Guatemala: Da vittime a protagoniste


Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Sono due modi diversi di osservare il mondo, ma entrambi rivelano la serenità e la consapevolezza di chi, non senza difficoltà, è riuscita a prendere in mano la propria vita e a decidere per se stessa. Sono gli sguardi di chi è stata capace di sottrarsi alle botte di un marito ubriaco, o di chi rifiuta di rimanere intrappolata in una relazione familiare di dipendenza economica o, ancora, di chi vuole studiare per migliorare le proprie opportunità future. Sono gli sguardi tipici di chi è riuscita ad affrancarsi dalla violenza di genere con il proprio corpo e le proprie parole. E dopo averlo fatto, è determinata ad aiutare altre donne a seguire i suoi passi.

Donne indigene portano croci con i nomi di vittime del conflitto armato guatemalteco durante una manifestazione per il 22° anniversario della pubblicazione (avvenuta nel 1999) del rapporto della «Commissione per la verità» (Città del Guatemala, 25 febbraio 2021). Foto Johan Ordonez – AFP.

Elena e Cristina

Elena Guzaro e Cristina Raymundo sono due donne indigene di origine maya ixil, vivono a Nebaj, a duemila metri d’altezza nella regione del Quiché, zona Nord Ovest del Guatemala. Sono ex vittime di violenza. Ex, perché oggi non lo sono più.  Nel presento sono, e lo saranno nel futuro, due defensoras dei diritti umani che, forti della loro esperienza dolorosa, aiutano le loro concittadine, così come le donne provenienti da tutta la regione maya ixil, a riconoscere la violenza e, in questo modo, a liberarsene.

Da anni, Elena e Cristina sono parte integrante dell’Associacion red de mujeres ixiles (Asoremi), un’organizzazione di donne che si batte proprio per richiedere giustizia in nome delle vittime di abusi fisici e sessuali, di discriminazione e di minacce psicologiche. Nel corso del tempo, la Defensoría de la mujer I’x (dove in lingua maya ixil «I’x» vuol dire «donna»), la sede di Asoremi, è diventata un punto di riferimento per bambine, giovani e donne di tutte le età che, in caso di violenza, preferiscono rivolgersi a loro invece di dirigersi da sole alla polizia, che in molti casi non prende in esame le loro denunce.

1960-1996: La guerra civile

Elena Guzaro è la presidentessa di Asoremi e sa bene cosa significa essere incastrata in un contesto di violenza. Lei stessa ha vissuto l’esperienza sulla sua pelle. È nata nel 1980, nel pieno del conflitto armato interno che ha causato oltre 200mila vittime e 45mila desaparecidos, tra il 1960 e il 1996, anno in cui sono stati firmati gli accordi di pace. La guerra civile, giocata nel contesto della Guerra fredda, ha visto contrapporsi l’esercito, sostenuto e armato dagli Stati Uniti, a una guerrilla partecipata da contadini, studenti, sindacalisti e alcune organizzazioni di sinistra, tra cui il Movimiento revolucionario 13 de noviembre.

Tra il 1981 e il 1983, il conflitto conobbe una svolta drammatica con una fase genocida, guidata dall’allora dittatore Efraín Ríos Montt, nei confronti della popolazione maya ixil. Il piano elaborato per lo sterminio del popolo indigeno portò all’esecuzione di migliaia di persone, tra adulti e minori. Oltre alle morti e alle sparizioni forzate, si aggiunge alle atrocità di quel periodo anche lo stupro, arma di guerra ripetutamente utilizzata nei confronti delle donne maya ixil.

A oggi, il genocidio è rimasto impunito, pur essendo evidenti le responsabilità dell’ex dittatore. Il report realizzato dalla «Commissione per il chiarimento storico», voluta dalle Nazioni Unite, ha infatti evidenziato che il 93% delle violenze avvenute durante l’intero conflitto armato è stato perpetrato dall’esercito.

Donne indigene in cammino. Foto Simona Carnino.

La violenza Inizia in famiglia

Allora Elena Guzaro era una bambina di pochi anni ed è riuscita a sopravvivere alla prima violenza della sua vita, a cui, nel tempo, se ne sono sommate altre. «Mio padre è morto nel 1982, durante la guerra, e fin da bambina ho dovuto lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nella zona della costa Sud – racconta Elena -. Ho avuto il mio primo figlio a 18 anni. Mio marito non mi aiutava, anzi, mi picchiava quando partecipavo alle attività di Asoremi, perché voleva che rimanessi a casa. Era violento, ma io pensavo che fosse normale perché anche mia madre mi diceva che se lui mi picchiava era per colpa mia, perché uscivo per andare a lavorare alla Red con le altre donne. Ora non sto più con lui. Ci siamo lasciati cinque anni fa, ma è stato difficile prendere questa decisione nonostante le botte, perché da quel momento lui ha smesso di sostenere economicamente la famiglia. Io ho sei figli ed è dura mantenerli da sola».

Un problema radicato

La violenza contro le donne in Guatemala, così come nel Nord dell’America Centrale, Messico e in numerosi paesi dell’America Latina, è un problema radicato.  Come in quasi tutto il mondo, la violenza si presenta sotto molteplici forme, a partire da quella fisica, sessuale, psicologica, economica, fino ad arrivare agli abusi dello stato, di cui, per esempio, è stata vittima Elena Guzaro quando, durante il conflitto armato, ha dovuto abbandonare la sua casa per sfuggire al genocidio perpetrato dall’esercito guatemalteco ai danni della sua comunità.

In America Latina è alta l’incidenza del femminicidio, che nel 2020 ha generato oltre 4mila vittime, uccise principalmente per mano di un familiare prossimo, in particolare del compagno o dell’ex.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’«Osservatorio sull’uguaglianza di genere» delle Nazioni Unite, con un tasso di 4,7 donne uccise su 100mila abitanti è l’Honduras ad aggiudicarsi il primato di paese più mortale per le donne, seguito da Repubblica Dominicana e da El Salvador.

In Guatemala, i femminicidi sono attualmente in rapida ascesa dopo una lieve riduzione nel 2020. Secondo il recente report sulla «Violenza omicida», prodotto dal «Gruppo di supporto mutuo» (Gam) del Guatemala, solamente nel mese di gennaio 2022 sono state uccise 52 donne, con una media di quasi due al giorno, a cui si aggiungono ulteriori cinque denunce quotidiane di scomparsa. Il tasso di impunità dei femminicidi sfiora il 98% secondo i dati della «Commissione internazionale contro l’impunità» (Cicig).

In America Latina persiste anche un’elevata violenza patrimoniale, che si verifica quando il padre di famiglia decide di abbandonare il nucleo familiare rifiutandosi di passare gli alimenti ai figli, forzando, di fatto, la donna a sobbarcarsi da sola i costi della famiglia, spesso molto numerosa. Questo tipo di violenza ha un impatto molto forte in particolare sulle donne che, soprattutto in America Centrale, vivono già in una condizione di povertà, a volte anche estrema.

Un evento organizzato dalla «Red» a Nebaj, comune del dipartimento del Quiché. Foto Simona Carnino.

Anche le bambine

Le donne indigene sono maggiormente esposte a discriminazione e violenza «intersezionale» (legata cioè non soltanto al genere, ma anche ad altri aspetti) su base etnica, economica e sociale. Questo significa che una donna maya ixil rischia di essere vittima di violenza non solo perché donna, ma anche per il fatto di appartenere a uno dei 22 popoli maya che, in Guatemala, sono spesso discriminati ed esclusi da investimenti statali in ambito educativo, sanitario ed economico.

Durante il lockdown del 2020, nell’area maya ixil è aumentata in maniera esponenziale la violenza fisica e sessuale ai danni anche di bambine e giovani donne che sono dovute rimanere a casa, costantemente a fianco del proprio aguzzino.

«Durante la pandemia abbiamo ricevuto molte segnalazioni di violenza – racconta Cristina Raymundo -. In quel periodo abbiamo provato a dare assistenza telefonica, ma il servizio non ha funzionato, perché le donne non potevano parlare apertamente di fronte ai loro mariti o alla famiglia violenta. In quel periodo è aumentata la violenza sessuale e il numero di incesti. Abbiamo aiutato alcune donne a scappare di casa, pagando loro un taxi, e le abbiamo ospitate presso la Defensoría, tanto che alcuni bambini sono nati lì. In quel periodo abbiamo provato a insegnare alle giovani madri a prendersi cura dei neonati e di loro stesse».

Una vista della chiesa e del centro di Nebaj, nel Quiché. Foto SImona Carnino.

La Rete delle donne

La Red de mujeres ixiles ha un unico e fondamentale obiettivo: lottare contro qualsiasi forma di violenza sulle donne, attraverso un sostegno concreto, che può essere l’assistenza psicologica, legale, educativa e anche un supporto economico.

La storia della Red, una rete che unisce circa 360 donne impegnate in nove associazioni di base nel comune di Nebaj (Quiché), è iniziata nel 1999 grazie a un capitale di microcredito erogato dal «Fondo di investimento sociale» dello stato guatemalteco, che ha permesso di finanziare le piccole attività economiche delle socie, come, ad esempio, sartorie, allevamenti di polli e coltivazioni della terra. Nel 2005, le nove associazioni hanno fondato ufficialmente la Red de mujeres ixiles.

Elena Guzaro ha iniziato la sua esperienza in una delle organizzazioni di base proprio nel 1999. «Avevo 19 anni. Volevo provare ad accedere al microcredito e imparare anche a leggere e scrivere. Ancora oggi organizziamo corsi di alfabetizzazione per dare alle donne la possibilità di studiare. Io avrei sempre voluto farlo, però da piccola ho dovuto lavorare, per cui ho iniziato tardi, ma ora ho il titolo di maestra. Lavorare alla Red è stato un modo per imparare da donne più grandi di me a riconoscere la violenza e, allo stesso tempo, le ho aiutate a superare gli abusi che vivevano nelle loro case, simili a quelli che subivo io».

Tutte le socie di Asoremi hanno vissuto qualche forma di violenza e in maggioranza vivono in condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati della «Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi», il Guatemala si situa al quinto posto nell’area per disuguaglianza nella distribuzione del reddito, particolarmente evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando spesso come tessitrici informali, guadagnano circa 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350 dollari mensili.

Panoramica su un barrio vulnerabile a Città del Guatemala, capitale del paese centroamericano. Foto Simona Carnino.

Persecuzioni e minacce

La volontà di aiutare le donne a diventare indipendenti mentalmente ed economicamente da partner violenti è alla base del lavoro della Red de mujeres ixiles. E proprio per questo, molte delle socie sono state vittime di persecuzioni e minacce da parte di uomini o, in alcuni casi, di persone anonime.

Nel 2018, una socia è stata uccisa mentre camminava per tornare a casa e molte compañeras della Red sono state derubate e attaccate verbalmente e fisicamente.

Ma le violenze e la paura non le annichilisce. Anzi, le donne della Red continuano a portare avanti il loro lavoro. Ogni anno danno assistenza psicologica e legale a circa 500 donne e promuovono pubblicamente, attraverso eventi pubblici e la radio, la necessità di ridurre la violenza sulle donne e le bambine per creare una società meno conflittuale e più giusta per tutti.

Un lavoro per il quale le socie di Asoremi hanno ottenuto molti riconoscimenti, tra cui il «Premio per i diritti umani» lanciato dall’associazione di Bolzano Operation Daywork Onlus (operationdaywork.org) che Elena e Cristina hanno ritirato durante un recente viaggio in Italia, nel marzo di quest’anno. Il legame di Asoremi con l’Italia è rafforzato anche dalla collaborazione con la Ong torinese Cisv
(cisvto.org), che dal 2009 affianca Asoremi nell’accompagnamento delle vittime di violenza e nella risoluzione dei conflitti nell’area maya ixil.

Curare le ferite

Nel libro Tus pasos y mis pasos, prodotto da Asoremi, le socie dicono di se stesse: «Abbiamo sperimentato violenza domestica, economica, fisica, politica (durante il conflitto armato interno), abusi psicologici e furti. La maggior parte di noi si è formata per poter gestire le proprie attività commerciali e i propri soldi […]. Abbiamo capito l’importanza di essere parte di un’organizzazione e di sanare le nostre ferite».

Le socie della Red de mujeres ixiles sono convinte che una donna sopravvissuta alla violenza possa guarire dal dolore e recuperarsi, se aiutata a farlo.

Cristina Raymundo si occupa proprio di «sanación», un percorso di risanamento delle ferite subite, e da anni aiuta le donne a riprendere in mano la propria vita, a riconoscere e, di conseguenza, evitare per quanto possibile la violenza di genere.

«Sono entrata nella Red nel 2013 e da allora ho sostenuto molte donne nel loro percorso di guarigione – spiega Cristina -. La prima cosa che faccio è ascoltarle, quando arrivano dopo essere state malmenate o abusate psicologicamente. Poi facciamo alcuni esercizi di respirazione e provo a spiegare loro che non devono sentirsi in colpa se si sentono senza forze o spaventate. È normale dopo una violenza. Spesso disegniamo per connetterci mentalmente con la persona che le ha danneggiate, nel tentativo di perdonarla e superare il dolore. Alla fine, le accompagno da altre donne della Red dove possono ascoltare storie simili ed essere ispirate a trovare soluzioni».

Donne indigene alla messa della Domenica delle Palme (10 aprile 2022) a San Pedro Sacatepequez, a 25 chilometri dalla capitale guatemalteca. Foto Johan Ordonez – AFP.

Il contesto familiare e sociale

Il processo di guarigione è un percorso collettivo di mutuo aiuto, che permette alle sopravvissute alla violenza di sentirsi accolte e capite, senza giudizi.

Molte donne, indipendentemente dal paese di provenienza, o dal ceto sociale e dal livello educativo, fanno fatica a riconoscere di essere state vittime di violenza. Di fatto, la continua colpevolizzazione che la società attuale fa della vittima alimenta quello storico cortocircuito che impedisce a molte donne, ancora oggi, di ammettere, e quindi di denunciare, gli abusi subiti in prima persona.

«Io arrivo da un contesto patriarcale, dove anche mia madre era vittima di violenza, ma non l’ha mai voluto accettare e riconoscere – continua Cristina -. Per cui ho iniziato io a educare le mie sorelle a essere libere, così come le donne della Red hanno fatto con me. Il supporto e la fiducia che trasmettiamo alle donne è ciò che le ispira a fare la stessa cosa con le altre. Quando una sopravvissuta alla violenza usa la propria esperienza per aiutare una sorella o un’amica a riconoscere e difendersi dalla violenza, smette di essere una vittima e diventa una defensora dei diritti umani, come tutte noi».

Simona Carnino

Il libro pubblicato nel 2022 su Don Piero Nota, sacerdote della diocesi di Torino, che ha dedicato la sua vita al Guatemala.




Le molte facce della pandemia

testo di Rosanna Novara Topino |


Le chiusure (lockdown) e le misure contro la pandemia hanno comportato e comportano varie conseguenze negative sulla salute mentale. E su quella fisica, con controlli cancellati e cure rinviate.

Da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus – e ormai siamo alla soglia dei due anni -, veniamo quotidianamente informati sull’andamento dei contagi, dei ricoveri e dei decessi oltre che, negli ultimi otto mesi, delle vaccinazioni anti Covid-19. Siamo quindi portati a pensare che l’unico problema sanitario causato da questo virus sia quello della malattia. Ci sono però altri aspetti sanitari, di cui si parla meno, che sono la diretta conseguenza delle misure messe in atto nel tentativo di contrastare la pandemia e che vanno presi in attenta considerazione, poiché rischiano di protrarsi più a lungo nel tempo della pandemia stessa e di avere gravi ripercussioni sulla società.

Il peggioramento della salute mentale

C’è stato e c’è tuttora un forte impatto del coronavirus sulla salute mentale, che si manifesta trasversalmente in diverse fasce d’età e che può sfociare in atti di autolesionismo fino al suicidio o in atti violenti verso altre persone.

Sebbene i dati a disposizione siano incompleti, la sensazione è che, a seguito della pandemia, i problemi legati alla salute mentale e il numero dei suicidi siano aumentati. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato che la salute mentale è diventata un’emergenza gravissima. In particolare, il suicidio rappresenta un problema di sanità pubblica così rilevante che, nel 2020, l’Oms ha elaborato un documento sulla sua prevenzione rivolto ai professionisti dell’informazione, fornendo loro indicazioni sulle modalità per una corretta informazione, vista la loro potenziale influenza sul manifestarsi del fenomeno, soprattutto tra le persone più vulnerabili.

Già nel 2014, l’Oms aveva dichiarato il suicidio come quindicesima causa di morte al mondo e la seconda tra 15-29 anni d’età. Quindi, il problema era già rilevante prima della comparsa del Covid-19, che lo ha esacerbato. Basta pensare a cosa è avvenuto nel 2020 in Giappone, dove sono morte suicide 20.919 persone, con un aumento del 3,7% rispetto all’anno precedente. Un numero molto elevato, se confrontato con quello dei decessi correlati al coronavirus nello stesso periodo, pari a 3.459. Il dato è ancora più angosciante, tenendo conto del fatto che di questi suicidi 479 sono stati di adolescenti, 140 in più dell’anno precedente.

In Italia, secondo l’Istat, il numero annuale di suicidi è di circa 4mila e questa è la seconda causa di morte nella fascia d’età sotto i 24 anni. Secondo diversi responsabili dei dipartimenti di salute mentale e dei centri di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, le pressioni psicologiche legate al Covid subite da bambini e adolescenti hanno causato un’impennata di ricoveri legati ad atti autolesionistici e a tentativi di suicidio. In particolare, dall’ottobre 2020 in questi centri si è registrato un aumento di ricoveri di questo tipo del 30% per ragazzi e bambini.

La Didattica a distanza (Dad) ha prodotto varie conseguenze negative sugli studenti. Foto Alexandra Koch – Pixabay.

I ragazzi e la scomparsa della socialità

I disturbi sono aumentati notevolmente a seguito dei lockdown, delle chiusure e restrizioni varie, dell’insegnamento a distanza (Dad), che hanno creato una grave crisi psicologica soprattutto, ma non solo, tra i giovani.

Accanto ai ricoveri per gesti autolesivi e tentativi di suicidio, sono in aumento anche quelli legati ai disturbi del comportamento alimentare, soprattutto tra le ragazzine e a episodi di aggressività nei ragazzi.

Durante i periodi di lockdown sono venute meno le occasioni di socialità, che sono indispensabili per tutti, dal momento che l’essere umano è un animale sociale. In particolare, bambini e adolescenti per la loro crescita necessitano della vicinanza dei loro pari, una volta superata l’età della più tenera infanzia, dove prevale il legame con i genitori. Il prolungato isolamento, la mancanza di attività sportiva o ludica e di attività musicali, quali partecipazioni a cori e orchestre, hanno appesantito ulteriormente il carico psicologico già molto negativo dovuto alla paura di ammalarsi, di perdere i propri cari o di essere veicolo per loro della malattia.

I ragazzi e lo stress da Dad

Per molti bambini e ragazzi la didattica a distanza si è rivelata una notevole fonte di stress, che ha acuito il loro disagio psicologico. Questo, tra l’altro, ha portato ai peggiori risultati di sempre dei test Invalsi di fine anno scolastico, oltre che al digital divide tra le famiglie degli alunni più benestanti e quelle più povere e a un aumento di dispersione scolastica, che è passata dal 13% pre pandemia al 25% durante la pandemia (con punte di abbandono di un alunno su tre nel Sud Italia).

A differenza di quanto avviene nelle persone adulte o anziane, per le quali il suicidio è molto spesso legato a forme di depressione, nei giovani esso rappresenta quasi sempre un modo eclatante di manifestare il proprio disagio, la rabbia e la frustrazione dettati dall’impulsività. Quest’ultima è anche un fattore biologico legato allo sviluppo del cervello. Nelle fasi precedenti la maturità cerebrale (raggiunta intorno ai 20-21 anni nelle ragazze e tra i 24-25 anni nei ragazzi), c’è un minore controllo della parte limbica della corteccia cerebrale, che presiede agli impulsi e alle emozioni. Questo comporta una prevalenza nei giovani dell’aspetto emotivo su quello razionale e spiega le grandi difficoltà incontrate da loro nell’affrontare le crisi legate alla pandemia.

Per prevenire queste reazioni giovanili, che possono diventare estremamente pericolose per la loro vita, è importantissimo l’aspetto della familiarità e della condivisione.

A volte fare qualcosa insieme come una passeggiata, un gioco o condividere un hobby dà migliori risultati di tanti discorsi. È fondamentale, da parte degli adulti, dedicare del tempo all’ascolto dei bambini e dei ragazzi, sia in famiglia sia in ambito scolastico ed extrascolastico. Per permettere ai ragazzi di recuperare le carenze accumulate con la didattica a distanza, sarebbe indispensabile farli affiancare da figure di supporto messe a disposizione dagli istituti scolastici, una volta tornati alle lezioni in presenza, in modo da dare loro ripetizioni in orario extracurricolare, senza aggravio economico per le famiglie.

Le conseguenze per adulti e anziani

Tra gli adulti e gli anziani, le persone che hanno scelto di suicidarsi durante la pandemia, lo hanno fatto molto spesso per motivi economici, per l’isolamento e per le pressioni psicologiche, a cui sono state sottoposte.

Per quanto riguarda i motivi economici, va detto che la crisi  esisteva già ben prima della pandemia, che però l’ha notevolmente acuita. Secondo l’Istat, in un anno in Italia sono stati persi 700mila posti di lavoro (da febbraio 2020 a luglio 2021) in coincidenza con la pandemia. Dall’inizio della pandemia sono numerosi gli imprenditori falliti e coloro che hanno perso il lavoro, tra cui molti adulti con figli a carico. Sicuramente le difficoltà economiche (molte famiglie si sono ritrovate in condizioni di sovraindebitamento) e l’incertezza del futuro hanno fatto cadere molte persone in depressione, talvolta con gravi conseguenze.

Per ovviare ai disagi psicologici legati alle chiusure sarebbe indispensabile creare una rete di ascolto e di supporto da parte delle istituzioni pubbliche, in grado di aiutare coloro che, pur avendone bisogno, non possono permettersi i costi di una psicoterapia.

Un altro grave impatto sulla psiche di molte persone è stato causato dall’isolamento conseguente ai lockdown, che ha verosimilmente contribuito al diffondersi di idee suicidarie in molti soggetti, specialmente quelli fragili. Molto spesso hanno fatto questa tragica scelta persone anziane, che temevano per la propria salute o quella del consorte, oppure che hanno dovuto trascorrere troppo tempo senza potere vedere i propri cari, magari rinchiusi in qualche Rsa, dove le visite dei parenti sono state a lungo impedite.

Secondo la Società italiana di gerontologia, in base ad un’analisi condotta su anziani ricoverati con Covid-19, anche senza arrivare al suicidio, l’isolamento è comunque causa di un aumento del rischio di mortalità. Addirittura, secondo questa analisi, la riduzione della durata della vita negli anziani è influenzata dall’isolamento e dalla solitudine a un livello simile a quello di chi fuma 15 sigarette al giorno e maggiore a quello di chi è obeso.

Le mascherine saranno compagne obbligatorie per lungo tempo. Foto Gerd Altmann – Pixabay.

Violenza domestica e femminicidi

Il distanziamento sociale ha avuto spesso come conseguenza un aumento del consumo di alcol e droghe (si è diffuso il fenomeno dello spaccio a domicilio), che si è spesso accompagnato a quello della violenza domestica. Quest’ultima ha portato a un aumento dei casi di femminicidio, quasi tutti in ambito familiare, durante la pandemia.

Secondo l’Istat, nel 2020 i casi di femminicidio sono stati il 50% di tutti i casi di omicidio durante i periodi di lockdown.

Va detto che le misure di quarantena collettiva sono spesso state associate anche in passato a un aumento del rischio di suicidio, come è avvenuto durante le epidemie Sars, Mers e spagnola. Inoltre, il personale medico e infermieristico, che svolse il servizio durante quelle epidemie, così come nella pandemia attuale, spesso è stato colpito da «disturbo da stress post traumatico» (Ptsd).

L’impatto della pandemia sulla salute mentale si è manifestato parallelamente su due piani: da un lato con l’esordio di problemi psicopatologici nuovi nella popolazione generale e dall’altro con l’aggravamento di condizioni patologiche preesistenti, che non è stato possibile seguire adeguatamente presso i servizi psichiatrici, che spesso hanno dovuto ridurre o sospendere l’erogazione delle cure, a causa dell’introduzione delle norme di contenimento del contagio. Per questo motivo molti pazienti con malattia psichiatrica preesistente alla pandemia non hanno potuto essere sottoposti alle normali visite di controllo e si è quindi assistito, nei primi mesi della pandemia, a un netto incremento degli scompensi psicopatologici «prevenibili».

Tra le cause che hanno portato molte persone a un grave disagio psicologico, con possibilità di tendenze suicidarie, oltre al distanziamento sociale e, ovviamente, alla perdita dei propri cari, c’è stata la paura costante di contrarre il virus o l’averlo effettivamente contratto. La paura è stata peraltro enormemente alimentata da un’informazione mediatica, che troppo spesso ha esagerato, mandando in onda, a tutte le ore e per mesi, immagini di ambulanze, operatori sanitari in tuta integrale, bare accatastate: un insieme di cose che possono avere avuto un impatto pericoloso sulle persone più fragili.

I pazienti Covid e quelli non covid

Un analogo problema di visite di controllo posticipate o, peggio, di cure temporaneamente sospese in ossequio alle norme di contenimento del contagio ha riguardato sia i pazienti oncologici che quelli di altre categorie, tra cui i cardiopatici. A distanza di un anno dall’inizio della pandemia e precisamente ad aprile 2021, la Federazione di oncologi, cardiologi ed ematologi (Foce) ha consegnato al premier Draghi un documento di denuncia sui gravi disagi subiti dai pazienti da loro seguiti. Ci sono stati infatti moltissimi ritardi o cancellazioni di interventi chirurgici per tumore. È stata registrata una diminuzione dell’afflusso al pronto soccorso e alle unità intensive di cardiologia degli infartuati e sono stati ritardati o cancellati il 20-30% dei trattamenti oncologici.

Questi disagi hanno colpito 11 milioni tra pazienti oncologici, ematologici e cardiopatici. Inoltre, si sono verificati gravi ritardi anche per quanto riguarda lo screening annuale dei tumori, a cui afferiscono 5-6 milioni di persone. È evidente che la precedenza data alle cure dei malati di Covid causerà altre morti o l’aggravamento di patologie più facilmente trattabili, se diagnosticate tempestivamente. La stessa Foce ha reso noto che, da marzo a dicembre 2020, c’è stato un eccesso di mortalità generale nella popolazione del 21%, rispetto alla media dei cinque anni precedenti: 108.178 decessi in più. Di questi, il 69% era rappresentato da pazienti Covid, molti dei quali affetti da patologie cardiologiche o oncoematologiche, quindi a maggiore rischio di letalità da contagiati. Il restante 31%, però, era costituito da morti non Covid, deceduti per patologie in cui il fattore tempo gioca un ruolo determinante, come quelle cardiologiche e si è trattato di pazienti che non hanno ricevuto tempestivamente un’assistenza adeguata in occasione degli eventi acuti. Nei soli mesi di marzo e aprile 2020 ci sono stati 19mila morti in più delle attese, non legate alla Covid.

Se confrontata con le altre nazioni europee, l’Italia ha avuto, nello stesso periodo, il più alto numero di decessi per patologie non Covid, e questo dimostra che qualche errore di programmazione è stato fatto. Se, infatti, è necessario contrastare la pandemia, tuttavia non possono essere messe in secondo piano patologie altrettanto o più gravi. L’elevata mortalità dovuta a queste ultime è la logica conseguenza dei ritardi nella prevenzione, nella formulazione di una diagnosi, nella presa in carico e nell’attuazione di trattamenti salvavita. Il problema è rappresentato dal fatto che si è pensato di aumentare i posti letto per pazienti Covid a scapito dei posti letto riservati a pazienti di altre patologie, anziché aumentare il numero complessivo dei posti letto ospedalieri, con assunzione di ulteriore personale medico, tecnico e infermieristico.

Questo è il risultato dei tagli alla sanità pubblica fatti da governi di ogni colore politico che si sono succeduti alla guida del nostro paese negli ultimi anni.

Conseguenze sulla vista

Un’altra conseguenza dei lockdown legati alla pandemia è stato l’aumento della miopia, soprattutto tra i bambini e i giovani, dovuto alle molte ore passate ai videoterminali sia per le lezioni a distanza, sia per giocare o stare sui social, che per mesi hanno rappresentato la forma di comunicazione più utilizzata. Un recente studio pubblicato su Jama Oftalmology e condotto su 120mila tra bambini e ragazzi cinesi di età compresa tra 6-16 anni ha rilevato un aumento della miopia tre volte superiore da quando è iniziata la pandemia, rispetto agli anni precedenti.

Anche la vista degli adulti, con lo smart working ha subito dei contraccolpi, ma in questo caso, più che di aumento della miopia (lo sviluppo dell’apparato visivo è ormai completo nell’adulto) si può parlare di pseudo-miopia dovuta allo sforzo accomodativo, gestibile facendo delle pause di circa 20 minuti ogni due ore di lavoro.

Anche in ambito oculistico, in Italia la pandemia ha rallentato enormemente le visite di controllo, portando a liste d’attesa fino a tre anni, che impediscono l’accesso alle cure anche per patologie molto invalidanti come la cataratta e la maculopatia.

Rosanna Novara Topino




Guatemala: Cuore maya, contro l’impunità


Testo di Marco Bello e Francesca Rosa; foto Archivio CISV


Il conflitto armato in Guatemala (1960-1996) è stato uno dei più cruenti e con più vittime civili. Oggi, i responsabili cercano di proteggersi con leggi ad hoc. Ma negli ultimi 10 anni la presa di coscienza della società civile ha fatto molti progressi. E per questo si registra un aumento della violenza contro i militanti per i diritti umani. Storia di una rete di associazioni di donne maya per la giustizia.

«Mi avvicinai alle donne che oggi fanno parte della Red (Rete, ndr) nel 2002. All’inizio fu un avvicinamento tecnico, perché dovetti fare per loro un lavoro che portai avanti nei due anni successivi. Offrivo assistenza e formazione per l’utilizzo del microcredito, perché stavano beneficiando di un fondo. A quell’epoca studiavo “lavoro sociale”».

Juana Bacá Velasco è un’attivista per i diritti umani guatemalteca. Nata nel 1974 a Nebaj, nel dipartimento del Quiché è maya ixil. Juana è entrata in contatto con alcune associazioni che si occupano di difesa dei diritti della donna tramite la sua professione, per poi aderire alla causa, fino a fare diventare la lotta per la giustizia la sua vita. Dal 2009 è direttrice dell’Asoremi (Asociación Red de Mujeres Ixhiles, associazione rete di donne ixil, abbreviato Red, ndr), che lei stessa ha contribuito a creare. Non senza rischi. Infatti è scampata a un attentato alla propria vita nel 2004 e oggi vive sotto scorta.

La incontriamo a Torino, di passaggio per andare a Ginevra, invitata al Festival internazionale dei film sui diritti umani. Juana è pure al vertice della Defensoria de la Mujer I’x, centro di appoggio per donne vittime di violenza di genere e punto di riferimento per la lotta contro l’impunità.

Juana si racconta: «A causa di un caso di violazione che affrontammo nel 2004, mi sentii molto coinvolta, e capii l’importanza della nostra partecipazione come cittadine e anche del fatto di fare valere i nostri diritti. Così iniziai a separare il mio impegno tecnico da quello militante, che andava crescendo. Cominciammo a costruire questa rete per necessità, perché iniziammo a essere vittime di una persecuzione politica molto forte da parte di attori importanti e potenti nel comune. E questo ci portò a verificare fino a che punto noi donne potevamo unirci e reagire a queste persecuzioni.

Tentavano di ucciderci anche a livello organizzativo, perché ci opponevamo e resistevamo di fronte a questa situazione di violenza e impunità. Eravamo oltre 300 donne maya e prendemmo una decisione molto forte, ma con molta paura, perché c’era oppressione, persecuzione. Ci dicemmo: venga quello che deve venire ma stiamo insieme e affrontiamo questa situazione attraverso la denuncia, ma anche la solidarietà e l’integrazione tra noi, perché vedevamo che era meglio affrontare i problemi tutte insieme e con molto cuore. Volevamo dire cosa stavamo subendo e meritavamo che ci rispettassero».

Juana e le compagne hanno iniziato a creare la Red, un modo di unire le associazioni di donne di Nebaj per fare massa critica e portare avanti la battaglia per i diritti.

Una rete per le donne

«Iniziammo un cammino a livello organizzativo, ma anche di grande impegno come donne per poter essere soggetti dei nostri diritti. Iniziammo a costruire la Red nel 2005, fino a legalizzarla nel 2010.

Questo processo ci ha segnate fortemente. Nel 2007 ci fu una tappa importante per decidere cosa fare: proseguire la lotta, ponendo così a rischio le nostre vite, e quella delle nostre famiglie, oppure ignorare le persecuzioni, come se non fosse successo nulla. Anche grazie all’accompagnamento internazionale da parte della Ong Cisv, non ci siamo sentite sole, ma supportate e aiutate a fare il lavoro organizzativo».

I dubbi erano forti: cosa avrebbe implicato questo impegno? «Occorreva affrontare il sistema di giustizia: che conseguenze avrebbe avuto nella vita di una donna indigena maya, povera, il fatto di denunciare una violenza subita? E fino a dove questo sistema ci escludeva dal diritto di accedere alla giustizia? Queste domande ci spinsero a conoscere meglio il sistema. Avevamo diritto che la nostra denuncia fosse ascoltata». Juana nel frattempo ha proseguito gli studi laureandosi in Legge e in Scienze sociali. In questo modo si è dotata anche di strumenti, come l’interpretazione legislativa, che il «nemico», chi sta al potere, sa maneggiare bene.

Il percorso con l’Ong Cisv di Torino si è rivelato fondamentale per la Red. «Con Cisv abbiamo iniziato lavorando sui diritti umani e, in particolare, i diritti della donna. Il lavoro è stato orientato a promuovere i diritti, difenderli e proteggerli. Ma è stato pure fatto un lavoro integrato per l’empowerment (acquisire competenze per migliorare l’equità e la qualità della vita, ndr) delle donne e per invitarle a denunciare la violenza quotidiana che subiscono, per avere la propria autonomia».

Juana ripercorre quelle fasi: «Si è rivelato importante il lavoro con operatori di giustizia, autorità comunitarie, società civile, autorità educative. Perché vediamo che già a questi livelli si iniziano a violare i diritti. Occorre lavorare affinché le donne denuncino le violazioni dei loro diritti, e non le vedano come qualcosa di normale. Un lavoro che abbiamo fatto fino dal 2007. Nel 2009 abbiamo avuto dei fondi dal programma di emergenza della Cooperazione italiana in Guatemala, con i quali abbiamo finanziato la costruzione di una “Defensoria”. Questa, nel 2010, è stata messa a disposizione delle donne ixil, ma anche di altre donne nei municipi vicini, e pure sulla costa, perché molte donne ixil si sono spostate dalla loro terra di origine. Abbiamo mantenuto la comunicazione con loro per appoggiarle là dove vivono.

Il lavoro che fa la Defensoria è dare appoggio psicologico, legale, di orientamento e accompagnamento a chi subisce violenza di genere. In seguito a una ricerca che abbiamo realizzato sulle violazioni dei diritti umani a livello della regione ixil, abbiamo visto che è importante allargare l’intervento ai diritti umani generali, evitando di rimanere solo sui diritti della donna e su come appoggiare le donne per farle uscire dalla violenza. Si è allargato lo spettro per coinvolgere diversi settori della società civile e verificare la conflittualità che si ha nel comune».

Verso le elezioni

Il presidente guatemalteco Jimmy Morales / Photo by ORLANDO ESTRADA / AFP)

Oggi il Guatemala vive un periodo storico particolarmente delicato. Con le elezioni alle porte (previste a giugno, vedi box) sono aumentati gli assassinii di attivisti mentre regna l’impunità. Nel settembre scorso la popolazione ha manifestato pacificamente per cacciare il presidente della repubblica, l’attore comico Jimmy Morales, retto dalla casta militare.

Juana ci racconta: «Negli ultimi otto mesi in Guatemala c’è una situazione politica molto grave, pericolosa, in particolare per la vita degli attivisti dei diritti umani. Grazie a un percorso durato molti anni si è arrivati a unire la società civile organizzata.

Nei tribunali si stanno realizzando processi sulle responsabilità storiche per quello che il popolo del Guatemala, e in particolare il popolo ixil, ha vissuto nei 36 anni di conflitto armato.

Nello scorso autunno è stato evidente questo risultato: una presa di coscienza della popolazione che ha manifestato per esigere giustizia e il rispetto dei propri diritti. Per questo motivo c’è una reazione molto forte degli attori e dei responsabili coinvolti nei massacri durante la guerra. Ad esempio, nel 2013, il 10 maggio, c’è stata una sentenza di condanna con giudizio di genocidio, e poi una seconda sentenza nel settembre 2018 sui responsabili esecutori.

Nel percorso di ricerca della giustizia e di uscita dal silenzio, le donne hanno giocato un ruolo da protagoniste. Sono le donne che hanno testimoniato, donne che sono state torturate, violentate e sottomesse ad azioni di interesse dell’esercito. E quelli che governano oggi il nostro paese sono ex militari. Questo ha complicato la situazione, e in Guatemala, l’anno scorso, come riporta il rapporto dell’Udefegua (Unidad de proteccion a defensores y defensoras de derechos humanos, Guatemala) ci sono stati 25 assassinii di difensores e difensoras di diritti umani. E ci sono state anche denunce e campagne di criminalizzazione (accuse, ndr) contro gli attivisti allo scopo di spaventarli e zittirli e di proteggere chi è sotto giudizio per questi crimini».

Dove regna l’impunità

Anche a Nebaj la questione delle responsabilità dei massacri è molto sentita e per coprirle sono in atto assassinii selettivi di attivisti: «A livello locale il tema dell’impunità è stato molto forte e i colpevoli cercano di ostacolare i processi penali finalizzati a chiarire i fatti e i responsabili.

Ad esempio, a Nebaj, ci sono stati quattro femminicidi e un omicidio di attivisti ixil. Una di loro era Juana Ramirez Santiago che faceva parte del consiglio di amministrazione della Red. C’è anche stato l’assassinio di Juana Rivera, una dirigente di Codeca (Comitato di sviluppo contadino, associazione locale e ora anche partito politico, ndr), e quello del giovane Jacinto di Cotzal, un altro attivista per i diritti umani. Tutti nel 2018, tra giugno e settembre.

Questi fatti ci mostrano il sentimento dello stato e delle autorità, di quelle persone che si meritano un processo penale, una condanna per le loro responsabilità storiche, sia come mandanti intellettuali che come esecutori».

Juana continua in tono pacato, quasi parlasse di cose semplici: «Tutto ciò ha obbligato la popolazione a reagire e pronunciarsi per respingere la politica che lo stato sta portando avanti, contraria ai diritti umani e contraria al chiarimento storico per arrivare alla giustizia. La maggioranza della popolazione si è resa conto che i propri diritti sono violati, e ha capito che il fine ultimo dello stato è proteggere se stesso. Questo perché coloro che governano oggi hanno delle responsabilità nei confronti dei fatti che sono stati denunciati e che si vogliono chiarire, e che, a causa dell’impunità in Guatemala, si è sempre evitato di perseguire.

Ma ora noi guatemaltechi abbiamo capito chi sono i corrotti e chi sono i protagonisti di quelle azioni. Non si tratta di una persona singola ma della struttura dello stato del Guatemala: è un’attitudine che complica e destabilizza la governabilità nel paese. Perché uno stato non può esigere giustizia, trasparenza rispetto dei diritti umani, se è lui stesso che li sta violando, come persone e come autorità.

Siamo in una situazione frustrante, preoccupante e vergognosa, perché stanno facendo di tutto affinché non siano visibili le responsabilità che hanno verso il popolo.

Adesso la gente vuole che Morales lasci il potere, perché sta lavorando sotto l’influenza e l’interesse dei militari che hanno avuto gravi responsabilità nella storia del Guatemala».

Pensando agli ultimi 10 anni

Negli ultimi 10 anni la situazione dei diritti umani non è migliorata, ma la società civile si è dotata di strumenti di denuncia: «In passato non si vedeva l’entità del problema, perché non si alzava la voce e non si denunciava, però grazie a tutto il lavoro di diverse persone e organizzazioni, si è ottenuto che oggi si possa parlare, denunciare, senza troppo terrore. Ci possiamo lamentare che lo stato non compia il suo dovere di fare giustizia. Questa è infatti una sua responsabilità. Ma ringraziamo anche per l’appoggio di interventi internazionali. Per esempio si è ottenuto che la Commissione interamericana per i diritti umani sia intervenuta su queste norme a protezione dei colpevoli dei delitti del passato. Parliamo della legge di amnistia, che vuole ostacolare le organizzazioni della società civile e il processo di denuncia. Sono progetti di legge in corso di definizione, con l’obiettivo di proteggere giuridicamente questi grandi responsabili, violando norme costituzionali e diritti umani».

Cosa fa la Red

In questo contesto, la Red, che raggruppa nove associazioni locali per un totale di 365 donne maya ixil, è molto attiva. Continua Juana: «Per la Red l’appoggio politico e sociale è stato importante. È parte dell’appoggio al processo delle organizzazioni nella loro lotta sui temi di giustizia, prevenzione, formazione, sensibilizzazione.

Cisv ci sta accompagnando e ha condiviso, anche con la propria presenza a Nebaj, questo processo che la Red e la società civile sta portando avanti. I progetti della Red perseguono la ricerca della giustizia, attraverso le denunce delle donne, per cercare una trasformazione nella loro vita, affinché la violenza non sia più tollerata. La Red inoltre è molto impegnata nell’appoggio offerto alle sopravvissute alle violenze, e anche in interventi sul territorio comunale per ridurre la conflittualità. Appoggiamo le vittime in ambito legale, psicosociale, dando accompagnamento, ma anche incidendo in alcuni temi e spazi più politici, perché se si vuole generare qualche cambiamento occorre partire dalle autorità e dalle comunità».

Chiediamo a Juana cosa possiamo fare in Italia per appoggiare il lavoro di protezione e difesa dei diritti umani in Guatemala.

«Vi ringraziamo per tutto l’appoggio dato. È importante continuare questa relazione e ampliarla a livello internazionale perché è una forma per proteggere il lavoro, la dinamica in corso e la lotta dei guatemaltechi e guatemalteche che portiamo avanti da lunghi anni, anche grazie al sacrificio di vite. È un intervento molto politico, di protezione e di appoggio».

Marco Bello


Situazione sociale turbolenta nel paese centroamericano

Verso le elezioni… con violenza

Il presidente attore Jimmy Morales ha bloccato i lavori della commissione Onu contro l’impunità. La gente si è rivoltata manifestando pacificamente nelle città. Le tensioni
sociali e politiche sono in aumento e con esse la violenza nei confronti di leader e attivisti per i diritti umani. Un gruppo della società civile decide di candidarsi alle elezioni.

A 23 anni dalla firma degli accordi di pace che hanno messo fine a un conflitto armato interno durato oltre tre decadi (1960-1996), in Guatemala si registrano ancora gravi violazioni dei diritti umani, alti livelli di povertà, disuguaglianza, discriminazione e impunità. Secondo le Nazioni Unite (Undp 2018), il Guatemala è oggi al 127° posto dell’Indice di sviluppo umano, in discesa a causa della totale assenza di politiche che promuovano l’uguaglianza di genere e la lotta alle disuguaglianze sociali ed economiche. Inoltre, registra uno dei coefficienti di Gini (che misura la disparità economica tra poveri e ricchi) peggiori al mondo (0,63), e circa il 60% della popolazione continua a vivere sotto la soglia della povertà, percentuale che raggiunge il 76,1% nelle zone rurali, il 79,2% tra le popolazioni indigene.

Questa situazione di violenza strutturale è strettamente legata all’impianto razzista e discriminatorio dello stato che da sempre esclude le popolazioni maya, agli alti livelli d’impunità e di corruzione che caratterizzano l’attuale governo di Jimmy Morales, eletto nel 2015 con il sostegno dell’ala più reazionaria dell’esercito. La sua politica, come quella del predecessore Otto Perez Molina, è caratterizzata da corruzione, militarizzazione dei territori e repressione.

Diritti sempre più negati

Negli ultimi tre anni il Congresso non ha registrato progressi nella legislazione relativa alla promozione dei diritti economici, sociali e culturali della popolazione e ha invece adottato posizioni e proposte legislative che favoriscono l’impunità, limitano la partecipazione politica e violano i diritti delle fasce più deboli della popolazione, ovvero popoli indigeni, donne e minoranze (ad esempio la proposta di legge 5377 per riformare la Legge di riconciliazione nazionale, che concederebbe l’amnistia per tutti i crimini commessi durante il conflitto armato).

L’apice della politica governativa a favore d’impunità e corruzione si è toccato nel cosiddetto «Caso Cicig», la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala, un’entità finanziata dall’Onu, che dal 2007 appoggia la procura e altre istituzioni statali nelle indagini sui reati commessi da reti criminali. Tra i casi più emblematici coadiuvati dalla Cicig, si ricorda il «Caso della Linea», che ha portato all’arresto di molti funzionari governativi e dell’ex presidente Peréz Molina insieme all’ex vice Roxana Baldetti. Dopo aver aperto, insieme alla procura di stato, un’indagine su presunti finanziamenti illeciti elettorali che coinvolge l’attuale presidente e il suo partito, Jimmy Morales ha dichiarato non gradito il coordinatore in loco della Cicig, Iván Velasquez, e ha sciolto unilateralmente la commissione, violando gli accordi internazionali ratificati dallo stesso stato guatemalteco, e le sentenze della Corte Costituzionale guatemalteca, la quale ha reiteratamente affermato l’illegittimità di tale decisione.

Cresce la società civile

L’attivismo a favore dei diritti umani e della lotta all’impunità della società civile organizzata guatemalteca ha registrato un progressivo incremento nel corso dell’ultima decade, soprattutto nelle aree rurali del paese. Un’importante organizzazione di base, la Codeca (Comitato di sviluppo contadino), con un alto numero di affiliati tra le popolazioni indigene e contadine, ha deciso di costituire un partito politico per partecipare alle prossime elezioni, previste a giugno 2019. Questa forza della società civile organizzata nelle aree rurali ha provocato un incremento delle tensioni sociali e politiche, cui è seguito un forte aumento dei casi di criminalizzazione e aggressione contro militanti dei diritti umani: nel 2018 si sono registrati 391 attacchi a difensori dei diritti, 26 omicidi, tra i quali anche quello di Juana Ramirez, socia fondatrice di Asoremi, il 21 settembre e 147 casi di criminalizzazione. Un incremento del 136% rispetto al 2017, una situazione che richiama i periodi oscuri della recente storia del paese, incluso il conflitto armato interno, e che ha portato il Guatemala al quarto posto a livello mondiale per numero assoluto di militanti assassinati. Le vittime sono principalmente uomini e donne indigeni che lottano per la difesa dei diritti alla terra e dei diritti umani, e molte di queste, tra cui due dall’inizio del 2019, erano attivisti o candidati del partito di Codeca. Il livello d’impunità per questo tipo di crimini è quasi totale.

L’apertura della campagna elettorale lo scorso marzo in vista delle elezioni di giugno ha, di fatto, incrementato le violenze e i conflitti sociali.

Francesca Rosa