Cari missionari, lettere dai lettori

Usukhjargal

Usukhjargal è un simpatico bimbetto di 7 anni, che abita in una gher (la tradizionale tenda mongola) alla periferia di Arvaiheer, capoluogo polveroso della provincia dell’Uvurkhangai, in Mongolia, tra le montagne Khangai e la steppa che dirada verso il deserto. Ha l’occhio vispo di un bambino pieno di vita, mentre scende la collina stringendo la mano callosa di papà Jargalsaikhan che da tre anni aiuta noi missionari con i lavori manuali.

Sette anni fa i medici avevano sconsigliato alla mamma di portare a termine la gravidanza, sulla base di (presunte) mal-
formazioni, o più probabilmente perchè prevedevano un parto difficile, che avrebbe creato loro fastidi. Ed eccolo qui ora, saltando e correndo nel cortile della missione, con le immancabili gote rosse e il sorriso sulle labbra. I genitori sono stati così felici di averlo avuto che l’hanno ritenuto un dono di Dio e hanno chiesto per lui il battesimo quando aveva poco più di un anno.

È stato tra i bimbi del primo gruppo del nostro asilo informale ospitato in una gher dal 2013. L’asilo e iniziato con lui ed è un progetto che si sta rivelando molto positivo: sono molte le famiglie che per povertà ed emarginazione non riescono ad iscrivere i propri figli alle scuole materne statali. Così abbiamo pensato di crearne una con mezzi molto semplici e poco dispendiosi, valorizzando gli elementi culturali più sentiti, come appunto l’abitare nelle gher.

Usukhjargal adesso frequenta la seconda elementare, ma continua a venire tutti i giorni alla missione, dove si unisce agli altri bambini del doposcuola. In un’altra gher calda (anche quando fuori fa meno trenta) e accogliente, bambini e ragazzi delle scuole vengono a fare i compiti e a giocare, assistiti da due signore della comunità.

Il volontariato qui è ancora una novità, ma queste due mamme hanno capito che possono rendersi utili con quello che sanno fare e sono di esempio a tutti. Una di loro è Otgonbayar, la mamma di Usukhjargal. Cerchiamo così di promuovere la cultura della gratuità che fa ancora fatica ad affermarsi in un paese che sta emergendo da 70 anni di comunismo.

Due volte alla settimana Usukhjargal (insieme a tutti gli altri bambini e adulti che lo desiderino) viene a farsi la doccia alla missione, dove da otto anni è attivo un servizio di docce e bagni pubblici gratuiti. Nelle gher ovviamente non c’è acqua corrente e l’igiene personale è dunque ridotta al minimo, per non dire che è molto sacrificata.

All’asilo e al doposcuola cerchiamo di provvedere cibo buono e salutare, per supplire alle carenze vitaminiche di un’alimentazione poco variegata e talvolta insufficiente.

Un giorno, mentre Usukhjargal faceva la fila per lavarsi le mani prima di merenda, ho visto un bambino che gli bisbigliava all’orecchio. Mi sono avvicinato e ho sentito dire: «Sai che bello, mio papà adesso non beve più! Alla sera vediamo insieme la tv e non ci sono più urla e oggetti che volano dentro la  nostra gher…». È infatti un vero cammino di guarigione quello che il papà dell’amichetto di Usukhjargal ha intrapreso con un gruppo di uomini che si trovano regolarmente alla missione per cercare insieme una via che li faccia uscire dall’alcolismo, vera piaga sociale da queste parti. La missione è qui per tutti e può mettere in atto questi segni di prossimità e aiuto se è sostenuta da persone di buona volontà.

Guardando giocare Usukhjargal, non posso che ringraziare Dio per tutti coloro che in questi anni ci stanno permettendo di prenderci cura di lui e di tanti altri come lui, piccoli e grandi. È il miracolo della solidarietà che si rende concreto attraverso la Fondazione Missioni Consolata Onlus. Grazie.

Giorgio Marengo
Arvaiheer, 16/02/2018

Grazie per il dossier sui migranti

Buongiorno,
ho conosciuto la vostra bellissima rivista qualche anno fa, quando sono passato un po’ per caso alla Consolata con i miei studenti in visita di istruzione a Torino. Innamorato dei contenuti e del vostro stile, ho volentieri fatto l’abbonamento alla rivista, che ricevo e leggo sempre con attenzione.

In particolare ho trovato davvero fatto bene, sintetico ma insieme esaustivo, il dossier pubblicato nel numero di gennaio a firma di Daniele Biella, circa i migranti e il reportage dalla nave Aquarius. Poiché tratto spesso con i miei alunni temi che puntano a sensibilizzarli e a superare i molti, troppi luoghi comuni sull’argomento, vorrei poter diffondere il dossier a titolo informativo, anche in ambito comunale (sono consigliere comunale nel mio paese e accogliamo alcuni richiedenti asilo, ma con purtroppo molti pregiudizi tra i cittadini).

Dino Caliaro
27/01/2018

 

Grazie di cuore. Le ricordo che dal nostro sito è possibile scaricare il dossier come pdf e poi stamparlo.

Preghiere e novene

Gentilissimi,
seguo sempre con grande interesse la vostra rivista. Volevo dare un mio piccolo contributo inoltrandovi alcune preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze. Ovviamente non è mia intenzione dirvi cosa dovete o non dovete pubblicare, solo queste preghiere mi hanno aiutato molto e credo possano aiutare anche tante altre persone. Così ho pensato di suggerirvene alcune, che magari già conoscerete o già avrete pubblicato, sperando arrivino a quante più persone possibile. Sperando di fare cosa gradita ringrazio in anticipo per l’attenzione e porgo distinti saluti

Monia
27/02/2018

Cara Monia,
le confesso che quando ho ricevuto la sua email con la lista di ben ventitré novene e preghiere (da quella – a me ignota – alla «Sacra Spalla» alla «Via Crucis» – che con le novene ha ben poco da spartire), il primo pensiero è stato «un altro spam. Cestina». Poi ci ho ripensato perché poteva diventare un’opportunità per questa pagina di dialogo con i lettori. Il tema della preghiera, sul quale ormai da oltre un anno sta scrivendo don Paolo Farinella, sta suscitando molto interesse perché tocca il cuore della vita cristiana. In questo contesto è abbastanza chiaro che stiamo cercando di proporre uno stile di preghiera biblicamente e liturgicamente fondato, provando a evitare devozionalismi e pietismi, pur rispettando la vera «pietà popolare» e le sue ricche tradizioni.

Noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II abbiamo ricevuto un dono grandissimo: quello dell’Eucaristia – la «messa» – che è passata da «rito e obbligo» a «celebrazione e incontro» di salvezza nello spezzare la Parola (finalmente comprensibile a tutti) e il Pane. L’Eucarestia è al cuore della nostra preghiera, tutto il resto viene da quel fare memoria viva della Pasqua e alla messa tutto ritorna per diventare offerta gradita a Dio.

Le «preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze», possono anche aiutare, ma hanno il rischio di mantenere in noi una falsa concezione di Dio, un Dio che ha ripetutamente bisogno di essere supplicato e che ascolta solo se si recitano con fedeltà e insistenza certe formule.

Che contrasto tra la prolissità e ripetitività di molte novene e la sobrietà della preghiera di Gesù. Ai discepoli che gli chiedono «insegnaci a pregare» (Lc 11,1-4), lui offre solo la brevissima preghiera del «Padre», senza fare promesse, senza mettere condizioni né sul numero di volte né per quanti giorni né sulle modalità (in piedi, seduti, inginocchiati…).

Quando Gesù dorme sulla barca nella tempesta (Mc 4, 37-40 – figura della Chiesa e di noi nelle difficoltà della vita) ai discepoli spaventati non dice di pregare i salmi, di fare rituali, di recitare speciali invocazioni: chiede solo di avere fede.

E quando nella stessa barca vanno in panico perché non hanno «pane» (Mc 8,14-21) li rimprovera perché «non hanno capito» il miracolo del pane, cioè l’Eucarestia, il «Pane di vita» spezzato per noi e sempre presente in mezzo a noi. Anche per noi, nelle acque tempestose dei nostri tempi, la forza viene dalla fede che sostiene la nostra preghiera, non dal numero e tipo di preghiere che recitiamo. Gesù ci ha fatto una promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Impariamo a camminare con lui, sapendo che c’è sempre, anche se a volte sembra dormire.

Galeano

Eduardo Galeano (AFP files / Pabro Porciuncola)

Solo adesso ho letto l’articolo su Galeano, contenuto nel numero di dicembre della rivista. Sono allibito nel leggere le dichiarazioni di Gianni Minà sul Venezuela, e soprattutto a leggerle su una rivista come Missioni Consolata. Quanto viene detto dai giornali occidentali, compreso il nostro Avvenire, sulla disastrosa situazione dei diritti umani dei venezuelani viene trattato con disprezzo dal giornalista. Le recenti elezioni della Costituente sono state vinte da Maduro? Ma queste elezioni sono state illegali, il presidente Maduro non aveva nessun diritto di eliminare il Parlamento, eletto comunque democraticamente, in un paese dominato prima da Chavez e adesso dall’ex camionista Maduro, e di sostituirlo con la Costituente. L’opposizione non ha potuto fare niente per fermare lo strapotere dei chavisti e decine di persone sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni di protesta in difesa della democrazia. I venezuelani sono alla fame, già decine di bambini sono morti di stenti e la colpa non è certo dei cosiddetti «servizi di intelligence nordamericani». La colpa è dell’arroganza del potere e dell’incapacità di far fronte ai bisogni della popolazione, ridotta a fare lunghissime code di fronte a negozi che non hanno quasi nulla da vendere. D’altronde, Gianni Minà è ben conosciuto per la sua amicizia con Fidel Castro prima e adesso con Raùl, il fratello che ha preso il potere. I cubani stanno un po’ meglio dei venezuelani, per loro fortuna, ma Gianni Minà non dovrebbe dimenticare che i Castro hanno accumulato un’immensa fortuna nel povero paese caraibico; l’attuale presidente Castro controlla direttamente tutta l’economia cubana, e ne ha approfittato largamente. Non è la prima volta che su Missioni Consolata vengono pubblicati articoli molto discutibili, già anni fa avevo letto le lodi della «presidenta» cilena Michelle Bachelet che. come tutti sanno, è una sostenitrice della «salute riproduttiva», cioè dell’aborto. Ma che linea ha scelto Missioni Consolata? Il fondatore sarebbe d’accordo se fosse ancora vivo? Perché non vi leggete gli ottimi articoli che Avvenire ha dedicato alla crisi venezuelana? E l’Avvenire non è certo al servizio delle «agenzie di informazione nordamericane». Da una rivista cattolica mi aspetto come prima cosa un’informazione corretta, non di regime. Distinti saluti.

Franco Eustorgio Malaspina
Milano, 03/02/2018

Caro Sig. Malaspina,
grazie di averci scritto. Le confesso che mi ha sorpreso che sia «allibito» di fronte a quanto ha scritto Minà sul Venezuela visto che sembra conoscere le frequentazioni dello stesso e quindi sapere bene come la pensa. Circa la «presidenta» Michelle Bachelet (di cui abbiamo scritto nel maggio e giugno 2014) è certamente discutibile nel suo appoggio alla «salute riproduttiva», ma ha pagato con la prigione e la tortura il suo impegno politico, mentre il generale Pinochet, pur devoto della Madonna, non ha esitato a imprigionare, torturare e uccidere i suoi oppositori.

Non siamo né fans di Castro né di Chávez, tantomeno di Maduro. I Castro, come dice lei, hanno pur accumulato un’immensa fortuna, ma non risultano certo nella lista dei più ricchi del mondo. Quel signore che fa spedire pacchi a mezzo mondo e vuole mettere il «braccialetto» ai suoi operai perché lavorino «meglio», è immensamente più ricco di loro e di tanti altri.

Se poi ci segue in rete, avrà visto che sulla nostra pagina Facebook abbiamo segnalato più e più volte proprio le pagine di Avvenire sia sul Venezuela che su altre gravi situazioni del mondo. Ammetto che su questa rivista non abbiamo più pubblicato articoli specifici sulla situazione di quel paese (l’ultimo è dell’agosto 2016). E questo è un errore, anche se continuiamo a seguirne la drammatica situazione grazie ai nostri missionari e agli amici che abbiamo sul posto.

Che direbbe poi il nostro Fondatore? Nel nostro piccolo, noi cerchiamo di fare un’informazione documentata e approfondita che permetta al lettore di farsi la sua opinione su situazioni, fatti e persone. Su questo l’Allamano non penso avrebbe da obiettare. Scriviamo «slow news» (facendo il verso al fast food) proprio perché non vogliamo imporre niente a nessuno, ma servire la verità con una speciale attenzione ai poveri, agli emarginati e a quelli che sono ignorati dalla grande comunicazione. Non siamo esenti da errori e possiamo sbagliare. Riportare fatti e opinioni di persone che non vivono o sono contro i principi cristiani non è sposarne le idee e rinunciare alla nostra fede e religione. Siamo pronti a essere corretti e a confrontarci su fatti e idee. Per questo la ringraziamo ancora della sua email.

Petrolio causa di tensioni nel mondo

Nell’articolo sull’Ecuador (MC 12/2017) si parla della curiosa proposta dell’ex presidente Correa di chiedere un contributo alla comunità internazionale per non estrarre petrolio da una zona ecologicamente sensibile. Non si vede bene quale comunità sarebbe interessata a dare un contributo a un presidente sudamericano, che poi potrebbe diventare un Maduro, il quale forse si fa pagare in proprio per non estrarre più il petrolio venezuelano, convenientissimo ma con aziende in preda al marasma e con attrezzature che mancano anche dell’ordinaria manutenzione.

Ma probabilmente sono interessate le banche Usa che han prestato i soldi alle società che praticano il fracking devastando l’Ovest di Usa e Canada, ma assicurando loro l’autonomia energetica. Se il petrolio scende stabilmente sotto i 50 euro falliscono sia le società che le banche, e finora l’unico costosissimo sistema di non farlo scendere è di impedire la produzione in Iraq e Siria, attizzando continue complicatissime guerre, e possibilmente d’ora in poi razionare gli acquisti dall’Iran. E mantenere uno stato di tensione che impedisca anche solo di progettare un investimento per l’estrazione sottomarina dal Mediterraneo orientale, tra Cipro e l’Egitto, l’area più incasinata del mondo, ma con petrolio e gas molto convenienti.

Claudio Bellavita
02/02/2018

Lascio la risposta a Paolo Moiola, autore dell’articolo.

La proposta dell’ex presidente Correa è stata ritirata dallo stesso (quando era ancora in carica) a causa della scarsa risposta avuta a livello internazionale. L’idea era rivoluzionaria in quanto avrebbe consentito di salvaguardare uno scrigno mondiale di biodiversità qual è quella parte di Amazzonia ecuadoriana. Senza parlare della mancata emissione di CO2 nell’atmosfera che avrebbe contribuito a mitigare le conseguenze del cambio climatico. Quanto all’eventuale trasformazione di Correa, egli non è più presidente e vive in Belgio, paese della moglie. Dunque, il rischio che diventi un altro Maduro – come paventa il lettore – non sussiste.

 




Galeano: l’ironia e l’impegno civile

 


Giornalista e scrittore, Galeano è riconosciuto come uno tra i maggiori pensatori latinoamericani dell’ultimo secolo. Alfiere dell’America Latina dei popoli ha spesso denunciato l’imperialismo nordamericano. Ha lasciato molti scritti e alcuni testi fondamentali e sempre attuali per capire il continente.

Quando, come succede in questo caso, mi tocca raccontare di un vecchio amico scomparso che mi ha regalato il piacere della sua parola, come Eduardo Galeano, mi viene difficile trovare la misura e il tono giusti per descriverlo in tutte le sue sfaccettature. Tutto suona banale.
Eduardo è stato per anni il saggista più acuto e onesto nell’illustrare il fascino del continente dove era nato e cresciuto, quello a Sud del Texas, ma anche il narratore più sarcastico sulle esagerazioni che l’attuale mondo isterico ci sbatte ogni mattino in faccia, sia in America Latina sia nel resto del mondo.
Così ora mi commuove pensare all’attualità dei suoi ironici discorsi, specie pensando a quante parole stonate sono state spese dopo l’incontro fra Obama e Raul Castro (17 dicembre 2014) che avrebbe dovuto finalmente chiudere un’assurda «guerra fredda», mai dichiarata e mai terminata, fra l’America Latina e gli Stati Uniti d’America. Una guerra fredda che aveva costretto Obama, il presidente succeduto a Bush jr, a mettere da parte per un po’ la politica di ingerenza nordamericana nella terra scoperta da Cristoforo Colombo.
Galeano, qualche anno fa, polemizzando con Mario Vargas Llosa per la sua accusa alla maggior parte degli scrittori latinoamericani di essere troppo condiscendenti verso la rivoluzione cubana, è stato franco: «Vargas Llosa vede sorprendentemente l’America Latina come se fosse un viaggiatore nato in una contea inglese e non nel Perù del sottosviluppo e degli orrori. Amo molto Mario, uno dei più grandi scrittori viventi, per questo mi dispiace stia facendo una specie di gara con Octavio Paz (Nobel per la Letteratura nel 1990) per vedere chi corre più a destra». E poi, entrando nella contesa: «Io sono stato spesso critico con Cuba, ma lo faccio con amore e rispetto, non con odio e rancore, come sembra succedere a molti che, in altri tempi, si atteggiavano a rivoluzionari, e oggi vogliono cancellare ogni traccia del proprio passato a costo di ignorare che, se in questo continente la metà della gente vive sotto la soglia di povertà, è il libero mercato, quello che ora chiamiamo il neoliberismo, a fallire miseramente ancora prima del socialismo».
Certo Eduardo non le mandava a dire e per questo sono orgoglioso di aver lavorato 10 anni con lui per fare uscire 7 delle sue opere in Italia, dove era stata pubblicata, fino a quel momento, solo la trilogia di «Memorie del fuoco».

Eduardo Galeano  AFP PHOTO/PABLO PORCIUNCULA / AFP PHOTO / AFP FILES / PABLO PORCIUNCULA

Nel 1971 quando apparve il suo libro «Le vene aperte dell’America Latina», fu per molti una vera e propria folgorazione, tanto che Heinrich Boll, scrittore tedesco Premio Nobel per la Letteratura 1972, affermò: «Negli ultimi anni ho letto poche cose che mi abbiano commosso così tanto».
Galeano, in un libro-vangelo di un continente allora di moda, aveva inventato, a trentuno anni, un metodo per raccontare la storia partendo apparentemente dalla piccola quotidianità.
Un reportage, un saggio, una pittura murale, un’opera di artigianato mirabile, terminato di scrivere in esilio, lontano dal suo Uruguay, dopo che aveva dovuto lasciare il suo paese e poi l’Argentina per sfuggire alla ferocia di quelle dittature.
Le vene aperte, proposto per primo da Feltrinelli e poi tradotto in 18 lingue, ha avuto oltre 100 edizioni solo in spagnolo. È un’opera tuttora di straordinaria attualità che denuncia, analizza e spiega attraverso episodi apparentemente senza importanza e riferimenti storici spesso trascurati, il processo di spoliazione del continente latinoamericano, prima da parte dei conquistadores, poi delle potenze coloniali e infine degli Stati Uniti.
Forse è per questa incisività che nel 2009, al summit delle Americhe, a Trinidad e Tobago, l’ex presidente venezuelano Hugo Chávez non poté fare a meno di regalarlo a Barack Obama dicendogli, con la solita ironia: «Presidente, se vuoi capire qualcosa di America Latina, leggiti questo libro».
Abbiamo il dubbio che il presidente Barack Obama non abbia avuto il tempo di consultarlo. I rapporti con Cuba, il Venezuela e l’America Latina in generale non sono migliorati. E ora, con l’avvento di Trump, le speranze di cambiamento sono definitivamente tramontate.

Hugo Chavez offre a Obama il libro di Edoardo galeano «Le vene aperte dell’America Latina». Trinidad,  18/04/2009. AFP PHOTO/Jim WATSON / AFP PHOTO / JIM WATSON

I ricordi di un’amicizia sono tanti. Una volta ci ritrovammo a Buenos Aires per un omaggio alla memoria di Osvaldo Soriano. C’era anche la vedova Catherine Brucher. Tutti eravamo emozionati e per la prima volta anche il severo Eduardo, che aveva un senso dell’amicizia fortissimo, si asciugò gli occhi.
Come tutti i latinoamericani, Galeano adorava il calcio tanto che non obiettò nulla quando io gli dissi che la casa editrice avrebbe fatto uscire Le vene aperte in concomitanza con El fútbol a sol y sombra (tradotto in Italia con il titolo Splendori e miserie del gioco del calcio). «Sarà un successo», aveva detto, e ha avuto ragione.
Una volta si accorse che c’era una finale di Coppa Italia all’Olimpico: Roma – Inter. Mi chiese di andare con lui allo stadio. Ci avevano consigliato di uscire 5 minuti prima per evitare l’ingorgo. La Roma vinse 2 a 1, ma dovetti penare molto per trascinarlo via una manciata di secondi prima della fine.
Aveva anche il culto dell’impegno civile. Tanto che lui, così schivo nella vita, aveva accettato una volta perfino di partecipare con altri intellettuali al controllo delle elezioni in Venezuela, stravinte da Chávez. Si era adirato molto quando aveva letto le invenzioni che illustravano ogni giorno gli articoli dei cronisti del mondo occidentale, pur smentiti nel loro patetico tentativo di svalutare la credibilità delle elezioni stesse. D’altronde non c’è da stupirsi. Quei cronisti, infatti, sono gli stessi che ancora, quattro anni dopo la morte di Chávez, tentano di imporre le strategie informative da golpe mediatico nell’epoca di Nicolás Maduro. Tutto questo malgrado il risultato indiscutibile delle recenti elezioni sulla nuova Costituente, perse in modo clamoroso dall’opposizione, nonostante il sostegno delle varie agenzie dei servizi di intelligence nordamericani.
Eduardo amava la nuova America Latina progressista e nelle sue note non lo nascondeva, come non nascondeva la simpatia per il Subcomandante Marcos e l’Ezln (Esercito zapatista di liberazione nazionale) da cui andò un paio di volte.

Ha scritto di lui Isabel Allende nel prologo all’ennesima edizione di Le vene aperte dell’America Latina (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer): «Galeano ha percorso l’America Latina ascoltando anche la voce dei reietti oltre che quella di leader e intellettuali. Ha vissuto con indios, contadini, guerriglieri, soldati, artisti e fuorilegge; ha parlato a presidenti, tiranni, martiri, preti, eroi, banditi, madri disperate, pazienti e prostitute. Ha patito le febbri tropicali, ha conosciuto la giungla e ha respinto anche un infarto. È stato perseguitato sia da regimi repressivi, sia da terroristi fanatici. Ha combattuto le dittature militari e tutte le forme di brutalità e sfruttamento correndo rischi impensabili in difesa dei diritti umani. Non ho mai incontrato nessuno che abbia avuto una conoscenza di prima mano dell’America Latina pari alla sua, che si adopera per raccontare al mondo i sogni e le disillusioni, le speranze e gli insuccessi della sua gente».
Ci manca molto.

Gianni Minà