattolica di Jeonju. Foto Paolo Moiola.



Guerra latente in Kashmir

L’India ha accusato il Pakistan per l’attentato islamista del 22 aprile scorso nel Kashmir indiano. Nella regione, contesa da 80 anni, il conflitto a bassa intensità tra le due potenze nucleari, si è impennato per alcuni giorni, facendo temere una nuova guerra.

Quando è stato ucciso, Sushil Nathaniel, assicuratore di Indore, stato del Madhya Pradesh, nell’India centrale, era in vacanza con la sua famiglia. Si trovava nello Stato di Jammu e Kashmir, nella regione Nord occidentale del Paese, quella che il ministero del Turismo, a Delhi, presenta come la «Svizzera dell’India».

Era il 22 aprile, e pare che fino agli ultimi istanti, l’uomo abbia dato testimonianza della sua fede cristiana.

L’attentato islamista

Nella valle di Baisaran, vasta area verdeggiante circondata da pini, sulle propaggini meridionali della cittadina di Pahalgam, quel 22 aprile era iniziato come tanti altri giorni: i turisti scattavano foto sui pony, si godevano un picnic sotto il sole, i venditori locali servivano cibo di strada con la semplicità di sempre.

Poi, all’improvviso, un gruppo di terroristi armati hanno aperto il fuoco sulla folla inerme, compiendo uno degli attacchi più gravi contro i civili che il Kashmir abbia visto negli ultimi dieci anni.

Il massacro, attributo a gruppi separatisti di ideologia jihadista con base in Pakistan, ha avuto una connotazione anche religiosa. Jennifer, la moglie di Nathaniel, avrebbe poi riferito che i terroristi armati hanno chiesto all’uomo quale fosse la sua fede. Alla risposta: «Sono un cristiano», gli hanno chiesto d’inginocchiarsi e di recitare il «Kalima» (la professione di fede islamica). Nathaniel ha confessato di non conoscerlo, così gli hanno sparato alla testa a sangue freddo, davanti ai familiari.

Durante il funerale a Indore, il vescovo Thomas Mathew Kuttimackal non ha esitato a usare per lui la parola «martire».

Sushil Nathaniel è stato ucciso con altri ventiquattro uomini indù e con un musulmano che aveva cercato di fermare un terrorista. Altre decine di persone sono state ferite.

Le origini del conflitto

Il massacro ha sconvolto lo Stato del Kashmir, non solo per la sua portata, ma anche per ciò che ha simboleggiato: la rottura di una pace fragile, un colpo devastante per l’economia e il ritorno della paura in una regione che ha visto alternarsi fin dall’indipendenza di India e Pakistan dal Regno Unito, nel 1947, periodi di pace e altri di guerra.

Alle origini del conflitto, una contraddizione storico politica e religiosa: quando, nella partition che sancì l’indipendenza dall’Impero britannico, si decise di dare vita a due nazioni – una per la maggioranza indù, l’India, una a maggioranza musulmana, il Pakistan -, il maharaja che in quel momento guidava il regno del Kashmir scelse l’India. Questo pur andando contro il desiderio della popolazione kashmira, in prevalenza musulmana.

Da lì sorse la conflittualità tra gruppi che, come diceva il Mahatma Gandhi, avevano convissuto per duemila anni «come figli di un’unica madre, la madre India».

Il Kashmir è stato un focolaio di conflitti sin dal 1947, generando quattro guerre aperte tra India e Pakistan (nel 1947-48, nel 1965, nel 1971, e nel 1999) e tensioni persistenti.

Mohammed Taqi, editorialista del quotidiano pachistano «Daily Times», a proposito della strage e delle sue conseguenze, ha scritto: «La guerra per procura cominciata in Kashmir nel 1947 rimane un pilastro della strategia di difesa pachistana». Secondo gli analisti, il conflitto in Kashmir aumenta periodicamente di intensità quando crescono le frizioni fra i due Paesi dotati di arma nucleare, Pakistan e India.

Oggi, la regione è divisa in tre porzioni principali: una è Jammu e Kashmir, amministrata dall’India; un’altra è Gilgit-Baltistan e Azad Jammu e Kashmir, appartenente al Pakistan; la terza è Aksai Chin, controllata dalla Cina dal 1962.

Il Kashimir indiano disponeva di un’autonomia speciale garantita dalla Costituzione del 1947, ma, nel 2019, il governo centrale di Delhi l’ha revocata. Lo Stato, unico a maggioranza musulmana (il 68% su una popolazione locale di 14,5 milioni di abitanti), è divenuto un «territorio dell’Unione», cioè amministrato dal governo federale, tramite un rappresentante dell’esecutivo. Una decisione che ha creato proteste e disordini locali, e ha generato ulteriore senso di distanza e di alienazione nella popolazione dal governo centrale.

Questa situazione ha aumentato l’instabilità interna e i rischi di radicalizzazione violenta, specialmente tra i giovani. Nell’area, infatti, i gruppi jihadisti ed estremisti già in passato hanno proliferato e organizzato attentati.

La diga di Baglihar, nota anche come Progetto idroelettrico di Baglihar, sul fiume Chenab nel distretto di Ramban dello Stato di Jammu e Kashmir. | © Draskd_flickr.com

Un «atto di guerra»

L’attacco terrorista nel Kashmir indiano ha avuto alcuni effetti immediati: sul versante interno, si è registrato il crollo del turismo, e l’aumento della tensione sociale e politica nella regione di confine.

In secondo luogo ha generato una nuova esplosione del conflitto tra le due potenze nucleari,  con conseguenti schermaglie militari lungo la «linea di controllo», la frontiera provvisoria che divide la regione.

Tra i punti nodali messi nuovamente in discussione, anche quello della condivisone delle acque del fiume Indo e dei suoi affluenti. L’India, accusando il governo pachistano di sostenere e foraggiare i gruppi terroristi, ha definito l’attacco del 22 aprile «un atto di guerra», e ha adottato una serie di misure di ritorsione come la chiusura del suo spazio aereo, il ritiro dei visti e dei propri diplomatici dal Pakistan.

Attribuendo la responsabilità al gruppo pachistano Lashkar-e-Taiba, organizzazione designata dalle Nazioni Unite come «terrorista», il Primo ministro indiano, Narendra Modi, ha concesso alle forze armate indiane piena libertà di rispondere all’attentato.

Le forze di sicurezza hanno quindi demolito le case dei militanti sospettati dell’attacco di Pahalgam, mentre l’esercito ha dispiegato truppe nel Kashmir meridionale intensificando arresti nei villaggi vicini.

L’esercito indiano ha dichiarato di aver distrutto nove «campi terroristici» in Pakistan, mentre attacchi con droni hanno raggiunto la periferia di città pachistane ben oltre la regione, come Karachi e Lahore.

Islamabad ha dichiarato che 31 civili sono stati uccisi dagli attacchi indiani e da scontri a fuoco lungo il confine. Dall’altra parte, Nuova Delhi ha aggiunto che almeno 12 suoi cittadini sono stati uccisi dai bombardamenti che anche il Paese rivale, nel frattempo, ha attuato.

Il Pakistan, negando le accuse indiane di un suo sostegno ai gruppi jihadisti, ha chiesto un’indagine internazionale, ma gli eventi sono ben presto degenerati in un’escalation.

Le reciproche rappresaglie hanno fatto temere lo scoppio di una nuova guerra in Asia meridionale. E solo le pressioni della comunità internazionale e la mediazione degli Usa hanno generato una fragile tregua.

Pakistan India preghiera | © Parrocchia Nostra Signora Regina

La preghiera dei bambini

«Consideriamo la tregua tra India e Pakistan come frutto della preghiera dei bambini», ha detto padre Qaisar Feroz, frate cappuccino e parroco alla chiesa di Nostra signora Regina degli angeli, Bhai Pheru, alla periferia di Lahore, nel Punjab pachistano, il cui territorio è stato colpito da bombe indiane, creando grande spavento tra la gente.

Il parroco ha raccontato che, in seguito a quel bombardamento, il 10 maggio, un gruppo di bambini e famiglie si è riunito davanti alla Grotta mariana nella parrocchia di Bhai Pheru.

I frati cappuccini e le suore francescane hanno celebrato con la comunità parrocchiale un rosario per la pace. Alla fine della preghiera, i presenti hanno liberato alcune colombe come simbolo dell’ardente desiderio dei bambini, che reggevano cartelli per dire: «Sì alla pace, no alla guerra».

«Al termine del rosario – racconta il frate – è arrivata la grande sorpresa dell’annuncio del cessate il fuoco tra India e Pakistan.  Ora speriamo che questa tregua regga e che si possa costruire una pace giusta e duratura tra le parti».

La regione del Kashmir pachistano, a livello ecclesiale, è una porzione di territorio dell’arcidiocesi di Islamabad- Rawalpindi. Nel territorio vi è una missione retta dai Missionari oblati di Maria immacolata. I cristiani in Pakistan, hanno detto questi, incoraggiano il dialogo e la pacificazione perché «la violenza è una sconfitta in ogni circostanza e in ogni tempo».

Kashmir Srinagar cattolici | © Diocesi di Jammu-Srinagar

Marce per la pace

Dall’altro lato della frontiera, il vescovo Ivan Pereira, della diocesi indiana di Jammu-Srinagar, ha rimarcato che «i fedeli cattolici del Kashmir hanno pregato incessantemente per la pace nella regione» e «hanno camminato per le strade, accanto agli altri uomini di buona volontà, indù e musulmani, con fiaccole accese per far brillare la fiamma della riconciliazione e della pace».

Con i suoi 9mila fedeli, la comunità cattolica nel Kashmir indiano porta il suo messaggio di pace tra la maggioranza musulmana. Notando «il grave e vile attacco alla sacralità della vita, compiuto su gente innocente che viveva serenamente un tempo di vacanza», il vescovo stigmatizza «il tentativo di quanti vogliono destabilizzare le relazioni tra India e Pakistan», e ricorda la missione della comunità cattolica nello Stato dell’India nordoccidentale: «Portare pace, armonia, fratellanza, e promuovere la dignità di ogni persona, senza distinzioni di cultura o religione».

La comunità cristiana, nella sua articolazione delle diverse confessioni, lo fa, anche e soprattutto, attraverso le scuole che da oltre un secolo accolgono studenti per il 99% musulmani.

La guerra dell’acqua

In seguito all’attacco del 22 aprile, l’India, per rappresaglia, ha riacceso l’antica disputa sulla condivisione delle acque con il Pakistan, inserendo la questione nel pieno del conflitto.

Citando preoccupazioni per la sicurezza nazionale e la necessità di far valere i propri diritti ai sensi del Trattato sulle acque dell’Indo, le autorità indiane hanno annunciato la sospensione dei flussi d’acqua dai fiumi orientali – Ravi, Beas e Sutlej – verso il Pakistan.

Firmato nel 1960 grazie alla mediazione della Banca mondiale, il Trattato sulle acque dell’Indo, regola la distribuzione delle acque di sei fiumi del bacino dell’Indo tra India e Pakistan.

Mentre l’India controlla i fiumi orientali, deve consentire ai fiumi occidentali, incluso l’Indo stesso, di scorrere verso il Pakistan. Qualsiasi tentativo di alterare questo equilibrio è stato storicamente considerato un atto provocatorio e illegittimo.

Il Pakistan ha condannato duramente l’iniziativa, definendola «guerra dell’acqua», mentre il Comitato per la sicurezza nazionale di Islamabad ha definito «vigliacca e illegale» l’interruzione o la deviazione dei flussi d’acqua. La decisione dell’India illustra un preoccupante cambiamento: lo sfruttamento dei fiumi come strumento del conflitto.

L’azione dell’India segna una violazione della fiducia in aree già estremamente sensibili dal punto di vista geopolitico.

Tuttavia, anche Nuova Delhi potrebbe ritrovarsi intrappolata nel suo stesso gioco. L’Indo, che si snoda per oltre tremila chilometri, è il fiume più lungo del subcontinente, e nasce nel Tibet cinese, rendendo la Cina un attore chiave nel controllo delle risorse idriche.

Considerando anche il Brahmaputra, altro importante fiume che nasce in Cina irrigando il Nord Est dell’India e si ramifica in Nepal e Bangladesh, la geopolitica regionale dell’acqua è ampiamente influenzata da Pechino, il che espone l’India a una crescente vulnerabilità.

Usare il dominio dei fiumi nella contesa tra nazioni, trasforma «l’oro blu» in fattore politico e geopolitico. Gli osservatori internazionali chiedono una mediazione urgente tra India e Pakistan su questo versante per prevenire una crisi umanitaria su vasta scala.

Shikara. Imbarcazioni per turisti
 | © Scott-Collison_flickr.com

Il crollo del turismo

Migliaia di turisti sono fuggiti dalla valle del Kashmir nel giro di 24 ore dall’attacco del 22 aprile, e le prenotazioni alberghiere sono state cancellate in massa. Negozianti e guide locali, che dipendono interamente dal turismo stagionale, si sono ritrovati senza lavoro.

La zona tutt’intorno a Pahalgam, sempre brulicante di turisti, oggi è deserta. Prima dell’attacco, le stime del governo locale del Jammu e Kashmir indicavano che oltre 3,5 milioni di turisti avevano visitato la valle nel 2024 e il flusso era in crescita.

Le compagnie aeree avevano aumentato il numero di voli, mentre gli hotel stavano ampliando la loro capacità, mentre l’economia locale registrava un incremento.

Ora le shikara, le gondole kashmire, tradizionali imbarcazioni di legno usate per le gite turistiche sui laghi del Kashmir, un tempo affollate di gente, giacciono inutilizzate sulle rive del lago Dal, a Srinagar, in attesa di passeggeri che non arrivano più. I gondolieri stanno a braccia conserte, precipitati nello sconforto.

Negli ultimi anni il turismo era al centro della narrazione di Nuova Delhi per un «nuovo Kashmir»: sicuro, aperto ed economicamente vivace. Campagne pubblicitarie scintillanti e investimenti infrastrutturali miravano ad attrarre visitatori e a segnalare un ritorno alla pace.

L’attentato di Pahalgam, seguito dallo scontro militare tra India e Pakistan, ha gettato un’ombra sul sogno di pace e prosperità del Kashmir. E, ora nonostante la tregua, le ferite interne rimangono aperte e sanguinati.

«Il cessate il fuoco può aver fermato i missili, ma chi fermerà il dolore nei nostri cuori?», nota padre Shaiju Chacko, responsabile delle pubbliche relazioni della diocesi di Jammu-Srinagar, raccontando tutto il dolore della gente kashmira.

Per il popolo del Kashmir, il conflitto indo-pachistano non è solo un conflitto tra due Paesi, ma rappresenta la lotta tra la speranza e la disperazione.

Paolo Affatato

Gli esercitiin campo

Il Kashmir è una delle zone più militarizzate del mondo, con 500mila soldati schierati. È una regione in cui agiscono anche gruppi guerriglieri islamisti di varia provenienza.

Fra i gruppi armati locali, vi sono formazioni che chiedono l’indipendenza, isolati sia da Delhi che da Islamabad; vi sono poi sigle di militanti nati e addestrati in Pakistan e Afghanistan, come «Lashkar-e-Taiba», con membri kashmiri, in nome di un’ideologia panislamica.

Si tratta di gruppi che hanno compiuto attentati terroristici, sostenuti o spesso «infiltrati» dall’intelligence pachistana (anche se Islamabad nega ogni rapporto con loro).

Cronologia

  • 1820 – 1947: l’intero Kashmir è governato dai maharajah indù della dinastia Dogra.
  • 1947: l’ultimo maharajah Hari Singh chiede l’indipendenza. Il territorio è caratterizzato da un’unica lingua, il kashmiri (lingua dardica parlata in India e Pakistan) e dalla religione islamica.
  • 1947: prima insurrezione musulmana a Poonch, l’India invia le truppe e annette il Kashmir.
  • 1962 – 1963: conflitto tra Cina e India per il controllo della parte Nord occidentale del Kashmir, che si conclude con un accordo di spartizione.
  • 1965: seconda guerra indo-pachistana del Kashmir: si infiltrano paramilitari dal Pakistan per favorire una insurrezione nel Kashmir indiano.
  • 1971: terza guerra indo-pachistana. L’esercito dell’India interviene a sostegno dei guerriglieri indipendentisti bengalesi.
  • 1999: quarta guerra indo-pachistana, provocata dallo sconfinamento di truppe pachistane oltre la linea di controllo.

Paolo Affatato




Alta tensione nel Corno d’Africa

Dopo la guerra nel Tigray, che ha visto Etiopia ed Eritrea alleati, si sono risvegliati antichi attriti.  Gli equilibri con gli altri Paesi dell’area sono instabili e poco chiari. I due Stati appoggiano le reciproche opposizioni per indebolire l’avversario. Analisi di una situazione complessa.

La tensione è di nuovo alta tra Etiopia ed Eritrea. Addis Abeba e Asmara sono tornate a non parlarsi, a minacciarsi, a sostenere i reciproci nemici. Le armi, al momento, tacciono, ma basta una scintilla per far riaccendere il fuoco e far ripiombare l’area in un nuovo e, si prevede, devastante conflitto.

Le tensioni tra i due Paesi sono antiche e affondano le radici nella storia (si veda pag. 27). La crisi attuale, però, risale alla fine della recente guerra nel Tigray (2020-2022). Un conflitto nato, paradossalmente, sotto un segno opposto. Nel 2018, a Gedda (Arabia Saudita), i due Paesi hanno firmato uno storico accordo di pace promosso dal premier etiope Abiy Ahmed e dal presidente eritreo Isayas Afewerki. L’intesa aveva portato, dopo decenni di rapporti freddi, a una riconciliazione e a un riavvicinamento senza precedenti. Lo scoppio della guerra del Tigray ha quindi visto Addis Abeba e Asmara dalla stessa parte. E, infatti, l’esercito eritreo si è quasi immediatamente schierato a fianco di quello etiope e delle milizie Amhara contro i reparti del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Alla fine dei combattimenti, però, si sono avvertiti i primi scricchiolii.

Accordo con esclusione

«L’accordo di pace siglato dal governo etiope e dal Tplf a Pretoria nel 2022 – spiega Corrado Cok, analista dell’European council for foreign relations – è stato condotto in modo bilaterale tra governo etiope e tigrini, escludendo gli eritrei, nonostante essi fossero stati parte attiva nel conflitto. Ciò ha cominciato a intaccare i rapporti tra le due nazioni. Il premier Abiy aveva però urgenza di chiudere la guerra, nonostante sul terreno fosse in una situazione di vantaggio, per tacitare, da un lato, le frange più oltranziste del suo governo e, dall’altro, per ridurre il costo in vittime e armamenti».

Da quel momento, dichiarazioni fatte da entrambe le parti hanno progressivamente aumentato la tensione. Incendiaria è stata la presa di posizione del premier Abiy Ahmed sul diritto dell’Etiopia ad avere uno sbocco sul Mar Rosso. «Questo tipo di dichiarazioni – continua Cok – ha allarmato tutti gli Stati costieri che confinano con l’Etiopia e, in particolare, l’Eritrea. Si è accesa un’escalation diplomatica. Asmara, temendo che Addis Abeba avesse mire sui suoi porti, ha cercato di consolidare un fronte unito contro le ingerenze etiopi stringendo i rapporti con Somalia ed Egitto, nemici tradizionali dell’Etiopia. L’Eritrea ha poi rafforzato le relazioni con l’etnia maggioritaria dell’Etiopia, gli Amhara, che ha relazioni tese con il governo di Addis Abeba. Stessa strategia è stata seguita dal premier etiope che, a sua volta, ha ospitato il convegno dell’opposizione eritrea. Si è creata quindi una sorta di spirale di dichiarazioni e alleanze che ha aumentato notevolmente il livello della tensione tra i due Paesi».

The President of Sudan’s Transitional Sovereignty Council (TSC) General Abdel Fattah al-Burhan (R) welcomes Ethiopia’s Prime Minister Abiy Ahmed during an official visit in Port Sudan on July 9, 2024. (Photo by AFP)

Lotte interne al Fronte

Molti analisti hanno interpretato questa tensione crescente come il preludio a uno scontro armato. I presupposti c’erano tutti. L’Eritrea ha mobilitato la riserva delle sue forze armate e l’Etiopia ha schierato reparti nella regione dell’Afar, non lontano dal porto eritreo di Assab, che molti etiopi considerano parte del proprio territorio.

A ciò si sono aggiunte le tensioni all’interno del Tplf, teatro di una lotta di potere tra due figure chiave: Getachew Reda, che fino a poco tempo fa ha ricoperto la carica di presidente ad interim della regione del Tigray, e Debretsion Gebremichael, presidente del Tplf. Il conflitto è emerso dopo il 14° Congresso del Tplf che si è tenuto nell’agosto 2024, durante il quale Debretsion è stato rieletto leader e Getachew, insieme ai suoi alleati, è stato sospeso ed espulso dal partito. Getachew ha criticato il congresso definendolo illegittimo e non conforme alle normative elettorali. Le tensioni si sono aggravate quando Debretsion ha richiesto le dimissioni di Getachew e dei suoi sostenitori dall’amministrazione ad interim, accusandoli di tradire gli interessi del Tigray.

La spaccatura ha portato a una paralisi amministrativa, con ciascuna fazione che governa autonomamente le proprie aree di influenza. Le tensioni si sono estese anche all’ambito militare, con la fazione di Debretsion che ha assunto il controllo di parti della capitale regionale e di altre città chiave.

«Secondo una serie di rapporti – spiega Luca Puddu, docente di storia dell’Africa all’Università di Palermo – sembrerebbe che il governo eritreo, venendo meno all’inimicizia pluridecennale che aveva contraddistinto i rapporti tra Asmara e il Tplf, abbia oggi contatti con l’ala dissidente di Debretsion Gebremichael, mentre Getachew Reda avrebbe un’interlocuzione privilegiata con il governo federale ad Addis Abeba».

Strategia Eritrea

«La politica di Asmara è coerente con la linea che ha sempre seguito nei confronti dell’Etiopia – continua Puddu – ovvero il corteggiamento delle periferie per evitare che vi sia un forte potere centrale ad Addis Abeba che possa minacciare l’integrità territoriale dell’Eritrea. Da qui i rapporti con il Tplf e con le milizie Fano nella regione dell’Amara».

«Ci sono stati di sicuro incontri tra Asmara e la fazione di Debretsion – osserva Cok -. Nessuno sa per certo fino a che punto le due parti si siano avvicinate. Va però detto che le truppe eritree presenti nel Tigray non hanno né approfittato della situazione di dissidio all’interno del Tplf né cercato di fermarla. Anche se, in caso scoppiasse un nuovo conflitto tra Etiopia e Tplf, ci sarebbe con ogni probabilità un supporto eritreo sia ai dissidenti del Tplf sia ai gruppi Amhara che, già ora, stanno portando avanti una guerriglia contro l’esercito di Addis Abeba».

Queste dinamiche sono ben note al premier etiope Abiy Ahmed. Non è un caso che, per disinnescare il dissidio tra Debretsion e Reda, il primo ministro abbia nominato Tadesse Worede come nuovo capo dell’amministrazione ad interim del Tigray nell’aprile 2025. Secondo gli analisti dell’agenzia stampa Reuters, Tadesse, ex comandante del Tplf durante la guerra del 2020-2022, è una figura neutrale e ha promesso di concentrarsi sul ritorno degli sfollati e sulla smobilitazione delle forze armate. Tuttavia, la fazione di Debretsion ha espresso resistenza a questa nomina, sostenendo che rappresenta «un’interferenza del governo federale negli affari del Tigray».

Anziano davanti abitazione

Che fa la Somalia

Il premier etiope Abiy ha portato avanti una simile strategia anche in Somalia. Il governo di Mogadiscio controlla solo una parte minima del Paese e deve mantenere un equilibrio tra le potenze confinanti, che hanno diverse ambizioni sul suo territorio. «Da qui nasce il riavvicinamento con l’Etiopia – osserva Puddu -. Un riavvicinamento che, però, non ha contorni chiari. Mentre il presidente somalo viaggiava ad Addis Abeba per riallacciare le relazioni diplomatiche e accettare le truppe etiopi nella futura missione di pace multinazionale per la Somalia, il suo ministro degli Esteri si trovava al Cairo, dove l’Egitto dichiarava l’inammissibilità dei tentativi dell’Etiopia di acquisire un accesso diretto al mare. Questo rende evidente come esistano diverse agende all’interno del governo federale somalo, il quale gioca su più piani per contenere l’espansionismo etiope, evitando al contempo uno scontro aperto».

Equilibri regionali

Se la situazione è complessa sul piano nazionale, ancora di più lo è a livello regionale. Etiopia ed Eritrea si muovono con i mezzi della diplomazia per stringere legami con alleati internazionali. Asmara ha ottimi rapporti con l’Egitto, che vede nell’Etiopia una minaccia.

Il Cairo considera la «Grande diga del millennio», che gli etiopi stanno costruendo sul Nilo Azzurro, un pericolo per il Paese perché potrebbe limitare l’afflusso di acqua al Nilo, da cui gli egiziani dipendono per l’approvvigionamento idrico.

Negli ultimi anni, Asmara si è avvicinata anche al governo sudanese del presidente al-Burhan, offrendo un supporto militare attivo nell’addestramento e nell’intelligence al governo di Khartoum (ora trasferito a Port Sudan). Nella crisi sudanese, l’Etiopia ha invece stretti rapporti con le Rsf, le milizie guidate da Mohamed Hamdan Dagalo, noto come «Hemetti», che si oppongono al governo centrale (cfr. MC aprile 2025).

Posizioni che si riflettono anche nelle alleanze con i Paesi del Golfo. Qui, Addis Abeba, così come il Somaliland, è vicina agli Emirati arabi uniti, mentre Arabia saudita e, in misura minore, Qatar continuano a offrire un sostegno attivo all’Eritrea.

In questi giochi entrano in scena anche altri attori esteri, come la Turchia. «Va detto che non vi sono agende coerenti su base nazionale – sottolinea Puddu -. C’è un continuo tentativo di bilanciare i diversi interessi in gioco. L’Arabia Saudita è stata certamente vicina all’Eritrea in passato, così come gli Emirati arabi uniti, soprattutto durante la guerra in Yemen. Tuttavia, hanno anche sostenuto la transizione in Etiopia, elargendo generosi prestiti alla Banca centrale etiope. Lo stesso si può dire della Turchia.

Il governo turco ha ingenti investimenti in Somalia e sta contribuendo alla ricostruzione dell’apparato di sicurezza del Paese, ma, al contempo, ha importanti rapporti economici con l’Etiopia, come dimostra la vendita dei droni turchi al governo di Addis Abeba. Di conseguenza, il governo turco, come altri governi della regione, cerca di mantenere un equilibrio tra queste diverse istanze».

Naturalmente, gli equilibri sono possibili finché la politica regionale, pur attraversata da tensioni, non degenera in una guerra aperta. «Se dovesse scoppiare un conflitto su larga scala tra Etiopia ed Eritrea – conclude Puddu -, inevitabilmente si cristallizzerebbero delle alleanze più definite, almeno finché durassero le ostilità. In tal caso, è presumibile che la Turchia continuerebbe a fornire assistenza militare all’Etiopia tramite la vendita di droni, mentre altri Paesi dell’area potrebbero sostenere lo sforzo militare eritreo per evitare un’espansione etiope nell’arena geopolitica del Mar Rosso».

Enrico Casale

Mercato

Una lunga storia di conflitti
Cugini che non si amano

La storia delle guerre tra Etiopia ed Eritrea è una delle più complesse e tormentate del Corno d’Africa, segnata da decenni di occupazione, guerriglia e nuovi conflitti. Dalla metà del Novecento a oggi, il rapporto tra i due Paesi è passato da una difficile convivenza forzata a una lunga guerra, fino alla fragile pace firmata nel 2018 e alle nuove e recenti tensioni.

Tutto ha inizio nel 1952, quando l’Onu decide di federare Eritrea ed Etiopia, allora guidata dall’imperatore Hailé Selassié. La decisione, spinta soprattutto dagli interessi geopolitici degli Stati Uniti in funzione antisovietica, ignora però le spinte indipendentiste eritree. Dieci anni dopo, nel 1962, Selassié scioglie la federazione e annette l’Eritrea come provincia etiope, provocando la nascita del movimento armato di liberazione.

Comincia così una guerra lunga trent’anni (1961-1991), condotta inizialmente dal Fronte di liberazione eritreo e poi, dal 1970, dal Fronte di liberazione del popolo eritreo (Eplf). Dopo la caduta del Derg – il regime militare marxista-leninista guidato da Menghistu Hailé Mariam – e la presa del potere in Etiopia da parte del Fronte popolare rivoluzionario democratico (Eprdf) guidato da Meles Zenawi (alleato dell’Eplf che combatte il regime del Negus Rosso in Tigray), l’Eritrea ottiene l’indipendenza de facto nel 1991, sancita nel 1993 da un referendum che decreta la nascita ufficiale dello Stato eritreo.

La pace è breve. Nel 1998 scoppia una nuova guerra tra Etiopia ed Eritrea, stavolta per una disputa territoriale sul confine. Il conflitto è sanguinoso: si stima che siano morti tra i 70mila e i 100mila soldati. Nonostante gli accordi di cessate il fuoco del 2000 e la firma dell’Accordo di Algeri, le tensioni continuano per anni, alimentate dal rifiuto etiope di accettare l’arbitrato internazionale che assegna zone del confine all’Eritrea. I rapporti tra i due Paesi restano congelati: nessuna guerra dichiarata, ma neppure una pace reale.

Solo nel 2018, con l’arrivo al potere del premier etiope Abiy Ahmed, la situazione si sblocca. Abiy riconosce l’accordo di confine e firma la dichiarazione di pace con il presidente eritreo Isaias Afewerki. L’evento vale ad Abiy il Premio Nobel per la pace nel 2019. L’accordo non porta a una normalizzazione dei rapporti commerciali e diplomatici, e molte questioni rimangono irrisolte. Dal 2020, la guerra in Tigray rimette in discussione la fragile pace regionale. Il conflitto vede l’Eritrea schierarsi al fianco del governo federale etiope contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), nemico storico di Asmara, ma anche vecchio alleato nella guerra contro Menghistu. Le truppe eritree sono accusate di gravi crimini di guerra, alimentando nuove tensioni e rendendo la pace tra i due Paesi ancora una volta precaria.

E.C.